Il Commento
TRE PUNTUALIZZAZIONI IN RISPOSTA A IL COMMENTO II
Alessandro D'Aloia
Con questo articolo continua il
dibattito su alcune questioni sollevate nel numero precedente da G.
Cosenza con l’articolo Il commento
II e che meritano ulteriore riflessione. Il rimando all’articolo
citato implica alcuni ulteriori rimandi agli articoli ai quali questo si
riferisce a sua volta e pubblicati nel numero 10 della rivista.
Sulla sinistra
Nell’editoriale
Tecno-purgatorio, comparso sul
numero 10, la citazione di A. Badiou sulla necessità di “rompere con la
sinistra” richiede di essere inquadrata nel suo contesto più ampio. A
tale scopo il lettore può riferirsi direttamente al testo
In questo modo la
“rottura con la sinistra” assume una doppia valenza, da un lato
l’esproprio del monopolio della definizione alle forze parlamentari che
si ritengono, a torto, le uniche in grado di “assumere le conseguenze
generali di un movimento politico”, cioè le uniche titolate a dare un
esito politico alle istanze sociali della sinistra, dall’altro la
restituzione di un significato più generale al termine “sinistra” in cui
deve essere ricompreso l’insieme delle forze, anche non organizzate
politicamente, che si manifestano in movimenti e in eventi che non hanno
e non possono avere esito parlamentare. In sostanza si tratta di
riaffermare un significato del termine “sinistra” al di là e al di fuori
della sua riduzione ad esercizio di rappresentanza nel rito delle false
contrapposizioni parlamentari. Senza dirlo esplicitamente, la
condivisione di questa necessità era una polemica indirizzata a tutti
quelli che dichiarandosi “né di destra e né di sinistra”, pensano che si
possa e si debba fare politica oggi nell’equidistanza da ciò che i due
termini rappresentano anche solo simbolicamente. Per questo motivo si
rivendicava solo alla sinistra in generale il diritto di rompere con le
proprie sedicenti espressioni parlamentari. L’articolo
Tecno-purgatorio più che voler fornire una definizione univoca del
termine sinistra, voleva riaffermare la necessità per le forze politiche
che agiscono nel quadro odierno, così dichiaratamente a-ideologico, di
imparare ad inquadrare le ricadute ideologiche delle proprie
rivendicazioni e azioni, contro l’illusione di poter invece operare
nell’astrazione ideologica e questo nella convinzione di chi scrive che
“la post-ideologia è solo la nuova forma dell’ideologia borghese”[2].
Quanto detto vale tanto per il M5S, quanto per le tendenze renziane, che
purtroppo rappresentano la nuova dominante della politica istituzionale
attuale. Non distinguere più tra destra e sinistra, nonostante in
parlamento non sia data possibilità di osservare effettivamente delle
differenze, è un orizzonte talmente angusto per la politica da non
promettere nient’altro che il purgatorio di ogni passione politica[3],
che equivale a nessun interesse sociale per ciò che la politica
ufficiale fa e dunque la completa libertà di quest’ultima di farlo
contro la società.
Solo in seconda
istanza si tentava anche di dire che, almeno intuitivamente, essere di
sinistra significa avere chiaro che nella società esistono
diseguaglianze enormi e di conseguenza essere schierati dalla parte di
chi subisce la diseguaglianza e non dalla parte di chi la promuove. Di
fronte all’evidenza delle disparità l’osservatore può restare
indifferente oppure sentire un coinvolgimento emotivo. Nel primo caso
non c’è speranza, nel secondo caso esiste ancora una sinistra laddove
chi, pure si senta non toccato direttamente dalle differenze che osserva
di volta in volta, percepisce un disagio e non una soddisfazione per
come vanno le cose. Questo non equivale a “compatire i meno
privilegiati” ma a sentirsi parte dello strato sociale escluso dalla
determinazione della realtà.
L’empatia con una parte della società, non risponde ad una scelta
razionale o ad una correttezza ideologica frutto di un ragionamento per
forza mediato dalla cultura personale, ma se c’è è segno di un istinto
sociale pre-conscio di quelli che fanno scattare di fronte ai soprusi.
Di fronte ad eventi come quelli di Lampedusa, ad esempio, mi sentirei
spacciato come persona se dovessi sorprendermi a raziocinare per capire
da che parte stare. Fintanto che questo sentimento, spesso rabbioso, ci
sarà, potremo affermare che c’è vita sulla terra e che perciò c’è la
base per una sinistra politica organizzabile, nella constatazione amara
della sua quasi totale assenza attuale. In questi termini si introduceva
la necessità di una pre-ideologia
in un momento storico in cui la classe dominante ha piazzato il grosso
risultato culturale del disprezzo di massa verso ogni giudizio critico
che abbia anche solo un vago sapore ideologico, cosa che equivale al
disarmo concettuale delle classi subalterne. “Pre-ideologia” e non
“ideologia” dal momento in cui si condivide la critica debordiana
all’ideologia come “piedistallo epistemologico”, in altre parole,
all’autorità ecumenica detenuta da una qualsiasi direzione politica che
risponde solo a se stessa e alla quale non resta che conformarsi
acriticamente. La sinistra deve essere molto critica verso se stessa e
le proprie manifestazioni organizzate se vuole essere efficace in
politica. È fuori dubbio invece che alla destra tutto ciò non interessa.
