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Gennaio 2014

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IN LUOGO DELL'ALIENAZIONE

Alessandro D'Aloia

 

Premessa

Con il tentativo di riflessione fatto nel numero precedente[1] intorno al significato del luogo, credo si sia toccato un punto di discussione potenzialmente fecondo per il momento storico che stiamo vivendo. Per questo motivo reputo giusto non lasciar cadere l’argomento. Il presente articolo vuole essere un ragionamento ulteriore, e solo iniziale, sull’importanza del tema dei luoghi per l’agire politico nel contesto attuale. Cercherò perciò di chiarire in che termini ritengo centrale questo tema.

Partirò da un’impressione generale apparentemente scollegata dal discorso: la società attuale disprezza il lavoro. Questa impressione potrebbe essere confermata e difficilmente confutata da una serie di analisi più approfondite condotte con scrupolo scientifico, tuttavia in tal modo devierei dal cuore del discorso che mi preme. Mi limito ad osservare che essa è in piena coerenza con alcune assunzioni teoriche, che lungi dal restare nel campo della teoria economica, sono ormai di palmare evidenza. Mi riferisco a specifiche ricadute della totalizzazione del rapporto di capitale, dando per scontata l’assunzione di tale riferimento generale per i fenomeni che si osservano nella realtà di oggi.

Una delle conseguenze della totalizzazione è «l’allungamento della giornata lavorativa sociale a livello planetario»[2] e vale a dire la riduzione generalizzata dei salari come tendenza complessiva del capitalismo in questa fase. È evidente che tra de-prezzamento generalizzato del lavoro umano e suo “disprezzo” c’è più di qualche semplice relazione etimologica.

Un’altra delle conseguenze dell’assunto teorico della totalizzazione è la centralità del problema dell’alienazione quale caratteristica non più limitata al solo campo dell’attività dell’operaio preso nei meccanismi della divisione del lavoro, ma quale proprietà dell’attività umana considerata complessivamente. Essere estraniato dal prodotto del proprio lavoro non è più solo un problema dell’operaio, ma una questione generale anche per quelle attività che non sono sottoposte all’organizzazione capitalistica del lavoro. Vale a dire che i problemi del deprezzamento e dell’alienazione toccano ormai tanto le produzioni materiali quanto, se non a maggior ragione, quelle immateriali e sarebbe un’illusione pensare di poter essere, in qualche modo, al riparo dai meccanismi economici che colpiscono il lavoro dipendente, anche dove il lavoro che si svolge ha natura diversa da quello dipendente. La stessa attività “intellettuale” non sfugge alla regola della valorizzazione mercantile. Basterebbe analizzare la condizione dei lavori immateriali nel contesto attuale.

La situazione è tale che d’ora in avanti sarà sempre più difficile mantenere in vita la relazione storica tra lavoro, ma sarebbe più corretto dire occupazione, e reddito. Potrebbe non essere così, ma si dovrebbe rinunciare alla tecnologia[3], cosa impossibile dal momento in cui essa entra, per un verso o per l’altro, praticamente in ogni attività lavorativa e se non entra massicciamente in una certa attività ne configura ugualmente il contesto.

 

Significato dell’alienazione oggi

In forme e gradi diversi, ogni produttore è alienato dal prodotto del proprio lavoro. Vorrei proporre la lettura del termine alienazione come sinonimo di indifferenza generalizzata della macchina produttiva capitalistica (e dei suoi componenti individuali) rispetto a tre ordini di categorie chiave: l’individuo, la società, il territorio.

A questa scala il problema dell’alienazione non è più solo inerente al senso dell’attività lavorativa individuale, ma tocca le ragioni stesse della produzione considerata nel suo complesso e in rapporto alla sua finalizzazione. Si tratta cioè di un modo di produzione compiutamente autoreferenziale.

La tecnologia ha un ruolo determinante in questo stato di cose. Essa non solo estromette progressivamente parti crescenti di attività umana dal processo produttivo, cosa che in differenti rapporti di produzione avrebbe indubbiamente dei vantaggi, ma fatto più importante, determina ciò che viene prodotto e i caratteri di tale produzione.

