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03
Gennaio 2011

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Socialismo come fine

POLITICA E RAPPRESENTAZIONE

Alessandro D'Aloia

 

«I cittadini e le cittadine di tutte le sezioni indistintamente partiranno d'ogni punto in fraterno disordine, e senza attendere il movimento delle sezioni vicine […]; in modo che il governo perfido ed astuto non possa più mettere la museruola al popolo com'è sua abitudine, facendolo condurre, come un gregge, da capi ad esso venduti e che ci ingannano»

(il pamphlet «L'insurrezione del popolo»)

(Da Miguel Abensour. La democrazia contro lo Stato. Marx e il momento machiavelliano. Cronopio 2008. Pag. 8)

 

 

Lo Stato

Estraneo, separato, intoccabile, assoluto, lo Stato si erge contro la società. Nessun urlo lo turba, nessuna doglia lo tocca, sensibile quanto un morto. Cadaverico re-pubblico, esalante miasmi mortali sui vivi, infetta tutto ciò che abbraccia.

E noi vivi, ancora qui a difenderlo desiderosi del suo abbraccio, convinti di difendere la democrazia, schiavi dell'apparenza.

Lo Stato come forma politica ereditata dal dispotismo e funzione di un'accumulazione infinita per scopi non umani. L'uomo finalmente mezzo, macchina d'accumulazione, organo meccanico del «corpo senza organi» del capitale. Dove va il lavoro? Quali sono i frutti dell'immenso affanno sociale che ogni giorno fa muovere il mondo? Cosa resta dell'affanno di una vita e di quello di miliardi di vite? Oscuri restano i fini, ma certi e sempre più concreti i sacrifici. Chi credeva in una vita laica si ritrova a condurre un'esistenza religiosa, e chi credeva nell'esistenza di un suo Dio osserva, inconsapevole, un dio diverso e terreno, tutti indistintamente devoti alla propria immolazione.

 

Stato e politica: la rappresentazione capitalistica

Dov'è la politica? Chi conosce una voce della politica irreligiosa? Ne esistono? Esistono voci politiche che rifiutano il sacrificio dell'uomo come unico comandamento, da cui discendono in varia forma tutti gli altri?

Si vedono operai recalcitranti, che reclamano pause di 10 minuti, si vedono studenti che chiedono udienza per discutere del loro avvenire, cittadini che chiedono di essere liberati dalle esalazioni velenose di un consumo totalmente disorganizzato ed ormai esploso. Si vedono cioè sporadicamente svilupparsi movimenti che organizzano temporaneamente la propria incursione su una scena politica che non gli appartiene. Ma nessuno di questi movimenti riesce più ad aprire la porta di questa politica barricata in bunker di vetro. I movimenti, cioè le persone, sono fuori dalla politica e sono «il fuori della politica». Ma dov'è allora la politica, da quale lato del vetro?

Dietro lo schermo un grande teatro, dotato perfino di una struttura architettonica tipologicamente coerente alla rappresentazione, dove la politica delle parole si rappresenta a se stessa e al mondo. Poi questa scena, poco interessante per la verità, si dirama in altre cabine della rappresentazione: le infinite stanze domestiche, dove senza interruzione alcuna lo spettacolo prosegue in forma diretta ed indiretta, arricchendosi, nel pa(e)ssaggio di vetro, di inesauribili variazioni, che lo rendono più avvincente. Ma la recita, essendo la sostanza fatta di parole, continua anche in forma scritta sui libretti d'opera che preparano lo spettatore durante il giorno allo spettacolo serale, mettendolo in grado di non perdersi nessun passaggio essenziale. Siamo sempre dentro un teatro, ma solo da pubblico pagante. Tutto è importantissimo tranne la verità.

Il dato è che ciò che si rappresenta è per ciò stesso rappresentato, cioè finto. E tutto ciò che non viene rappresentato non esiste affatto sulla scena. Siamo cioè nel dilemma della scelta fra una non-esistenza e una mera rappresentazione. Di conseguenza la politica è in effetti qualcosa di inesistente come verità. Come l'identità del soggetto è in generale pura costruzione[1], abbiamo che l'identificazione fra politica e Stato risulta a sua volta completamente artificiale. Cioè mentre crediamo che la politica sia quella cosa cui assistiamo quotidianamente e forzosamente, è vero esattamente il contrario: non si tratta di politica. La rappresentazione sostituisce la realtà, e il vero diventa un momento del falso come diceva Guy Debord. La politica appare come il centro di questo falso. Essa non è. Lo Stato è la cornice di questo nulla.

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Verità e rappresentazione

Ma se allora la politica va ricercata nel suo fuori, nel suo altrove, dove si realizza la democrazia?

«[…], se non si cerca di qualificare la democrazia, essa rischia di perdere ogni volto riconoscibile, […]. Nel linguaggio quotidiano […], essa non viene forse continuamente confusa con lo Stato di diritto o con il regime rappresentativo?»[2].

Questa contraddizione evidente e crescente fra azione sociale in movimento e politica non denuncia un'assenza strutturale di democrazia? Se per politica si intende a vario titolo lo Stato, non c'è in tutta evidenza un'opposizione fra Stato e democrazia? Miguel Abensour nella sua opera «La democrazia contro lo Stato. Marx il momento machiavelliano» sostiene proprio questo e cioè che lo «Stato democratico» è una pura contraddizione in termini, essendo impossibile per uno Stato essere il luogo della democrazia. Il demos per sua natura molteplice e numeroso (dotato di un'identità impossibile) non può essere contenuto nel parlamento, da cui la nascita del concetto di rappresentanza e la sopravvivenza della tragedia greca nella forma della politica contemporanea. Un teatro greco confina, incornicia, ad un tempo il nostro inconscio e il luogo del nostro agire politico. Il popolo è, in linea teorica, rappresentato. Ma i rappresentanti sono dei cani come attori. Confondono le parti, ma tant'è.. si tratta di spettacolo.

Per questo forse, un attore (Carmelo Bene), dai suoi palchi ci negava il gusto della rappresentazione, inscenando la verità in teatro visto che la finzione scenica regnava già dappertutto.

