Socialismo come fine
POLITICA E RAPPRESENTAZIONE
Alessandro D'Aloia
«I cittadini e le cittadine di tutte le
sezioni indistintamente partiranno d'ogni punto in fraterno disordine, e
senza attendere il movimento delle sezioni vicine […]; in modo che il
governo perfido ed astuto non possa più mettere la museruola al popolo
com'è sua abitudine, facendolo condurre, come un gregge, da capi ad esso
venduti e che ci ingannano»
(il pamphlet «L'insurrezione del
popolo»)
(Da Miguel Abensour. La democrazia
contro lo Stato. Marx e il momento machiavelliano. Cronopio 2008.
Pag. 8)
Lo Stato
Estraneo, separato, intoccabile,
assoluto, lo Stato si erge contro la società. Nessun urlo lo turba,
nessuna doglia lo tocca, sensibile quanto un morto. Cadaverico
re-pubblico, esalante miasmi mortali sui vivi, infetta tutto ciò che
abbraccia.
E noi vivi, ancora qui a difenderlo
desiderosi del suo abbraccio, convinti di difendere la democrazia,
schiavi dell'apparenza.
Lo Stato come forma politica ereditata
dal dispotismo e funzione di un'accumulazione infinita per scopi non
umani. L'uomo finalmente mezzo, macchina d'accumulazione, organo
meccanico del «corpo senza organi» del capitale. Dove va il lavoro?
Quali sono i frutti dell'immenso affanno sociale che ogni giorno fa
muovere il mondo? Cosa resta dell'affanno di una vita e di quello di
miliardi di vite? Oscuri restano i fini, ma certi e sempre più concreti
i sacrifici. Chi credeva in una vita laica si ritrova a condurre
un'esistenza religiosa, e chi credeva nell'esistenza di un suo Dio
osserva, inconsapevole, un dio diverso e terreno, tutti indistintamente
devoti alla propria immolazione.
Stato e politica: la rappresentazione
capitalistica
Dov'è la politica? Chi conosce una voce
della politica irreligiosa? Ne esistono? Esistono voci politiche che
rifiutano il sacrificio dell'uomo come unico comandamento, da cui
discendono in varia forma tutti gli altri?
Si vedono operai recalcitranti, che
reclamano pause di 10 minuti, si vedono studenti che chiedono udienza
per discutere del loro avvenire, cittadini che chiedono di essere
liberati dalle esalazioni velenose di un consumo totalmente
disorganizzato ed ormai esploso. Si vedono cioè sporadicamente
svilupparsi movimenti che organizzano temporaneamente la propria
incursione su una scena politica che non gli appartiene. Ma nessuno di
questi movimenti riesce più ad aprire la porta di questa politica
barricata in bunker di vetro. I movimenti, cioè le persone, sono fuori
dalla politica e sono «il fuori della politica». Ma dov'è allora la
politica, da quale lato del vetro?
Dietro lo schermo un grande teatro,
dotato perfino di una struttura architettonica tipologicamente coerente
alla rappresentazione, dove la politica delle parole si rappresenta a se
stessa e al mondo. Poi questa scena, poco interessante per la verità, si
dirama in altre cabine della rappresentazione: le infinite stanze
domestiche, dove senza interruzione alcuna lo spettacolo prosegue in
forma diretta ed indiretta, arricchendosi, nel pa(e)ssaggio di vetro, di
inesauribili variazioni, che lo rendono più avvincente. Ma la recita,
essendo la sostanza fatta di parole, continua anche in forma scritta sui
libretti d'opera che preparano lo spettatore durante il giorno allo
spettacolo serale, mettendolo in grado di non perdersi nessun passaggio
essenziale. Siamo sempre dentro un teatro, ma solo da pubblico pagante.
Tutto è importantissimo tranne la verità.
Il dato è che ciò che si rappresenta è
per ciò stesso rappresentato, cioè finto. E tutto ciò che non viene
rappresentato non esiste affatto sulla scena. Siamo cioè nel dilemma
della scelta fra una non-esistenza e una mera rappresentazione. Di
conseguenza la politica è in effetti qualcosa di inesistente come
verità. Come l'identità del soggetto è in generale pura costruzione[1],
abbiamo che l'identificazione fra politica e Stato risulta a sua volta
completamente artificiale. Cioè mentre crediamo che la politica sia
quella cosa cui assistiamo quotidianamente e forzosamente, è vero
esattamente il contrario: non si tratta di politica. La rappresentazione
sostituisce la realtà, e il vero
diventa un momento del falso come diceva Guy Debord. La politica
appare come il centro di questo falso. Essa non è. Lo Stato è la cornice
di questo nulla.
Verità e rappresentazione
Ma se allora la politica va ricercata
nel suo fuori, nel suo altrove, dove si realizza la democrazia?
«[…], se non si cerca di qualificare la
democrazia, essa rischia di perdere ogni volto riconoscibile, […]. Nel
linguaggio quotidiano […], essa non viene forse continuamente confusa
con lo Stato di diritto o con il regime rappresentativo?»[2].
Questa contraddizione evidente e
crescente fra azione sociale in movimento e politica non denuncia
un'assenza strutturale di democrazia? Se per politica si intende a vario
titolo lo Stato, non c'è in tutta evidenza un'opposizione fra Stato e
democrazia? Miguel Abensour nella sua opera
«La democrazia contro lo Stato.
Marx il momento machiavelliano» sostiene proprio questo e cioè che
lo «Stato democratico» è una pura contraddizione in termini, essendo
impossibile per uno Stato essere il luogo della democrazia. Il demos per
sua natura molteplice e numeroso (dotato di un'identità impossibile) non
può essere contenuto nel parlamento, da cui la nascita del concetto di
rappresentanza e la sopravvivenza della tragedia greca nella forma della
politica contemporanea. Un teatro greco confina, incornicia, ad un tempo
il nostro inconscio e il luogo del nostro agire politico. Il popolo è,
in linea teorica, rappresentato. Ma i rappresentanti sono dei cani come
attori. Confondono le parti, ma tant'è.. si tratta di spettacolo.
