FASCISMI IN EVOLUZIONE.
Il monoclassismo istituzionale
in Italia
Alessandro D’Aloia
1. Termini classici.
«Tutto scorre, non si può tornare due volte nello stesso
fiume»
(Eraclito).
Sono passati più di 60 anni dalla fine della seconda guerra
mondiale. L’idea del fascismo che abbiamo è datata. I significati delle
parole si evolvono, cambiano con il passare del tempo, come i concetti
che si hanno dei fenomeni. Oggi il senso di una parola come «regime»
potrebbe essere diverso da quello consolidato. A sinistra in molti si
sono posti il problema di comprendere questo mutamento di senso, a
partire dalla constatazione che la «democrazia» in cui viviamo non è poi
così democratica.
[1]
Vana risulta essere la ricerca di definizioni che possano
efficacemente descrivere quello che è possibile osservare nella nostra
quotidianità. Si riportano di seguito le definizioni di: regime,
dittatura, totalitarismo.
«Regime: sistema politico, forma di governo,
organizzazione statuale; sistema di governo autoritario, dittatoriale;
per antonomasia il regime fascista in Italia».
«Dittatura: regime politico in cui tutti i poteri sono
concentrati in un solo organo, individuale o collegiale che li esercita
al di fuori di ogni controllo: la dittatura fascista».
«Totalitarismo: sistema, regime politico in cui il
potere viene concentrato nelle mani di un gruppo dominante, che assume
il controllo di tutti gli aspetti della vita dello stato imponendo la
propria esclusiva ideologia».
(dizionario interattivo Garzanti)
È semplice notare come nelle due accezioni riportate della
parola «regime», siano compresi significati
ben diversi fra loro. La stessa parola indica sia una «forma
statuale» in generale che il fascismo, ovvero una forma statuale
determinata storicamente. Mentre la prima accezione è neutra, la seconda
è, in una repubblica parlamentare, negativa, almeno formalmente.
Nell’uno e nell’altro caso la definizione di regime non ci aiuta molto a
comprendere l’oggi.
La parola dittatura è più specifica, al di là degli altri
significati che essa può assumere (per Roma antica o nella visione
marxista), è chiaro almeno che si parla di dittatura quando la divisione
dei tre poteri dello stato viene meno e tutti sono concentrati in un
solo organo.
[2]
Un altro termine equivalente a dittatura è quello di
«monocrazia» ad indicare una forma di governo che assume tutti i poteri
in un unico organo.
Più sfumato e flessibile, quindi adattabile a situazioni non
apertamente dittatoriali in senso tradizionale, è il termine
«totalitarismo» in cui si parla di concentrazione più in
generale, di controllo di tutti gli aspetti della vita dello
stato e di imposizione di una mono-ideologia. Ma siamo ancora
abbastanza lontani dalla situazione attuale, nei termini in cui
l’imposizione di un pensiero unico è ottenuta con un apparente «consenso
popolare» universale.
Non è superfluo notare come sia l’accezione negativa di
regime che la definizione di «dittatura» facciano entrambe riferimento
all’esempio storico eccellente del fascismo.
Il fascismo, divenendo sinonimo di regime e dittatura finisce
per predominare sul significato di stato autoritario ma eventualmente
«non fascista». Da qui l’idea comune che un «regime» o assume i
caratteri totalitari conosciuti storicamente o non è «regime», idea che
circoscrive l’immagine negativa di una società non libera, almeno in
Italia, nella forma storica del fascismo, confinando appunto nel passato
il concetto di «antidemocrazia».
Se «regime» è il fascismo tale non può essere, ad esempio, la
«repubblica parlamentare democratica».
Il problema non sembra di semplice soluzione neanche nella
sua impostazione inversa. Si potrebbe pensare che basti definire il
senso della parola «democrazia» ed ottenere per esclusione ciò che
democratico non è, ma qui si apre un ulteriore, e se vogliamo, ancora
più fuorviante fronte di discussione dato che a dispetto delle
convinzioni diffuse, il concetto di democrazia non è assolutamente
univoco, soprattutto quando si dia per scontato che basti dividere tre
funzioni dello stato per ottenerla.
L’analisi del fascismo italiano (e per estensione dei
«fascismi» internazionali), nella sua forma storica concreta, è nella
versione fornita da Trotsky, completamente aderente alle caratteristiche
salienti di ciò che va comunemente sotto il nome di «regime fascista».
Vale la pena riportare di seguito un estratto dallo scritto «Democrazia
e fascismo», molto chiaro, anche se non esaustivo dell’argomento:
«Tra la democrazia
(parlamentare borghese) e il fascismo c’è una
contraddizione. Questa contraddizione non è affatto «assoluta» o, per
parlare in termini marxisti, non implica affatto la contrapposizione di
due classi irriducibili. Ma implica due diversi sistemi di dominazione
di una medesima classe. Questi due sistemi, il sistema parlamentare
democratico e il sistema fascista, si basano su diverse combinazioni
delle classi oppresse e sfruttate e cozzano inevitabilmente, e in forma
acuta, l’una contro l’altro.
La socialdemocrazia, che oggi è la principale rappresentante
del regime borghese parlamentare, si appoggia sugli operai. Il fascismo,
per parte sua, si appoggia sulla piccola borghesia […]. Per la
borghesia monopolistica il regime parlamentare e il regime
fascista non rappresentano che due diversi strumenti di dominio: ricorre
all’uno o all’altro, secondo le condizioni storiche. […]. Fascistizzare
lo Stato non significa solo mussolinizzare forme e metodi di direzione,
ma anzitutto e soprattutto distruggere le organizzazioni operaie,
ridurre il proletariato allo stato amorfo, creare un sistema di
organismi che penetrino profondamente nelle masse e siano destinati a
impedire la cristallizzazione indipendente del proletariato.. appunto in
ciò consiste l’essenza del regime fascista. […] . Ci sono momenti in cui
la borghesia si appoggia e sulla socialdemocrazia e sul fascismo, cioè
quando si serve simultaneamente della agenzia conciliatrice e
dell’agenzia terroristica[3].»
Come è possibile notare per Trotsky non basta comprendere
quale classe beneficia di un regime fascista, ma è necessario anche
definire la base sociale di un certo fenomeno politico. La
socialdemocrazia, quanto il fascismo, come organizzazioni politiche
dotate di propri apparati, sono dal punto di vista della borghesia due
sue agenzie di difesa, una a carattere conciliatorio,
l’altra a carattere terroristico. Questo schema è molto vicino,
ad esempio, alla visione di Gramsci quando parla di coercizione e
consenso come diverse tattiche che la borghesia utilizza
per mantenere il proprio dominio sociale.
L’essenza del fascismo è individuata, da Trotsky, nella
volontà cosciente di distruggere le organizzazioni operaie e ridurre il
proletariato perciò allo stato amorfo. Tornerò più avanti sull’altro
punto, gravido di implicazioni: creare un sistema di organismi che
penetrino profondamente nelle masse e siano destinati a impedire la
cristallizzazione indipendente del proletariato.
Importante è l’obiettivo essenziale del fascismo ovvero
quello di distruggere le organizzazioni operaie, cosa che non sempre è
possibile, in assoluto, attraverso metodi «legali», infatti:
«Far marciare l’esercito contro il popolo è spesso
impossibile: esso comincia a disgregarsi e alla fine si verifica il
passaggio di una grande parte dei soldati dalla parte del popolo. Per
questo il capitale è costretto a costituire bande armate particolari,
specialmente allenate contro gli operai, come certe razze di cani sono
allenate contro la selvaggina[4]»
Da cui l’immagine sintetica del fascismo come cane da guardia
del capitalismo[5].
Per Trotsky, però, il fascismo è il nome dato al regime di
Mussolini in Italia, da distinguere dai regimi autoritari sorti in altri
contesti nazionali. Nel fascismo però ci sono dei caratteri di classe e
degli obiettivi che costituiscono delle basi comuni dei diversi regimi
autoritari e che risultano perciò in certa misura generalizzabili. Per
questo motivo, sempre con riferimento a Trotsky, risulta più corretto
utilizzare il termine di «bonapartismo», per indicare il soggetto
politico «che appoggiandosi sulla lotta di due campi, con una
dittatura burocratico-militare «salva» la «nazione» (dalla
rivoluzione socialista)». Sebbene anche i bonapartismi abbiano
differenti caratteri, la loro essenza è rappresentata dal fatto di
essere «regimi che si reggono direttamente sul sostegno dell’apparato
militar-poliziesco piuttosto che regimi con una base di massa»
[6].
In questa definizione il bonapartismo è visto come sviluppo
concluso di un processo particolare in cui una forza sostanzialmente
statale-burocratica, riesce a mantenere temporaneamente il potere anche
galleggiando al di sopra delle classi che le hanno permesso di giungere
al potere. Il bonapartismo è una forma di potere astratta, staccata
dalle masse, e in definitiva «instabile». Nell’elaborazione trotskysta
il bonapartismo è un punto di arrivo di un processo vivo, in cui la fase
di ascesa è definita con il termine «termidoro», in analogia con gli
avvenimenti della grande rivoluzione francese. La fase termidoriana è
quella in cui si intravedono già chiaramente elementi politici
reazionari organizzati, che mirano al controllo della macchina statale e
guadagnano consenso sociale sfruttando l’antagonismo esistente fra le
diverse classi in lotta. Nella fase termidoriana il dato
principale è individuato nel fatto che il bonapartismo non è ancora
realizzato. La differenza qualitativa è di massimo interesse politico,
dato che scambiare l’ascesa di un regime totalitario con la sua
affermazione definitiva, significa abbandonare la lotta contro la
reazione prima che questa abbia realmente vinto.
