SE LA DEMOCRAZIA È QUELLA
AMERICANA
Redazione
Quel che è importante rilevare è che la democrazia non determina ad Atene un «governo popolare»,
ma una guida del «regime popolare» da parte di quella
non piccola porzione dei «ricchi» e dei «signori» che accettano il
sistema.
(Luciano Canfora,
La democrazia. Storia di
un’ideologia. Laterza, 2010, pag. 42).
Da più di 2000 anni lo spettro della
democrazia si aggira per l’Europa, eppure non è dato vederne, ancora
oggi, il corpo. In suo nome si sono fatte rivoluzioni e guerre, ma il
più evoluto risultato di questi millenni di storia, il più evoluto in
quanto ultimo in ordine temporale, è una macchina celibe[1] che sta ottenendo il
risultato storico di alienare completamente il corpo elettorale dalla
partecipazione politica, fosse anche solo la partecipazione richiesta
per recarsi materialmente a votare. Tutto il palinsesto politico che
quotidianamente, senza tregua, irrompe nell’esistenza delle persone, non
vale più neanche una croce grafitica, per circa metà della popolazione
italiana, tanto per restare ai fatti di casa.
Vale la pena dannarsi l’anima per una
democrazia che produce e permette tutto ciò che abbiamo davanti agli
occhi? Democrazia, questo termine antico, possiede un significato capace
di travalicare l’idea che ognuno si fa di essa? Parrebbe proprio di no,
per questo si insinua l’ipotesi che, come Canfora suggerisce, in fondo
si tratti semplicemente di un’ideologia, forse una delle più antiche.
Un’idea negata in ragione diretta della sua vetustà. Se però si prova a
guardare oltre questo velo ideologico la democrazia appare come uno
strumento per la creazione del consenso attorno a questo o quel gruppo
dirigente, un’arma politica per ceti abbienti contro altri ceti
abbienti, in cui il resto della società è solo incidentalmente strumento
di consenso. Questo permette di inquadrare meglio anche il rapporto tra
istituzioni democratiche e governo della società. Si tende infatti a
credere che la democrazia sia una forma di governo, ma più precisamente
dovrebbe dirsi che essa è uno strumento di governo, nel senso di un
arnese di cui il governo, predeterminato, della società si serve per la
propria funzione direttiva.
Per questo motivo M. Abensour, come già
visto in passato[2], sostiene che
l’espressione “Stato democratico” sia, in realtà, una contraddizione in
termini.
Mentre Luciano Canfora denomina questo
stato di cose “sistema misto”, ad indicare un meccanismo «in cui il
“popolo” si esprime ma chi conta sono i ceti possidenti: tradotto in
linguaggio più attuale, si tratta della vittoria di una oligarchia
dinamica incentrata sulle grandi ricchezze ma capace di costruire il
consenso e farsi legittimare elettoralmente tenendo sotto controllo i
meccanismi elettorali»[3].
Si tratta cioè di un sistema che in
altre occasioni abbiamo indicato con il termine di “monoclassismo
istituzionale”[4] a voler sottolineare
come, in democrazia, la detenzione e quindi la guida di tutte le
istituzioni statali sia saldamente in mano ad un’unica classe sociale.
Con ciò accade che in democrazia tutti
possano dire la loro fintanto che questa libera espressione non aspiri a
divenire governo e che la libertà d’espressione valga dunque a tutti gli
effetti solo su argomenti secondari, non strutturali. Ecco perché
l’opinione pubblica è così disarticolata, fin troppo ricca di posizioni
alternative, che, a ben vedere, altro non sono che false soluzioni,
tanto utili a costituire abachi di proposte sempre studiatamente
inessenziali. Si prenda ad esempio il problema della disaffezione della
cittadinanza nei riguardi della politica. Subito il sistema politico
cerca il nuovo viatico per recuperare la voglia popolare di sentirsi di
nuovo protagonista nella determinazione delle scelte politiche. La
democrazia del sistema misto cerca di rifarsi il
look attraverso le primarie,
questo strumento importato dagli Stati Uniti, per cercare di salvare ciò
che resta in piedi delle istituzioni democratiche attuali. Non è un caso
che in tempo di crisi dei partiti, sia proprio il partito più grande a
proporre questa soluzione per tutti. È solo perché la destra elettorale
italiana, dominata per due decenni dalla figura di Berlusconi, non si è
ancora emancipata dal suo padrone, che non abbiamo assistito anche alle
primarie del centro-destra. Persino Grillo ha dovuto, col suo movimento,
fare qualcosa di simile alle primarie, per poter selezionare i candidati
alle elezioni.