Per questo forse, un attore (Carmelo
Bene), dai suoi palchi ci negava il gusto della rappresentazione,
inscenando la verità in teatro visto che la finzione scenica regnava già
dappertutto.
«L'anagrafe, lo studiarsi di
sopravvivere ci condanna all'in-formarsi, per formarsi, deformarsi,
ingobbire leopardianamente, pur d'avere una parte […].
Si è costretti all'esserci trafelato:
questo piegarsi alla rappresentanza, ai libri, […]. Non si scampa alla
volgarità dell'azione, alla scorreggia drammatica della rappresentazione
di Stato»[3].
La rappresentazione, prima ancora del
meccanismo della rappresentanza, nega qualsiasi verità in politica, così
come una fotografia perturba l'espressione di un soggetto, che appena è
consapevolmente davanti ad un obiettivo è immediatamente fuori da se
stesso. Il principio di indeterminazione di Heisemberg ha qui una
valenza extra quantistica e pienamente filosofica. Verità e
rappresentazione non formano una coppia compatibile, non possono essere
osservate contemporaneamente senza indeterminazione. E lo stesso si può
dire dell'identità di classe, appena si cerca di rappresentarla
politicamente essa svanisce e questo al di là del fatto oggettivo che le
classi subalterne siano prive oggi, in Italia, di una qualsiasi
rappresentanza politica nelle istituzioni[4],
dato che quando così non era, a maggior ragione la loro voce politica
era il loro principale inganno.
«I politici al potere tradiscono il
movimento politico. Ma avevano avuto mai un'altra intenzione o un'altra
funzione?»[5].
Rappresentazione e potere
Ogni gradino dell'ordinamento sociale, a
livello istituzionale e para-istituzionale è caratterizzato da una
gerarchia, con un'autorità riconosciuta che dirige e una parte sempre
numericamente maggiore che esegue.
«Ogni ottocento italiani, uno è
presidente: del condominio, della Pro Loco, della squadra di calcio, di
una qualche confraternita di mangioni»[6].
Si tratta sempre di riproduzioni in
piccolo che «rappresentano» il modello dello Stato (articolazione
infinita dei principi di autorità e rappresentazione). In ognuna di
queste pieghe, come insegna Foucault, esiste e si riproduce una qualche
forma di potere ed una costante separazione fra direzione e base, fra
«dirigenti» ed (etero)-«diretti». Pieghe di potere che piegano al
potere. Pullulare di piccole «macchine dispotiche», riproduzioni in
scala della macchina dispotica statale. Ogni dirigente incarna
l'autorità e ogni potere genera da un lato rappresentati e dall'altro
rappresentati in relazione gerarchica. Questo schema è la realizzazione
di una perenne trasformazione dialettica dei mezzi in fini, per cui
l'importante è rappresentare un qualsiasi fine o interesse, piuttosto
che realizzarlo. Per ogni fine un «apparato». Anzi, la rappresentanza di
un interesse è direttamente in contraddizione con la sua realizzazione,
dato che realizzato il fine di una qualsiasi associazione umana, nata
per esso, verrebbe meno la necessità di rappresentarlo ufficialmente con
conseguente caduta dell'autorità e del potere legati all'esistenza di
quell'interesse, che legittima la presenza sulla scena di una qualche
figura dirigenziale qualsiasi, di un altro «attore-soggetto» politico.
Ottenere uno scopo significa, al contrario, sciogliere una piega di
potere, licenziare un attore, dismettere un apparato.
Lo Stato, come lo conosciamo, fornisce
il modello indiscusso di ogni organizzazione umana di fini, dal
parlamento alla famiglia, alla struttura del nostro inconscio. La
funzione principale della modellazione di qualsiasi attività ad immagine
e somiglianza dello Stato è quella di arrestare nella pura
rappresentazione ogni fine sociale con l'alibi dell'organizzazione
concreta della sua realizzazione legale, che però è sempre differita a
tempi futuri, ma si sa: il futuro non esiste.
È l'arte del differimento permanente
dell'essenziale.
Questa formidabile capacità delle
istituzioni (statali e parastatali) di fallire i propri obiettivi, è uno
dei principali strumenti di conservazione (dello Stato). Lo Stato si
conserva attraverso il fallimento dei propri fini istituzionali. Solo
funzionando male, funziona. Tutto ciò che si plasma su questo modello,
diventa un'eccezionale macchina di conservazione, dall'esito
inesorabile, al di là delle intenzioni iniziali di chi cerca, anche in
buona fede, di farla funzionare bene. Ecco che il parlamento (modello
eccellente) proprio mentre assorbe i movimenti sociali (quando lo fa) in
realtà li ferma, li congela, aggiungendo semplicemente un posto a
tavola. Un movimento non può realizzare i suoi fini stando fermo. Ecco
perché l'attuale collocazione di tutti i movimenti sociali fuori dal
parlamento è un regalo inaspettato che priva, al momento, il potere
della sua capacità istituzionale di riassorbirli, fornendo loro la
grande possibilità di non venire congelati. Questo è un corto-circuito
imprevisto.
Ma l'estraneità al parlamento non è
ancora un fuori completo dallo Stato, visto che è lo Stato stesso, la
sua struttura gerarchica, ad essere attiva dappertutto.
Ripoliticizzare la politica
Per questo è necessario oggi, e subito,
prima di incorrere nella sventura di venire riassorbiti, ripoliticizzare
la società a partire da questa possibilità materiale, ma riflettendo,
per una volta, sulle modalità concrete di questa «ripoliticizzazione».