Tutto questo ha un valore eccezionale nella comprensione
esatta del fascismo come evento storico determinato. Dato però che
l’essenza del fascismo è individuata nella distruzione delle
organizzazioni operaie, va da sé che in un contesto storico-politico,
come quello attuale, in cui tali organizzazioni laddove sopravvivono non
costituiscono una minaccia reale, risulta difficile immaginare un regime
che nasca con lo stesso intento, apertamente distruttivo e violento nei
confronti di un «apparato» operaio che di fatto già non esiste più o ha
comunque perso la sua influenza di massa. Un altro aspetto fondamentale
del bonapartismo è l’antagonismo di classe in vigore e chiaramente
polarizzato nella società attraverso lo scontro di organizzazioni di
classe attive ed operanti. A rigore dunque oggi non sarebbe corretto
parlare di fascismo, o di bonapartismo. Da questo punto di vista,
nell’ipotesi che un regime esista oggi, diventa necessario quanto meno
individuarne l’essenza attuale ed il fine concreto, in una situazione in
cui l’opposizione politica al capitalismo versa in una condizione di
debolezza nazionale ed internazionale, forse senza precedenti nella
storia del movimento operaio.
Di fronte al mutamento delle condizioni storiche ed alla
necessità di descrivere con concetti validi tale mutamento si hanno, in
generale, due possibilità: o si estende il significato della parola
originaria a ciò che non vi era compreso all’inizio, o si propone un
termine nuovo.
Siamo in una situazione in cui il significato originario
sembra restrittivo, mentre il linguaggio comune non ci ha ancora fornito
una parola adeguata a descrivere la realtà mutata della natura del
potere che osserviamo.
Se l’estensione di significato non è probabilmente il metodo
più corretto per cogliere appieno le modificazioni della realtà, perché
al di là dell’immediatezza dell’operazione semantica rischia di
confondere i nuovi significati con quelli storici, tuttavia è proprio in
questa direzione che si è proceduto, almeno nel paio di esempi che
voglio riportare, i quali sono al di là di questa scelta preziosi perché
forniscono altri elementi importanti nella comprensione del mutamento di
regime del «regime». Di passata è utile ricordare che ciò che è successo
al termine «fascista» trova un parallelo nel termine «mafia». È infatti
noto che ci siano diversi tipi di mafia localmente differenziate e con
nomi e tradizioni diverse, ma è chiaro ciò che il termine sta ad
indicare, tanto che è divenuto uso comune parlare di mafie, come
di fascismi. Questo parallelo fra i due termini non esaurisce,
per altro, le relazioni fra i due fenomeni che essi descrivono.
2. Le facce del fascismo
Nel libro «Col, sangue agli occhi, il «fascismo americano»
ed altri scritti»[7] dato alle
stampe una settimana prima che l’autore venisse assassinato in carcere,
G. L. Jackson nell’estendere il significato della parola «fascismo» ad
un sistema totalitario internazionale, con varie forme nazionali, nega
l’importanza e l’esistenza stessa di una compiuta ideologia fascista.
Essa è, per l’autore, flessibile al fine di adattarsi alle diverse
situazioni storiche e geografiche, quindi l’ideologia fascista è in sé
contraddittoria e non costituisce un punto valido di analisi per la
comprensione del fenomeno nella sua globalità.
«Ma c’è un fatto che mi spinge ad insistere tenacemente sulla
non-importanza dell’ideologia: poiché era lo sradicamento e la
disgregazione sociale di quel determinato periodo a far reagire la
maggior parte degli intellettuali fascisti, ogni volta che la situazione
cambiava aspetto, essi erano in larga misura costretti a ripudiare quasi
tutta la loro ideologia precedente».
(pag. 143)
«Ma c’è una ragione ultima per cui bisogna negare nel
fascismo l’importanza dell’ideologia: il fatto che il fascismo assume
più di una forma. Infatti ha dimostrato storicamente di possedere tre
diverse facce. La prima è quella di «non al potere», quando cerca di
essere più o meno rivoluzionario e sovversivo, anticapitalista e
antisocialista. La seconda è quella «al potere ma non saldamente»,
quando il fascismo assume quegli aspetti sensazionalistici che vediamo
al cinema o leggiamo nei romanzi da quattro soldi, e la classe dirigente
lo usa strumentalmente come un regime capace di sopprimere il partito
d’avanguardia e il movimento popolare e operaio. La terza faccia del
fascismo è quella «al potere saldamente». In questa fase può permettere
persino alcune forme di dissenso. […] Il prodotto finito, l’assetto
fascista vero e proprio, è diametralmente opposto alla sua ideologia
d’origine».
Come appare chiaramente le tre facce del fascismo di Jackson,
aggiungono una terza fase allo schema classico di termidoro e
bonapartismo, quella di al «potere saldamente». L’ultima fase,
quella post-fascista, coincide con la normale «democrazia
parlamentare» in cui la classe dominante borghese riprende in mano le
redini della situazione non attraverso artifici di qualche sorta ma
attraverso la «normale» vita istituzionale di uno stato «democratico»,
in cui sono tollerate tutte le forme di dissenso che non mettano
seriamente in discussione gli equilibri di potere. Per Jackson quindi la
fase post-bonapartista è, a tutti gli effetti, un’estensione del
fascismo, un suo perfezionamento.
Per ciò che concerne l’ideologia fascista, in effetti l’unica
sua costante, comune tra l’altro all’ideologia dominante della borghesia
«saldamente al potere», è il viscerale anticomunismo, tutto il resto
risponde ad un semplice criterio di flessibilità. L’ideologia fascista è
un coacervo di ideologismi spiccioli e primordiali pronti all’uso, da
montare all’occorrenza contro il nemico di turno da affiancare al nemico
di sempre. Quindi già nel fascismo originario l’ideologia è secondaria
anche se così non sembrerebbe.
A proposito del carattere sostanzialmente a-ideologico del
fascismo, può tornare utile anche un piccolo saggio di U. Eco dal titolo
«Il fascismo eterno» in «Cinque scritti morali»[8], per altri
versi fuorviante ma sicuramente efficace nel titolo e parzialmente
illuminante nel seguente passaggio: «[…] il fascismo non possedeva
alcuna quintessenza, e neppure una singola essenza. Il fascismo era un
totalitarismo fuzzy (sfumato). Il fascismo non era un’ideologia
monolitica, ma piuttosto un collage di diverse idee politiche e
filosofiche, un alveare di contraddizioni.».
Se con Trotsky l’analisi del fascismo si arresta, per forza
di causa maggiore, al secondo stadio con Jackson abbiamo quanto meno la
descrizione di ciò che è avvenuto in seguito alla II guerra mondiale,
nel mondo occidentale a «capitalismo avanzato».
Da un punto di vista economico il carattere del fascismo
Jacksoniano è individuato nella centralizzazione: «Comunque,
l’economia fascista è tutta incentrata sul tentativo di attuare dei
controlli mediante la centralizzazione: controllo monopolistico sul
capitale, blocco dei prezzi, congelamento dei salari, e un commercio
estero accuratamente equilibrato». (pag. 155)
«Tutti questi fatti possono essere considerati come
altrettante verifiche del tentativo di mettere in atto quei controlli
centralizzatori che caratterizzano l’assetto fascista classico»
(pag. 158)
«[…] l’intero mondo occidentale precipitò nella recessione e
in una profondissima depressione. Due nazioni non vennero coinvolte, se
non minimamente, in questo disastro generale:
Gramsci chiama questo stesso processo di centralizzazione con
il termine di «Rivoluzione passiva» di seguito così definita e applicata
nella fattispecie proprio al fascismo italiano: «si avrebbe una
rivoluzione passiva nel fatto che per l'intervento legislativo dello
Stato e attraverso l'organizzazione corporativa, nella struttura
economica del paese verrebbero introdotte modificazioni più o meno
profonde per accentuare l'elemento «piano di produzione», verrebbe
accentuata cioè la socializzazione e la cooperazione della produzione
senza per ciò toccare (o limitandosi solo a regolare e controllare)
l'appropriazione individuale e di gruppo del profitto. Nel quadro
concreto dei rapporti sociali italiani questa potrebbe essere l'unica
soluzione per sviluppare le forze produttive dell'industria sotto la
direzione delle classi dirigenti tradizionali, in concorrenza con le più
avanzate forme industriali di paesi che monopolizzano le materie prime
ed hanno accumulato capitali imponenti». (Q. 10, I, par. 9)
Tanto per Jackson quanto per Gramsci quindi il fascismo
classico è monopolistico e accentratore in economia, ad indicazione del
fatto che la pianificazione economica in sé non è elemento estraneo al
capitalismo e di conseguenza non sufficiente al socialismo, seppure
necessaria. Con il fascismo il capitale impara ad auto-regolamentarsi in
termini macroeconomici per sopravvivere, anche se ovviamente ciò non
basta. Questo non sarebbe possibile se il capitalismo non fosse già
giunto nella sua fase imperialista e fosse ancora vicino all’immagine
mitica di una «concorrenza leale» e diffusa.