Si pensi, solo ad esempio, alla forma dei moderni telefonini. Si tratta in sostanza di schermi sensibili al tatto. Accade così che uno strumento di comunicazione che dovrebbe servire i sensi vocale ed auditivo, finisce per essere principalmente utilizzato dai sensi tattile e visivo. Questo succede non perché sia necessario trasformare la comunicazione verbale in comunicazione visiva e testuale, ma semplicemente perché la tecnologia disponibile permette questo tipo di trasformazione. I nuovi telefoni saranno anche intelligenti, ma sono alienanti. I prodotti dell’attività umana non rispondono più alle funzioni che ne giustificano l’esistenza.

L’autoreferenzialità tecnologica della produzione non tiene in conto nessun tipo di singolarità. Il processo produttivo astrae tanto dai bisogni reali e particolari dell’individuo considerato nella sua veste di consumatore, quanto da quelli dell’individuo considerato nella veste di produttore. La produzione industrializzata continua ad essere l’avanguardia della standardizzazione produttiva, mentre altri tipi di produzione continuano a conformarsi, in modo sempre crescente, al modello industriale dell’indifferenza verso il singolare. Un prodotto industriale non è mai pensato in riferimento agli utenti particolari, esso si giustifica in quanto tale, indipendentemente da chi lo produce, da chi lo consuma, da dove viene prodotto e dove viene utilizzato o consumato. Nel percorso di nascita e morte della merce, l’individuo con i suoi bisogni e le sue aspirazioni, le geografie sociali e territoriali, rappresentano dati puramente incidentali. Nessuno sa mai da dove vengono le materie prime, la forza lavoro, l’energia necessaria alla produzione, come nessuno si chiede dove la merce sarà consumata e dove sarà riciclata, se sarà o meno riciclata al termine del proprio ciclo. Il tempo d’esistenza dei prodotti comprende, in misura crescente e aleatoria, spazi tra loro diversi. Questa modalità produttiva globalizzata cancella in modo irreversibile le geografie produttive ereditate dalla storia, per cui non c’è nessuna relazione tra un determinato territorio ed una determinata produzione, allo stesso modo di come non c’è relazione tra l’individuo ed il prodotto del proprio lavoro. Niente li lega, tutto è interscambiabile a seconda delle convenienze di mercato contingenti. La possibilità di scambiare manodopera, porta con sé quella di scambiare sedi produttive con la conseguenza dell’indifferenza generalizzata della produzione rispetto alle vocazioni territoriali, sia in termini di risorse naturali e fisiche, che in termini di risorse lavorative e formative. Nessun territorio è in grado di far valere le proprie specificità e di investire su di esse e a lungo andare ciò instaura una effettiva equivalenza tra territori e culture produttive tra loro anche diversissime. L’impossibilità del lavoratore di esprimere la propria personalità nel processo produttivo diventa l’impossibilità dei territori di esprimere una loro cifra geografica nella produzione globalizzata. Sono ormai pochi i prodotti che possono essere riconosciuti come espressione particolare di una data geografia e di una data cultura produttiva. La produzione di beni tende all’asetticità, all’indifferenza, all’inespressività. Si tratta, a ben vedere, di un’omogeneizzazione totalizzante dei linguaggi creativi. Ciò che determina la localizzazione materiale di una data produzione è sostanzialmente il costo del lavoro su scala globale. I territori sono impotenti di fronte a questa dinamica e con essi i loro abitanti. Con questo non si dice niente di nuovo. Ma quello che preme sottolineare è il venire meno, la negazione, del legame tra produzione globale e condizioni locali.

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Geografie lavorative

In definitiva se si è dell’avviso che i luoghi sono definiti dalla traccia storica dell’attività umana sullo spazio in cui essa avviene, si può comprendere bene come la modalità produttiva capitalistica, per sua natura, agisca contro i luoghi. In altri termini se i luoghi sono espressione storica delle cifre produttive della civiltà, e dunque segno della spazializzazione del tempo sociale, laddove salta il rapporto tra attività umana e spazio, salta la possibilità stessa di parlare di luoghi. Il risultato della globalizzazione capitalistica è la riduzione del globo a non-luogo, ovvero l’evoluzione del rapporto storico d’interdipendenza tra l’uomo e il proprio spazio vitale verso un modello di coesistenza compiutamente alienata, nella quale i due termini del rapporto, l’uomo e il proprio ambiente, sono estranei l’uno all’altro.

