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Gennaio 2014

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Il Commento

TRE PUNTUALIZZAZIONI IN RISPOSTA A IL COMMENTO II

Alessandro D'Aloia

 

Con questo articolo continua il dibattito su alcune questioni sollevate nel numero precedente da G. Cosenza con l’articolo Il commento II e che meritano ulteriore riflessione. Il rimando all’articolo citato implica alcuni ulteriori rimandi agli articoli ai quali questo si riferisce a sua volta e pubblicati nel numero 10 della rivista.

 

Sulla sinistra

Nell’editoriale Tecno-purgatorio, comparso sul numero 10, la citazione di A. Badiou sulla necessità di “rompere con la sinistra” richiede di essere inquadrata nel suo contesto più ampio. A tale scopo il lettore può riferirsi direttamente al testo La Comune di Parigi. Una dichiarazione politica sulla politica. Cronopio 2004, oppure alla lettura che se ne è data nell’articolo Politica e rappresentazione sul terzo numero della rivista[1]. Una volta analizzato il contesto apparirà chiaro che Badiou per rottura con la sinistra intende la necessità di rompere con la sinistra parlamentare.

In questo modo la “rottura con la sinistra” assume una doppia valenza, da un lato l’esproprio del monopolio della definizione alle forze parlamentari che si ritengono, a torto, le uniche in grado di “assumere le conseguenze generali di un movimento politico”, cioè le uniche titolate a dare un esito politico alle istanze sociali della sinistra, dall’altro la restituzione di un significato più generale al termine “sinistra” in cui deve essere ricompreso l’insieme delle forze, anche non organizzate politicamente, che si manifestano in movimenti e in eventi che non hanno e non possono avere esito parlamentare. In sostanza si tratta di riaffermare un significato del termine “sinistra” al di là e al di fuori della sua riduzione ad esercizio di rappresentanza nel rito delle false contrapposizioni parlamentari. Senza dirlo esplicitamente, la condivisione di questa necessità era una polemica indirizzata a tutti quelli che dichiarandosi “né di destra e né di sinistra”, pensano che si possa e si debba fare politica oggi nell’equidistanza da ciò che i due termini rappresentano anche solo simbolicamente. Per questo motivo si rivendicava solo alla sinistra in generale il diritto di rompere con le proprie sedicenti espressioni parlamentari. L’articolo Tecno-purgatorio più che voler fornire una definizione univoca del termine sinistra, voleva riaffermare la necessità per le forze politiche che agiscono nel quadro odierno, così dichiaratamente a-ideologico, di imparare ad inquadrare le ricadute ideologiche delle proprie rivendicazioni e azioni, contro l’illusione di poter invece operare nell’astrazione ideologica e questo nella convinzione di chi scrive che “la post-ideologia è solo la nuova forma dell’ideologia borghese”[2]. Quanto detto vale tanto per il M5S, quanto per le tendenze renziane, che purtroppo rappresentano la nuova dominante della politica istituzionale attuale. Non distinguere più tra destra e sinistra, nonostante in parlamento non sia data possibilità di osservare effettivamente delle differenze, è un orizzonte talmente angusto per la politica da non promettere nient’altro che il purgatorio di ogni passione politica[3], che equivale a nessun interesse sociale per ciò che la politica ufficiale fa e dunque la completa libertà di quest’ultima di farlo contro la società.

Solo in seconda istanza si tentava anche di dire che, almeno intuitivamente, essere di sinistra significa avere chiaro che nella società esistono diseguaglianze enormi e di conseguenza essere schierati dalla parte di chi subisce la diseguaglianza e non dalla parte di chi la promuove. Di fronte all’evidenza delle disparità l’osservatore può restare indifferente oppure sentire un coinvolgimento emotivo. Nel primo caso non c’è speranza, nel secondo caso esiste ancora una sinistra laddove chi, pure si senta non toccato direttamente dalle differenze che osserva di volta in volta, percepisce un disagio e non una soddisfazione per come vanno le cose. Questo non equivale a “compatire i meno privilegiati” ma a sentirsi parte dello strato sociale escluso dalla determinazione della realtà. L’empatia con una parte della società, non risponde ad una scelta razionale o ad una correttezza ideologica frutto di un ragionamento per forza mediato dalla cultura personale, ma se c’è è segno di un istinto sociale pre-conscio di quelli che fanno scattare di fronte ai soprusi. Di fronte ad eventi come quelli di Lampedusa, ad esempio, mi sentirei spacciato come persona se dovessi sorprendermi a raziocinare per capire da che parte stare. Fintanto che questo sentimento, spesso rabbioso, ci sarà, potremo affermare che c’è vita sulla terra e che perciò c’è la base per una sinistra politica organizzabile, nella constatazione amara della sua quasi totale assenza attuale. In questi termini si introduceva la necessità di una pre-ideologia in un momento storico in cui la classe dominante ha piazzato il grosso risultato culturale del disprezzo di massa verso ogni giudizio critico che abbia anche solo un vago sapore ideologico, cosa che equivale al disarmo concettuale delle classi subalterne. “Pre-ideologia” e non “ideologia” dal momento in cui si condivide la critica debordiana all’ideologia come “piedistallo epistemologico”, in altre parole, all’autorità ecumenica detenuta da una qualsiasi direzione politica che risponde solo a se stessa e alla quale non resta che conformarsi acriticamente. La sinistra deve essere molto critica verso se stessa e le proprie manifestazioni organizzate se vuole essere efficace in politica. È fuori dubbio invece che alla destra tutto ciò non interessa. Al contrario.

