LA TOTALIZZAZIONE
DEL RAPPORTO DI CAPITALE
Vincenzo Fiano
Premessa
Dalla seconda metà
degli anni ’80 fino al 1994 un gruppo di comunisti delle province di
Napoli e Caserta diede alla luce circa una decina di numeri di una
rivista, il periodico marxista Officina, attraverso la quale
espressero l’esigenza di rivedere alcuni fondamenti teorici che hanno
accompagnato i marxisti nel ‘900 a cominciare dall’interpretazione
leninista del capitalismo come sistema morente e prossimo alla
dipartita.
Scopo di questo
breve saggio[1]
è cercare di ripartire, assieme ai marxisti di Officina, da una
critica dell’economia politica in grado di muovere una nuova analisi
sulla società attuale, individuando successivamente la funzione
riservata, in un rinnovato schema teorico, alle migrazioni.
Cercheremo, infine,
dei riscontri tangibili focalizzando una situazione concreta e a noi
geograficamente vicina: l’Italia meridionale, con particolare
riferimento alla “Castel Volturno Area”, tra i territori più
significativi dal punto di vista delle migrazioni sul suolo italiano ed
europeo.
L’imperialismo era
la fase suprema del capitalismo: ciò significa che esso, nelle sue
condizioni, era arrivato al culmine della propria capacità di
valorizzazione e che dunque l’unica speranza di sopravvivenza per i
capitalismi fosse lo scontro diretto; effettivamente i fatti
andarono in questo modo attraverso la prima e soprattutto la seconda
guerra mondiale, ma, secondo il collettivo di Officina, nel
compiersi di questi conflitti e nelle fasi intermedie e successive il
rapporto di capitale andava modificandosi per ampliare le proprie
possibilità di valorizzazione approcciando «territori» finora ad essa
sconosciuti; inoltre andava perfezionandosi una capacità di
mobilitazione sociale generale che trovava nello Stato la sua maggiore
reificazione.
La visione
ottimistica leninista, presumibilmente condizionata da un momento
storico in cui il lavoro ha veramente «rischiato» di vincere lo scontro
col capitale, è legata all’idea di un capitalismo parassitario e
putrefatto, limitato nella sua capacità espansiva, che trova nel
rentier la sua figura chiave.
Non è nostra
intenzione negare che questa sia stata effettivamente una
tendenza propria del capitalismo ma
non è stata neanche l’unica e nemmeno la più forte: «il secolo
xx non è stato solo quello
della gigantesca lotta tra capitale e proletariato, ma anche quello
della gigantesca lotta del capitale con se stesso» che ha portato
ad «ad una terza fase» della sua esistenza, «dopo l’età della
concorrenza e quella dei monopoli»[2].
Questa ulteriore fase del rapporto di capitale, non ancora conclusasi,
poggia su due piloni principali: la sua propria totalizzazione e
l’allungamento della giornata lavorativa sociale a livello
planetario.
Possiamo approcciare
la totalizzazione partendo da un concetto elaborato dall’area
dell’Autonomia Operaia e divenuto poi, come abbiamo visto, uno
dei capisaldi dell’attuale teoria negriana: la dislocazione
produttiva del valore, ossia il tramonto della produzione
centralizzata fisicamente in unità produttive dalle dimensioni
gigantesche e la sua disseminazione sociale. Mentre Negri iniziava già
allora a scorgere nel proletariato il protagonista della storia nonché
soggettività egemone in questa trasformazione, per Officina
questo passaggio è appannaggio della capacità del capitalismo di cercare
sempre nuove forme di valorizzazione attraverso un «movimento
estensivo del rapporto di capitale» che penetra nuove sfere della
vita che precedentemente gli erano sottratte, in particolare tutto ciò
che riguarda il settore dei servizi: è in essi che oggi si
rinviene «la principale allocazione dell’attività intellettuale e
scientifica», divenuta «l’obiettivo vero del capitale»[3].