«Quando le esportazioni crollano, come successe negli anni
’30 con la depressione, crolla corrispondentemente anche il valore della
moneta nazionale, con la conseguenza di un’automatica diminuzione delle
importazioni. Inizia allora la lotta per pareggiare la bilancia dei
pagamenti, che impone un massiccio intervento governativo; questo porta
inesorabilmente ad una politica economica inflazionistica, e a volte gli
interessi locali si scontrano con quelli della classe dirigente del
paese guida.»
(pag. 158)
In questo scontro di interessi locali e sovra locali si può
leggere il motivo principale del nazionalismo
esacerbato del fascismo, mentre il massiccio intervento
dall’alto, tipo «New Deal», non è molto diverso dallo spirito che ha
caratterizzato, ad esempio, l’intervento statale in favore delle banche,
che nell’attuale crisi economico-finanziaria ha determinato il passaggio
della politica internazionale dall’iperliberismo reazionario degli
ultimi anni, allo «statalismo» ultrareazionario degli ultimi mesi. Il
New Deal non fu una concessione al popolo, ma un’infusione di liquidità
di cui il capitalismo aveva bisogno per sopravvivere. Nei momenti di
crisi acuta, come l’attuale, lo stato nazionale borghese viene
utilizzato come un enorme «ammortizzatore economico» a garanzia degli
interessi dei banchieri che hanno speculano fino al giorno prima sui
bisogni primari della popolazione lavoratrice cui non basta più una vita
per sdebitarsi dai loro padroni. La democrazia parlamentare permette al
capitale monopolistico oggi tutto questo perfettamente.
Mentre nel fascismo al potere ma non saldamente lo Stato è
esso intero un’agenzia terroristica contro la popolazione e in
particolar modo contro il proletariato, nel potere borghese
post-fascista l’agenzia terroristica continua la sua funzione essenziale
ma in modo occulto. Nel fascismo lo stato appare effettivamente
per quello che è, in seguito invece ogni aspetto specifico della
gestione statale assume un’apparenza in contraddizione con la propria
essenza. Jackson sostiene che la democrazia parlamentare americana è
l’esempio più perfezionato di sistema di dominio sociale di classe. Egli
infatti è del parere che ciò che in altri esempi storici viene fornito
in eredità al potere appunto come lascito storico, in America viene
fabbricato e centralizzato appositamente nell’Istituzione statale. Se in
Italia ad esempio il cosiddetto «antistato» (nome fantasioso per una
succursale statale) rappresentato dalle agenzie terroristiche della
criminalità organizzata è una formazione stratificata storicamente che
offre quasi gratuitamente il suo servizio al capitale (data la
convergenza di interessi), negli
usa è lo stato stesso a doversi dotare di agenzie con le stesse
funzioni. Per Jackson tali agenzie sono
«La classe dirigente
usa è
composta da un milione di uomini, dalle loro famiglie - […] - dai loro
protetti e dai loro uomini di fiducia. Usano le università della Ivy
League e gli istituti di giurisprudenza super-riservati sia come scuole
private per i loro rampolli sia come centri di addestramento per i
mercenari del corporativismo. Il loro dominio è preciso, ferreo, e passa
attraverso l’esercito,
«Ma il capitalismo si riformò, senza chiedere scusa a nessuno
e proseguì per la sua strada, costruendosi una struttura centralizzata
nazionale ed internazionale che non ha paragoni in nessuna delle
gerarchie presenti o passate»
(pag. 169)
Per Jackson dunque «fascismo» non è più il nome da dare al
regime mussoliniano, ma il nome dell’intero sistema di potere
contemporaneo, caratterizzato da un capitale monopolistico centralizzato
che basa il suo potere su agenzie di controllo occulte dietro un
apparato dall’apparenza democratica.
«Chi scrive è convinto non solo che il fascismo negli
usa esiste, me che è la soluzione più logica e più avanzata a
cui è giunto un capitalismo già consunto e morente, rinascendo come
un’araba fenice dalle sue stesse ceneri».
«Il capitalismo di tipo
usa
nasconde la sua natura socio-politica essenzialmente totalitaria dietro
l’illusione di una società a partecipazione popolare.»
(pag. 140 e 141)
3. La prima repubblica
Tornando in Italia possiamo vedere attraverso un esempio
illustre la descrizione letteraria ed efficacissima della fase del
fascismo jacksoniano «saldamente al potere». È infatti Pasolini, che in
«Petrolio» ci offre la rappresentazione della trasformazione avvenuta
nella gestione del potere con il passaggio dal periodo precedente
«Appunto 6 Continua la follia prefatoria: Carlo secondo»
«Carlo è nato a Torino [...]. Ha frequentato le scuole
elementari e medie a Ravenna; ha studiato poi ingegneria all'università
di Bologna dove nel 1956 si è laureato. A scuola è sempre stato bravo,
uno dei primi della classe: ma era bravo in tutte le materie, e quindi
nella sua intelligenza c'era evidentemente qualcosa di meccanico, che
funzionava bene. […] Appena laureato, egli si era guardato intorno
(perché fino a quel momento il suo mondo era stato unico) e si era
subito confermato nella bontà delle sue idee: ossia del suo
cattolicesimo 'esistenziale', del suo illuminismo, della sua tristezza
un po' ansiosa di moderato, del suo sostanziale pragmatismo che
accettava l'integrazione (allora non si chiamava ancora così) per poter
realizzarsi e ottenere risultati che andassero oltre gli interessi della
classe in cui si integrava, componendosi in quell'unità che è il bene
dell'uomo.
Si interessò subito di ricerche petrolifere; ma questo non
significa che egli optasse decisamente per il fare, oppure che l'unico
suo pensiero fosse la carriera. (Tanto è vero che egli non si è sposato,
e tutt'ora è scapolo). Continuò a vivere il proprio lavoro all'eni, anche come riflessione intellettuale. Bologna era una
città comunista, o genericamente di sinistra, tendeva a essere
egemonica, e d'altronde non aveva reali alternative. Carlo aveva anche
amici che frequentavano lettere o scienze politiche; aveva vissuto la
civiltà dell'impegno a cui aveva aderito come i giovani aderiscono alle
cose del presente, al codice. Alcuni dei suoi amici furono tra i
fondatori della rivista «Il Mulino», ed egli continuò a frequentarli:
anzi, la sua cultura non specializzata, si formò lì. Conobbe subito la
nuova sociologia americana, e le nuove forme di cattolicesimo sociale;
conobbe subito i primi testi dei comunisti dissenzienti. Quando
arrivarono gli Anni Sessanta, egli era pronto a viverli. Era anzi quello
il suo momento. Fu quello il momento in cui divenne un cattolico di
sinistra: e questo gli consentì da una parte di differenziarsi o
distinguersi dal potere, e, nel tempo stesso, attraverso il suo lavoro
specifico e specialistico in quella punta tecnicamente avanzata che era
l'eni anche dopo la morte
di Mattei, di inserirsi quasi con spavalderia (mai ostentata) nello
'spazio' dove si trova il potere reale.
[…] Nel momento stesso in cui Carlo si staccava dall'Italia,
riconoscendone le caratteristiche come antiche e poetiche, egli si
specializzava in quella particolare scienza italianistica che è la
partecipazione al potere. Egli era perfettamente libero di desiderare il
potere: sia pure un potere non detto, non nominato, definito solo
empiricamente; sia pure senza vanità, e quasi quasi, verrebbe voglia di
dire, senza ambizione e con ascetismo. Si trattava certo di una libertà
meravigliosa, che sterilizzava la colpa, rendeva inefficiente il male:
una libertà come nata da se stessa, e dotata di tale forza reale da
consentire di rendere immune dalla curiosità della coscienza tutta una
parte dell'universo storico.»[9]
Carlo non è un borghese di destra, egli è un progressista,
oggi diremmo un «riformista», un elemento cioè adatto alla mediazione
necessaria con i rappresentanti politici della Resistenza italiana. La
«sterilizzazione della colpa» gli permetteva di fare coscientemente
quello che si doveva fare.
Nella visione di Pasolini il potere repubblicano italiano ha
comunque una doppia anima, se Carlo è il modello pubblico, Troya è
quello oscuro.
«Appunto 22 Il cosiddetto impero dei troya: lui, Troya
[…] . Questo è tutto ciò che si sa della prima parte della
sua vita: una nebulosa e piatta leggenda, che Troya non si era curato
mai, in alcun modo, di chiarire […]. Non amava assolutamente nessuna
forma di pubblicità. Egli doveva, per la stessa natura del suo potere,
restare in ombra. E infatti ci restava. Ogni possibile 'fonte'
d'informazione su di lui, era misteriosamente quanto sistematicamente
fatta sparire. […]»[10]
È interessante notare come sia nel primo che nel secondo
passaggio, Pasolini descriva il carattere anonimo, privo di ostentazione
del potere reale, molto diverso in questo dal potere urlato ed arrogante
tanto nella forma quanto nella sostanza del periodo fascista. Se Carlo è
il potere ufficiale esso ha comunque dietro di sé una qualche
organizzazione occulta che può arrivare dove lui non può. Il potere
occulto italiano cerca di darsi una struttura centralizzata sulla scia
dell’esempio americano.