«[…]. Se ripoliticizzare la società
civile porta a rivelare l'esistenza di una comunità politica
suscettibile di porsi contro lo Stato, evidentemente
essa non può essere concepita sul
modello dello Stato, totalità organica, società politica unificata e
riconciliata»[7].
Per una volta si pone il problema di
ripensare al modo giusto di organizzare gli scopi politici. Per farlo,
il processo di ripoliticizzazione della società, deve lottare su due
fronti. Da un lato esso è posto per natura fuori dallo Stato e questo
significa che deve concepire la sua azione politica al di fuori dei
meccanismi di rappresentanza, ora che è anche costretto a farlo. Ma
questa è necessariamente una lotta contro lo Stato intesa come rifiuto
del modello organizzativo che lo Stato richiedendo, impone.
«Dover pensare la politica fuori dalla
soggezione allo Stato e fuori dalla cornice dei partiti o del partito»[8].
Dall'altro lato questa modalità di
esistenza politica richiede una rottura con la «sinistra»
politico-parlamentare intesa secondo Alain Badiou.
«Chiamiamo «sinistra» l'insieme del
personale politico parlamentare che si dichiara il solo capace di
assumere le conseguenze generali di un movimento politico popolare
singolare. O, in un lessico più contemporaneo, il solo capace di fornire
un «esito politico» ai «movimenti sociali»»[9].
La rottura con la sinistra politica
sintetizza la necessità di rompere con il parlamentarismo e con
l'implicazione sottintesa che il potere rimanga sempre in mani diverse
(e professionali) da chi anima i movimenti sociali (i non-politici). È
anche una questione di saperi
e di discipline, oltre che di
classe sociale, dato che se è previsto il mestiere di politico, la
politica è cosa da politici e non da incompetenti. I saperi separati
sono allora estensioni della macchina di potere, parti di un copione già
scritto. Per questo è necessario rivendicare prepotentemente un'attiva
incompetenza politica.
«Il movimento di massa è essenzialmente
proletario, ma c'è un'accettazione del fatto che la contropartita debba
essere l'avvento al potere di cricche di politicanti […]»
[10].
Un popolo orfano di esponenti politici.
Se questo poteva essere un obiettivo oggi è per fortuna un dato. Inutile
e controproducente rincorrere il recupero di una sinistra rappresentanza
professionale.
L'attenzione per lo Stato, non è la
messa tra parentesi della premessa strutturale di una economia classista
come origine delle disfunzioni sociali del capitalismo, o del conflitto
fra capitale e lavoro, ma l'osservazione del fatto che il classismo
della borghesia si serve della macchina statale, intesa in senso lato,
come modello organizzativo dell'attività sociale, per condurre il
conflitto in questione nell'ambito della premessa del proprio dominio
preventivo. Lo Stato serve a conservare, mediante la distribuzione di
poteri. Se non si analizza la regola del potere separato, non si può
capire in che modo agire per non partire già sconfitti. La necessità di
spezzare il dominio inumano del Capitale, passa attraverso il compito di
spezzare la proliferazione delle pieghe del potere, non si ottiene
quello senza questo. Perciò diventa centrale parlare di politica
piuttosto che di economia. Lo Stato e la legge sono il primo organo di
potere del Capitale. Il potere istituzionale è sempre legale, non per
questo giusto.
Politica e verità: democrazia o
rappresentazione
Il tema è la ripoliticizzazione della
società civile, come operazione funzionale al ristabilimento della
verità storica fuori dalla sua rappresentazione.
Ecco la straordinaria attualità della
Comune di Parigi, che è l'attualità del problema democrazia.
«Come ogni autentico evento,
La posizione nei confronti dello Stato è
essenziale per discernere la natura reale di un processo di creazione
storica. Una politica nuova deve essere indipendente dallo Stato, sia
come forza motrice del cambiamento, sia come mentalità organizzativa,
pena essere già nel dominio della rappresentazione capitalistica.
«[…]. Questa forma di affermazione del
politico, non si iscrive forse in ogni rivoluzione moderna, che voglia
manifestare in atto la «capacità politica» del popolo, […]? Non è in
gioco questo, nel confronto delle posizioni rivoluzionarie? Una, quella
giacobina, che chiede di impadronirsi dello Stato; l'altra, quella
comunalista o consiliarista, che aspira a distruggere lo Stato, per
lasciare campo libero a una comunità politica antistatuale, la stessa a
cui Marx si riferiva pensando alla Comune di Parigi, col termine
misterioso di «costituzione comunale»»[12].
In che termini si pone dunque la
questione del potere? Si vuole semplicemente impadronirsi dello Stato,
macchina di potere, o si vuole distruggere la macchina di oppressione e
lasciare che la società provi ad auto-determinare la propria esistenza?
In ambo i casi si sta ponendo una questione di potere, nel primo caso
esso passa solo da un gruppo all'altro (o anche da una classe all'altra)
ma restando separato e quindi intatto come meccanismo, nel secondo caso
esso si fonde con la società, estinguendosi come produttore di una
specifica categoria professionale, di uno specifico sapere e correlata
disciplina. Il giacobinismo è ampiamente sperimentato storicamente, e ci
riconduce dritti al parlamentarismo attuale, il consiliarismo della
Comune di Parigi, invece, non ha mai conosciuto periodi lunghi di
esistenza, ed è oggi, non a caso, completamente negletto a 140 anni
quasi esatti dalla sua prima apparizione, ma è questa la strada. Sono
due modi diversi di porre la questione del potere.
Per la precisione, non si sta ponendo
una diatriba fra marxismo ed anarchismo, ma una questione fra democrazia
e sua rappresentazione, fra soggettività e assoggettamento politici.
Si tratta di una lotta contro il potere,
che incidentalmente è lotta contro la borghesia dato che è questa la
classe che incarna il potere, esprimendo lo Stato, da qualche secolo a
questa parte, ma il discorso è generale, dato che il potere, in tutte le
sue forme storiche è sempre stato pura antiproduzione con un fine
economico ben definito: il lavoro altrui.