Giungiamo in questo
modo al nodo della produzione immateriale, che si distingue da
quella materiale per la mancanza di autonomia che l’esistenza
concreta del suo prodotto mantiene nei confronti dell’attività che lo
produce. La sua differenziazione rispetto quella materiale si
intreccia spesso con la distinzione marxiana tra lavoro «produttivo» e
«improduttivo»: «è produttivo solamente quell’operaio che produce
plusvalore per conto del capitalista, ossia che contribuisce
all’autovalorizzazione del capitale»[4].
Con ciò non si sostiene che le due differenziazioni esprimano in realtà
la stessa cosa: la produzione materiale può anche essere
capitalisticamente improduttiva, anche se ormai questa possibilità è
praticamente scomparsa, così come la produzione immateriale può
considerarsi produttiva, anche se in modo indiretto.
Secondo Lucia
Pradella, in Marx la valutazione esatta della produttività del lavoro
emerge guardando la cornice complessiva dell’«organismo produttivo
generale […]. La definizione di lavoratore produttivo rimane valida per
il lavoratore complessivo, ma non per ogni suo membro isolatamente
preso»[5].
Nella prospettiva marxista che nulla vuol concedere all’ipotesi della
disseminazione della produzione diretta del valore, le mansioni
improduttive sono comunque espressioni dell’antagonismo tra capitale e
lavoro per via della condizione di salariati dei propri lavoratori, ma
restano d’altra parte inesorabilmente improduttive se non collocate nel
meccanismo generale, dove sono al servizio della produzione industriale
di merci che resta il perno della valorizzazione capitalistica; esse
esprimono perciò un valore indiretto nella misura in cui creano
condizioni più favorevoli alla sua formazione: il loro valore consiste
perciò in una proiezione dell’aumento del valore reale che,
grazie al loro apporto, si riesce a raggiungere nel lavoro produttivo.
In ogni caso anche queste attività vengono definite sotto la forma del
lavoro salariato che «si generalizza anche a lavori non immediatamente
sussunti al capitale»[6].
Secondo gli autori
di Officina, invece,
in tempi
anche recenti, parte delle attività lavorative […] era svolta o
controllata da classi diverse da quelle originate, direttamente, dal
rapporto di produzione capitalistico, queste classi si sviluppavano e
vivevano come forze produttive non immediatamente interne a quel
rapporto. […] L’insegnamento, ad esempio, o la distribuzione, erano
attività svolte da classi non borghesi, né [da] proletari[7].
Quindi, al contrario
di altri settori produttivi che, come la manifattura, vennero
immediatamente risucchiati nella sussunzione formale, le mansioni cui
Officina fa adesso riferimento sono state per lungo tempo colte solo
tangenzialmente dal capitalismo e ricompensate ancora con forme di
reddito, mentre oggi rappresentano i nuovi “territori” in fase di
inclusione nell’estensione orizzontale del rapporto di capitale.
La manifestazione
concreta di tale processo lo si vede dalla drastica riduzione
dell’esercizio come libera professione di attività rientranti nei
«grandi settori del “terziario”: energia, comunicazioni e trasporti,
scolarizzazione, ricerca scientifica, assistenza e previdenza sociale.
In essi si è costantemente attivata la moltiplicazione, la innovazione e
la diversificazione delle prestazioni»[8],
sotto il segno di una crescente salarizzazione della forza lavoro
in esse impiegata che sta provocando il peggioramento delle sue
condizioni che prima la situavano in un livello intermedio tra ceto
medio e proletariato.
Questa tendenza è
rilevata da Officina sin dalle sue prime “uscite”:
Grafico 1 – Come cambia l’occupazione
in Italia
Fonte: Diamo a Marx quel che è di
Marx, in Officina n.2, gennaio 1988, p. 8.