Al contrario.
La confusione
ideologica, riflesso delle dichiarazioni di non appartenenza, è divenuta
un leitmotiv talmente
tormentoso, da egemonizzare anche il terreno delle manifestazioni
movimentistiche esterne alla politica istituzionale, ormai preda di
quella che si configura come una vera e propria ondata di rabbia della
piccola borghesia armata di forche. La destra politica vede schiudersi
davanti ai propri occhi inaspettate prospettive di rilancio nel vivo
delle proteste degli ultimi arrivati, in cui l’unica idea chiara è
quella di non essere di sinistra.
Sul diritto alla
città
Nella recensione al libro di D. Harvey
Il capitalismo contro il diritto
alla città, non viene affermato che la produzione edilizia abbia
connotati differenti da altri tipi di produzione, al contrario che essa
sia la “summa dei meccanismi economici del capitalismo” e che nonostante
ciò la sinistra parlamentare e sindacale storiche, non abbiano mai
accordato la dovuta attenzione al fenomeno urbano. Anche l’attenzione
teorica sulla città e gli enormi problemi ad essa connessi è sempre
apparsa abbastanza deficitaria nelle preoccupazioni di chi si occupava
dei problemi della classe operaia, nonostante i fondatori del marxismo
abbiano gettato le basi teoriche del movimento operaio a partire
dall’osservazione delle condizioni di lavoro e di vita del proletariato
nel processo esplosivo di trasformazione industriale della città
pre-capitalista.
Individuare nel fenomeno urbano la
capacità peculiare di generare rendite permanenti, a differenza di altri
settori produttivi, significa riconoscere che il capitalismo non si basa
solo sulla estrazione di plusvalore dal processo produttivo, ma anche
sulla perpetuazione di forme estorsive pre-industriali. Con questo non
ci si riferisce solo al ruolo speculativo della finanza nel settore
edilizio, ma anche al trasferimento permanente di denaro dalle tasche
degli affittuari in quelle dei locatori e in definitiva al problema
della proprietà privata delle costruzioni, che non permettendo nessun
discorso razionale sullo sviluppo urbano, trasforma la città in un
“fenomeno patologico”. In tal senso la città quale formidabile
meccanismo di generazione di rendite non costituisce una causa della
caduta del saggio di profitto, ma, al contrario, un’arma molto potente
con la quale il capitalismo contrasta efficacemente la caduta del saggio
di profitto dei settori in cui “di continuo aumenta la composizione
organica del capitale”. Da questo punto di vista andrebbe considerato
teoricamente il ruolo funzionale precipuo della proprietà privata della
città nel sostentamento del capitalismo, al di là del fatto che essa non
rappresenti niente di nuovo o di diverso nel contesto produttivo e di
formazione del valore.
Per quanto riguarda invece la
considerazione del contesto urbano quale possibile ambiente di lotta per
la transizione, non è dato sapere in anticipo se essa è realistica o
meno. Si dovrebbe invece considerare che laddove, con la migrazione
produttiva, vengono svuotati gli spazi unitari in cui si trovavano
concentrati i soggetti subordinati, se la concentrazione sociale resta
in qualche modo determinante per il cambiamento, essa non si potrà che
ritrovarla nei contesti urbani. Il recupero del concetto di luogo, e
nello specifico di luogo urbano, sembra cioè essenziale al discorso
sulla transizione. A tal proposito va detto, in effetti, che le forme
antiurbane secondo le quali si organizza attualmente la compagine
edilizia, secondo schemi da suburbio più che da centro urbano, non
presentando nessun carattere di spazio unitario, nessuna architettura,
privano anche le forme dell’abitare del proprio potere di unire le
persone, di fatto isolandole. In questo senso il discorso sulla forma
della città è determinante al pari di quello sulla sua economia e a
questo strettamente collegato. Tra l’altro, quando G. Cosenza dice
“l’ambito più ampio della città potrà viceversa offrire lo spunto per la
germinazione di areole di tessuto sociale rigenerato” sembra confermare
l’interesse per il problema del contesto urbano, al di là delle forme di
lotta concrete attraverso le quali sarà possibile immaginare tale
processo di germinazione e sulle quali c’è, evidentemente, molto da
discutere.
Sulle migrazioni all’epoca della
totalizzazione
Secondo G. Cosenza “il capitalismo non
contempla lo schiavismo, non c’è compatibilità fra i due sistemi
produttivi. Di più, è il modo di produzione capitalista che ha portato
all’eliminazione pressoché totale della schiavitù dal mondo
industrializzato”. Quest’affermazione è certamente corretta e
condivisibile nei suoi termini generali e storici. Tuttavia essa da sola
non spiega come mai i paesi industrializzati si vadano dotando di leggi
discriminatorie come la Bossi-Fini e perché non debellino effettivamente
il lavoro nero, tantomeno come mai il differenziale tra il reddito dei
paesi ricchi e quelli poveri continui ad aumentare invece che ridursi.