«L'anagrafe, lo studiarsi di sopravvivere ci condanna all'in-formarsi, per formarsi, deformarsi, ingobbire leopardianamente, pur d'avere una parte […].

Si è costretti all'esserci trafelato: questo piegarsi alla rappresentanza, ai libri, […]. Non si scampa alla volgarità dell'azione, alla scorreggia drammatica della rappresentazione di Stato»[3].

La rappresentazione, prima ancora del meccanismo della rappresentanza, nega qualsiasi verità in politica, così come una fotografia perturba l'espressione di un soggetto, che appena è consapevolmente davanti ad un obiettivo è immediatamente fuori da se stesso. Il principio di indeterminazione di Heisemberg ha qui una valenza extra quantistica e pienamente filosofica. Verità e rappresentazione non formano una coppia compatibile, non possono essere osservate contemporaneamente senza indeterminazione. E lo stesso si può dire dell'identità di classe, appena si cerca di rappresentarla politicamente essa svanisce e questo al di là del fatto oggettivo che le classi subalterne siano prive oggi, in Italia, di una qualsiasi rappresentanza politica nelle istituzioni[4], dato che quando così non era, a maggior ragione la loro voce politica era il loro principale inganno.

«I politici al potere tradiscono il movimento politico. Ma avevano avuto mai un'altra intenzione o un'altra funzione?»[5].

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Rappresentazione e potere

Ogni gradino dell'ordinamento sociale, a livello istituzionale e para-istituzionale è caratterizzato da una gerarchia, con un'autorità riconosciuta che dirige e una parte sempre numericamente maggiore che esegue.

«Ogni ottocento italiani, uno è presidente: del condominio, della Pro Loco, della squadra di calcio, di una qualche confraternita di mangioni»[6].

Si tratta sempre di riproduzioni in piccolo che «rappresentano» il modello dello Stato (articolazione infinita dei principi di autorità e rappresentazione). In ognuna di queste pieghe, come insegna Foucault, esiste e si riproduce una qualche forma di potere ed una costante separazione fra direzione e base, fra «dirigenti» ed (etero)-«diretti». Pieghe di potere che piegano al potere. Pullulare di piccole «macchine dispotiche», riproduzioni in scala della macchina dispotica statale. Ogni dirigente incarna l'autorità e ogni potere genera da un lato rappresentati e dall'altro rappresentati in relazione gerarchica. Questo schema è la realizzazione di una perenne trasformazione dialettica dei mezzi in fini, per cui l'importante è rappresentare un qualsiasi fine o interesse, piuttosto che realizzarlo. Per ogni fine un «apparato». Anzi, la rappresentanza di un interesse è direttamente in contraddizione con la sua realizzazione, dato che realizzato il fine di una qualsiasi associazione umana, nata per esso, verrebbe meno la necessità di rappresentarlo ufficialmente con conseguente caduta dell'autorità e del potere legati all'esistenza di quell'interesse, che legittima la presenza sulla scena di una qualche figura dirigenziale qualsiasi, di un altro «attore-soggetto» politico. Ottenere uno scopo significa, al contrario, sciogliere una piega di potere, licenziare un attore, dismettere un apparato.

Lo Stato, come lo conosciamo, fornisce il modello indiscusso di ogni organizzazione umana di fini, dal parlamento alla famiglia, alla struttura del nostro inconscio. La funzione principale della modellazione di qualsiasi attività ad immagine e somiglianza dello Stato è quella di arrestare nella pura rappresentazione ogni fine sociale con l'alibi dell'organizzazione concreta della sua realizzazione legale, che però è sempre differita a tempi futuri, ma si sa: il futuro non esiste.

È l'arte del differimento permanente dell'essenziale.

Questa formidabile capacità delle istituzioni (statali e parastatali) di fallire i propri obiettivi, è uno dei principali strumenti di conservazione (dello Stato). Lo Stato si conserva attraverso il fallimento dei propri fini istituzionali. Solo funzionando male, funziona. Tutto ciò che si plasma su questo modello, diventa un'eccezionale macchina di conservazione, dall'esito inesorabile, al di là delle intenzioni iniziali di chi cerca, anche in buona fede, di farla funzionare bene. Ecco che il parlamento (modello eccellente) proprio mentre assorbe i movimenti sociali (quando lo fa) in realtà li ferma, li congela, aggiungendo semplicemente un posto a tavola. Un movimento non può realizzare i suoi fini stando fermo. Ecco perché l'attuale collocazione di tutti i movimenti sociali fuori dal parlamento è un regalo inaspettato che priva, al momento, il potere della sua capacità istituzionale di riassorbirli, fornendo loro la grande possibilità di non venire congelati. Questo è un corto-circuito imprevisto.

Ma l'estraneità al parlamento non è ancora un fuori completo dallo Stato, visto che è lo Stato stesso, la sua struttura gerarchica, ad essere attiva dappertutto.

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Ripoliticizzare la politica

Per questo è necessario oggi, e subito, prima di incorrere nella sventura di venire riassorbiti, ripoliticizzare la società a partire da questa possibilità materiale, ma riflettendo, per una volta, sulle modalità concrete di questa «ripoliticizzazione».

«[…]. Se ripoliticizzare la società civile porta a rivelare l'esistenza di una comunità politica suscettibile di porsi contro lo Stato, evidentemente essa non può essere concepita sul modello dello Stato, totalità organica, società politica unificata e riconciliata»[7].

Per una volta si pone il problema di ripensare al modo giusto di organizzare gli scopi politici. Per farlo, il processo di ripoliticizzazione della società, deve lottare su due fronti. Da un lato esso è posto per natura fuori dallo Stato e questo significa che deve concepire la sua azione politica al di fuori dei meccanismi di rappresentanza, ora che è anche costretto a farlo. Ma questa è necessariamente una lotta contro lo Stato intesa come rifiuto del modello organizzativo che lo Stato richiedendo, impone.

«Dover pensare la politica fuori dalla soggezione allo Stato e fuori dalla cornice dei partiti o del partito»[8].

Dall'altro lato questa modalità di esistenza politica richiede una rottura con la «sinistra» politico-parlamentare intesa secondo Alain Badiou.