Oggi, a distanza di
oltre vent’anni, questa tendenza nella situazione occupazionale italiana
è andata sempre più approfondendosi: secondo l’Istituto Censis,
«nell’ultimo decennio, a fronte di una crescita del lavoro dipendente di
2.406.000 unità (+16,2% tra il 1999 e il 2009), i lavoratori autonomi
sono diminuiti di circa 200.000 unità (-3,8%), portandone l’incidenza
complessiva sul totale degli occupati dal 26,6% al 24,5%»[9].
A questa estensione
orizzontale inizia a seguirne una in profondità del rapporto di
capitale che corrisponde alla sussunzione reale di tali
mestieri al capitale stesso. Fondamento di tale movimento è la crescente
alienazione che emerge da due aspetti relativi alle attività
interessate da questo processo: innanzitutto da esse «deve uscire un
prodotto» che «deve avere un valore» e «dentro la sua composizione di
valore ci deve essere una quota derivante da un plus-lavoro, ovvero da
un lavoro non retribuito»; il primo livello dell’alienazione deriva
quindi dall’estrazione di plus-valore, mentre il secondo interessa
invece la separazione sempre più netta del lavoratore dalla proprie
abilità lavorative: la sottomissione reale del lavoro al capitale è
intesa come «passaggio dal lavoro concreto, dove l’erogatore conserva le
proprie abilità e la conoscenza del processo lavorativo, al lavoro
astratto, dove l’erogatore è pura energia»[10].
Marx ribadì più
volte che, con l’aumento delle macchine e della divisione del lavoro,
«il lavoro si semplifica. L’abilità particolare dell’operaio
perde il suo valore. Egli viene trasformato in una forza produttiva
semplice, monotona, che non deve più far ricorso a nessuno sforzo fisico
e mentale»[11].
È solamente a questo
punto, secondo gli autori di Officina, che nella fase della
totalizzazione si compie il processo di trasformazione dei
“semplici” salariati in proletari a tutti gli effetti: la determinazione
di “proletario” emerge, infatti, solo da un rapporto particolare tra
lavoro morto e lavoro vivo in cui quest’ultimo perde
definitivamente le proprie abilità concrete in favore della macchina, al
cui servizio invece si pone ormai lavoro astratto da parte del
lavoratore.
Ebbene, l’estensione
in profondità di questo rapporto di capitale che fino a poco fa
riguardava soltanto il lavoro materiale, di fabbrica, oggi si sta
volgendo anche all’attività intellettuale grazie al costante avanzamento
della tecnologia informatica in grado di generare macchine che
catalogano e archiviano arrivando finanche a progettare. Le
macchine, o meglio il sistema macchinino sempre più automatizzante,
scalza l’essere umano dal ruolo di soggetto principale nella
caratterizzazione della produzione, così come previsto da Marx che nel
frammento sulle macchine preconizzò la riduzione del lavoro
dell’operaio «a una semplice astrazione di attività […] determinata e
regolata da tutte le parti dal movimento del macchinario, e non
viceversa»; nello stesso passo viene poi evidenziato il ruolo
dell’Individuo sociale che si presenta come il grande pilone di sostegno
della produzione e della ricchezza[12].
Siamo nel punto
cruciale del ragionamento: gli autori di Officina vedono nella
figura dell’Individuo Produttivo Sociale (ips)
la chiave di lettura principale della nuova fase capitalistica.
Nel ciclo del
capitale D-M-DI
indicante la trasmigrazione del valore in varie espressioni concrete, il
valore-lavoro veniva immediatamente trasmesso all’oggetto-merce, mentre
oggi esso «passa prima per la sua trasformazione in individuo produttivo
sociale»[13],
definibile come l’insieme dei processi produttivi del capitalismo che
tengono conto dei rapporti di produzione, della forza lavoro
disponibile, del grado di sviluppo del sistema macchino e dell’effettiva
mobilitazione del corpo sociale, ed espressione dunque della
combinazione del valore-lavoro prodotto nei tantissimi segmenti
produttivi, in tendenziale estensione a tutta l’attività umana,
specialmente nel terziario.