«Non sono nato per essere nato. Nato per
lavorare, per il vicinato, per essere un buon cittadino […]»[13].
Lo Stato assorbe plusvalore sociale, ma
affinché tale assorbimento-estorsivo sia possibile, è necessario che la
società lavori in silenzio, senza altre velleità. Il potere è
sovrastruttura ed il suo fine è perciò sempre economico. Lo Stato e i
padroni (anche se li si considera soggetti diversi) hanno i medesimi
interessi, anche quando (e a differenza di oggi), apparentemente lo
Stato rappresenta tutti. Apparentemente significa questo: in generale il
«proletariato» è la parte da rappresentare, la borghesia è attrice.
La differenza fra Stato e classe
capitalista dal punto di vista economico è solo nella forma di
appropriazione, il primo si appropria di plusvalore legalizzando
l'estorsione sotto la voce tasse (debito infinito), la seconda
appropriandosi il combinato di produzione industriale e derivata
speculazione finanziaria, entrambi discendenti dalla proprietà privata
dei mezzi di produzione. Il capitalismo di oggi è una ruberia
generalizzata in cui vicino alle forme estorsive sue naturali
(plusvalore derivante dalla produzione industriale) sopravvivono varie
forme di estorsione pre-capitalistica, in cui il plusvalore è ancora
frutto di prelievo indebito (sistema bancario, rendite immobiliari,
tassazione del lavoro, sfruttamento del lavoro sommerso, etc.).
L'insieme di tutte le voci è l'accumulazione infinita ed astratta di
capitale. Accumulazione esterna alle cose dell'uomo.
«[…] il godimento è privilegio
dell'Altro (il capitale, Dio. Protagonista è il denaro). […]. Tu devi
lavorare, […]»[14].
Tutto ciò non potrebbe esistere senza il
lavoro, ergo il potere è, infine e principalmente, imposizione di lavoro
sociale. Il lavoro è essenziale ai fini del potere, il suo primo ed
unico comandamento di cui tutta la morale (edipica) è corollario. Il
lavoro è ubbidienza.
La democrazia rappresentativa è tale
perché non potrebbe essere reale senza impedire, per ciò stesso,
l'appropriazione del lavoro. Rappresentare la democrazia è il fine della
spettacolarizzazione del reale, vale a dire l'imposizione del falso. Il
problema democrazia è quindi il cuore del meccanismo del potere.
Distruggere il potere serve ad eliminare l'appropriazione privata del
lavoro sociale. L'economico discende dal politico, viceversa l'economico
si impone al politico e l'accumulazione resta al di sopra del fine
sociale (umano). Va bene, ad esempio, la pianificazione centralizzata
dell'economia, ma chi stabilisce il fine della pianificazione? Chi i
beni da produrre, le quantità, le modalità, gli orari di lavoro, le
ferie, la pericolosità, la nocività, l'opportunità? Tutto ciò si
manifesta economicamente ma è essenzialmente politico. È un problema di
democrazia. La democrazia è la fusione di politico ed economico. Essa è
un'azione continua.
«La democrazia non è un regime politico,
ma innanzi tutto un'azione, una modalità dell'agire politico […].
L'azione politica di cui parliamo non avviene in un momento, ma è
un'azione continuata che si iscrive nel tempo, sempre pronta a
riprendere slancio in ragione degli ostacoli incontrati […]»[15].
Tutt'altro dunque che una scelta fra
imposizioni preconfezionate una volta ogni qualche anno.
«Decidere una volta ogni qualche anno
quale membro della classe dominante debba opprimere, schiacciare il
popolo nel parlamento: ecco la vera essenza del parlamentarismo
borghese, non solo nelle monarchie costituzionali, ma anche nelle
repubbliche più democratiche»[16].
La democrazia come mezzo: una prassi
Come accade che un sindacato faccia le
veci del potere? Che un'organizzazione dei lavoratori si elevi, alla
fine, contro di loro? Come accade un Bonanni? Come accade
una rappresentanza al di là dei
rappresentati? Accade al fine di realizzare l'ubbidienza sociale del
lavoro. Il rappresentante dice sì e i lavoratori lavorano più di prima,
silenziosamente. Questo è il parlamentarismo al di là del parlamento.
Non è democrazia, è Stato. Bonanni, come sindacalista singolare, incarna
la nuova tentazione del parlamentarismo crepuscolare: superare
l'ostacolo dei rappresentati, mettere fuori chi non dice subito sì. In
questo senso l'accordo di Mirafiori è una chiave di volta nella
concezione affermata del parlamentarismo, un tentativo di ritorno al
parlamentarismo pre-repubblicano, la sostituzione delle Rsu con le Rsa[17], senza tener
conto della parentesi dei «consigli di fabbrica» rimossa dallo Statuto
dei lavoratoti. Non che le Rsu facciano parte di una concezione
anti-statuale, al contrario, ma la critica della democrazia
rappresentativa non significa non riconoscere passaggi di stato al suo
interno. Il concetto di democrazia è già sotto i ferri, ma dall'alto,
per amputarla definitivamente.
Se questo è possibile lo è perché
un'organizzazione dei lavoratori funziona, in definitiva, come lo Stato.
Perché non si può dire no, perché i rappresentati non hanno, in realtà,
nessun potere: tu devi lavorare.
Allora è utile intervenire in questo
processo e impugnare i ferri dal basso per «operare» la democrazia, non
per amputarla.