La confusione ideologica, riflesso delle dichiarazioni di non appartenenza, è divenuta un leitmotiv talmente tormentoso, da egemonizzare anche il terreno delle manifestazioni movimentistiche esterne alla politica istituzionale, ormai preda di quella che si configura come una vera e propria ondata di rabbia della piccola borghesia armata di forche. La destra politica vede schiudersi davanti ai propri occhi inaspettate prospettive di rilancio nel vivo delle proteste degli ultimi arrivati, in cui l’unica idea chiara è quella di non essere di sinistra.

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Sul diritto alla città

Nella recensione al libro di D. Harvey Il capitalismo contro il diritto alla città, non viene affermato che la produzione edilizia abbia connotati differenti da altri tipi di produzione, al contrario che essa sia la “summa dei meccanismi economici del capitalismo” e che nonostante ciò la sinistra parlamentare e sindacale storiche, non abbiano mai accordato la dovuta attenzione al fenomeno urbano. Anche l’attenzione teorica sulla città e gli enormi problemi ad essa connessi è sempre apparsa abbastanza deficitaria nelle preoccupazioni di chi si occupava dei problemi della classe operaia, nonostante i fondatori del marxismo abbiano gettato le basi teoriche del movimento operaio a partire dall’osservazione delle condizioni di lavoro e di vita del proletariato nel processo esplosivo di trasformazione industriale della città pre-capitalista.

Individuare nel fenomeno urbano la capacità peculiare di generare rendite permanenti, a differenza di altri settori produttivi, significa riconoscere che il capitalismo non si basa solo sulla estrazione di plusvalore dal processo produttivo, ma anche sulla perpetuazione di forme estorsive pre-industriali. Con questo non ci si riferisce solo al ruolo speculativo della finanza nel settore edilizio, ma anche al trasferimento permanente di denaro dalle tasche degli affittuari in quelle dei locatori e in definitiva al problema della proprietà privata delle costruzioni, che non permettendo nessun discorso razionale sullo sviluppo urbano, trasforma la città in un “fenomeno patologico”. In tal senso la città quale formidabile meccanismo di generazione di rendite non costituisce una causa della caduta del saggio di profitto, ma, al contrario, un’arma molto potente con la quale il capitalismo contrasta efficacemente la caduta del saggio di profitto dei settori in cui “di continuo aumenta la composizione organica del capitale”. Da questo punto di vista andrebbe considerato teoricamente il ruolo funzionale precipuo della proprietà privata della città nel sostentamento del capitalismo, al di là del fatto che essa non rappresenti niente di nuovo o di diverso nel contesto produttivo e di formazione del valore.

Per quanto riguarda invece la considerazione del contesto urbano quale possibile ambiente di lotta per la transizione, non è dato sapere in anticipo se essa è realistica o meno. Si dovrebbe invece considerare che laddove, con la migrazione produttiva, vengono svuotati gli spazi unitari in cui si trovavano concentrati i soggetti subordinati, se la concentrazione sociale resta in qualche modo determinante per il cambiamento, essa non si potrà che ritrovarla nei contesti urbani. Il recupero del concetto di luogo, e nello specifico di luogo urbano, sembra cioè essenziale al discorso sulla transizione. A tal proposito va detto, in effetti, che le forme antiurbane secondo le quali si organizza attualmente la compagine edilizia, secondo schemi da suburbio più che da centro urbano, non presentando nessun carattere di spazio unitario, nessuna architettura, privano anche le forme dell’abitare del proprio potere di unire le persone, di fatto isolandole. In questo senso il discorso sulla forma della città è determinante al pari di quello sulla sua economia e a questo strettamente collegato. Tra l’altro, quando G. Cosenza dice “l’ambito più ampio della città potrà viceversa offrire lo spunto per la germinazione di areole di tessuto sociale rigenerato” sembra confermare l’interesse per il problema del contesto urbano, al di là delle forme di lotta concrete attraverso le quali sarà possibile immaginare tale processo di germinazione e sulle quali c’è, evidentemente, molto da discutere.

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Sulle migrazioni all’epoca della totalizzazione

Secondo G. Cosenza “il capitalismo non contempla lo schiavismo, non c’è compatibilità fra i due sistemi produttivi. Di più, è il modo di produzione capitalista che ha portato all’eliminazione pressoché totale della schiavitù dal mondo industrializzato”. Quest’affermazione è certamente corretta e condivisibile nei suoi termini generali e storici. Tuttavia essa da sola non spiega come mai i paesi industrializzati si vadano dotando di leggi discriminatorie come la Bossi-Fini e perché non debellino effettivamente il lavoro nero, tantomeno come mai il differenziale tra il reddito dei paesi ricchi e quelli poveri continui ad aumentare invece che ridursi.