È questa sua
peculiarità a renderne complessa l’espressione numerica: la sue
reificazioni finali che protraggono il processo di valorizzazione sono
sempre le merci, ma non possiamo pensare al suo valore complessivo come
alla somma del valore di ogni singola merce: il plusvalore
determinabile
come quota valore in qualsiasi merce, è diventato una realtà
compiutamente bi-dimensionale: una parte, progressivamente quella più
piccola, è data dal plus-lavoro immediato; un’altra, progressivamente
quella più grande, è data da quote parti di tutto il plus-lavoro
sociale»: è questo l’Individuo Produttivo Sociale, configurabile
a questo punto come “un vero e proprio coefficiente, storicamente
variabile ma comunque descrivibile in termini matematici[14].
L’ips
è dunque un fattore moltiplicatore della generale capacità
produttiva sociale e, secondo Officina, segna l’ingresso nella
fase, prevista da Marx, in cui «la creazione della ricchezza reale viene
a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro
impiegato che dalla potenza degli agenti che vengono messi in moto
durante il tempo di lavoro». Tale potenza dipende «dallo stato generale
della scienza e dal progresso della tecnologia, o dall’applicazione di
questa scienza alla produzione»[15].
Ciò significa che
oggi ha sempre meno senso parlare dell’incidenza indiretta del lavoro
“improduttivo” nella definizione del valore: giacché la produzione di
valore (e di plusvalore) ha davvero abbattuto gli argini conquistando
progressivamente tutti le dimensioni dell’esistenza; eppure, se la
parabola teorica sembra qui riportarci da Negri ed Hardt e alla
produzione di valore oltre misura, va ricordato che il valore
espresso dall’ips
ha la funzione del coefficiente, in qualità di valore
sociale generale che diviene un agente moltiplicatore del valore
specifico delle merci. Lo scontro sul valore è tutt’altro che
tramontato.
La formula per
indicare il plusvalore “semplice” è:
Pv = L - V
dove L sta
per il lavoro complessivo e V per il valore necessario alla
riproduzione della forza lavoro; nella fase della totalizzazione del
capitale la formula diviene complicatissima perché Pv adesso non
deve riassumere solamente la differenza tra L e V a cui
concorreva indirettamente il lavoro improduttivo, perché Pv è
diventato Pv·x , dove x sta per quel coefficiente che
riassume in sé la potenza degli agenti, la cui determinazione, a parere
di Officina, non è impossibile ma risulta davvero complicata: se
qui fossimo in grado di dedurre la formula equivalente, probabilmente
staremmo scrivendo Il “nuovo” capitale.
L’ultimo aspetto
generale che si vuol approfondire della fase della totalizzazione
del rapporto di capitale è il ruolo dello Stato, da non intendersi qui
come astratto “potere politico” concettualmente separato da quello
economico e soprattutto proiezione di quest’ultimo in una
sovrastruttura: l’attuale forma capitalistica, stringendo molto di
più i legami tra questi due campi che «si reggono a vicenda, non come in
passato restando in due sfere separate, implica infatti una dimensione
produttivistica dell’oppressione e una dimensione oppressiva della
produzione». Essa dunque opera confondendo entrambe «nei medesimi luoghi
e riducendo tutto (tendenzialmente) ad un unico luogo
produttivo/oppressivo»[16].
Nel corso di questa
tesi[17]
abbiamo visto come lo Stato sia stato dato per sovranità moderna ormai
superata, anche se nella forma e non nelle funzioni, da Negri ed Hardt;
siamo poi tornati indietro a Marx, di cui abbiamo indirettamente
evidenziato l’individuazione dello Stato come il pilastro
dell’accumulazione originaria del capitalismo; adesso, per
riconfigurarne il ruolo secondo il pensiero di Officina dobbiamo
ripartire nuovamente da Lenin e dalla sua teoria sulla «trasformazione
del capitalismo monopolistico in capitalismo monopolistico di Stato», la
cui oppressione delle classe lavoratrici «acquista dimensioni sempre più
mostruose»[18]
e il cui operato organizzativo-militare risultava sempre più
indispensabile alla sopravvivenza del capitale.