Ma cosa sono le primarie, se non un
ulteriore rafforzamento della legittimità politica della classe
dominante? Abbiamo assistito, con le primarie del centro sinistra, ad
uno spettacolo imbarazzante, dall’esito scontato (nonostante l’ego
renziano), ed in cui le sedicenti proposte “alternative”, erano ridotte
a slogan di un minuto e mezzo su una serie di questioni secondarie. A
parte il fatto che l’esito finale fotografa precisamente l’equilibrio
già in essere tra correnti di partito e tra partiti, equilibrio che
evidentemente si forma prima del voto (dato che ognuno porta a votare i
“suoi”) e che stabilisce la vittoria come il risultato delle capacità
organizzative e non della forza delle idee, ci chiediamo, quand’anche
così non fosse, come ci si possa aspettare che un tale livello infimo di
dibattito possa far formare un’opinione politica in grado di andare
oltre l’empatia personale con questo o quel candidato.
Ecco dunque che la democrazia morente
cerca, spettacolarizzandosi, di assicurarsi un’esistenza come
zombie di se stessa. Il
risultato è un sistema sempre più americanizzato in cui si incoraggia
una partecipazione “alla facebook”,
dove la scelta è ridotta a “mi piace-non mi piace” e in cui nessuna
funzione di partito diversa da quella elettoralistica è più richiesta,
rendendo superflua qualsiasi opinione politica sui fatti della realtà da
parte dell’elettorato. Questo produce un tipo di consenso totalmente
avulso dalla coscienza di un’appartenenza politica, suggellando il
dominio definitivo di un’unica ideologia (mai in discussione), pur
nell’apparenza di una mancanza di ideologismo nella politica attuale.
Ma c’è un altro dato preoccupante in
tutta questa storia ed è quello per cui nessuno sembra essersi accorto
di questa degenerazione del concetto di democrazia. Anche le forze
politiche che fino a qualche tempo fa erano critiche rispetto ai
baracconi americani come le primarie, oggi smaniano dalla voglia di
prendervi parte, anzi decantano le virtù di un simile spettacolo
concludendone l’assoluta necessità al fine di riportare in vita la
democrazia attraverso una più ampia “partecipazione popolare”. L’assenza
totale di una critica anche banale alla riduzione della democrazia a
spettacolo da fiction televisiva, dà la misura del livello di americanismo di cui
è ormai intrisa la cultura politica europea, da troppi decenni vittima
del proprio complesso di inferiorità rispetto agli Stati Uniti. E non
c’è neanche da sbalordirsi per il fatto che attualmente in Italia sia
proprio il centro-sinistra il più accanito tutore del sistema misto,
attraverso trovate come le primarie. Ai liberisti di destra infatti non
piacciono certe chincaglierie in salsa democraticista, essendo più che
altro votati al governo della società e digerendo a malincuore
l’esistenza del “popolo” come entità per lo meno elettorale oltre che
sociale. Il loro pragmatismo politico li porta a badare a questioni più
di sostanza ed aver ottenuto, già tempo fa e senza colpo ferire, il
passaggio dal proporzionale al maggioritario, significa aver determinato
la qualità fondamentale della democrazia in atto. Non solo Berlusconi
infatti ha mandato a monte le primarie del centro destra, ma lo stesso
Monti con la sua “salita alla politica” si offre ad essa in qualità di
leader portando in dote il suo nome, a che servono dunque le primarie,