In effetti se l’uomo non fosse alienato da se stesso e dal proprio ambiente, non si potrebbe neanche concepire il suo livello di indifferenza rispetto alle sorti del pianeta in generale e della sua geografia di appartenenza in particolare.

In concreto la situazione descritta fa in modo che l’individuo con qualsiasi tipo di formazione, considerato tanto singolarmente, quanto collettivamente, non possa in nessun modo, e neanche volendo, prendere in considerazione la possibilità concreta di agire finalizzando la propria attività lavorativa in funzione del proprio ambiente di vita. Egli non può nulla nei propri confronti e nei confronti del proprio spazio. Non dispone della propria forza lavoro, presa in meccanismi che non dipendono, in nessun caso, dalla sua volontà. Al contrario la propria sopravvivenza personale è possibile solo sul presupposto del progressivo depauperamento delle condizioni al contorno.

 

Anti-polis

La totalizzazione dell’alienazione intesa come indifferenza della macchina produttiva rispetto all’individuo, la società e il territorio, determina, in altre parole, la fine del lavoro, della democrazia e dell’ambiente, il che equivale, evidentemente, a dire la fine della politica. Porre oggi un problema d’esistenza della politica, significa dunque ristabilire una fecondità del rapporto tra lavoro, democrazia e ambiente, considerati quali tracce significanti dell’azione individuale, sociale e sul territorio.

Se la globalizzazione è contro la politica, e questo è un problema generale, la soluzione, ma sarebbe meglio dire le soluzioni, è situata a livello locale. Il problema generale richiede soluzioni particolari. Quello che sto tentando di dire è che se ci si interroga su cosa significhi fare politica oggi si dovrebbe rispondere che significa occuparsi dei luoghi in cui si vive, dal momento che la globalizzazione capitalistica si configura come cancellazione generalizzata dei luoghi. L’obiettivo di tornare a creare luoghi milita direttamente contro la riduzione del pianeta a non-luogo.

Nello specifico, l’individuo preso nelle dinamiche del mercato del lavoro, considerando se stesso come a disposizione delle richieste di mercato, si de-territorializza nella sua disponibilità a spostarsi a seconda delle esigenze. Il lavoratore in balia delle richieste di mercato finisce per non sentirsi legato ad un determinato contesto sociale e territoriale, dato che potrebbe prestare la sua forza lavoro in qualunque contesto lo richieda. Questo vale sia per le mansioni manuali, che per quelle intellettuali. La società viene a costituirsi come un insieme di individui de-territorializzati e il territorio finisce per ospitare masse di persone nomadizzate dalle leggi del mercato, che pertanto non si sentono legate a nessun territorio in particolare. Si tratta dunque di ricostruire luoghi e questa costruzione avviene con il lavoro.

 

Spaesamenti

Il livello di alienazione è tale da lasciare considerare del tutto normale che per poter lavorare bisogna spostarsi. A nessuno questo dato sembra procurare allarme. Se in passato lasciare il proprio paese in cerca di occupazione era decisione chiamata con il suo nome, oggi l’emigrazione assumendo caratteri di mobilità permanente, anche quando si resta fermi, non è più vista come svolta netta nell’esistenza. Tuttavia questo semplice dato oggettivo ha ricadute importantissime sul rapporto di appartenenza che c’era in passato tra gli individui e il loro spazio di vita. L’interiorizzazione dello spirito nomade sta riconducendo l’umanità a de-civilizzare il proprio rapporto con l’ambiente. Le persone si comportano come il capitale che non ha patria e fluttua senza tregua. Non c’è dimostrazione più palese del concetto di sussunzione della personalità al capitale. Qui non si sta certo predicando la necessità dell’interdizione a potersi spostare nel mondo, al contrario quella di rimuovere i caratteri di costrizione che determinano i flussi migratori attuali. La condizione migrante, e lo sradicamento conseguente, è oggi una disposizione esistenziale che riguarda, in misure diverse, tutti.