Ancora una volta sarà necessario richiamare la caduta tendenziale del saggio di profitto quale legge fondamentale, e sottovalutata, del capitalismo nella sua fase di totalizzazione. Accade infatti che l’altissimo livello tecnologico raggiunto nella produzione dei paesi a sviluppo avanzato comprimendo generalmente i saggi di profitto produce due effetti: da un lato la finanziarizzazione dell’economia (vale a dire la fuga del capitale dalla produzione materiale), dall’altro “l’allungamento della giornata lavorativa sociale a livello planetario”[4] che equivale a dire la riduzione generalizzata dei salari al di sotto dei limiti di sussistenza. In particolare questo secondo effetto equivale ad una vera e propria introduzione mirata di povertà, generalizzata nei paesi dominati e in forma di sacche, o enclavi, nei confini stessi dei paesi dominanti. Questa povertà è semplicemente necessaria. Se il capitalismo non fosse diseguale ma armoniosamente sviluppato ovunque e i cittadini avessero tutti lo stesso livello di benessere e di diritti, semplicemente gli imprenditori non avrebbero più nessuna ragione di continuare ad investire nella produzione, ed in effetti questo è ciò che già accade ai grossi capitali. Quanto più un paese è sviluppato in termini di efficienza produttiva e composizione organica del capitale, tanto più ha bisogno di lavoro nero o sottopagato, che non localizza necessariamente al suo interno. Le delocalizzazioni produttive sono infatti esplose contemporaneamente alla precarizzazione dei contratti di lavoro. Per lo stesso motivo il capitalismo attuale dei paesi dominanti ha necessità di discriminare, non certo per razzismo, ma per creare quelle condizioni di disparità tra lavoratori, a livello sia globale che locale, le quali gli permettano di recuperare sui “discriminati” la quota di plusvalore persa sui “tutelati”, oltre che sfruttare la situazione per livellare al ribasso le condizioni generali dell’occupazione. Non a caso negli ultimi quindici anni si è assistito, in tutto il mondo occidentale, all’introduzione massiccia di lavoro precario, che è, in ultima analisi, introduzione mirata di povertà. In sostanza un modo come un altro di contrastare la caduta tendenziale del saggio di profitto. Consegue che: finanziarizzazione del capitale, delocalizzazione produttiva, discriminazione sociale e precarizzazione dei rapporti occupazionali; rispondono tutti alla necessità di creare artificiosamente ambiti di profitto superiori a quelli consentiti dal livello tecnologico raggiunto. È anche facile comprendere come tale scenario non potrà che esasperarsi con il passare del tempo.

Ora è pur vero che tanto al lavoro precario quanto a quello in nero corrisponde pur sempre un salario e che quindi a rigore non si potrebbe parlare di schiavismo, ma è altrettanto vero che laddove la sussistenza della famiglia del lavoratore, nel paese dove si lavora, non è assicurata, non si può parlare neanche di proletariato, dato che il valore di riproduzione della forza lavoro non è garantito. Se nelle società schiavistiche era il diritto a differenziare lo status dell’individuo, nelle società odierne il sottoproletariato si compone di ceti differenziati che o non hanno accesso economico alle forme di benessere offerte, pur avendo delle occupazioni, o non ne hanno proprio il diritto, come nel caso dei migranti senza permesso di soggiorno e come nel caso degli schiavi dell’età classica.

Per di più è lecito prevedere che, per quanto detto, seppure resta da capire cosa intendere precisamente per schiavismo, la definizione rappresenti, in prospettiva, il cupo orizzonte nel quale sarà contingentata la civiltà del capitalismo post-umano, tanto più in un’epoca in cui la comparsa dell’informatizzazione ad ogni livello, comporta la contraddizione insanabile tra la valorizzazione potenziale quasi illimitata dei processi produttivi, materiali ed immateriali, e la conseguente de-valorizzazione illimitata dell’apporto umano nella produzione stessa. Come schiavo l’uomo è sicuramente peggio della macchina e per questo egli è minacciato dalle sue stesse creature.

In conclusione nel capitalismo come sistema imperniato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, il progresso tecnologico e l’uomo sono inevitabilmente posti in opposizione crescente tra loro. Non si tratta certo di essere antitecnologici, ma di creare le condizioni sistemiche affinché l’umanità non sia più in competizione con le macchine per la propria sopravvivenza.

 

DICEMBRE 2013

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[1] A. D’Aloia, Politica e rappresentazione, in «Città Future», n. 03.

[2] Cfr. A. D’Aloia, G. Trapanese, Gramsci. L’elemento del culturale nella lotta anticapitalistica di oggi, cap. ii, par. 2.8., Edizioni Città Future, Napoli 2010.

[3] Si legga anche Dal manifesto ai fatti quotidiani, in «Città Future», n. 09.

[4] V. Fiano, La totalizzazione del rapporto di capitale, in «Città Future» n. 09.