soprattutto quando è così chiaro che non c’è nulla da fare? Monti dice
inoltre che non è tempo di vecchie distinzioni fra destra e sinistra ed
ha ragione nella misura in cui da tempo in campo è rimasta una sola
ideologia, mentre il centro sinistra, vorrebbe “ancora” essere
legittimato ideologicamente come partito legato ad un elettorato fondato
nel lavoro, ché altrimenti non avrebbe ragione di esistere come partito
separato dagli altri. Il più grande partito italiano è praticamente
l’unica forza parlamentare a non aver ancora sciolto del tutto il
proprio legame con un elettorato rappresentabile in parlamento solo a
costo del suo permanente tradimento politico. Per questo motivo la
borghesia italiana lascerà governare il centro-sinistra sempre e solo se
non troverà niente di meglio, nonostante il
pd abbia largamente dato
prova della propria “affidabilità” e la partita è aperta più che mai ora
che essa ha finalmente trovato, anche grazie al
pd, in Monti un esponente
all’altezza delle sue richieste, intorno al quale lavorare per poter
costruire una formazione politica in grado di ripetere i fasti della
vecchia dc. Bisogna
ricordarlo: in questo sistema democratico è la sinistra ad essere in
contraddizione, non il centro-destra, e qualora il
pd vincesse le elezioni ci riuscirebbe solo per la
contingente incapacità organizzativa altrui.
Bersani ama ripetere che il
pd non essendo costruito su
un nome, non è un partito personale. Ha ragione in questo e gli va dato
atto, ma ciò non toglie che laddove manca il padre-padrone supplisce la
burocrazia di partito e nell’uno o nell’altro caso gli elettori, e gli
eventuali militanti, non hanno potere nei confronti dell’autorità della
linea politica che discende dall’alto sempre bella e pronta per l’uso.
Questa linea può essere commentata ma non costruita e le primarie
servono solo a dare l’illusione che le cose non stiano proprio in questo
modo.
Nonostante la (giustificata) ritrosia
del centro-destra rispetto a quest’ulteriore inutile fardello
demagogico, è probabile che le primarie, e ciò che esse rappresentano,
diventino addirittura la democrazia del futuro in tutto l’occidente per
controbilanciare la noia mortale del maggioritario. Oltre a ciò non è
difficile immaginare fin d’ora una progressiva trasmutazione nel senso
dell’istantaneità esasperata di internet della formazione consensuale
intorno alle proposte di un sistema che è già perfettamente in grado di
spacciare se stesso per il suo contrario, in un vortice gattopardesco
dai ritmi elettronici, in cui la stessa idea di cambiamento perde
qualsiasi significato concreto di presa sulla realtà.
Ma, tornando al presente delle primarie,
c’è qualcosa di allucinante nel centro-sinistra italiano ed è la sua
resistenza nonostante tutto, l’accanimento del suo elettorato, quello
fedele, che continua a votare ad occhi bendati, solo come argine alle
destre (quelle esterne al partito s’intende) e mai con in mente un’idea
di un mondo diverso, anche se ci sarà sempre un pericolo da arginare. Un
fenomeno politico come quello di Renzi, d’altra parte, nasce e cresce in
seno al centro sinistra, non fuori e questo è un segno tangibile di cosa
sia diventata la sinistra parlamentare italiana, anche grazie al
sostegno che il suo elettorato non gli fa comunque mancare.