«Chiamiamo «sinistra» l'insieme del personale politico parlamentare che si dichiara il solo capace di assumere le conseguenze generali di un movimento politico popolare singolare. O, in un lessico più contemporaneo, il solo capace di fornire un «esito politico» ai «movimenti sociali»»[9].

La rottura con la sinistra politica sintetizza la necessità di rompere con il parlamentarismo e con l'implicazione sottintesa che il potere rimanga sempre in mani diverse (e professionali) da chi anima i movimenti sociali (i non-politici). È anche una questione di saperi e di discipline, oltre che di classe sociale, dato che se è previsto il mestiere di politico, la politica è cosa da politici e non da incompetenti. I saperi separati sono allora estensioni della macchina di potere, parti di un copione già scritto. Per questo è necessario rivendicare prepotentemente un'attiva incompetenza politica.

«Il movimento di massa è essenzialmente proletario, ma c'è un'accettazione del fatto che la contropartita debba essere l'avvento al potere di cricche di politicanti […]» [10].

Un popolo orfano di esponenti politici. Se questo poteva essere un obiettivo oggi è per fortuna un dato. Inutile e controproducente rincorrere il recupero di una sinistra rappresentanza professionale.

L'attenzione per lo Stato, non è la messa tra parentesi della premessa strutturale di una economia classista come origine delle disfunzioni sociali del capitalismo, o del conflitto fra capitale e lavoro, ma l'osservazione del fatto che il classismo della borghesia si serve della macchina statale, intesa in senso lato, come modello organizzativo dell'attività sociale, per condurre il conflitto in questione nell'ambito della premessa del proprio dominio preventivo. Lo Stato serve a conservare, mediante la distribuzione di poteri. Se non si analizza la regola del potere separato, non si può capire in che modo agire per non partire già sconfitti. La necessità di spezzare il dominio inumano del Capitale, passa attraverso il compito di spezzare la proliferazione delle pieghe del potere, non si ottiene quello senza questo. Perciò diventa centrale parlare di politica piuttosto che di economia. Lo Stato e la legge sono il primo organo di potere del Capitale. Il potere istituzionale è sempre legale, non per questo giusto.

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Politica e verità: democrazia o rappresentazione

Il tema è la ripoliticizzazione della società civile, come operazione funzionale al ristabilimento della verità storica fuori dalla sua rappresentazione.

Ecco la straordinaria attualità della Comune di Parigi, che è l'attualità del problema democrazia.

«Come ogni autentico evento, la Comune non ha realizzato un possibile, ma l'ha creato. Questo possibile è semplicemente quello della politica indipendente»[11].

La posizione nei confronti dello Stato è essenziale per discernere la natura reale di un processo di creazione storica. Una politica nuova deve essere indipendente dallo Stato, sia come forza motrice del cambiamento, sia come mentalità organizzativa, pena essere già nel dominio della rappresentazione capitalistica.

«[…]. Questa forma di affermazione del politico, non si iscrive forse in ogni rivoluzione moderna, che voglia manifestare in atto la «capacità politica» del popolo, […]? Non è in gioco questo, nel confronto delle posizioni rivoluzionarie? Una, quella giacobina, che chiede di impadronirsi dello Stato; l'altra, quella comunalista o consiliarista, che aspira a distruggere lo Stato, per lasciare campo libero a una comunità politica antistatuale, la stessa a cui Marx si riferiva pensando alla Comune di Parigi, col termine misterioso di «costituzione comunale»»[12].

In che termini si pone dunque la questione del potere? Si vuole semplicemente impadronirsi dello Stato, macchina di potere, o si vuole distruggere la macchina di oppressione e lasciare che la società provi ad auto-determinare la propria esistenza? In ambo i casi si sta ponendo una questione di potere, nel primo caso esso passa solo da un gruppo all'altro (o anche da una classe all'altra) ma restando separato e quindi intatto come meccanismo, nel secondo caso esso si fonde con la società, estinguendosi come produttore di una specifica categoria professionale, di uno specifico sapere e correlata disciplina. Il giacobinismo è ampiamente sperimentato storicamente, e ci riconduce dritti al parlamentarismo attuale, il consiliarismo della Comune di Parigi, invece, non ha mai conosciuto periodi lunghi di esistenza, ed è oggi, non a caso, completamente negletto a 140 anni quasi esatti dalla sua prima apparizione, ma è questa la strada. Sono due modi diversi di porre la questione del potere.

Per la precisione, non si sta ponendo una diatriba fra marxismo ed anarchismo, ma una questione fra democrazia e sua rappresentazione, fra soggettività e assoggettamento politici.

Si tratta di una lotta contro il potere, che incidentalmente è lotta contro la borghesia dato che è questa la classe che incarna il potere, esprimendo lo Stato, da qualche secolo a questa parte, ma il discorso è generale, dato che il potere, in tutte le sue forme storiche è sempre stato pura antiproduzione con un fine economico ben definito: il lavoro altrui.

«Non sono nato per essere nato. Nato per lavorare, per il vicinato, per essere un buon cittadino […]»[13].

Lo Stato assorbe plusvalore sociale, ma affinché tale assorbimento-estorsivo sia possibile, è necessario che la società lavori in silenzio, senza altre velleità. Il potere è sovrastruttura ed il suo fine è perciò sempre economico. Lo Stato e i padroni (anche se li si considera soggetti diversi) hanno i medesimi interessi, anche quando (e a differenza di oggi), apparentemente lo Stato rappresenta tutti. Apparentemente significa questo: in generale il «proletariato» è la parte da rappresentare, la borghesia è attrice.

La differenza fra Stato e classe capitalista dal punto di vista economico è solo nella forma di appropriazione, il primo si appropria di plusvalore legalizzando l'estorsione sotto la voce tasse (debito infinito), la seconda appropriandosi il combinato di produzione industriale e derivata speculazione finanziaria, entrambi discendenti dalla proprietà privata dei mezzi di produzione. Il capitalismo di oggi è una ruberia generalizzata in cui vicino alle forme estorsive sue naturali (plusvalore derivante dalla produzione industriale) sopravvivono varie forme di estorsione pre-capitalistica, in cui il plusvalore è ancora frutto di prelievo indebito (sistema bancario, rendite immobiliari, tassazione del lavoro, sfruttamento del lavoro sommerso, etc.). L'insieme di tutte le voci è l'accumulazione infinita ed astratta di capitale. Accumulazione esterna alle cose dell'uomo.