In Officina
la grande guerra è considerata come il momento storico che sancisce
definitivamente la fine dell’epoca dello Stato “liberale”, risultato
efficace nella costruzione di apparati polizieschi e nell’attuarsi della
colonizzazione, ma al tempo stesso inadeguato a rispondere ad ulteriori
esigenze: tra queste segnaliamo la spinta crescente di un proletariato
sempre più numeroso, una società sempre più complessa da gestire e
soprattutto l’articolazione di una borghesia sempre più forte ma
incapace di consolidare i propri interessi come classe collettiva.
La grande guerra fu
un evento importante per il capitale: la produzione nei paesi
belligeranti fu interamente riorganizzata e condotta a pieno ritmo,
avendo lo Stato come acquirente sicuro[19]:
la guerra
diviene
totale nel senso che impegna e finalizza l’intera economia e tutta
quanta la società civile. Le nazioni diventano degli enormi produttori,
la produzione sociale si combina e si integra al massimo grado;
l’individuo produttivo sociale previsto da Marx diviene finalmente
concreto; ed alla guida di questo processo, cuore e cervello del
processo stesso, si pone lo stato[20].
Inizia qui il
processo di totalizzazione del rapporto di capitale, la cui prima
fase possiamo ritenerla chiusa con la crisi del 1929.
La seconda fase vide
generarsi vari modelli organizzativi dello Stato volti al superamento
della crisi quelli più interessanti ed estremi furono il new deal
e il nazismo, tra i quali si posero gli altri paesi capitalistici
su livelli intermedi.
Sorvoliamo sulla
considerazione di Officina sull’urss
che, in questa seconda fase, è considerata ugualmente aderente ai
processi di riorganizzazione statale nei processi di totalizzazione
con la specificità di elementi prettamente socialisti: il discorso
andrebbe qui ad allargarsi a macchia d’olio e ci distoglierebbe
eccessivamente dall’indirizzare la nostra ricerca su un ambito
specifico.
Ci focalizziamo qui
sul capitalismo americano e sulla sua figura chiave in quel frangente:
John M. Keynes, secondo il quale bisognava porre sotto la guida dello
Stato l’organizzazione dell’ampliamento della circolazione del capitale
e anche buona parte della sua realizzazione, mediante grandi
investimenti, ad esempio, nelle opere pubbliche; la successiva
distribuzione dei salari avrebbe così rimesso in moto l’economia.
Dall’applicazione di questo modello si deduce che lo Stato ha, o ambisce
ad avere, la potenza di «poter assumere in proprio la gestione
produttiva di quantità di capitali che nessun capitalista privato
avrebbe mai potuto concepire», nonché di «poter assoggettare al lavoro
per la valorizzazione del capitale milioni e milioni di uomini spinti
fuori dai circuiti produttivi»[21].
Questa capacità nel
secondo conflitto mondiale, quale terzo momento del processo di
totalizzazione, viene notevolmente estesa e portata ad una maggiore
profondità: il caso del nazismo ne è l’esempio più interessante:
solitamente si bolla questo regime come una follia, frutto di delirio e
irrazionalità; esso fu invece figlio legittimo anche se non riconosciuto
del capitalismo, sua propria applicazione particolare in un contesto «di
una guerra generale, con occupazioni territoriali prolungate, e che ha
il fine di realizzare in un breve lasso di tempo un impero poggiante su
due pilastri: un’industria d’avanguardia in madrepatria e un’agricoltura
intensiva nelle zone dominate»[22].
Per questo, ciò che spesso è rappresentato come “un passo indietro”
dell’umanità è invece una proiezione verso il futuro, o meglio
verso uno dei possibili futuri che riserva lo sfruttamento capitalistico
in una delle sue eventuali concretizzazioni.