Dall’altro lato è possibile osservare una netta opposizione tra strati sociali nomadizzati dalla ricerca di occupazione e strati sociali dominanti, arroccati nei loro luoghi di controllo dei flussi di persone, merci e capitale. Non ci si pone attenzione, ma la distanza tra società e politica è aumentata anche nella misura in cui mentre la prima conserva gelosamente i propri luoghi, i suoi palazzi (quelli tradizionali, dal parlamento ai municipi) creandone in continuazione dei nuovi in cui barricarsi, come le istituzioni sovranazionali e le sedi di questo o quell’organo politico di controllo, la seconda viene sistematicamente privata di qualsiasi occasione di incontro e scambio reciproco, dal luogo di lavoro, alla piazza del paese. È palese, a questo punto, che l’individuo e le comunità senza luogo sono disarmati rispetto al potere. Se fossimo nel medioevo potremmo figurarci questa situazione nel modo seguente: entro le mura della città tutti quelli che hanno una qualche mansione di potere, tutti gli altri fuori, in balia degli elementi. Oggi le grandi città non hanno mura, eppure sono luoghi privilegiati con forme differenziate di accessibilità sociale.

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Per una nea-polis

Il compito politico odierno, in poche parole, è quello di ri-territorializzare l’uomo. Che significa?

Diciamo subito che questo compito è politico ma non della politica, nel senso che non ci si può aspettare che sia la politica dei politici ad attuarlo. Si tratta infatti di riconquistare i luoghi esattamente come si conquisterebbero bastioni, castelli e città in una guerra d’altri tempi.

In un periodo storico in cui il lavoro è disprezzato dal sistema che lo sfrutta, quanto detto finora si traduce in una cosa molto semplice: è praticamente impossibile per tutti riuscire a fare quello che si vuole fare, ovvero riuscire a trovare uno sbocco pratico alla propria formazione nel luogo in cui si vive. Questo per di più accade di fronte alla latitanza crescente delle istituzioni che dovrebbero occuparsi di dare risposta ai bisogni concreti delle popolazioni. Essendo la produzione di beni e servizi determinata unicamente dai flussi di mercato, avviene che i bisogni dei territori restino sostanzialmente senza soddisfazione. Cioè la dinamica anarchica del mercato e la sussunzione delle istituzioni alla medesima, generando un ritiro generalizzato dello Stato[4], aprono scenari di autodeterminazione territoriale impensabili in precedenza. Si dice che “manca il lavoro”, come se la crisi di circolazione del capitale, fosse il riflesso di una reale diminuzione dei bisogni della società e non piuttosto il contrario. La verità è che non sono i bisogni delle persone a far muovere il sistema del lavoro. Per questo esso non conserva quasi più traccia di un’utilità sociale.

Si pone quindi un problema generale di utilità sociale delle occupazioni, al quale si può dare risposta solo immaginando una diversa organizzazione del lavoro ad ogni livello. La speranza di trovare occupazione secondo le modalità tradizionali, cioè all’interno di un rapporto di produzione in cui la figura imprenditoriale domina nella separazione da quella dipendente e in cui l’imperativo è costituito dalla ricerca di profitto, ha sempre più i caratteri di una soluzione solo parziale in termini di sussistenza e del tutto mortificante sul piano delle capacità individuali. Il presupposto per una riqualificazione delle occupazioni del futuro è quello di organizzare la forza lavoro in modo autonomo a partire dallo studio delle istanze socio-territoriali delle geografie di appartenenza. Se questo presupposto avrà anche un risvolto economico per la forza lavoro impiegata, dipenderà dalle capacità di sapersi inserire nelle reali contraddizioni della situazione in cui si agisce. Ma il problema generale del reddito è, come detto, già di fatto tendenzialmente alienato dalle occupazioni concrete.

Fare politica oggi non può che significare “fare luoghi”, letteralmente creare luoghi di lavoro. Per farlo si partirà dalle formazioni. Queste infatti non sono solo il bagaglio di conoscenze e capacità che il soggetto ha appreso nel suo processo di formazione precedente all’immissione nel mondo del lavoro, ma portano con loro un carico di aspirazioni personali per lo più destinate ad essere frustrate in modo permanente. Il soggetto non ha scelta, o ridimensiona le proprie aspirazioni, nel migliore dei casi trovando occupazioni che non hanno nulla a che fare con le proprie capacità, oppure si pone il problema di creare le condizioni per poter mettere in pratica quanto imparato nella propria esperienza formativa. Se si sceglie la seconda via, ci si rende immediatamente conto che è impossibile muoversi in solitudine. Dunque il problema individuale di lavorare è subito riconosciuto come il problema comune alla medesima categoria formativa e per estensione alle altre. Si tratta perciò di capire come fare per lavorare e di come farlo con gli altri. Sarà necessario costituire gruppi e reti. Il problema del lavoro è dunque intimamente legato a quello sociale. Non sarà sufficiente creare un’attività, ma sarà necessario organizzare collettivamente e liberamente l’attività.