«[…] il godimento è privilegio dell'Altro (il capitale, Dio. Protagonista è il denaro). […]. Tu devi lavorare, […]»[14].

Tutto ciò non potrebbe esistere senza il lavoro, ergo il potere è, infine e principalmente, imposizione di lavoro sociale. Il lavoro è essenziale ai fini del potere, il suo primo ed unico comandamento di cui tutta la morale (edipica) è corollario. Il lavoro è ubbidienza.

La democrazia rappresentativa è tale perché non potrebbe essere reale senza impedire, per ciò stesso, l'appropriazione del lavoro. Rappresentare la democrazia è il fine della spettacolarizzazione del reale, vale a dire l'imposizione del falso. Il problema democrazia è quindi il cuore del meccanismo del potere. Distruggere il potere serve ad eliminare l'appropriazione privata del lavoro sociale. L'economico discende dal politico, viceversa l'economico si impone al politico e l'accumulazione resta al di sopra del fine sociale (umano). Va bene, ad esempio, la pianificazione centralizzata dell'economia, ma chi stabilisce il fine della pianificazione? Chi i beni da produrre, le quantità, le modalità, gli orari di lavoro, le ferie, la pericolosità, la nocività, l'opportunità? Tutto ciò si manifesta economicamente ma è essenzialmente politico. È un problema di democrazia. La democrazia è la fusione di politico ed economico. Essa è un'azione continua.

«La democrazia non è un regime politico, ma innanzi tutto un'azione, una modalità dell'agire politico […]. L'azione politica di cui parliamo non avviene in un momento, ma è un'azione continuata che si iscrive nel tempo, sempre pronta a riprendere slancio in ragione degli ostacoli incontrati […]»[15].

Tutt'altro dunque che una scelta fra imposizioni preconfezionate una volta ogni qualche anno.

«Decidere una volta ogni qualche anno quale membro della classe dominante debba opprimere, schiacciare il popolo nel parlamento: ecco la vera essenza del parlamentarismo borghese, non solo nelle monarchie costituzionali, ma anche nelle repubbliche più democratiche»[16].

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La democrazia come mezzo: una prassi

Come accade che un sindacato faccia le veci del potere? Che un'organizzazione dei lavoratori si elevi, alla fine, contro di loro? Come accade un Bonanni? Come accade  una rappresentanza al di là dei rappresentati? Accade al fine di realizzare l'ubbidienza sociale del lavoro. Il rappresentante dice sì e i lavoratori lavorano più di prima, silenziosamente. Questo è il parlamentarismo al di là del parlamento. Non è democrazia, è Stato. Bonanni, come sindacalista singolare, incarna la nuova tentazione del parlamentarismo crepuscolare: superare l'ostacolo dei rappresentati, mettere fuori chi non dice subito sì. In questo senso l'accordo di Mirafiori è una chiave di volta nella concezione affermata del parlamentarismo, un tentativo di ritorno al parlamentarismo pre-repubblicano, la sostituzione delle Rsu con le Rsa[17], senza tener conto della parentesi dei «consigli di fabbrica» rimossa dallo Statuto dei lavoratoti. Non che le Rsu facciano parte di una concezione anti-statuale, al contrario, ma la critica della democrazia rappresentativa non significa non riconoscere passaggi di stato al suo interno. Il concetto di democrazia è già sotto i ferri, ma dall'alto, per amputarla definitivamente.

Se questo è possibile lo è perché un'organizzazione dei lavoratori funziona, in definitiva, come lo Stato. Perché non si può dire no, perché i rappresentati non hanno, in realtà, nessun potere: tu devi lavorare.

Allora è utile intervenire in questo processo e impugnare i ferri dal basso per «operare» la democrazia, non per amputarla.

Bisogna partire da vicino per arrivare allo Stato. Il condizionamento autoritario dell'azione politica è ciò che abbiamo chiamato una «sinistra edipizzata». La necessità di una sinistra anti-edipica sintetizza l'idea di una politica anti-statuale, cioè l'idea di una politica liberata dall'autorità della guida personificata piegata all'idea del lavoro come imposizione indiscutibile. Innanzitutto bisognerebbe chiedersi come mai esistono i sindacati gialli, chi vi si iscrive, perché mai Cisl e Uil continuino ad avere iscritti, come accade che molti lavoratori siano convinti che è giusto ciò che Marchionne chiede, non vedendo il problema dell'inadeguatezza del proprio sindacato. È un problema di sottomissione della coscienza alla convinzione inconscia che per vivere si deve lavorare e che l'ultima parola sulle quantità e modalità del lavoro spetta in ultima analisi a chi il lavoro te lo dà. Il lavoro non è più un diritto (per altro indiretto dell'esistenza) ma un ricatto, non un mezzo ma il fine. Oltre a questa adesione inconscia alle ragioni dei padroni da parte degli sfruttati, c'è poi la struttura concreta della rappresentanza, universalmente accettata al punto che ogni altra modalità organizzativa diventa addirittura inconcepibile. Ma fra la struttura organizzativa rappresentativa e la sottomissione inconscia alle ragioni dominanti, c'è una relazione indissolubile. Sono la stessa cosa. Lo Stato colonizza (edipizza) l'inconscio e sottomette la ragione, annullando la coscienza. Il dominio dell'inconscio sottomesso è continuamente alimentato dalle forme organizzative, dato che nessuno dice che esse servono a sottomettere, ma falsamente si ritengono strumenti per ottenere risultati, mentre ognuno vede quello che sente: che in fondo non servono a niente e si sa che nulla si può cambiare.

Questa sensazione non è sporadica, ma permanente. La struttura è sempre presente, è sempre là, mentre tutti i giorni si lavora, mentre tutti i giorni si vede che le cose non vanno bene. Questa coesistenza temporale della struttura e del cattivo andamento del quotidiano è un potentissimo fattore di (dis)educazione sociale, per altro dissimulato.