La quarta fase del
processo che stiamo analizzando si prolunga nel secondo dopoguerra fino
al 1971 e trova i suoi momenti costitutivi nella ricostruzione
postbellica e nell’innesco più determinato del processo di
mondializzazione del capitalismo quale sistema economico e sociale che
va estendendosi all’intero pianeta. Arriviamo così all’ultimo stadio,
quello in cui è apparentemente più difficile credere in un ruolo forte
dello Stato per via di due elementi: il crescente potere delle
multinazionali e degli organismi sovranazionali e le continue
privatizzazioni con le quali esso sta progressivamente cedendo
importanti settori dell’economia storicamente “pubblici”: con queste
motivazioni, i governi nazionali sono spesso raffigurati come «relitti
galleggianti nei flussi agitati dalle forze economiche globali»[23].
Ciononostante,
secondo Officina, la fisionomia del capitale nella fase della
totalizzazione è ancora quella nazionale e l’intervento dello Stato,
oltre a non scomparire del tutto dal punto di vista quantitativo, va
incrementandosi qualitativamente: esso «è l’unico che può ancora
garantire […] il funzionamento, la riproduzione e il controllo
dell’individuo produttivo sociale» mentre «nessun capitalista, nessun
singolo spezzone di capitale, per quanto forte, grande e influente, può
assumere questo ruolo»[24].
Dunque, lo Stato rimane il pilastro degli interessi del capitalista
collettivo, capace di interagire con l’intera società e
interpretando questo ruolo come controllore, regolatore ed ispiratore
delle operazioni dell’Individuo Produttivo Sociale, incoraggiando
particolari settori dell’economia anche con investimenti diretti,
rendendo possibili aumenti sempre maggiori della produttività e
scardinando le possibilità di autodifesa della forza lavoro. In pratica,
l’obiettivo dello Stato non è più, come negli anni del new deal,
la gestione immediata di ampi spezzoni della produzione, bensì
quello di essere l’apice direzionale della società, il garante
del funzionamento generale dell’ips;
a questa tendenza centripeta che fa dello Stato il timoniere
sociale ed economico, corrisponde anche una forza centrifuga
che invece diffonde orizzontalmente la gestione di una produzione che è
sempre più segmentata: «in questo momento la totalizzazione forma ed
amplia una propria entusiastica base sociale, quella piccola borghesia
gestionale che è così ben visibile nel pubblico impiego, ma che non
manca neppure nelle aziende private»[25].
Tale borghesia non rientra nella definizione di “aristocrazia operaia”
perché quasi del tutto estranea ai meccanismi produttivi e rivolta solo
alle funzioni di controllo e sorveglianza.
Possiamo fornire un
esempio concreto di questa gestione bidirezionale del capitale
rifacendoci ai recenti sviluppi della politica economica in Italia. Qui
la fiat, con i referendum
promossi a Pomigliano prima e a Mirafiori poi, ancora una volta ha
giocato il ruolo di ariete per l’introduzione della possibilità
di accordi specifici a livello aziendale che deroghino dallo Statuto dei
Lavoratori, confermandosi così avanguardia della borghesia
imprenditoriale italiana. A quel punto il Governo ha tracciato la
nuova rotta generale: nella Manovra Finanziaria 2011 è comparso l’Art. 8
che, di fatto, svuota lo Statuto dei Lavoratori della sua efficacia
avallando «contratti collettivi sottoscritti a livello aziendale o
territoriale da associazione dei lavoratori comparativamente più
rappresentative sul piano nazionale o territoriale»[26].
È chiara in questo
esempio la centralità del ruolo dello Stato: la
fiat, importante
rappresentante del capitalismo italiano, pur avendo il “merito” di aver
creato il precedente, non sarebbe mai riuscita a penetrare la
società, il mondo del lavoro e delle contrattazione con la stessa
portata di intensità ed estensione che può avere lo Stato. La sua
funzione non corrisponde più alla gestione diretta della maggior
parte della produzione: esso ne deve invece tracciare la rotta,
spianarle la strada, controllarne i processi, correggerne gli errori.