Bisogna partire da vicino per arrivare
allo Stato. Il condizionamento autoritario dell'azione politica è ciò
che abbiamo chiamato una «sinistra edipizzata». La necessità di una
sinistra anti-edipica sintetizza l'idea di una politica anti-statuale,
cioè l'idea di una politica liberata dall'autorità della guida
personificata piegata all'idea del lavoro come imposizione
indiscutibile. Innanzitutto bisognerebbe chiedersi come mai esistono i
sindacati gialli, chi vi si iscrive, perché
Questa sensazione non è sporadica, ma
permanente. La struttura è sempre presente, è sempre là, mentre tutti i
giorni si lavora, mentre tutti i giorni si vede che le cose non vanno
bene. Questa coesistenza temporale della struttura e del cattivo
andamento del quotidiano è un potentissimo fattore di (dis)educazione
sociale, per altro dissimulato.
In effetti i lavoratori «allineati»
sentono giusto, e perciò sono rassegnati, materia inerte. I «non
allineati» sono invece degli irriducibili, che si oppongono a ciò che
anche loro sentono, ma che non possono accettare, condannati per questo
a bruciarsi in un secondo lavoro che difficilmente li porterà al
traguardo, anche e soprattutto quando il traguardo è parziale. Fra i
primi, depressi nel lavoro, e i secondi, momentaneamente elevati ad una
seconda funzione (politica), si instaura una barriera, una separazione,
nel frattempo si continua a lavorare, entrambi hanno torto avendo
ragione. Anche quando si sciopera la prospettiva è sempre quella di
tornare al lavoro, non quella di discutere del lavoro, del suo perché.
Tutto pur di non pensare.
Bisogna partire da vicino. Se il modello
statale conforma tutto, è proprio questo modello che va messo in
discussione, ma a partire dalle strutture più vicine a noi. La domanda
è: cosa sostituisce la struttura del fare. Il che equivale a chiedersi
cosa sostituisce, allo stesso tempo, il condizionamento inconscio della
coscienza, il sindacato, il partito, lo Stato. Come si esce dalla
rappresentazione, per fare diversamente, per fare un mondo diverso?
«Una politica appare quando una
dichiarazione è anche e contemporaneamente una decisione sulle
conseguenze; quando cioè una dichiarazione è attiva nella forma di una
disciplina collettiva precedentemente sconosciuta»[18].
La politica deve servire a cambiare lo
stato di cose presente, se non serve a questo non è politica. La
democrazia è lo strumento della politica. La democrazia è un fare
continuo. Il fare educa, la teoria sorge dal fare, sistematizza, ordina
ma non al di fuori del fare. Fuori dal fare la teoria non può essere
«filosofia della prassi», ma solo filosofia (separata).
La rappresentazione separa i ruoli,
separando i lavoratori. Non è voluto, è automatico nel sistema statale,
che crea potere diffuso, automaticamente, al pari della produzione
industriale quando crea plusvalore automaticamente prelevato dal lavoro.
Lo Stato è creazione di plus-potere (antiproduttivo, ma molto
auto-riproduttivo), l'equivalente politico del plusvalore economico.
L'unica possibilità di rompere l'automatismo del prelievo di lavoro è
quella di rompere il meccanismo dei poteri legali.
La nozione di legalità è
contraddittoria. Le attuali forme di illegalità sono banali. Per
illegalità si intende, ad esempio, il crimine organizzato con l'uso di
armi. Ma questa idea di illegalità è puramente economica. L'illegalità
attuale ha un fine economico fortemente estorsivo, in realtà essa è
interna all'economia statale, è solo la quintessenza del concetto di
competitività, portata un po' al di là delle regole scritte, come lo è,
in fondo, la guerra. I potenti non usano le armi potendo scrivere le
leggi. La criminalità organizzata è un altro tipo di azienda privata, a
torto definita l'anti-stato. Ma la struttura criminale non differisce in
nulla da quella statale, c'è una cupola cioè una direzione, una
gerarchia, degli esecutori, dei militanti armati, una devozione
incondizionata all'autorità dei capi. Più strutture in competizione, più
capi in lotta economica. Se un elemento anti-stato è presente nelle
organizzazioni criminali esso va individuato nella loro modalità di
costruzione del consenso locale, attraverso la sostituzione di talune
assenze sociali dello Stato, la copertura di alcuni vuoti.
Ma per anti-statuale bisogna invece
intendere tutto ciò che organizzandosi rifiuta le forme previste ed
imposte dallo Stato. Qualcosa che non esiste ancora non può essere
prevista dallo Stato, per questa sua natura di novità essa è
anti-statuale e conseguentemente «illegale». Tutto ciò che è nuovo è in
qualche modo illegale, fino a quando non viene «codificato» dallo Stato.
Niente può essere riconosciuto nel diritto se non è «brevettato». O lo
Stato codifica un movimento, assorbendolo, o un movimento «decodifica»
uno Stato. Per decodificare lo Stato bisogna essere non-codificabile.
Potrebbe essere che non sia codificabile, ciò che non risulta
rappresentabile.
«[…] non c'è qualche rischio a legare la
democrazia selvaggia a quella di diritto, alla lotta per la
conservazione dei diritti acquisiti e la conquista di nuovi diritti? […]
la lotta per il diritto – […] – non si conclude forse, volens nolens, in
un rafforzamento dello Stato? Solo volgendosi all'idea di diritto
sociale, l'idea di democrazia selvaggia potrebbe restare fedele alla sua
vocazione anti-statuale. È questo uno dei maggiori paradossi del
progressismo contemporaneo: nel suo continuo invocare il «diritto a
[…]», esso finisce sempre per chiedere l'approvazione dello Stato e allo
stesso tempo lo rafforza, come se niente potesse farsi senza il consenso
dello Stato»[19].
Invocare il «diritto a» equivale a dire
che non si può pensare ad un futuro diverso dal presente, che
l'evoluzione della civiltà umana deve restare congelata nella forma
politica sancita dalla rivoluzione borghese, dimenticando che quando la
borghesia è andata al potere essa stessa era illegale. La legalità non
può essere posta fuori dalla storia, non può essere un concetto
assoluto.