«Appunto 82 Terzo momento basilare del poema
Attraversato il giardino della visione, Carlo entra nel suo
appartamento vuoto ed abbandonato. […].
Si riveste e telefona a una clinica poco lontana da casa sua,
verso il piazzale delle Muse: prende i dovuti accordi per farsi
ricoverare la sera stessa. Non ci sarebbe stato bisogno dell’intervento
del primario: un qualsiasi dottore alle prime armi avrebbe potuto
bastare: infatti l’operazione a cui Carlo ha deciso di sottoporsi è tra
le più antiche e semplici: la castrazione. La libertà vale bene un paio
di palle:
La mia vita è soave
oggi, senza perché;
levata s’è da me
non so qual cosa grave…»[11]
La democrazia parlamentare, come operazione chirurgica di
amputazione della «virilità» fascista, fardello divenuto inutile, era lo
strumento perfetto in mano alla borghesia ormai più che matura (senile)
per offrire al popolo l’illusione della partecipazione democratica ad
una realtà completamente pilotata da poteri (senza ulteriori attributi)
occulti e realmente determinanti, esattamente come sostiene Jackson. Il
potere nella sua veste democristiana ed ufficiale appare modesto, votato
al sacrificio, discreto, moderato e tollerante, non più «un» potere
«fascista» ma «il» potere
definitivo (saldamente al potere), sopra le classi e sopra il tempo. La
paura della Resistenza, del suo significato e della minaccia latente che
la sua base sociale continuava a rappresentare anche a guerra finita,
rendeva la borghesia italiana opportunamente circospetta e la portava a
ridefinire completamente il proprio sistema di gestione dello Stato. Il
ritardo storico della forma pienamente repubblicana offriva tra l’altro
la possibilità di introdurre la «democrazia parlamentare» come una
grossa novità a riprova del progressismo e della giustizia
del sistema politico succeduto al fascismo. In tale rinnovamento
potevano, anzi dovevano, avere un ruolo anche le forze politiche che
avrebbero dovuto rappresentare l’opposizione al capitalismo. Con la
democrazia parlamentare la borghesia lungi dal concedere democrazia alle
masse riaffermava prepotentemente il proprio dominio di classe dopo la
parentesi fascista (andata fuori controllo), riprendendo in mano
direttamente le leve dello stato ed in più riusciva a fare questo
sostanzialmente cooptando in questa enorme mistificazione post-fascista
l’opposizione di classe attraverso le sue rappresentanze politiche e
sindacali. Il capitalismo passa dalla reazione infantile scatenata dalla
paura del socialismo incombente, alla fase matura (politicamente), in
cui forte del diretto coinvolgimento degli apparati del proletariato,
raffina in modo ossessivo il dispositivo consensuale rispetto a quello
coercitivo, riuscendo sostanzialmente a sublimare l’ingiustizia sociale
e a dissimulare la repressione, grazie soprattutto al ruolo giocato
dalla sinistra post-rivoluzionaria (epigona della Resistenza). È nella
«pace sociale» (relativamente alla guerra) della fase repubblicana, che
l’opposizione al sistema politico-economico borghese viene annullata nel
confine della pura rappresentazione parlamentare e strappata dal piano
della realtà concreta. L’opposizione politico-sociale al capitalismo
incomincia a non credere e a rinunciare alla possibilità di una
ricostruzione diversa dell’Italia post-fascista proprio nel periodo in
cui acquista visibilità e dignità istituzionale. Quello che ad essa
sembra, magari anche in buona fede, un’importante conquista è a tutti
gli effetti il preludio della sconfitta definitiva. Con la propria
«istituzionalizzazione» l’opposizione politica passa dal piano
dell’alternativa strategica al sistema dominante a quello
dell’amministrazione del conflitto nel sistema dominante per suo conto.
Essa ha accettato il confronto con il nemico sul terreno a questi più
proprio, vi ha trovato casa e vi si è adagiata. La borghesia ha ottenuto
la sua sopravvivenza e la sua legittimazione post-fascista semplicemente
offrendo vitto e alloggio alla rappresentanza politica del suo nemico di
classe in cambio del riconoscimento della (falsa) estraneità all’orrore
fascista.
Ma chi sono ora invece i veri fascisti? Pasolini è molto
chiaro nel seguente passaggio:
«Appunto 126 Manifestazione fascista (seguito)
Si trattava di una manifestazione fascista. I cartelli
inneggiavano a grossi caratteri e con slogans che imitavano quelli della
Nuova Sinistra, a Almirante e a Birindelli. […]. Carlo da sotto un
porticato alto, insieme a un gruppetto di persone (comuni cittadini che
disapprovavano), stette ad osservare quei manifestanti […]. L’occasione
era favorevole alla contemplazione. La casualità poneva Carlo al di
fuori della mischia. Egli poteva guardare quella gente come se fosse
estranea; o come se egli stesso fosse uno straniero.
[…] C’erano fra i manifestanti uomini di mezza età (e anche
qualche giovane) in camicia nera; qualcuno faceva (verso i fotografi) un
provocatorio saluto fascista; si vedevano sventolare anche dei
‘gagliardetti’.
Ma ciò non impedì a Carlo di trarre con la massima lucidità
le sue conclusioni ‘ispirate’, che furono pressappoco le seguenti.
No. Questi non sono più i fascisti. Tra loro ci sono dei
‘ritardati’, che sono i fascisti classici, ma non contano più (o contano
come contano le sopravvivenze in un contesto storico). La delusione è
atroce. La fine del fascismo segna la fine di un’epoca e di un universo.
È finito il mondo contadino e popolare. Era dalle parti più miserabili
di questo che il fascismo raccoglieva le sue bande di sicari innocenti e
virili. Sono anche finiti i ceti medi la cui cultura borghese era ancora
fondata su una cultura popolare (simile a quella dei sicari): contadina,
pastorale, marinara, povera. Differenziata (da regione a regione, da
città a città, da centro a periferia). Eccentrica, particolaristica.
Quindi reale. Il nuovo potere (di cui Carlo faceva parte direttamente)
si era appoggiato nel dopoguerra a queste forme culturali reali, ma
elettoralmente sanfediste. Aveva fatto cioè la stessa cosa che aveva
fatto il fascismo.
[…] Carlo guardava quei fascisti che gli passavano davanti.
[…] Ora non erano che dei penosi fantasmi, il cui diritto a
girare per la città derivava probabilmente solo da una decisione della
cia. I veri fascisti erano
in realtà gli antifascisti al potere. Il potente era Carlo, non quei
piangenti bambini stupidi che non conoscevano l’origine del loro dolore.
[…]»[12]
4. La fine della Resistenza
L’ingresso delle forze proletarie organizzate in partiti e
sindacati, rispettivamente nel parlamento borghese e
nell’amministrazione quotidiana dell’ordine industriale, non prima ma
dopo una fase oggettivamente rivoluzionaria, quindi in funzione
conservativa, ha permesso l’instaurazione di un nuovo equilibrio
politico (post-fascista), talmente efficace e duraturo che persino un
movimento rivoluzionario di massa e internazionale come quello del ’68
ha potuto essere assorbito, sostanzialmente senza colpo ferire,
dall’equilibrio generale. È spiacevole, di fronte alle evocazioni del
’68, scoprire fra i suoi animatori ufficiali la persuasione diffusa di
aver «cambiato il mondo». Questi rivoluzionari di successo ben
accomodati ancora oggi, ricordando i loro vent’anni, vanno
incredibilmente fieri di una sconfitta di dimensioni epocali propensi
come sono a scambiare una modifica nei costumi di una società (per altro
già innescata dal boom economico) per il «mutamento del mondo» e una
fase irripetibile delle loro esistenze individuali (i bei vent’anni) per
l’epopea di un’intera società. Essi hanno solo tolto il tappo ad una
liberalizzazione dei costumi che era già intrinseca nell’avanzamento del
benessere post-bellico capitalista. I progressi reali che si sono
ottenuti, come lo statuto dei lavoratori, la legge sull’aborto, il
divorzio, restano comunque una conquista diretta delle masse in
movimento e un sottoprodotto di una rivoluzione mancata. Ma la cosa
notevole è che tale assenza di fronte alla Storia si è prodotta alla
presenza di un partito comunista fortissimo in termini di consenso
sociale e non a caso. In questo sistema di dominio la forza politica
delle classi sfruttate serve ad essere deboli. Il ’68, anche se fatto
dai giovani, era figlio della Resistenza, il prodotto di una società
ancora in grado di percepire le disparità nonostante l’avanzare di un
benessere monco e consumista, e di concepire un’idea alternativa
dell’esistenza. Con il ’68 il sistema borghese di gestione del potere
riapplicava con successo, a vent’anni di distanza, ciò che aveva già
fatto con
La democrazia parlamentare borghese è riassumibile in un
rumore costante attorno alle questioni secondarie, ed un silenzio
assordante sui fatti essenziali, essa è un mastodontico diversivo e
questo nella sua fase più dignitosa. Può produrre leggi e costumi più o
meno giusti, più o meno accettabili, ma nell’assunto strutturale
dell’ingiustizia di fondo di una società divisa in classi e basata sul
dominio della proprietà privata concentrata, cioè di chi possiede di
più. La sinistra riformista si accontenta di partecipare al rumore
costante, e cosa peggiore, ne è sempre più consapevole. Tale rumore
sarebbe impossibile senza la presenza di una parte che fa chiasso.