In effetti i lavoratori «allineati» sentono giusto, e perciò sono rassegnati, materia inerte. I «non allineati» sono invece degli irriducibili, che si oppongono a ciò che anche loro sentono, ma che non possono accettare, condannati per questo a bruciarsi in un secondo lavoro che difficilmente li porterà al traguardo, anche e soprattutto quando il traguardo è parziale. Fra i primi, depressi nel lavoro, e i secondi, momentaneamente elevati ad una seconda funzione (politica), si instaura una barriera, una separazione, nel frattempo si continua a lavorare, entrambi hanno torto avendo ragione. Anche quando si sciopera la prospettiva è sempre quella di tornare al lavoro, non quella di discutere del lavoro, del suo perché. Tutto pur di non pensare.

Bisogna partire da vicino. Se il modello statale conforma tutto, è proprio questo modello che va messo in discussione, ma a partire dalle strutture più vicine a noi. La domanda è: cosa sostituisce la struttura del fare. Il che equivale a chiedersi cosa sostituisce, allo stesso tempo, il condizionamento inconscio della coscienza, il sindacato, il partito, lo Stato. Come si esce dalla rappresentazione, per fare diversamente, per fare un mondo diverso?

«Una politica appare quando una dichiarazione è anche e contemporaneamente una decisione sulle conseguenze; quando cioè una dichiarazione è attiva nella forma di una disciplina collettiva precedentemente sconosciuta»[18].

La politica deve servire a cambiare lo stato di cose presente, se non serve a questo non è politica. La democrazia è lo strumento della politica. La democrazia è un fare continuo. Il fare educa, la teoria sorge dal fare, sistematizza, ordina ma non al di fuori del fare. Fuori dal fare la teoria non può essere «filosofia della prassi», ma solo filosofia (separata).

La rappresentazione separa i ruoli, separando i lavoratori. Non è voluto, è automatico nel sistema statale, che crea potere diffuso, automaticamente, al pari della produzione industriale quando crea plusvalore automaticamente prelevato dal lavoro. Lo Stato è creazione di plus-potere (antiproduttivo, ma molto auto-riproduttivo), l'equivalente politico del plusvalore economico. L'unica possibilità di rompere l'automatismo del prelievo di lavoro è quella di rompere il meccanismo dei poteri legali.

La nozione di legalità è contraddittoria. Le attuali forme di illegalità sono banali. Per illegalità si intende, ad esempio, il crimine organizzato con l'uso di armi. Ma questa idea di illegalità è puramente economica. L'illegalità attuale ha un fine economico fortemente estorsivo, in realtà essa è interna all'economia statale, è solo la quintessenza del concetto di competitività, portata un po' al di là delle regole scritte, come lo è, in fondo, la guerra. I potenti non usano le armi potendo scrivere le leggi. La criminalità organizzata è un altro tipo di azienda privata, a torto definita l'anti-stato. Ma la struttura criminale non differisce in nulla da quella statale, c'è una cupola cioè una direzione, una gerarchia, degli esecutori, dei militanti armati, una devozione incondizionata all'autorità dei capi. Più strutture in competizione, più capi in lotta economica. Se un elemento anti-stato è presente nelle organizzazioni criminali esso va individuato nella loro modalità di costruzione del consenso locale, attraverso la sostituzione di talune assenze sociali dello Stato, la copertura di alcuni vuoti.

Ma per anti-statuale bisogna invece intendere tutto ciò che organizzandosi rifiuta le forme previste ed imposte dallo Stato. Qualcosa che non esiste ancora non può essere prevista dallo Stato, per questa sua natura di novità essa è anti-statuale e conseguentemente «illegale». Tutto ciò che è nuovo è in qualche modo illegale, fino a quando non viene «codificato» dallo Stato. Niente può essere riconosciuto nel diritto se non è «brevettato». O lo Stato codifica un movimento, assorbendolo, o un movimento «decodifica» uno Stato. Per decodificare lo Stato bisogna essere non-codificabile. Potrebbe essere che non sia codificabile, ciò che non risulta rappresentabile.

«[…] non c'è qualche rischio a legare la democrazia selvaggia a quella di diritto, alla lotta per la conservazione dei diritti acquisiti e la conquista di nuovi diritti? […] la lotta per il diritto – […] – non si conclude forse, volens nolens, in un rafforzamento dello Stato? Solo volgendosi all'idea di diritto sociale, l'idea di democrazia selvaggia potrebbe restare fedele alla sua vocazione anti-statuale. È questo uno dei maggiori paradossi del progressismo contemporaneo: nel suo continuo invocare il «diritto a […]», esso finisce sempre per chiedere l'approvazione dello Stato e allo stesso tempo lo rafforza, come se niente potesse farsi senza il consenso dello Stato»[19].

Invocare il «diritto a» equivale a dire che non si può pensare ad un futuro diverso dal presente, che l'evoluzione della civiltà umana deve restare congelata nella forma politica sancita dalla rivoluzione borghese, dimenticando che quando la borghesia è andata al potere essa stessa era illegale. La legalità non può essere posta fuori dalla storia, non può essere un concetto assoluto.

«In altri termini, nella democrazia – […] – l'agire politico resta ciò che è, nella misura in cui esso resiste a una trasfigurazione in una forma organizzatrice, unificatrice, e cioè in uno Stato. […]. La democrazia è antistatuale o non è. Dopo aver compreso questa evidenza, si capisce facilmente perché i suoi cantori abituali, […], raccomandino un uso moderato della democrazia, in modo tale che – […] – l'eccezione democratica svanisca, lasciando il posto alla contraddizione in termini costituita dallo «Stato democratico», pensato come Stato di diritto o come cornice insuperabile»[20].

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Lavorare ai dualismi di potere.