Ancora una volta sarà necessario
richiamare la caduta tendenziale del saggio di profitto quale legge
fondamentale, e sottovalutata, del capitalismo nella sua fase di
totalizzazione. Accade infatti
che l’altissimo livello tecnologico raggiunto nella produzione dei paesi
a sviluppo avanzato comprimendo generalmente i saggi di profitto produce
due effetti: da un lato la finanziarizzazione dell’economia (vale a dire
la fuga del capitale dalla produzione materiale), dall’altro
“l’allungamento della giornata lavorativa sociale a livello planetario”[4] che equivale
a dire la riduzione generalizzata dei salari al di sotto dei limiti di
sussistenza. In particolare questo secondo effetto equivale ad una vera
e propria introduzione mirata di povertà, generalizzata nei paesi
dominati e in forma di sacche, o enclavi, nei confini stessi dei paesi
dominanti. Questa povertà è semplicemente necessaria. Se il capitalismo
non fosse diseguale ma armoniosamente sviluppato ovunque e i cittadini
avessero tutti lo stesso livello di benessere e di diritti,
semplicemente gli imprenditori non avrebbero più nessuna ragione di
continuare ad investire nella produzione, ed in effetti questo è ciò che
già accade ai grossi capitali. Quanto più un paese è sviluppato in
termini di efficienza produttiva e composizione organica del capitale,
tanto più ha bisogno di lavoro nero o sottopagato, che non localizza
necessariamente al suo interno. Le delocalizzazioni produttive sono
infatti esplose contemporaneamente alla precarizzazione dei contratti di
lavoro. Per lo stesso motivo il capitalismo attuale dei paesi dominanti
ha necessità di discriminare, non certo per razzismo, ma per creare
quelle condizioni di disparità tra lavoratori, a livello sia globale che
locale, le quali gli permettano di recuperare sui “discriminati” la
quota di plusvalore persa sui “tutelati”, oltre che sfruttare la
situazione per livellare al ribasso le condizioni generali
dell’occupazione. Non a caso negli ultimi quindici anni si è assistito,
in tutto il mondo occidentale, all’introduzione massiccia di lavoro
precario, che è, in ultima analisi, introduzione mirata di povertà. In
sostanza un modo come un altro di contrastare la caduta tendenziale del
saggio di profitto. Consegue che: finanziarizzazione del capitale,
delocalizzazione produttiva, discriminazione sociale e precarizzazione
dei rapporti occupazionali; rispondono tutti alla necessità di creare
artificiosamente ambiti di profitto superiori a quelli consentiti dal
livello tecnologico raggiunto. È anche facile comprendere come tale
scenario non potrà che esasperarsi con il passare del tempo.
Ora è pur vero che tanto al lavoro
precario quanto a quello in nero corrisponde pur sempre un salario e che
quindi a rigore non si potrebbe parlare di schiavismo, ma è altrettanto
vero che laddove la sussistenza della famiglia del lavoratore, nel paese
dove si lavora, non è assicurata, non si può parlare neanche di
proletariato, dato che il valore di riproduzione della forza lavoro non
è garantito. Se nelle società schiavistiche era il diritto a
differenziare lo status dell’individuo, nelle società odierne il
sottoproletariato si compone di ceti differenziati che o non hanno
accesso economico alle forme di benessere offerte, pur avendo delle
occupazioni, o non ne hanno proprio il diritto, come nel caso dei
migranti senza permesso di soggiorno e come nel caso degli schiavi
dell’età classica.
Per di più è lecito prevedere che, per
quanto detto, seppure resta da capire cosa intendere precisamente per
schiavismo, la definizione rappresenti, in prospettiva, il cupo
orizzonte nel quale sarà contingentata la civiltà del capitalismo
post-umano, tanto più in un’epoca in cui la comparsa
dell’informatizzazione ad ogni livello, comporta la contraddizione
insanabile tra la valorizzazione potenziale quasi illimitata dei
processi produttivi, materiali ed immateriali, e la conseguente
de-valorizzazione illimitata dell’apporto umano nella produzione stessa.
Come schiavo l’uomo è sicuramente peggio della macchina e per questo
egli è minacciato dalle sue stesse creature.
In conclusione nel capitalismo come
sistema imperniato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, il
progresso tecnologico e l’uomo sono inevitabilmente posti in opposizione
crescente tra loro. Non si tratta certo di essere antitecnologici, ma di
creare le condizioni sistemiche affinché l’umanità non sia più in
competizione con le macchine per la propria sopravvivenza.
DICEMBRE 2013
[1] A. D’Aloia, Politica e rappresentazione, in «Città Future», n. 03.
[2]
Cfr. A. D’Aloia, G. Trapanese,
Gramsci. L’elemento del culturale nella lotta anticapitalistica di oggi,
cap. ii, par. 2.8.,
Edizioni Città Future, Napoli 2010.
[3] Si legga anche Dal manifesto ai fatti quotidiani, in «Città Future», n. 09.
[4] V. Fiano, La totalizzazione del rapporto di capitale, in «Città Future» n. 09.