5. Il vuoto politico dell’89
Questa situazione mistificatoria, nel suo assetto postbellico
ha mantenuto intatta la sua efficacia almeno fino all’89. La
rappresentazione istituzionalizzata di un conflitto di classe
richiedeva, per apparire realistica, il mantenimento di due ideologie
contrapposte, che si autoalimentavano vicendevolmente in un ordine che
però continuava ad essere capitalista a dispetto della potenza
elettorale delle forze politiche di sinistra, per le quali il momento
non sarebbe mai stato maturo per una transizione al socialismo, neanche,
s’intende, poniamo con il 60% dei voti nazionali, come si può evincere
dallo spirito che informava la politica dei dirigenti comunisti negli
anni immediatamente posteriori alla guerra, ben sintetizzato nel
seguente passaggio del diario di Davide Lajolo, direttore dell’Unità
prima a Torino poi a Milano: «La vita del
pci in questo periodo di guerra fredda è durissima.
Possediamo tanta forza popolare per travolgere chi mal governa, ma
usarla vuol dire precipitare il paese nel disastro e nel caos e la parte
più crudele la sopporterebbero i lavoratori. Poiché siamo un partito di
lavoratori il primo nostro compito è impedire a loro una vita più grama.
Non è facile farlo capire ai braccianti e agli operai che devono
sopportare soprusi e angherie dai padroni e dai governanti».[13]
Il rispetto del gioco delle parti consentiva ad entrambi gli
schieramenti ideologici la loro stessa legittimazione infinita.
Qualsiasi cosa accadesse era sempre possibile sostenere che «così» era
meglio che in «un altro modo». Qui il dominio completo della borghesia
era già un fatto, infatti: «Nella Repubblica nata dalla Resistenza è
stato liberato dal carcere il torturatore Valerio Borghese. Nello stesso
tempo hanno incarcerato il partigiano Dante Gorreri uno degli
antifascisti più noti e stimati e stimati di Parma».[14]
Con l’89, il crollo del regime stalinista, crea un problema
oggettivo agli equilibri di potere costituiti. Uno dei due termini della
rappresentazione istituzionale italiana viene meno, per motivi esogeni.
La natura della nostrana sinistra istituzionalizzata era talmente
indipendente dalla propria iniziativa politica che essa non era neanche
capace di scomparire per mano propria. Paradossalmente questo venir meno
dell’equilibrio mette in crisi proprio la borghesia e la sua
rappresentanza politica, a dimostrazione, una volta di più, di quanto le
fosse essenziale, per la propria sopravvivenza politica, il ruolo di un
avversario istituzionalizzabile.
Con la caduta di questo equilibrio quarantennale la borghesia
italiana ha dovuto rimodulare completamente gli schemi formali su cui
aveva assettato il proprio sistema, super oliato, di gestione
unilaterale della società. Essa è stata costretta a ridisegnare la
facciata del proprio castello mistificatorio. La sua raffinata capacità
manipolatoria, di carattere orwelliano, le ha permesso di conferire un
aspetto moralmente accettabile al processo di riassetto politico che ha
intrapreso dall’inizio degli anni ’90 ad oggi, mettendo da parte
un’intera casta politica definita corrotta e ri-battezzando col nome di
«seconda repubblica» il medesimo controllo unilaterale della vita
pubblica nazionale, riuscendo a vestire lo stesso corpo corrotto con un
abito nuovo, moralmente vergine, sull’onda della pulizia mediatica del
processo «mani pulite». Il passaggio, in Italia, dalla prima repubblica
basata sul conflitto ideologico apparente, alla seconda apparentemente
post-ideologica, ha significato la sostituzione di una casta politica
con un’altra e il ritocco in termini peggiorativi delle proprie
istituzioni (passaggio al maggioritario, controriforma della
Costituzione e del mercato del lavoro, eliminazione della scala mobile,
svendita su larga scala della struttura patrimoniale dello stato), ma
nella convinzione diffusa, e qui è il bello, che i corrotti attuali
siano «dei nuovi moralizzatori» e che la corruzione della prima
repubblica fosse il risultato di una democrazia troppo larga e perciò
difettosa.
6. L’inaugurazione della seconda repubblica
La deposizione, in Italia, di un’intera generazione politica
e delle sue tradizioni consolidate ha aperto una frattura fra quella
parte di politica legata ai vecchi schemi ideologici (la destra classica
e quella di chiara estrazione democristiana e la «sinistra» riformista)
e quella parte «a-ideologica», non inquadrabile immediatamente negli
schemi consueti, che approfittando del vuoto politico creatosi lo ha
riempito prontamente, esattamente come il bonapartismo riesce a
guadagnare terreno approfittando delle crisi di potere che ciclicamente
si verificano nel sistema politico e sociale. Tutto questo non era
previsto. A questo nuovo settore della borghesia (figlio bastardo della
stessa) lo schema di due ideologie chiaramente contrapposte, per quanto
solo rappresentato, sta troppo stretto, perché richiede comunque tempo e
perizia e, cosa non secondaria, una base economica in grado di sostenere
tempi lunghi per una visione meno compressa nel tempo. Questa
neo-borghesia (divenuta tale nel frattempo), vuole tutto e subito, è
arrogante e rozza, non ha più nulla a che spartire con i dirigenti sul
tipo di Carlo di «Petrolio», non vuole più la mediazione con la società
di massa, anche perché non ha di fronte nessuna Resistenza, sepolta da
sessanta anni di grigia polvere parlamentare, e alle spalle nessun
stabile nemico dichiarato a legittimarla. I nemici di ieri (interni ed
esteri) possono essere gli amici di oggi e viceversa domani (esattamente
come succedeva alle tre superpotenze di «1984» di George Orwell). Questa
situazione richiede flessibilità ideologica, vale a dire
«a-ideologismo». Oggi Berlusconi è grande amico di Putin, il capo del
kgb (e Chavez può essere
amico di Ahmadinejad). Questa borghesia a-ideologica è quella più
reazionaria, quella che non crede a se stessa, neanche lontanamente,
come ad una classe che ha una «missione» per «il bene generale», ma
solamente come settore di classe che assume come missione il «proprio
bene» e si sente forte come mai in questo, non completamente a torto. A
questa borghesia arricchita non interessa neanche ritinteggiare
dignitosamente le pareti dell’edificio statale che ha occupato, i suoi
doppiopetti gessati sono infatti pieni di polvere e calcinacci. Lo stato
è nella sua parte materiale e pubblica, cioè quella patrimoniale, un
problema ingombrante e costoso, che non vale la pena di tenere in piedi.
L’atteggiamento verso questa parte dello stato è quello che si ha verso
tutte le sezioni
dell’economia che richiedono dedizione e organizzazione delle risorse
perché continuino a svolgere le proprie funzioni sociali. Esse non sono
remunerative con lo stesso grado di comodità delle operazioni di pura
finanza (speculative) e per esse vale la soluzione universale del
capitalismo improduttivo: fare a pezzi e vendere.
In questo atteggiamento verso l’economia «produttiva», il
potere odierno è diametralmente diverso dal regime classico, cosa che lo
rende strutturalmente incapace di realizzare una qualunque utilità
sociale. Esso ha realizzato compiutamente la propria essenza
parassitaria, vive in una seconda repubblica sfasciando ciò che la sua
stessa classe di provenienza ha realizzato nella prima (sfascismo).
Il suo a-ideologismo sbandierato non significa affatto che le
azioni di queste forze politiche non siano riconducibili sempre e
comunque all’ideologia borghese, ma solo che il rispetto formale dei
postulati ideologici assume, nella propaganda, un aspetto totalmente
secondario rispetto alle necessità del momento particolare e rispetto ad
altri metodi di fabbricazione del consenso politico. Un’esemplificazione
emblematica di questa secondarietà dell’ideologia è riscontrabile anche
fuori dall’Italia, ad esempio, nel governo tedesco fondato sulla «grande
coalizione» fra forze storicamente avverse. Il partito storico della
borghesia ha governato assieme al partito storico dei lavoratori, negli
interessi del capitale. Dopo una simile e definitiva deposizione
dell’ideologia propagandistica consolidata, quale speranza possono più
nutrire i lavoratori nel sistema democratico attuale? Nessuno chiede
loro più neanche di credere che questa politica possa servirgli a
qualsiasi cosa. Ma questo fatto colossale, cioè la negazione
dell’esistenza stessa di un conflitto di classe, non sembra aver scosso
nessuno. Esso appare normalizzato.