Un'altra domanda fondamentale è cosa significhi vincere. Le lotte si danno, al pari dei fenomeni naturali: accadono. Ma come si fa a capire quando una lotta vince? Prendiamo l'esempio delle lotte studentesche contro la «riforma» Gelmini. Per ora la lotta è stata sconfitta, dato che la riforma è legge. Ma se anche non fosse diventata legge, la lotta avrebbe vinto, mantenendo cogente la situazione attuale? cioè l'attuale situazione dell'istruzione pubblica è adeguata alle aspirazioni degli studenti? Non sembrerebbe così. Allora si può realmente vincere una qualsiasi lotta se questa è ridotta sempre e solo alla difesa di una parte di diritti acquisiti che altri vogliono erodere? Cioè si può vincere se non si lotta per l'affermazione di un diverso concetto di istruzione pubblica che però è già in essere concretamente? Se questo concetto non è in essere per cosa si lotta? Non si vede l'obiettivo, per cui diventa difficile che la lotta non rientri, prima o poi. Il differimento temporale dell'obiettivo è la condanna attuale delle lotte. L'istruzione è statale, la produzione industriale è privata, entrambi sono antidemocratiche. L'obiettivo dovrebbe essere quello di democratizzarle, di ristrutturarne la gestione in modo nuovo. Un'industria senza padroni, un'istruzione senza docenti, ad esempio. Occupare l'università è giustissimo, ma per fare cosa? Per continuare la didattica, per rivoluzionarla, per ri-organizzarla creativamente, per sperimentare concretamente un'altra università, piuttosto che per cercare a tutti i costi una scena su cui rappresentare il dissenso. Il dissenso non ha bisogno di essere rappresentato, esso va realizzato in forma, solo così può farsi esperienza e generare teoria. Poi la legge privatizza l'università, ma l'esperienza, fino allora temporanea, dell'occupazione si propone come alternativa permanente, nella sua acquisita capacità di organizzarsi fuori dallo Stato, oltre esso. Se non esiste un'altra università, non si può sostituire la vecchia e non si può vincere.

Marchionne ricatta Pomigliano, poi Mirafiori, poi gli altri, con lo spauracchio della migrazione produttiva. Bisogna giungere allora al punto in cui si sia in grado di rispondere: «bene, signor Marchionne, si accomodi. Noi prendiamo la produzione in mano e la riorganizziamo, senza il suo consenso, senza quello del sindacato, suo emissario. Poniamo in essere un altro modo di gestione dell'industria». La necessità del fare mi costringerà a organizzare l'attività, mi imporrà una disciplina, ma questa disciplina non deve venire dall'esterno, sarà un'auto-disciplina, stabilita democraticamente da chi lavora, priva di gerarchia fissa.

Il mito dell'impossibilità di fare alcunché senza controllo esterno è molto potente, ma è un mito. In fondo tutti lo sappiamo.

Se devo fare una partita a calcetto e non c'è arbitro, la partita si fa ugualmente. I giocatori si disciplinano da soli. Siamo cresciuti a partite senza arbitro. Il gioco è in generale fuori controllo esterno, allora i bambini ci insegnano che si può.

Se devo affrontare un evento imprevisto, magari catastrofico, non aspetto la protezione civile prima di fare alcunché.

In città purtroppo non si conoscono alcune pratiche ricorrenti della civiltà contadina, ma fuori città sì, ancora per un po'. Quando si vendemmia, ad esempio, i contadini organizzano insieme e a rotazione il calendario delle vendemmie vicine, in modo da assicurare la presenza di mano d'opera moltiplicata a turno su un campo di vendemmia alla volta, per sbrigare tutto in una giornata, mediante un lavoro collettivo. Funziona a perfezione e non c'è nessuno che comanda.

Le città medioevali non conoscevano urbanisti e muratori professionisti, se le costruivano i contadini stessi con le loro braccia, secondo un disegno comune. Le città medioevali erano pianificate. Oggi l'urbanistica vive della sua frustrazione.

L'uomo vuole essere guidato. No! L'uomo è stato abituato ad esserlo.

«Se lo Stato è una forma possibile di comunità politica, non ne è però la forma necessaria. Ciò vuol dire riconoscere che sono esistite, che esistono, che possono esistere comunità politiche diverse dallo Stato e che non trovano il loro compimento, la loro perfezione, nello Stato. Comunità politiche a-statuali o antistatuali. In effetti sono concepibili forme di comunità politiche che si costituiscono contro lo Stato, contro la creazione di un potere separato»[21].

Fare pratica. Siamo costretti a prendere in mano la situazione, come dovettero fare gli operai di Parigi nel 1871, per porre fine allo sfacelo. Tanto più si pone la questione del fare in un'epoca in cui il capitale piuttosto che produrre vuole guadagnare, piuttosto che sporcarsi le mani con la società e i suoi problemi, vuole realizzare rendita pura. Il capitalista moderno non si sente «produttore» ma «speculatore». La finanza è il suo nuovo orizzonte, la produzione dà solo grattacapi, dato che non si può produrre da soli, comodamente, come si fa per giocare in borsa, giocare con i soldi (degli altri).

C'è proprio molto da fare, anche solo per aggiustare, per mantenere, tutto ciò di cui il Capitale si infischia sempre più alla grande. Mentre l'accumulazione privata cresce al punto di superare le economie di Stato, il mondo va a rotoli. È evidente che l'accumulazione è del tutto estranea ai fini umani.

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Cosa sostituirà i partiti? Dal partito-stato al partito a-statuale

Se la politica impara a concepirsi fuori dallo Stato essa abbandona la cornice istituzionale e quindi la tradizionale forma partitica degli interessi di classe, processo tra l'altro in corso, per altre ragioni. Il partito ha il compito primario di educare i suoi membri alla capacità di guidare la società. Lo Stato educa ad essere guidati, il partito deve educare, tutti indistintamente, a guidare. Deve essere promotore del passaggio dall'assoggettamento politico della massa, alla piena soggettività storica. La parola partito ha senso solo se esso diventa il luogo in cui la massa impara ad organizzare la sua presenza nella storia come soggetto politico. Il partito per fare questo doveva essere, gramscianamente, una vera e propria scuola, siccome non lo è mai stato, ha fatto il suo tempo di partito-stato. Ma se l'identità di una molteplicità è impossibile da rappresentare essa deve essere realizzata secondo le regole di un'azione senza volto. I processi storici effettivamente importanti sono stati sempre il risultato di un'azione storica delle masse, del popolo. Ma dire «popolo» significa negare il ruolo dell'identità, al di là della strumentalizzazione da parte di alcune personalità erette a simbolo di un momento storico. È sempre il popolo ad agire.