Alla stessa “antipolitica” grillina sta
in fondo bene che ci sia un leader del movimento, il quale è
proprietario del “marchio” 5 stelle. La politica è ormai un
brand, un prodotto d’autore e
questa deriva personalistica non accenna a diminuire, le primarie stesse
sono un ulteriore accelerazione in questo senso, nonostante il bel dire
bersaniano a riguardo dei personalismi. Da nessuna parte è possibile
scorgere una reazione composta a tale deriva, sembra che sia del tutto
inimmaginabile una politica senza un’autorità alla quale continuare ad
elemosinare concessioni. In questo costume così omologato delle forze
politiche in campo, al di là dei contenuti politici proposti, si
realizza, a nostro avviso, uno dei paradossi maggiori della situazione
attuale, ovvero il fatto che alla più forte diseguaglianza sociale degli
ultimi decenni corrisponda la più forte uguaglianza culturale. Ciò è
possibile dal momento in cui la realtà fattuale del mondo che viviamo è
letteralmente scomparsa dal fuoco dell’attenzione politica, dal momento
in cui l’astrazione dei mercati finanziari con la sua rappresentazione
spettacolare di indici e parametri numerici, di volta in volta nuovi e
indiscutibilmente fondamentali, si è sostituita alla coscienza della
miseria emozionale, oltre che economica, nella quale la nostra vita si
svolge. In questa allucinazione collettiva
sorge il dubbio, fondato, che nessuno voglia, in fondo, che le
cose funzionino diversamente da come in effetti funzionano, tanto ai
vertici quanto alla base dei movimenti e delle forze politiche.
È indubbio che per fare la democrazia ci
vogliono gli uomini, mentre è evidente che questi stiano scomparendo.
Veniamo così al nerbo della questione:
come è accaduto che a due millenni dalla nascita della democrazia, e
particolarmente negli ultimi due secoli, nonostante le rivoluzioni
socialiste, non si siano fatti passi in avanti rispetto al reale
protagonismo del popolo nella res
publica? Perché l’uomo comune non sente il bisogno di emanciparsi
dall’eterodirezione della propria esistenza e continua ad oscillare fra
indifferenza ed entusiasmo per le politiche che altri determinano? In
effetti sia l’uno che l’altro atteggiamento (indifferenza o entusiasmo)
è strettamente funzionale allo scopo della classe dominante. La domanda
principale è: perché il popolo non desidera, e non considera
l’eventualità di, sostituirsi in prima persona alla politica di
professione?
La risposta, molto probabilmente, tocca
questioni che attengono alla cultura, o meglio a quello che la cultura
di massa è diventata, in occidente, dopo più di mezzo secolo di egemonia
americana sul mondo.
È ancora Canfora che pone l’accento su
una certa interpretazione dei fatti storici. Egli sostiene che con le
due guerre mondiali, nel Novecento, l’Europa autodistruggendosi abbia,
in definitiva, sancito l’egemonia di un paese, gli Stati Uniti
d’America, che si è trovato a poter guidare l’immaginario del mondo in
ragione di una serie di devastazioni belliche che non lo hanno neanche
lambito lontanamente. Per Canfora l’egemonia dell’americanismo non è
dunque figlia della supposta superiorità culturale del modello
americano, ma, al contrario, conseguenza della folle autoesclusione
europea dalla scena globale delle culture che avrebbero potuto porsi
come modello di civiltà. E dato che nulla accade senza conseguenze di
lungo periodo, oggi subiamo ciò che l’americanismo rappresenta in ultima
istanza, ovverosia un modello sociale imperniato sul “culto della
ricchezza”[5].
Cos’è però il “culto della ricchezza” di
cui ci parla Canfora? È quell’espediente subliminare con il quale viene
plasmato il “gusto” della civiltà. Non la propaganda esplicita, e
neanche, aggiungiamo noi, la pubblicità in sé e per sé, ma proprio tutto
il resto, si potrebbe dire la pedagogia della merce che sin
dall’infanzia si preoccupa di trasmettere, attraverso ogni mezzo, valori
(quelli sbagliati) ai singoli individui, producendo, con un sistema
industriale, la soggettività di massa che in seguito desidererà essere
al mondo come simulacro dei possidenti. In base a questo espediente le
masse escluse non giungono naturalmente a contemplare la distruzione del
mondo che li emargina, ma sognano all’infinito, e con tutta la loro
forza, di poterne far parte. Esse non valutano l’ingiustizia
dell’ineguaglianza e dell’esclusione, ma si adoperano instancabilmente a
simulare la propria appartenenza al mondo che li sfrutta. Per questo non
desiderano porlo in discussione, ma al contrario bramano una posizione,
anche infima, che li faccia sentire parte del tutto, odiando
visceralmente chi gli possa ricordare la realtà della propria condizione
sia sul piano esistenziale, sia su quello politico. Essere dei
contestatori del sistema, infatti, implica il riconoscimento della
propria collocazione nel sistema, e si sa che a volte la verità è troppo
più dura dell’illusione.