Questa trasformazione del costume politico viene da qualcuno
stigmatizzata come «post-democratica». Si tratta in tutta evidenza di un
post-qualcosa, ma definire post-democratica la fase attuale, implica la
convinzione che quella precedente fosse effettivamente democratica,
mentre era comunque solo un simulacro di democraticità. Nell’assetto
unipolare degli equilibri internazionali il sistema di gestione del
potere supera la necessità della rappresentazione formale di una
composizione delle istanze sociali assumendo, in sostanza, l’assetto di
quello che per molto tempo è stato visto come «regime» dalle società
basate su repubbliche parlamentari borghesi. Anche se formalmente in
Italia esistono ancora più partiti, qualsiasi partito momentaneamente al
potere gestirebbe lo stato nei medesimi interessi di classe.
L’alternanza possibile lo è solo nell’ambito dei gruppi di potere, non
nell’ambito reale delle classi che formano la società. Questa situazione
non è, in termini di controllo sociale, molto distante dal partito
unico, o dal partito/stato. Ma il carattere mistificatorio del sistema
consente un’apparenza poli-partitica in un’epoca mono-ideologica mentre
chiama tutto questo «bi-polarismo». Nella prima repubblica il partito
comunista doveva partecipare alla dialettica parlamentare, ma comunque
non arrivare mai alla maggioranza, perché la spinta sociale progressista
che uno scenario del genere avrebbe potuto causare poteva costituire una
minaccia reale per la borghesia, visto il non completo assopimento dei
valori della Resistenza. La base sociale della sinistra nella prima
repubblica credeva ancora all’obiettivo massimo, poteva essere divisa,
in buona fede, sulle modalità per ottenerlo, ma non sulla sua necessità
storica. Oggi la «sinistra» parlamentare, può invece andare al governo
senza che questo significhi un bel niente da un punto di vista delle
ricadute economico-sociali e culturali concrete. I politici da salotto,
non fanno parte di «partiti» (questo termine implica uno schieramento di
classe, almeno formale), ma di diversi clubs borghesi.
In questa ristrutturazione delle dinamiche del potere
formale, si è venuto affermando un modo nuovo (relativamente agli ultimi
decenni) di guadagnare consenso nella società italiana. Oggi la politica
urla, non dibatte, e le urla riescono efficacemente a coprire l’assoluta
mancanza di logica delle affermazioni che vengono lanciate nei salotti
televisivi. Oggi esibire il proprio ottundimento mentale e andarne fieri
è divenuto un elemento di forza e di simpatia, fa un effetto di
sincerità che veicola una pronta immedesimazione. Il popolo è, non a
torto, diffidente dei mulini di belle parole, pertanto comincia a
simpatizzare con le brutte espressioni. Di fronte a tale spettacolo
triviale, la ragione degli argomenti resta ammutolita e perde il potere
di influenzare l’opinione pubblica. La messa in ridicolo di questi
atteggiamenti da bar del quartiere è addirittura controproducente. La
superstite critica televisiva della sub-politica attuale diventa
semplicemente un marketing in funzione della stessa. Probabilmente le
sarà concesso di continuare ad informare.
L’inaugurazione di questo «nuovo periodo» è stata esemplare.
La violenza storica del sistema di potere italiano ha preso a
manifestarsi in modo spettacolare. La spettacolarizzazione in epoca
democristiana non era ammessa, la violenza doveva essere discreta,
invisibile, efficace, gli attentati sistematicamente depistati. Con
l’uccisione di Falcone e Borsellino, l’attentato è divenuto pubblico,
esibito, non più nascosto e silenzioso, un’intera epoca è stata
archiviata. Dopo l’89 le forze occulte, come la criminalità organizzata
si manifestano apertamente, vogliono il loro spazio politico, reclamano
la loro esistenza ed una posizione stabile nella ristrutturazione in
corso del potere. Nella seconda repubblica non si gioca più dietro le
quinte. Le mafie sono ancora un’agenzia terroristica dello stato ma non
più solo questo, esse, dopo aver avuto sempre più spazio che in altri
paesi in uno stato borghese tradizionalmente debole ed arretrato,
possono finalmente competere con gli altri settori del capitale sullo
stesso piano economico ed istituzionale. La quiete della loro violenza
costa la loro cooptazione nel sistema politico ufficiale. Gli attentati
pubblici non sono sopiti perché la mafia è stata sconfitta. La struttura
organizzativa delle mafie non è più il passato ma il futuro del sistema
di potere italiano. Un nuovo modello si erge a riferimento nella
democrazia della seconda repubblica, Saviano lo ha descritto molto bene.
Il potere di oggi viene dalla provincia.
Da un punto di vista esclusivamente formale, la seconda
repubblica rappresenta dunque un evidentissimo assestamento delle
«regole» e dei costumi collettivi che ne derivano, su un terreno più
arretrato della convivenza sociale. La violenza ritrova spazio mediatico
nella società, il parlamento riflette questa imbarbarimento e lo rigetta
nella società dopo averlo masticato per bene. In questo contesto nascono
e si rafforzano partiti apertamente impresentabili, solo qualche anno
prima, come
L’amorfismo ideologico della gran parte della società è
visibile in tante piccole cose, anche insignificanti. Oggi posso andare
al cinema e vedere una pellicola sul Che e una settimana dopo una
pellicola sugli amori del manganello educatore d’Italia, limitando i
miei commenti sul modo in cui le due pellicole sono fatte, senza
percepire stridore alcuno fra le due storie che mi vengono proposte
sullo stesso identico piano, in un estetismo che annulla la storia, i
fatti e la memoria. Tutto è equivalente. Posso, ad esempio, ridere alle
battute di Benigni, o apprezzare il teatro di Dario Fo, e votare
normalmente a destra, dopo aver magari anche alzato qualche pugno
sull’onda delle note travolgenti dei Modena City Ramblers senza rendermi
conto di una certa dissonanza nelle mie azioni, anzi considerando
un’inutile restrizione la coerenza intellettuale rispetto al più
sfrenato eclettismo inconcludente. Tutto oggi risulta scollegato. Ad una
cultura nozionistica e specialistica di livello universitario
corrisponde una coscienza sociale di livello sub-elementare. Eraclito
diceva che sapere tante cose non insegna ad avere più intelligenza.
Il dottorando precario più che considerare il suo stipendio da fame come
un tratto che lo accomuna al precario del call center o all’operaio in
cassa integrazione, tende a pensare a se stesso, e non completamente a
torto, come ad una parte fondamentale dell’istituzione universitaria.
L’operaio che fa dei turni assurdi può essere condotto ad immedesimarsi
con le ragioni dei suoi padroni. Da qui a considerare «normale» che un
datore di lavoro qualsiasi debba condizionare anche il voto dei propri
dipendenti, come accade sempre più spesso, il passo è breve. In passato
sarebbe stato il semplice amor proprio a rendere inaccettabile una
simile ingerenza esterna alla propria coscienza. Questi piccoli
padroncini odierni esercitano attraverso l’umiliazione gratuita la loro
posizione sociale. Mentre l’eclettismo sociale di chi subisce tali
comportamenti, completamente avulso dalla propria condizione materiale
concreta, facendo apparire le cose per come non sono, rende enormemente
più semplice il lavoro di chi dirige le istituzioni, in nome di questo
vecchio ordine negriero, mentre le svuota di significato con la propria
presenza. Tutto ciò cambia anche completamente i termini della questione
su cosa sia da intendersi oggi per «regime». Se classicamente la
repressione aperta della critica sociale si rende necessaria anche in
forme dure ed evidenti è perché esiste un livello minimo di
organizzazione della critica o un momento di pericolo reale per il
potere. Se questi termini dell’equilibrio vengono annullati da una serie
di fattori socialmente condizionanti la repressione diventa automatica
ed implicita nel condizionamento stesso che la rende superflua. Siccome
non lavoro in un campo di concentramento non significa che sia io a
scegliere il lavoro che faccio. Il campo di concentramento non esiste
più come luogo separato, se non nei confronti degli stranieri, dato che
la società è essa intera un enorme campo di lavoro volontario. Ognuno
lavora più di quanto dovrebbe, per meno di quanto gli sarebbe dovuto, a
scapito di chi non lavora per niente e del suo proprio tempo di vita,
spesso per aziende senza nessuna utilità sociale e fa tutto questo
credendo che sia normale così, che questa sia la vita. Tanto sudore per
nulla. Se il potere costituito della classe dominante riesce a creare
consenso sociale attorno a qualsiasi idea sbagliata essa diventa
«giusta» e perseguita efficacemente senza colpo ferire. Nessuno è più in
grado di opporre collettivamente un’idea diversa di giustizia a quella
fabbricata al momento e utile agli interessi del momento (del settore di
potere al momento dominante), la confusione è tale da relativizzare
tutti i valori che si credevano consolidati. In sostanza il regime
democratico parlamentare è riuscito meglio del fascismo a «creare un
sistema di organismi che penetrino profondamente nelle masse e siano
destinati a impedire la cristallizzazione indipendente del proletariato»
(L. Trotsky).
Questo sistema di organismi, che rappresentano lo Stato e
tutte le sue istituzioni materiali ed immateriali, non agisce più con
carattere repressivo a posteriori, ma preventivo, esso non deve
più distruggere l’esistenza dell’organizzazione indipendente del
proletariato ma «solo» impedirne la formazione, penetrando profondamente
nelle masse, non come appendice estranea ma proprio come sistema di
convinzioni intime e formative, come condizionamento mentale. Questa
idea di Trotsky prevedeva già gli sviluppi post-fascisti. Lo stato
borghese moderno lavora sulla psicologia e sul consenso di massa,
destinando la coercizione riconoscibile ai soli casi localmente
necessari ed estremi.