La tesi di
Officina, dunque, segna un utilizzo continuo e al tempo stesso
sempre diverso dello Stato da parte del rapporto di capitale:
inizialmente esso, dominato dai suoi impulsi della libera concorrenza,
se n’è servito come un bastone nodoso che, con le sue sporgenze
del colonialismo, dei tributi, del debito pubblico e del protezionismo
ha seminato distruzione e accumulazione originaria; coi monopoli esso è
diventato una lancia con cui forzare sempre nuovi territori fino a
compiere la spartizione del mondo; si è ulteriormente mutato in pistoni
e fucili che hanno organizzato una produzione sempre più combinata e
conflitti mondiali tra le popolazioni; già in queste fasi, però, il
capitale ancora vi lavorava giorno e notte come uno scultore modella in
continuazione la sua opera più pregiata, trasformandolo nella sua forma
generale contemporanea: la bacchetta del direttore d’orchestra che
gestisce i movimenti dell’Individuo Produttivo Sociale.
NOVEMBRE 2012
[1]
Il presente articolo è in larga parte tratto dalla tesi in Filosofia
politica intitolata L’officina
delle migrazioni, movimenti migratori e sviluppo capitalistico.
In particolare si tratta del primo paragrafo del
iv capitolo, che
analizza la “fase di totalizzazione del rapporto di capitale”,
come recita il titolo dell’articolo [N.d.R.].
[2]
Il rapporto totale di capitale, in Officina n. 6,
gennaio 1990, p. 3.
[3]
Ibidem, p. 4.
[4]
K. Marx, Il Capitale, Newton, Roma 1996, p. 372.
[5]
L. Pradella, L’attualità del Capitale, Il Poligrafo,
Padova 2010, p. 66.
[6]
Ibidem
[7]
Tornando a Marx per riprogettare il futuro, in
Officina n. 6, gennaio 1990, p. 3.
[8]
Ibidem, pag. 4.
[9]
CENSIS, 44°
Rapporto sulla
situazione sociale del paese,
Franco Angeli, Milano 2010.
[10]
Ibidem, p. 5.
[11]
K. Marx, Lavoro salariato e capitale, Edizioni Lotta
Comunista, Milano 2009, pp. 61, 62.
[12] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, quaderno VI, pp. 33-39, in:
http://www.sitocomunista.it/marxismo/Marx/grundrisse/Marx_Karl_-_Grundrisse_3c_-_Il_Capitale.pdf
[13]
Tornando a Marx per riprogettare il futuro, in
Officina n. 6, gennaio 1990, p. 7.
[14]
La crisi economica
nell’epoca del rapporto totale di capitale, in
Officina n. 9, marzo
1993, p. 12.
[15]
Marx, Lineamenti fondamentali della …, cit., p. 38.
[16]
Due o tre cosette da ripensare insieme, in Officina
n. 9, marzo 1993, p. 2.
[17]
Vedi nota 1, [N.d.R.].
[18]
V. Lenin, Stato e Rivoluzione, Editori Riuniti, Roma
1970, p. 55.
[19]
Tale questione è trattata nel Cap.
i della tesi
[N.d.R].
[20]
Lo stato imperialista nel
xx secolo, in
Officina n. 3, luglio–settembre 1988, p. 6.
[21]
Ibidem, p. 25.
[22]
Il vero imputato è il capitalismo, in Officina n.
0, giugno 1987, p. 17.
[23]
J. Brecher, T. Costello, Contro il capitale globale –
Strategie di resistenza, Feltrinelli, Milano 2001, p. 29.
[24]
Una presentazione necessaria (di Bukharin e di noi stessi),
in Officina n. 3, giugno 1988, p. 11.
[25]
Il rapporto totale di capitale, in Officina n. 6,
gennaio 1990, pag. 8.
[26]
D.L. 138/2011,
art. 8, comma 1, in:
http://datastorage02.maggioli.it/data/docs/moduli.maggioli.it/138_coordinato.pdf