«In altri termini, nella democrazia –
[…] – l'agire politico resta ciò che è, nella misura in cui esso resiste
a una trasfigurazione in una forma organizzatrice, unificatrice, e cioè
in uno Stato. […]. La democrazia è antistatuale o non è. Dopo aver
compreso questa evidenza, si capisce facilmente perché i suoi cantori
abituali, […], raccomandino un uso moderato della democrazia, in modo
tale che – […] – l'eccezione democratica svanisca, lasciando il posto
alla contraddizione in termini costituita dallo «Stato democratico»,
pensato come Stato di diritto o come cornice insuperabile»[20].
Lavorare ai dualismi di potere.
Un'altra domanda fondamentale è cosa
significhi vincere. Le lotte si danno, al pari dei fenomeni naturali:
accadono. Ma come si fa a capire quando una lotta vince? Prendiamo
l'esempio delle lotte studentesche contro la «riforma» Gelmini. Per ora
la lotta è stata sconfitta, dato che la riforma è legge. Ma se anche non
fosse diventata legge, la lotta avrebbe vinto, mantenendo cogente la
situazione attuale? cioè l'attuale situazione dell'istruzione pubblica è
adeguata alle aspirazioni degli studenti? Non sembrerebbe così. Allora
si può realmente vincere una qualsiasi lotta se questa è ridotta sempre
e solo alla difesa di una parte di diritti acquisiti che altri vogliono
erodere? Cioè si può vincere se non si lotta per l'affermazione di un
diverso concetto di istruzione pubblica che però è già in essere
concretamente? Se questo concetto non è in essere per cosa si lotta? Non
si vede l'obiettivo, per cui diventa difficile che la lotta non rientri,
prima o poi. Il differimento temporale dell'obiettivo è la condanna
attuale delle lotte. L'istruzione è statale, la produzione industriale è
privata, entrambi sono antidemocratiche. L'obiettivo dovrebbe essere
quello di democratizzarle, di ristrutturarne la gestione in modo nuovo.
Un'industria senza padroni, un'istruzione senza docenti, ad esempio.
Occupare l'università è giustissimo, ma per fare cosa? Per continuare la
didattica, per rivoluzionarla, per ri-organizzarla creativamente, per
sperimentare concretamente un'altra università, piuttosto che per
cercare a tutti i costi una scena su cui rappresentare il dissenso. Il
dissenso non ha bisogno di essere rappresentato, esso va realizzato in
forma, solo così può farsi esperienza e generare teoria. Poi la legge
privatizza l'università, ma l'esperienza, fino allora temporanea,
dell'occupazione si propone come alternativa permanente, nella sua
acquisita capacità di organizzarsi fuori dallo Stato, oltre esso. Se non
esiste un'altra università, non si può sostituire la vecchia e non si
può vincere.
Marchionne ricatta Pomigliano, poi
Mirafiori, poi gli altri, con lo spauracchio della migrazione
produttiva. Bisogna giungere allora al punto in cui si sia in grado di
rispondere: «bene, signor Marchionne, si accomodi. Noi prendiamo la
produzione in mano e la riorganizziamo, senza il suo consenso, senza
quello del sindacato, suo emissario. Poniamo in essere un altro modo di
gestione dell'industria». La necessità del fare mi costringerà a
organizzare l'attività, mi imporrà una disciplina, ma questa disciplina
non deve venire dall'esterno, sarà un'auto-disciplina, stabilita
democraticamente da chi lavora, priva di gerarchia fissa.
Il mito dell'impossibilità di fare
alcunché senza controllo esterno è molto potente, ma è un mito. In fondo
tutti lo sappiamo.
Se devo fare una partita a calcetto e
non c'è arbitro, la partita si fa ugualmente. I giocatori si
disciplinano da soli. Siamo cresciuti a partite senza arbitro. Il gioco
è in generale fuori controllo esterno, allora i bambini ci insegnano che
si può.
Se devo affrontare un evento imprevisto,
magari catastrofico, non aspetto la protezione civile prima di fare
alcunché.
In città purtroppo non si conoscono
alcune pratiche ricorrenti della civiltà contadina, ma fuori città sì,
ancora per un po'. Quando si vendemmia, ad esempio, i contadini
organizzano insieme e a rotazione il calendario delle vendemmie vicine,
in modo da assicurare la presenza di mano d'opera moltiplicata a turno
su un campo di vendemmia alla volta, per sbrigare tutto in una giornata,
mediante un lavoro collettivo. Funziona a perfezione e non c'è nessuno
che comanda.
Le città medioevali non conoscevano
urbanisti e muratori professionisti, se le costruivano i contadini
stessi con le loro braccia, secondo un disegno comune. Le città
medioevali erano pianificate. Oggi l'urbanistica vive della sua
frustrazione.
L'uomo vuole essere guidato. No! L'uomo
è stato abituato ad esserlo.
«Se lo Stato è una forma possibile di
comunità politica, non ne è però la forma necessaria. Ciò vuol dire
riconoscere che sono esistite, che esistono, che possono esistere
comunità politiche diverse dallo Stato e che non trovano il loro
compimento, la loro perfezione, nello Stato. Comunità politiche
a-statuali o antistatuali. In effetti sono concepibili forme di comunità
politiche che si costituiscono contro lo Stato, contro la creazione di
un potere separato»[21].
Fare pratica. Siamo
costretti a prendere in mano la situazione, come dovettero fare gli
operai di Parigi nel 1871, per porre fine allo sfacelo. Tanto più si
pone la questione del fare in un'epoca in cui il capitale piuttosto che
produrre vuole guadagnare, piuttosto che sporcarsi le mani con la
società e i suoi problemi, vuole realizzare rendita pura. Il capitalista
moderno non si sente «produttore» ma «speculatore». La finanza è il suo
nuovo orizzonte, la produzione dà solo grattacapi, dato che non si può
produrre da soli, comodamente, come si fa per giocare in borsa, giocare
con i soldi (degli altri).