In termini di massa la coercizione vera e propria, in forma
apertamente repressiva, è sempre qualcosa che riguarda «gli altri» (gli
stranieri, i prigionieri di guerre lontane, i palestinesi, gli
oppositori locali delle discariche ecc..) o situazioni «arretrate»,
percepite come ontologicamente «sfigate» e riesce ad apparire sempre, in
definitiva, e in qualche modalità perversa, come giustificabile. La
massa subisce forme di coercizione che sono indirette e subconscie.
Un’efficace descrizione di questo sistema è contenuta nel romanzo
fantastico «Il nuovo mondo» di Aldous Huxley, in cui la repressione
della minima, informe opposizione ai modi di vita ortodossi, viene
attuata non mediante la tortura sistematica di «1984» (di Gorge Orwell),
ma attraverso la concessione di una liberazione dall’ortodossia, una
vacanza in un’isola lontano dal centro del sistema, dove tutti gli
individui, che per un motivo qualsiasi non rispondano perfettamente al
condizionamento delle coscienze, vengono mandati a vivere in totale
libertà. Questo sistema, basato non sulla tortura, ma su concessioni
liberali e sulla «democratica
marginalizzazione del dissenso» è agli occhi dell’autore, non a
torto, considerato più efficace e duraturo di un aperto regime
totalitario. Esso è dolce come il sonno. Oggi in una società dove ognuno
può dire quello che vuole, per quel poco che questo può contare, vige
un’ortodossia del pensiero e dei comportamenti praticamente completa.
Il sonno della coscienza e della ragione è il trionfo
dell’irrazionalismo più incredibile, fomentato dall’eclettismo
intellettuale dilagante che alimenta una flessibilità ideologica senza
precedenti della politica, alla quale nessuno crede più di dover
chiedere niente che lo riguardi personalmente. Chi chiede alla politica
qualcosa è in politica. La politica è un mestiere come gli altri e se
non può essere una fonte di sostentamento non interessa. L’abbandono
apparente di un’ideologia conclusa da parte della politica è possibile
per i padroni, perché in queste condizioni il sistema, ai loro occhi,
non è più in pericolo. Quando un’ideologia è completamente dominante le
è consentito il riposo, la dissoluzione. La macchina statale e le sue
infinite diramazioni, non difendono più «lo Stato» (il capitale) dal
socialismo incipiente (senza perdere tale capacità), ma diventano armi
in mano ai diversi settori del capitale in lotta tra loro. Chi governa
il paese governa anche contro la propria classe. Lo stato è mero
strumento di concorrenza sleale. I diversi settori della borghesia sono
costretti a definire piuttosto apertamente i propri schieramenti
politici ed hanno perso la possibilità del lusso rappresentato da una
politica ufficiale che fa il lavoro per conto loro. La vecchia
borghesia, quella che si sente nobile e assennata, deve ora vedersela
con la nuova borghesia, quella spregiudicata e senza dio. La politica
non appartiene più alla società nel suo complesso e non si preoccupa più
neanche di rappresentarla formalmente. La lotta politica istituzionale
semplificandosi in termini di classe, (con l’estromissione del mondo del
lavoro, che partecipa alle elezioni ma non all’eleggibilità) si complica
in intrighi di puro potere, divenendo strumentale e insensata, un
meccanismo autoalimentatesi nell’indifferenza crescente della massa.
Questo stato di cose non ci permette di ragionare con i termini noti pur
non rendendoli obsoleti. Essi si relativizzano a situazioni storicamente
determinate.
7. Il carattere apparentemente «non-violento» della violenza
autoritaria
Termini classici come «fascismo», «termidoro» o
«bonapartismo» hanno senso in un contesto di antagonismo di classe in
fieri. L’attuale dismissione dell’ideologia corrisponde invece
all’avvenuta estromissione del mondo del lavoro dalla rappresentazione
politica della società. Il conflitto di classe resta alla base della
società ma avviene su piani fortemente impari, favorevoli solo alla
borghesia, e direttamente economico-materiali tanto che essa può
permettersi di dare per scontato il dominio di classe e concentrarsi
sulle sue lotte interne alle quali tutto è funzionalizzato. I gruppi di
potere che occupano il parlamento sono perciò staccati socialmente dalla
società, essi non rappresentano più nessuno all’infuori di se stessi,
galleggiando sulle classi sociali. Il parlamento di oggi assomiglia a
quello pre-repubblicano: una farsa gestita da un’unica classe. Per
costituzione questo potere, per quanto stabilmente di classe, è sempre
in bilico fra diversi settori della stessa classe. Chi domina è sempre
colui che riesce a sfruttare meglio gli antagonismi del momento mettendo
intorno a sé più interessi momentanei, di qualsiasi natura, facendo leva
sugli strumenti dello stato che già riesce a controllare. La
concentrazione crescente dei mezzi di controllo del consenso, se non è
garanzia assoluta di potere è comunque una forte ipoteca sullo stesso,
perché diseduca la massa, con il tempo, a mettere insieme i dati della
propria esistenza con un minimo di costrutto logico. L’Italia, per le
condizioni che si sono venute a creare, rappresenta all’interno degli
attuali ordini «democratici» europei una situazione particolare in cui è
possibile sperimentare fino a che punto si può spingere l’abuso
dell’esercizio unilaterale del potere e lo sprezzo delle regole
parlamentari in una società occidentale in cui la decomposizione
dell’ideologia e della coscienza sociale della realtà è così elevata. In
queste condizioni chi domina ha necessariamente un’attitudine
bonapartista, intesa però solo come dotazione di strumenti molto potenti
(non propriamente come utilizzo di mezzi direttamente
militar-polizieschi) e capacità di sfruttare al meglio i vuoti di potere
che gli si presentano. Il concetto stesso di polizia si psicologizza,
Orwell parlava di psicopolizia. Questa situazione non presenta analogie
storiche se non in campi esterni alla lotta di classe: quello delle
contese fra famiglie mafiose o fra le bande armate per il controllo
urbano. I riferimenti alla grande rivoluzione francese sono fin troppo
nobilitanti. Qui, da un punto di vista di classe, si parla di puri
intrichi di corte.
Questa situazione non assumerà, con molta probabilità, un
carattere di aperta violenza di classe, perché non ce n’è bisogno,
almeno fino a quando un’opposizione non istituzionale non sarà
organizzata in qualche modo efficace. Senza tale organizzazione persino
crisi economiche di portata crescente possono passare senza lasciare
traccia reale nella modifica dei rapporti di produzione capitalistici.
La falsificazione delle coscienze è giunta oggi ad un punto tale da aver
sbriciolato la relazione logica fra crisi economica e rivoluzione
sociale.
Alla democrazia monoclassista attuale non serve il
manganello, anche se ce l’ha. E se pure dovrà utilizzarlo qua e là
nessuno, al di fuori di chi lo avrà subito, lo avrà visto. Essa possiede
tecniche di persuasione prive di effetti collaterali indesiderati e poi
può fabbricarsi le leggi che vuole. Il suo autoritarismo deriva dal
controllo assolutamente sbilanciato, in termini di classe, delle
istituzioni pubbliche, che già possiede e che diventano perciò private.
Le lotte di potere assumeranno sempre di più l’interesse sociale che
hanno le lotte fra le famiglie mafiose: nessuno. Questo non significa
però che ogni settore momentaneamente (o anche più stabilmente) al
potere non tenderà ad «anarchizzare» in modo crescente lo stato, per
poter trafficare impunemente con le proprie speculazioni. Ottenuto il
dominio di classe, bisognerà pur ottenere il pieno beneficio che ne
deriva. A che serve tanto potere concentrato se non si può rendere
schiavo formale chi non ne ha? Il venir meno di un carattere
visibilmente ideologico della violenza, non rende però meno violenta e
classista la prospettiva. Questa violenza, verbale, psicologica e
localmente repressiva in termini fisici, anche senza un chiaro intento
di classe, non sarà concentrata come in passato, ma diffusa su scala
crescente. La barbarie del capitalismo in putrefazione non è uno
scenario futuro, esso è già presente. Chi aspetta i manganelli contro
tutto e tutti in modo indifferenziato e contemporaneo per poter
finalmente gridare al fascista potrebbe restare deluso. Il potere che
usa il manganello contro un nuovo nemico ha già provveduto ad allearsi
con il resto del «buon senso» comune ed è questo buon senso che fa
spavento.
Il sistema economico capitalista è un cadavere tenuto in vita
dall’accanimento terapeutico di mostruosi artifizi tecnologici e
mirabolanti plastiche facciali. Se nessuno gli stacca la spina tuttavia
esso continuerà a vegetare. «Un tempo si cospirava contro un ordine
costituito. Oggi, cospirare a suo favore è un nuovo mestiere in grande
sviluppo. […] Questa cospirazione fa parte del suo stesso
funzionamento.»[15]
Gli scenari a venire in queste condizioni non potranno che
assumere gli aspetti materialmente sempre più evidenti (anche se saranno
prontamente normalizzati) di un’epoca di enorme, ma scintillante,
decadenza civile. I ricchi lotteranno tra loro per la spartizione delle
rendite, i poveri per la sopravvivenza. Tutti contro tutti è l’avvenire
sulla medesima barca che affonda. Il barbaro della «nuova preistoria» si
servirà di mezzi tecnologicamente avanzatissimi per esprimere la
trivialità della propria lotta per la sopravvivenza.