Ora basti pensare non solo alla
pubblicità, ma a tutto l’apparato iconografico della cultura di massa
capitalistica, che agisce giorno per giorno, ora per ora,
sull’immaginario collettivo, plasmando non l’intelletto, ma direttamente
le pulsioni desideranti (l’inconscio) di miliardi di soggetti su tutto
il globo a partire dalla loro infanzia.
Corollario del culto della ricchezza è
la smania di consumare e Canfora sostiene che sia stato questo a
determinare il crollo delle “democrazie popolari” del cosiddetto
socialismo reale, tanto per inquadrare il piano sul quale oggi si
determinano i fatti storici.
Ma facendo un passo indietro, mentre
l’Europa era alle prese con la ricostruzione postbellica, il paese
venuto dal nulla, lavorava alla più proficua (da un punto di vista
ideologico) industria capitalistica, quella dello spettacolo, basata sul
potere ipnotico delle immagini in movimento, che per quanto difficile da
ammettere, costituiscono un’irresistibile attrattiva per l’essere umano
dalla più tenera età alla vecchiaia. Chi non subisce, ad esempio, il
fascino del cinema? Tutti i grandi intellettuali, di qualsiasi
estrazione politica, hanno sempre analizzato e riconosciuto con forza il
potere persuasivo dell’estetica dell’immagine. Il movimento delle
immagini amplifica all’inverosimile tale potere ipnotico. Non c’è
bisogno di dire esplicitamente “dovete desiderare di essere come i
ricchi”, basta rappresentare l’esistenza dei ricchi affinché,
inconsciamente, scatti il meccanismo di emulazione nei consumatori di
immagini industriali. Perché, ad esempio, i ragazzini negli anni
settanta giocavano a cowboy e
indiani? La pubblicità è solo il più esplicito dei casi, ma il fatto è
che nella società delle merci, tutto è una proposta commerciale, dal
cinema alla fiction, a ciò che non si sospetta lontanamente. Si
potrebbe fare uno studio a parte sul contenuto recondito della
produzione cinematografica, televisiva, fumettistica, grafica, e via
dicendo, dell’ultimo mezzo secolo, e lo stesso potrebbe farsi, ad
esempio, sui giocattoli prodotti industrialmente, per capire fino a che
punto l’americanismo possa essere letto come un programma di
colonizzazione culturale probabilmente senza precedenti nella storia
dell’umanità. E nel momento in cui l’Europa stessa è divenuta
produttrice di spettacolo, per riempire i palinsesti creati
dall’irruzione della TV quale elettrodomestico principale delle famiglie
del primo mondo, non ha risposto, se non marginalmente, con l’opporre,
sul piano culturale, ai modelli americani una diversa pedagogia dello
spettacolo, ma ponendosi quale concorrente commerciale della produzione
americana, con la stessa solfa del culto della ricchezza magari in salsa
europea.
In questa mastodontica opera di
educazione del gusto, la stessa evoluzione tecnologica rappresentata
oggi da internet, anche aprendo indubbiamente altre possibilità, rimane
imperniata sul potere dell’estetica e sulla comunicazione per immagini,
al limite come promozione di se stessi. Facebook ne è l’emblema.
L’americanismo è dunque sul piano dei
contenuti il culto della ricchezza e sul piano degli strumenti una
produzione industriale di merce materiale e immateriale caratterizzata
da una doppia natura, funzionale e simbolica, in cui è in definitiva la
dimensione simbolica ad assurgere alla funzione più alta di produzione
della soggettività di massa. Si pensi ad un’automobile. Si tratta di un
macro oggetto che svolge una funzione specifica, ma che solo in ragione
della propria carica simbolica giustifica la scelta di una marca
rispetto ad un’altra. E la maggioranza delle persone ritiene la scelta
dell’automobile un fattore essenziale per l’espressione della propria
personalità. Questo modo di identificazione personale non è limitato
solo alle automobili, ovviamente, oltre ad avere conseguenze
pesantissime sull’ecosistema.