««Per tre volte [nel 1792, nel 1848 e nel 1870] il proletariato francese ha fatto la repubblica di cui gli altri si sono impadroniti, adesso è maturo per la sua repubblica»[22].

Quell'adesso è in essere da 140 anni.

Superare la «forma partito» non vuol dire negare la necessità dell'organizzazione, ma semplicemente pensare l'organizzazione secondo forme indipendenti dall'autorità statale e di conseguenza indipendenti dalla personificazione (rappresentata), dalla riduzione del molteplice all'uno. Solo ciò che avviene fuori dallo Stato può essere irriducibile ad esso.

Si pensi alla burocrazia. I partiti politici, che vogliano essere democratici pensano ancora oggi che la massima espressione di democraticità sia il congresso, cioè la riproduzione di forme parlamentari all'interno del partito, con elezioni di dirigenti una volta ogni paio d'anni, quando va bene. Così facendo sottomettono l'azione del partito ai tempi burocratici, impossibili, di una democrazia rappresentata. Che fine hanno fatto i principi della revocabilità in qualsiasi momento e della identica condizione fra membri, tutti elettori ed eleggibili? Non erano i rappresentati a dover controllare i rappresentanti? È credibile un partito di classe che propina un nuovo Stato all'esterno mentre applica il vecchio Stato al suo interno? C'è troppa puzza di muffa in tutto questo. Si entra in un partito per la voglia di fare, se ne esce convinti che è tutto inutile. I partiti come le altre istituzioni statali, insegnano ad aspettare, a differire, a sottostare, sono il buco nero della politica. Castrano l'espressione e il coinvolgimento, spingono a fare «carriera» politica, respingono i non politici, respingono i lavoratori. Annullano la politica al di fuori della «carriera». E sempre abbiamo politici di professione da una parte, non-politici dall'altra: separazione. I politici perseguono fini individuali, i non-politici eleggono a fede la sfiducia.

Come si pensa allora ad un'organizzazione che attiri invece di respingere? Che catalizzi i movimenti che sorgono nella società dandogli spazio di espressione attiva? Come è possibile che nessun partito sappia concepirsi al di là di un leader carismatico ed ad una struttura gerarchica? E che sappia interrogarsi sulle possibilità di stare ai tempi degli eventi, senza pretendere che gli eventi stiano ai tempi burocratici? Perché è derisorio pensare che un'organizzazione politica possa realizzare una piena trasparenza del proprio coordinamento sul territorio sfruttando le nuove tecnologie di connessione? Tutti a declamare le caratteristiche strumentali della tecnologia ma nessuno a farne reale strumento organizzativo. Internet, nell'utilizzo che se ne fa, è solo una vetrina in più, monodirezionale quanto un canale televisivo. Le possibilità (rizomatiche) della rete, sono una potenzialità, non un automatismo. Un mezzo a rete può sempre riprodurre al suo interno una struttura ad albero, che nega relazioni fra tutti i nodi, appropriandosi la circolazione delle informazioni. È normale che un'organizzazione politica non senta inadeguato ai tempi, il rimanere laterale all'utilizzo di internet, senza pensare ad un suo diverso uso possibile? Quando la rete si fa capillare, la politica ne resta fuori. Paura dell'incontrollabilità della democrazia? Questa resistenza all'apertura non rende stucchevoli le critiche all'informazione di Stato pensate al di fuori di un modo diverso di fare informazione? Tutto questo parlare accanto alle cose non serve solo a separare costantemente teoria (ideologica) e pratica politica? Una politica è credibile nel fare, ma siamo ancora nell'epoca del dire e del proclamare. Bisogna passare dalla lotta «contro» alla lotta «per».

Per nuove tecnologie di connessione dovrebbe intendersi anche il tentativo, apparentemente paradossale, di ripensare lo spettacolo e la comunicazione al di fuori della rappresentazione, ad esempio.

«Negli anni settanta, dopo l'esperimento di Tele Biella, prima tv via cavo (chiusa), le piccole televisioni via etere che pullularono per anni, e che adesso sono drasticamente regolate e ridotte, pullulavano a loro volta di individui che facevano televisione di grado zero. […] Non c'è stata mai l'apertura di una linea continua e, di fatto, non c'è mai stato neanche nulla di simile a una Tele Alice, una televisione aperta dove inserirti continuamente. […], ci rendiamo conto di quanto sia arretrata la televisione rispetto a se stessa […]; adesso la televisione dovrebbe solo disfarsi, già in questo momento – ora, qui – sparire, […]»[23].

Ripensare la comunicazione, fuori dalla rappresentazione di Stato, implicherebbe un impegno attivo ed alternativo delle energie sociali e coinvolgerebbe tutto il discorso sull'utilizzo sociale del media intesi in senso lato (televisioni libere, radio libere, dove potersi inserire costantemente, stampa autoprodotta, internet e reti come possibilità di coordinamento territoriale e fra lotte), volto a disarticolare il controllo dall'alto che opprime la comunicazione attuale. Diventa necessario riconquistare l'aria come mezzo, altro che l'attuale umiliazione quotidiana di talenti allo sbaraglio nelle televisioni private e di Stato.

Prima di far deflagare un vecchio ponte bisogna costruirne accanto un altro nuovo e non c'è motivo per non partire subito a progettarlo.

Allora se la politica non si dà una democrazia attiva in permanenza come strumento di organizzazione, è impossibile sia praticare qualsiasi alternativa che fare esperienza costruttiva, per giungere a porre in atto dualismi di potere in ogni campo. Senza dualismi in atto le lotte non possono vincere. Non c'è luogo della politica al di fuori della democrazia.

La democrazia è il fuori della rappresentazione.