8. Forza e debolezza
Ma la perfezione di un sistema di controllo sociale non
equivale alla sua forza. Il protrarsi di un dominio di classe basato
sulla falsificazione aperta non è affidabile strategicamente (negli
Stati Uniti la borghesia sembra averlo capito, dopo l’esperienza di
Bush). Prima o poi gli mancherà la lucidità necessaria a prevedere
l’andamento degli eventi. Finirà per credere esso stesso alla realtà che
racconta. La sua mala fede diventerà completamente sincera.
L’abbandono della saggia circospezione democristiana nella
gestione dello stato acuirà in modo sempre crescente le contraddizioni
sociali.
L’estromissione dell’opposizione dalle gabbie istituzionali è
proprio la strategia opposta a quella perseguita con efficacia dalla
grande borghesia durante la prima repubblica. Qualsiasi ricostruzione di
un’opposizione di classe sarà oggi costretta, suo malgrado, a trovare la
propria strada fuori dalle istituzioni borghesi. La borghesia ha
ricollocato il ruolo dell’opposizione al capitale e al suo sistema di
significati e falsi valori nel posto che le compete storicamente: la
società; chiudendo di propria iniziativa una parentesi più che
sessantennale ad essa favorevole. Qualsiasi tentativo di riconquistare
le posizioni istituzionali perdute da parte dell’opposizione si rivelerà
come un inutile attardarsi su una prospettiva sconfitta storicamente. Si
riparte da zero, ma questa volta dalla posizione giusta. Per più di 40
anni il partito comunista è stato forte elettoralmente ma incapace di
dare seguito alla propria missione sociale, la sua forza era la sua
debolezza, oggi l’insieme dei ceti sociali subalterni è politicamente
orfano e può contare solo sulla propria iniziativa diretta, questa sua
debolezza istituzionale può diventare la sua forza sociale. Il sistema
di dominio può infatti estromettere il mondo del lavoro dalla
rappresentazione politica, ma non può eliminare le contraddizioni che si
sviluppano e si concentrano nel seno della società che esso domina. Se
la ricostruzione di un’opposizione di classe al capitalismo saprà
immunizzarsi da qualsiasi forma di rappresentabilità di se stessa essa
potrà risultare efficacemente non istituzionalizzabile e perciò
inutilizzabile per i fini della classe dominante. In questo possibile
nuovo protagonismo di massa come nuova natura di un’opposizione di
classe non istituzionalizzabile, tutta da elaborare, vi è una possibile
chiave di volta rispetto ai sinistri errori del passato. L’opposizione
di classe al capitalismo ha bisogno di un atto di creatività collettiva,
che sappia dargli una forma di organizzazione più efficace di quelle in
cui si è sclerotizzata. Ma questo protagonismo non è immaginabile senza
la ricostruzione di criteri logici di percezione della realtà vissuta,
senza affrontare l’immane problema della coscienza di sé da parte degli
oggetti del potere. Se invece l’unico obiettivo delle forze di
opposizione, a prescindere dalla vita reale, resta il parlamento
borghese ormai privato anche della funzione di inscenare la
rappresentazione formale della «democrazia» non ci sono molte speranze
di scalfire lontanamente il periodo di monoclassismo istituzionale che
prende forma dinanzi a noi. Anche tentativi che andassero a buon fine
nella direzione della riconquista parziale delle istituzioni finirebbero
solo per ritardare ulteriormente la deflagrazione delle contraddizioni
riportando indietro l’orologio al mito di una prima repubblica ormai
morta e sepolta. Quello che ancora resta in piedi delle conquiste dei
movimenti del passato e che ha dato alla repubblica italiana una
parvenza di democraticità è insufficiente per poterci costruire sopra un
avvenire pacifico. Il ritmo con cui oggi l’economia genera espansioni e
recessioni è diventato troppo veloce per i tempi della politica, ogni
crisi porta via qualcosa che la successiva espansione non ripristinerà,
questo stesso ritmo rende impossibile ogni residua speranza in
miglioramenti economici socializzabili e sempre più evidente che la
socializzazione ricorrerà ripetutamente solo in periodi di crisi acuta.
Il problema è che la destrutturazione crescente dello stato borghese
renderà sempre più complicato l’intervento pubblico nei momenti
difficili.
OTTOBRE 2009
[1]
ad esempio l’editoriale di Falcemartello n. 217 dell’Aprile 2009
dove si parla di «regime in formazione», o il dibattito su
Liberazione fra Cacciari, Asor Rosa e Bifo (verso l’ottobre del
2008), alcuni editoriali di Rossana Rossanda su Il Manifesto, il
documento dal titolo «L’organizzazione autoritaria della Seconda
Repubblica» di Leonardo Mazzei ed altri esempi che si potrebbero
fare.
[2]
«Le nuove forze operanti nella società italiana quel
rinnovamento profondo che, atteggiandosi all’antica severità o
almeno alla faccia severa de’ littori, aveva però già preso
l’aire dalla loro dotazione di bastoncelli, […], si addiedero
poi senza sciuparsi nei filosofemi […] a lastricare de’ più
verbosi buoni propositi la patente via dell’inferno. Gassificate
indi a funeraria minaccia e fattesi verbo e vento, cospirarono
d’impeto in quella tromba d’aria e di polvere che levò se stessa
fino a baciare il culo alle nuvole, struggitrice d’ogni
separazione dei poteri e del vivente essere che si suol chiamare
la patria; d’una distinzione dei «tre poteri»: che il grande
sociologo dalla modesta e assettatuzza parrucca, osservando
gl’istituti migliori de’ romani e i più giudiziosi e recenti
della storia inglese, aveva così lucidamente distinto. […]
L’effetto che la resurrezione in parola cavò di sue viscere,
infoiata di poter finalmente disporre di tutte le disponibilità
resele a disposizione dal potere, fu quello che si verifica ogni
volta: voglio dire ad ogni assunzione intera del medesimo:
conglomerare le tre balìe - […] - conglomerarle, tutte tre, in
un’unica e trina impenetrabile e irremovibile camorra».
(Carlo Emilio Gadda «Quer
pasticciaccio brutto de via Merulana».
[3]
(Trotskij Scritti 1929-1936, Oscar Mondatori
1968, pagg. 338,339)
[4]
(Trotskij Scritti 1929-1936, Oscar Mondatori 1968, pag. 486)
[5]
«Il maremmone, cioè maremmano-spinone, si avventò: da credere
volesse jugularsi od autoghigliottinarsi nel collare, un sottile
anello di ferro dove i peli rabbuffavano, del fuoribondo: e a
catena tesa riprincipiò ringhiare e latrare, scoppi
reiteratamente frenetici: come declamasse irruenti versi del
Foscolo senza tuttavia comprenderne il senso, e nemmeno il non
senso, a un pubblico di soprappresi da cascaggine: deliberato
ridestarli tutti e richiamarli a purgazione e a vigilia, né
perdonar sopore neppure all’ultimo. L’indemoniato idiota, in ciò
fare, smarriva tra incisivi radi e scontorti e la ferità de’
canini e licenziava fuor delle labbra, per fiocchi biancastri a
ogni nuovo sussultare della capa, una sua bava poltigliosa come
béchamelle: nelle arsi di così rorida rabbia levando al cielo
sanguinolenti occhi di belva, quasi ad invocare il beneplacito
de’ superni Bestioni, gli iddii di sua razza, è a propiziarne il
nume, e a promuoverne il consenso a’ più stolti endecasillabi.
[…] .Quei petardi biliosi del suo rancore gli stavano lacerando
la maledetta gargana, di cui per attimi […], si palesava il
rossore cavernoso, come d’una spelonca d’inferno […]» (Carlo
Emilio Gadda «Quer pasticciaccio brutto de via Merulana».
[6]
(Ted Grand, il lungo filo rosso, scritti scelti 1942-
[7]
(Nuovo Politecnico, Einaudi 1972)
[8]
(Eco «Cinque scritti morali». Passaggi Bompiani 1997, pag. 33)
[9]
(Petrolio; Oscar Mondadori; 2005, pagg. 35, 36)
[10]
(Petrolio; Oscar Mondadori; 2005, pag. 105)
[11]
(Petrolio; Oscar Mondadori; 2005, pag. 421)
[12]
(Petrolio; Oscar Mondadori; 2005, pagg 533, 534)
[13]
(Davide Lajolo, «Venti Quattro Anni», storia spregiudicata di un
uomo fortunato, Rizzoli Editore, 1981, pag. 129).
[14]
(Davide Lajolo, «Venti Quattro Anni», storia spregiudicata di un
uomo fortunato, Rizzoli Editore, 1981, pag. 110).
[15]
(Guy Debord, Commentari sulla società dello spettacolo.
Baldini&Castaldi 1992, pag. 238).