Ma che c’entra tutto questo con il
problema della democrazia? C’entra nella misura in cui il culto della
ricchezza, ovvero l’imperativo all’emulazione di stili di vita, è, a ben
vedere, il culto della diseguaglianza sociale, vale a dire la necessità
culturale della povertà. Senza povertà infatti non potrebbe darsi
ricchezza. Ma sul piano sociale la diseguaglianza è il culto del
signore, del capo, del leader, del personalismo. La diseguaglianza
implica la struttura ad albero della società.
Per questo motivo l’idea di una
democrazia come istituzione di eguaglianza[6], rappresenta un
paradigma alternativo di produzione di soggettività che la cultura
occidentale americanizzata ormai rifiuta culturalmente.
È la condizione culturale attuale che
esclude la possibilità di concepire il termine democrazia come portatore
di una società fondata sull’eguaglianza di tutti gli uomini. In questa
condizione storica l’istituzione della democrazia può trovare solo forme
caricaturali del suo significato potenziale e di conseguenza
manifestarsi solamente in modalità degenerative, con enormi costi
sociali e addirittura eco-sistemici.
Ora se questa è la democrazia oggi
praticabile, vale a dire la dittatura della maggioranza selezionata con
il voto della cittadinanza, ma come opzione limitata ad un’offerta
attentamente controllata dall’alto, è decisamente e finalmente il caso
di essere contrari ad essa e alle mistificazioni colossali che produce.
Si capisce che il fatto essenziale non è il voto, concesso a “tutti”, ma
la selezione, per altre vie, dell’offerta politica praticabile.
Per inciso andrebbe specificato che la
democrazia non è monca solo perché già strutturata come sistema
maggioritario, il quale magari rende più trasparenti gli autentici
giochi di potere che vi stanno dietro, ma sarebbe altrettanto, se non
più, mistificatoria in una forma proporzionale, dal momento che non
potrebbe comunque essere più di una pura rappresentazione dei conflitti
sociali.
Tuttavia la storia della civiltà è
sempre più generosa di quanto sembrerebbe e se la democrazia nasce già
come forma solo rappresentativa di inclusione sociale, è anche vero che
essa ha mostrato meccanismi embrionali, rimasti sempre minoritari, che
se adeguatamente potenziati potrebbero probabilmente implicare grosse
trasformazioni nel governo della società.
Ci sono, crediamo, due principi
importanti che l’analisi critica delle forme istituzionali prodotte
dalla storia della democrazia può suggerire come base di considerazioni
utili attorno alle forme democratiche. Il primo è quello della
territorializzazione del sistema democratico, oggi messo fortemente in
discussione, il secondo quello che potrebbe essere pensato come un
diverso meccanismo di regolazione dei governi.
Quando, ad esempio in Attica, con la
riforma di Clistene il territorio venne diviso in 100 demi (oggi diremmo
comuni o municipi) e le forme istituzionali democratiche replicate in
piccolo, al fine di permettere una partecipazione maggiormente diffusa
sul territorio, si compì uno sforzo di concretizzazione delle istanze
teoriche circa le forme di buon governo. Questo passaggio, apre, di per
sé, tutto un discorso sui limiti di una visione rigidamente accentrata
delle istituzioni democratiche e sulla maggiore praticabilità di una
visione federalista e territorialistica, ponendo però anche una
contraddizione riassumibile nei seguenti termini: una volta creato il
dualismo fra centro e periferia è necessario capire quale dei due poli
finisce per essere determinante. In effetti nei casi conosciuti, e a
maggior ragione oggi con la spinta sempre più forte
all’iper-centralizzazione istituzionale, è sempre stato il centro del
sistema, per forza di cose de-territorializzato, a dettare legge sulla
sua periferia, ma, in astratto, ciò non è necessariamente lo schema
ideale. Pensiamo invece che solo le istanze territoriali, possano
conoscere approfonditamente le necessità delle comunità e dei territori
che amministrano e che perciò il locale ha bisogno di essere elevato a
rango fondamentale nell’equilibrio amministrativo e di governo. Il
centro, pur necessario, dovrebbe identificarsi come sovrastruttura delle
istanze territoriali. L’obiezione classica, da parte delle visioni
centralistiche, in merito alla necessità di un controllo distaccato, e
perciò di ordine superiore, alle pressioni locali sulle istituzioni
democratiche, per quanto fondata, pone un problema che va risolto in
altro modo rispetto alla tendenza al “commissariamento”.