C'è proprio molto
da fare, anche solo per aggiustare, per mantenere, tutto ciò di cui il
Capitale si infischia sempre più alla grande. Mentre l'accumulazione
privata cresce al punto di superare le economie di Stato, il mondo va a
rotoli. È evidente che l'accumulazione è del tutto estranea ai fini
umani.
Cosa sostituirà i partiti? Dal
partito-stato al partito a-statuale
Se la politica impara a concepirsi fuori
dallo Stato essa abbandona la cornice istituzionale e quindi la
tradizionale forma partitica degli interessi di classe, processo tra
l'altro in corso, per altre ragioni. Il partito ha il compito primario
di educare i suoi membri alla capacità di guidare la società. Lo Stato
educa ad essere guidati, il partito deve educare, tutti indistintamente,
a guidare. Deve essere promotore del passaggio dall'assoggettamento
politico della massa, alla piena soggettività storica. La parola partito
ha senso solo se esso diventa il luogo in cui
la massa impara ad organizzare la sua presenza nella storia come
soggetto politico. Il partito per fare questo doveva essere,
gramscianamente, una vera e propria scuola, siccome non lo è mai stato,
ha fatto il suo tempo di partito-stato. Ma se l'identità di una
molteplicità è impossibile da rappresentare essa deve essere realizzata
secondo le regole di un'azione senza volto. I processi storici
effettivamente importanti sono stati sempre il risultato di un'azione
storica delle masse, del popolo. Ma dire «popolo» significa negare il
ruolo dell'identità, al di là della strumentalizzazione da parte di
alcune personalità erette a simbolo di un momento storico. È sempre il
popolo ad agire.
««Per tre volte [nel 1792, nel 1848 e
nel 1870] il proletariato francese ha fatto la repubblica di cui gli
altri si sono impadroniti, adesso è maturo per la sua repubblica»[22].
Quell'adesso
è in essere da 140 anni.
Superare la «forma partito» non vuol
dire negare la necessità dell'organizzazione, ma semplicemente pensare
l'organizzazione secondo forme indipendenti dall'autorità statale e di
conseguenza indipendenti dalla personificazione (rappresentata), dalla
riduzione del molteplice all'uno. Solo ciò che avviene fuori dallo Stato
può essere irriducibile ad esso.
Si pensi alla burocrazia. I partiti
politici, che vogliano essere democratici pensano ancora oggi che la
massima espressione di democraticità sia il congresso, cioè la
riproduzione di forme parlamentari all'interno del partito, con elezioni
di dirigenti una volta ogni paio d'anni, quando va bene. Così facendo
sottomettono l'azione del partito ai tempi burocratici, impossibili, di
una democrazia rappresentata. Che fine hanno fatto i principi della
revocabilità in qualsiasi momento e della identica condizione fra
membri, tutti elettori ed eleggibili? Non erano i rappresentati a dover
controllare i rappresentanti? È credibile un partito di classe che
propina un nuovo Stato all'esterno mentre applica il vecchio Stato al
suo interno? C'è troppa puzza di muffa in tutto questo. Si entra in un
partito per la voglia di fare, se ne esce convinti che è tutto inutile.
I partiti come le altre istituzioni statali, insegnano ad aspettare, a
differire, a sottostare, sono il buco nero della politica. Castrano
l'espressione e il coinvolgimento, spingono a fare «carriera» politica,
respingono i non politici, respingono i lavoratori. Annullano la
politica al di fuori della «carriera». E sempre abbiamo politici di
professione da una parte, non-politici dall'altra: separazione. I
politici perseguono fini individuali, i non-politici eleggono a fede la
sfiducia.
Come si pensa allora ad
un'organizzazione che attiri invece di respingere? Che catalizzi i
movimenti che sorgono nella società dandogli spazio di espressione
attiva? Come è possibile che nessun partito sappia concepirsi al di là
di un leader carismatico ed ad una struttura gerarchica? E che sappia
interrogarsi sulle possibilità di stare ai tempi degli eventi, senza
pretendere che gli eventi stiano ai tempi burocratici? Perché è
derisorio pensare che un'organizzazione politica possa realizzare una
piena trasparenza del proprio coordinamento sul territorio sfruttando le
nuove tecnologie di connessione? Tutti a declamare le caratteristiche
strumentali della tecnologia ma nessuno a farne reale strumento
organizzativo. Internet, nell'utilizzo che se ne fa, è solo una vetrina
in più, monodirezionale quanto un canale televisivo. Le possibilità
(rizomatiche) della rete, sono una potenzialità, non un automatismo. Un
mezzo a rete può sempre riprodurre al suo interno una struttura ad
albero, che nega relazioni fra tutti i nodi, appropriandosi la
circolazione delle informazioni. È normale che un'organizzazione
politica non senta inadeguato ai tempi, il rimanere laterale
all'utilizzo di internet, senza pensare ad un suo diverso uso possibile?
Quando la rete si fa capillare, la politica ne resta fuori. Paura
dell'incontrollabilità della democrazia? Questa resistenza all'apertura
non rende stucchevoli le critiche all'informazione di Stato pensate al
di fuori di un modo diverso di fare informazione? Tutto questo parlare
accanto alle cose non serve solo a separare costantemente teoria
(ideologica) e pratica politica? Una politica è credibile nel fare, ma
siamo ancora nell'epoca del dire e del proclamare. Bisogna passare dalla
lotta «contro» alla lotta «per».
Per nuove tecnologie di connessione
dovrebbe intendersi anche il tentativo, apparentemente paradossale, di
ripensare lo spettacolo e la comunicazione al di fuori della
rappresentazione, ad esempio.