 

GENNAIO 2011

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Bibliografia

 

-  M. ABENSOUR. La democrazia contro lo Stato. Marx e il momento machiavelliano. Cronopio, 2008

- A. BADIOU. La Comune di Parigi. Una dichiarazione politica sulla politica. Cronopio, 2004

- J. BAUDRILLARD. La società dei consumi. I suoi miti e le sue strutture. Il Mulino, 1976

- C. BENE. Carmelo Bene. Opere, con l'autografia d'un ritratto, «Autografia d'un ritratto». Classici Bompiani 2002

- E. GHEZZI. Il mezzo è l'aria. Passaggi Bompiani, 1997

- G. DEBORD. La società dello spettacolo. Baldini Castoldi Dalai, 2002

- G. DELEUZE, F. GUATTARI. Millepiani, capitalismo e schizofrenia. Castelvecchi, 2010

- V. I. LENIN. La Comune di Parigi. Editori Riuniti, 1971

- G. LUKAKS, Storia e Coscienza di classe,«Considerazioni metodologiche sulla questione dell’organizzazione», Oscar Studio Mondadori, 1973

- R. LUXEMBURG. Rosa Luxemburg. Scritti politici, «Problemi di organizzazione della socialdemocrazia russa». Editori riuniti, 1976

- C. MARX. La Comune di Parigi 1871. Indirizzo del consiglio generale dell'Associazione Internazionale dei lavoratori, Cap. III e IV. Fonte: http://digilander.libero.it/rivoluzionecom/Testimarxisti/IndirizzoMarx1871.html



[1] Cfr. Storia e (in)coscienza di classe, in Città Future n. 02

[2] Miguel Abensour. La democrazia contro lo Stato. Marx e il momento machiavelliano. Cronopio 2008. Pag. 7

[3] Carmelo Bene. Autografia d'un ritratto, in Carmelo Bene. Opere, con l'autografia d'un ritratto. Classici Bompiani 2002. Pag. VII

[4] Cfr. Fascismi in evoluzione. Il monoclassismo istituzionale in Italia, in Città future n. 00

[5] Alain Badiou. La Comune di Parigi. Una dichiarazione politica sulla politica. Cronopio 2004. Pag. 34                                 

[6] Elenco di frasi di Enzo Biagi sull'Italia, letto nella IV puntata di Vieni via con me.

[7] Miguel Abensour. La democrazia contro lo Stato. Marx e il momento machiavelliano. Cronopio 2008. Pag. 29

[8] Alain Badiou. La Comune di Parigi. Una dichiarazione politica sulla politica. Cronopio 2004. Pag. 31

[9] Ibidem, pag. 37

[10] Ibidem, pag. 33

[11] Ibidem, pag. 66

[12] Miguel Abensour. La democrazia contro lo Stato. Marx e il momento machiavelliano. Cronopio 2008. Pag. 28

[13] Carmelo Bene. Autografia d'un ritratto, in Carmelo Bene. Opere, con l'autografia d'un ritratto. Classici Bompiani 2002. Pag. VII

[14] Ibidem, pag. VIII

[15] Miguel Abensour. La democrazia contro lo Stato. Marx e il momento machiavelliano. Cronopio 2008. Pag. 8

[16] V. I. Lenin. La Comune di Parigi. Editori Riuniti, 1971. Pag. 101

[17] A partire dalla seconda metà degli anni ottanta, la brusca interruzione del processo di unità sindacale avviato negli anni precedenti contribuì a mettere in crisi la sintesi raggiunta tra la rappresentanza elettiva dei Consigli di fabbrica ed il sistema di designazione delle rsa, introdotto dall’art. 19 dello Statuto, il quale imponeva garanzie di presenza alle varie sigle presenti nei luoghi di lavoro. Negli anni precedenti, l’esperienza unitaria aveva infatti consentito, in molti settori, in particolare industriali, di fare sostanzialmente coincidere le Rappresentanze sindacali aziendali dell’art. 19 delle Statuto con i Consigli di fabbrica, e ciò in quanto venivano nominati rsa dalle organizzazioni sindacali proprio coloro i quali risultavano eletti dai lavoratori come delegati. Ma sul finire degli anni ’80, la crisi dell’unità sindacale aveva contribuito a creare situazioni difficilmente sostenibili: ad esempio nel settore metalmeccanico per almeno un biennio la fiom faceva eleggere dai lavoratori i propri rappresentanti in seno al consiglio di fabbrica, mentre fim e uilm semplicemente li designavano ai sensi dell’art. 19 dello Statuto. Per risolvere tale situazione di criticità, si arrivò all’intesa-quadro 1 marzo 1991 tra cgil, cisl e uil ed al successivo Accordo interconfederale 23 luglio 1993, sottoscritto da governo, Confindustria, cgil, cisl e uil, che introduce le Rappresentanze sindacali unitarie (rsu), la cui composizione «[…] deriva per 2/3 da elezione da parte di tutti i lavoratori e per 1/3 da designazione o elezione da parte delle organizzazioni stipulanti il Ccnl, che hanno presentato liste, in proporzione ai voti ottenuti». Una mediazione, dunque, diretta a garantire, pur nel rispetto del principio del suffragio universale, una presenza anche alle organizzazioni sindacali minoritarie presenti in azienda. Una disciplina maggiormente dettagliata per quanto attiene a modalità di costituzione e di funzionamento delle rsu nel settore industriale venne concordata nell’accordo interconfederale stipulato il 20 dicembre 1993 tra Confindustria da un lato, e cgil, cisl e uil dall’altro. L’accordo in questione venne seguito da altre numerose altre intese e regolamenti elettorali a livello di categoria, anche se va ricordato che in alcuni importanti settori in genere non industriali (ad esempio, settore bancario ed assicurativo) le rsu non hanno ancora trovato attuazione. Per quanto attiene invece al settore del pubblico impiego, le rsu sono attualmente regolamentate dall’art. 42 del decreto legislativo 30 marzo 2001 n. 165, che ha modificato la precedente disciplina contenuta nell’art. 6 del decreto legislativo 4 novembre 1997 n. 396.

Fonte: www.wikilabour.it

[18] Alain Badiou. La Comune di Parigi. Una dichiarazione politica sulla politica. Cronopio 2004. Pag. 69

[19] Miguel Abensour. La democrazia contro lo Stato. Marx e il momento machiavelliano. Cronopio 2008. Pag. 20

[20] Ibidem, pag. 21

[21] Ibidem, pag. 28

[22] Alain Badiou. La Comune di Parigi. Una dichiarazione politica sulla politica. Cronopio 2004. Pag. 65

[23] Enrico Ghezzi. Il mezzo è l'aria. Passaggi Bompiani. 1997. Pagg. 56, 57