Anche per questo motivo sembra
necessario immaginare un diverso regime di regolazione del sistema,
ponendo in una prospettiva critica l’indiscussa superiorità accordata
assiomaticamente all’istituto della votazione. Proviamo dunque ad
esaminare, anche solo per esercizio speculativo, l’istituto del
sorteggio o, in altri termini, ciò che classicamente viene indicato con
il nome di “demarchia”.
L’interesse critico, verso questo tipo
di strumento ci sembra motivato dalla necessità di rompere la
strutturazione ad albero della società, non impedendo necessariamente la
formazione di gerarchie logiche di organizzazione, ma evitando che la
gerarchia si personalizzi e si strutturi socialmente in modo definitivo.
Con un simile espediente, quello della selezione casuale, tutti i
componenti della società sono formalmente sullo stesso piano e
potenzialmente chiamati a cariche amministrative e di responsabilità di
ordine locale e sovra-locale. Questo implica, a sua volta, la necessità
di elevare la cultura politica media dell’intera società anche
attraverso l’esercizio concreto di mansioni pubbliche, evitando, tramite
l’imprevedibilità del caso, il cristallizzarsi di equilibri di potere
attorno alle istituzioni politiche. Da un altro punto di vista il
dispositivo potrebbe concorrere a spezzare il privilegio assegnato
attualmente alla specializzazione settoriale delle discipline, evitando
che la politica, o il governo, possa essere espressione esclusiva di
particolari formazioni culturali a discapito di altre. L’impossibilità
di permanere in un ruolo specifico destruttura l’aspettativa
carrieristica (e il tipo di formazione che essa richiede) la quale,
attualmente, priva di senso il meccanismo della rappresentanza,
separando socialmente chi è preparato politicamente dagli interessi che
dovrebbe rappresentare. In questo modo la funzione politica verrebbe
ricondotta a ciò che essa dovrebbe essere e cioè un onere sociale e non
un privilegio parassitario. In più sarebbe relativizzato il problema
della selezione (falsamente) meritocratica, trasformando la questione
del merito, in un compito, sociale e non individuale, realmente
necessario al funzionamento delle istituzioni pubbliche, con questo
rivitalizzando ed elevando al massimo livello il ruolo pedagogico delle
istituzioni formative e culturali dello Stato. Questo, in particolare,
sembra il punto di maggiore forza nel ragionamento, ovvero concepire uno
strumento di governo della società che ricerchi nella cultura generale
di tutta la popolazione il proprio valore principale, con questo non
potendo più tollerare l’abbrutimento umano che l’americanismo
rappresenta per tutti coloro, la maggioranza, che sono condannati a
scelte politiche, e di vita, preconfezionate.
Dal momento che tutti dovrebbero essere
in grado di contribuire al bene pubblico e non solo alcune caste e
classi, verrebbe conseguentemente meno anche un altro parametro
fondamentale della diseguaglianza sociale, ovvero il differenziale
economico, comunque ingiustificato anche attualmente, esistente fra le
mansioni dirigenziali e quelle sottoposte, nei processi amministrativi e
produttivi.
Insomma si tratta di analizzare quegli
strumenti, sorteggio o quali che siano, in grado di dare un colpo pesante
alla politica del voto di scambio e dei favori, politica che non chiede
una società di soggetti liberi ma piuttosto un “mercato elettorale”. Se
non è sicuramente detto che i problemi inerenti alla democrazia siano
superabili con espedienti puramente “tecnici” è pur vero che la
possibilità di realizzare, quanto meno, una distribuzione meno iniqua
delle opportunità di espressione dell’individuo nel proprio contesto
socio-politico è comunque un obiettivo notevole, obiettivo a partire dal
quale si potrebbe forse anche sperare che altri tipi di culture possano
emergere ed esprimere più compiutamente visioni meno omologanti del
mondo.