«Negli anni settanta, dopo l'esperimento
di Tele Biella, prima tv via cavo (chiusa), le piccole televisioni via
etere che pullularono per anni, e che adesso sono drasticamente regolate
e ridotte, pullulavano a loro volta di individui che facevano
televisione di grado zero. […] Non c'è stata mai l'apertura di una linea
continua e, di fatto, non c'è mai stato neanche nulla di simile a una
Tele Alice, una televisione aperta dove inserirti continuamente. […], ci
rendiamo conto di quanto sia arretrata la televisione rispetto a se
stessa […]; adesso la televisione dovrebbe solo disfarsi, già in questo
momento – ora, qui – sparire, […]»[23].
Ripensare la comunicazione, fuori dalla
rappresentazione di Stato, implicherebbe un impegno attivo ed
alternativo delle energie sociali e coinvolgerebbe tutto il discorso
sull'utilizzo sociale del media intesi in senso lato (televisioni
libere, radio libere, dove potersi inserire costantemente, stampa
autoprodotta, internet e reti come possibilità di coordinamento
territoriale e fra lotte), volto a disarticolare il controllo dall'alto
che opprime la comunicazione attuale. Diventa necessario riconquistare
l'aria come mezzo, altro che l'attuale umiliazione quotidiana di talenti
allo sbaraglio nelle televisioni private e di Stato.
Prima di far deflagare un vecchio ponte
bisogna costruirne accanto un altro nuovo e non c'è motivo per non
partire subito a progettarlo.
Allora se la politica non si dà una
democrazia attiva in permanenza come strumento di organizzazione, è
impossibile sia praticare qualsiasi alternativa che fare esperienza
costruttiva, per giungere a porre in atto dualismi di potere in ogni
campo. Senza dualismi in atto le lotte non possono vincere. Non c'è
luogo della politica al di fuori della democrazia.
La democrazia è il fuori della
rappresentazione.
GENNAIO 2011
Bibliografia
- M. ABENSOUR.
La democrazia contro lo Stato.
Marx e il momento machiavelliano. Cronopio, 2008
- A. BADIOU.
- J. BAUDRILLARD.
La società dei consumi. I suoi
miti e le sue strutture. Il Mulino, 1976
- C. BENE.
Carmelo Bene. Opere, con
l'autografia d'un ritratto,
«Autografia d'un ritratto». Classici Bompiani 2002
- E. GHEZZI.
Il mezzo è l'aria. Passaggi
Bompiani, 1997
- G. DEBORD.
La società dello spettacolo.
Baldini Castoldi Dalai, 2002
- G. DELEUZE, F.
GUATTARI. Millepiani, capitalismo
e schizofrenia. Castelvecchi, 2010
- V. I. LENIN.
- G. LUKAKS,
Storia e Coscienza di
classe,«Considerazioni metodologiche sulla questione
dell’organizzazione», Oscar Studio Mondadori, 1973
-
R. LUXEMBURG.
Rosa Luxemburg. Scritti politici,
«Problemi di organizzazione della
socialdemocrazia russa». Editori riuniti, 1976
-
C. MARX.
[1]
Cfr.
Storia e (in)coscienza di
classe, in Città Future n. 02
[2]
Miguel Abensour. La
democrazia contro lo Stato. Marx e il momento machiavelliano.
Cronopio 2008. Pag. 7
[3]
Carmelo Bene. Autografia
d'un ritratto, in
Carmelo Bene. Opere, con l'autografia d'un ritratto.
Classici Bompiani 2002. Pag. VII
[4]
Cfr. Fascismi in
evoluzione. Il monoclassismo istituzionale in Italia, in
Città future n. 00
[5]
Alain Badiou.
[6]
Elenco di frasi di Enzo
Biagi sull'Italia,
letto nella IV puntata di
Vieni via con me.
[7] Miguel Abensour. La democrazia contro lo Stato. Marx e il momento machiavelliano. Cronopio 2008. Pag. 29
[8]
Alain Badiou.
[9]
Ibidem, pag. 37
[10] Ibidem, pag. 33
[11]
Ibidem, pag. 66
[12]
Miguel Abensour. La
democrazia contro lo Stato. Marx e il momento machiavelliano.
Cronopio 2008. Pag. 28
[13]
Carmelo Bene. Autografia
d'un ritratto, in
Carmelo Bene. Opere, con l'autografia d'un ritratto.
Classici Bompiani 2002. Pag. VII
[14] Ibidem, pag. VIII
[15]
Miguel Abensour. La
democrazia contro lo Stato. Marx e il momento machiavelliano.
Cronopio 2008. Pag. 8
[16]
V. I. Lenin.
[17]
A partire dalla seconda metà degli anni ottanta, la brusca
interruzione del processo di unità sindacale avviato negli anni
precedenti contribuì a mettere in crisi la sintesi raggiunta tra
la rappresentanza elettiva dei Consigli di fabbrica ed il
sistema di designazione delle
rsa, introdotto
dall’art. 19 dello Statuto, il quale imponeva garanzie di
presenza alle varie sigle presenti nei luoghi di lavoro. Negli
anni precedenti, l’esperienza unitaria aveva infatti consentito,
in molti settori, in particolare industriali, di fare
sostanzialmente coincidere le Rappresentanze sindacali aziendali
dell’art. 19 delle Statuto con i Consigli di fabbrica, e ciò in
quanto venivano nominati
rsa dalle organizzazioni sindacali proprio coloro i quali
risultavano eletti dai lavoratori come delegati. Ma sul finire
degli anni ’80, la crisi dell’unità sindacale aveva contribuito
a creare situazioni difficilmente sostenibili: ad esempio nel
settore metalmeccanico per almeno un biennio
Fonte:
www.wikilabour.it
[18]
Alain Badiou.
[19]
Miguel Abensour. La
democrazia contro lo Stato. Marx e il momento machiavelliano.
Cronopio 2008. Pag. 20
[20]
Ibidem, pag. 21
[21]
Ibidem, pag. 28
[22]
Alain Badiou.
[23]
Enrico Ghezzi. Il mezzo è
l'aria. Passaggi Bompiani. 1997. Pagg. 56, 57