All’istituto della votazione resterebbe
la funzione più delicata di controllo sociale sul governo, a mezzo
dell’istituzione della revocabilità immediata di cariche ad ogni livello
in caso di scelte ritenute dannose per il pubblico interesse.
Siamo convinti che questo tipo di
funzionamento generalizzato della macchina pubblica, potrebbe oltre che
eliminare molte diseguaglianze, anche rendere più efficiente il governo
della società, superando la contraddizione esistente fra la discussione
democratica delle mozioni di volta in volta in campo e la necessità di
attuare le decisioni necessarie.
Il potere legislativo stesso sarebbe
affidato ad un’assemblea formata a sua volta a sorteggio con funzioni
anche di controllo sull’attività di governo e sarebbero necessarie molte
meno leggi di oggi. La stessa amministrazione della giustizia potrebbe
essere concepita sul modello della giuria popolare formata a sorteggio e
che esprime verdetti a maggioranza in base a votazione. Questo per dire
che la votazione non sarebbe completamente esautorata ma ristrutturata
quale funzione utile non a dare il potere ma piuttosto a toglierlo, ove
necessario.
Probabilmente molti dei limiti politici
attuali verrebbero superati, forse non tutti, e altri se ne creerebbero,
tuttavia una società che non sperimenta nuove regole di associazione si
sclerotizza in forme sempre più vuote di senso e socialmente perniciose.
Resta infine da dire, che al di là delle
soluzioni “tecniche”, nessuna eguaglianza sociale è possibile senza
mettere in discussione, lasciandole inalterate, le grandi concentrazioni
di capitale. Non è possibile, in altri termini, immaginare un qualsiasi
sistema di governo egualitario della società in cui persistano
diseguaglianze economiche fra i componenti della società stessa.
L’esercizio libero della propria facoltà di espressione politica infatti
implica, a tutti i livelli, un diritto all’esistenza che non può in
nessun modo essere subordinato a persone diverse da chi esercita tale
facoltà. Detto sinteticamente: la precondizione dell’eguaglianza sociale
e politica è e resta la proprietà pubblica di tutte le realtà produttive
e finanziarie, piccole e grandi.
DICEMBRE 2012
[1]
Per essere celibe una macchina deve essere inutile,
incomprensibile, infeconda e delirante; deve sembrarci un
dispositivo bizzarro - e a volte lugubre - che adotta figure
meccaniche per simulare effetti automatici e che consuma molto
più di quel che rende. La macchina celibe è inverosimile, ma
possiede una struttura fondata su una logica persuasiva e
stringente, meccanismo infecondo e tuttavia logicamente
funzionale.
Antonio Castronuovo, Macchine
fantastiche, manuale di stramberie e astuzie elettromeccaniche,
Stampa alternativa, Viterbo 2007, pag. 162.
[2]
Alessandro D’Aloia,
Politica e rappresentazione. Città Future n. 03.
[3]
Luciano Canfora, La
democrazia. Storia di un’ideologia. Laterza, Bari 2010, pag.331
[4]
Vedi Alessandro D’Aloia,
Fascismi in evoluzione. Il monoclassismo istituzionale in Italia.
Città Future n. 00
[5]
Per inciso diciamo che questo discorso va indagato alla luce di
una fondamentale chiave di comprensione della realtà attuale,
rappresentata dalla categoria gramsciana di “americanismo”,
anche se al di là di ciò che Gramsci indicava strettamente con
il termine.
[6] «La democrazia (che è tutt’altra cosa dal sistema misto) è infatti un prodotto instabile: è il prevalere (temporaneo) dei non possidenti nel corso di un inesauribile conflitto per l’eguaglianza, nozione che a sua volta si dilata storicamente ed include sempre nuovi, e sempre più contrastati, “diritti”». Canfora, cit., pag.332.