Quest’organizzazione porrà una questione fondamentale che è quella della democrazia. Che obiettivi darsi? Come rapportarsi tra membri del gruppo? cosa proporre all’esterno? In sostanza cosa produrre, come farlo e per chi. Un’altra domanda però risulterà fondamentale: con chi organizzarsi? Certamente, come detto, in base alle categorie formative, almeno in prima istanza, ma in concreto non avrebbe senso organizzarsi con tutti i membri di una data categoria (mentre ha certamente senso, a questa scala, costruire reti), bensì con quelli che operano nello stesso territorio e questo per ovvie ragioni logistiche. Dal momento che i gruppi dovranno lavorare insieme, essi saranno localizzati. Questa necessità logistica sarà l’anello di saldatura tra i gruppi e le reti ed il loro proprio contesto socio-territoriale. Quest’ordine di legami avrà influenze sulla stessa definizione degli obiettivi e delle proposte. Sarà cioè il territorio a fornire le istanze autoctone alle quali rispondere per poter realizzare e sostenere l’attività. Dal momento che i gruppi lavorano sul territorio essi si pongono anche come osservatori critici su quel territorio, il quale entra direttamente e indirettamente negli interessi dei produttori di beni e servizi. Viene cioè ristabilita la relazione tra lavoro, democrazia del lavoro e ambiente, inteso come contesto, in senso lato, dell’occupazione.

In questi termini occuparsi del problema del proprio lavoro, implica una stretta concatenazione, che possiamo riconoscere come intimamente “politica”, tra formazione individuale, modalità organizzative, sua potenziale utilità sociale e vocazione ambientale. Questa natura “politica” del lavoro, porrà prima o poi anche il problema del rapporto con la politica, sarebbe ingenuo pensare di riuscire semplicemente a by-passare le resistenze istituzionali all’autonomia lavorativa della società.

La centralità accordata al luogo di lavoro, tra tutti i luoghi possibili, deriva semplicemente dalla constatazione che continua ad essere il lavoro il mezzo fondamentale attraverso il quale l’uomo può pensare di finalizzare le proprie energie vitali. È anche il caso di chiarire, a questo punto, che intendo il lavoro nella sua accezione di finalizzazione dell’energia umana, non dell’occupazione resa in cambio di un salario o stipendio che sia. È inoltre evidente, che dal momento in cui la precarizzazione dei rapporti di lavoro e la dispersione produttiva hanno dato il via all’irreversibile erosione capitalistica dei luoghi di lavoro, intesi come spazi in cui la forza lavoro veniva coattamente concentrata, ma nei quali riusciva, in qualche modo, a sentirsi parte di un progetto più ampio (il progresso, il benessere e così via), si è assistito alla definitiva scomparsa del senso di comunità che precedentemente legava tra loro i medesimi componenti dei diversi settori sociali. Tale scomparsa ha innescato la trasformazione progressiva in non-luoghi non solo di quegli spazi che nascevano già in queste condizioni sociali, ma anche degli spazi che provenivano da storie precedenti e che ancora conservano un’eco della civiltà umana che fu.

Pensare il lavoro come libera attività autonoma di gruppi localizzati, e in definitiva come riappropriazione del proprio tempo lavorativo, non è schema semplice come quello tradizionale che assegnava alla classe operaia, per ragioni arcinote, il ruolo di avanguardia nell’appropriazione del sistema produttivo, tuttavia esso ha il pregio di estendere le problematiche tradizionali sul controllo della produzione e l’autodeterminazione lavorativa, ad ambiti occupazionali esterni all’unità di produzione industriale, in una fase storica in cui le condizioni alienanti del lavoro operaio hanno permeato tutto il campo dell’attività umana.

 

Infine è forse il caso di accennare ad un dato della realtà attuale, collegato al discorso fin qui fatto, ma attinente, almeno sul piano del consumo di massa, più alla sfera del tempo libero che di quello lavorativo, costituito dalla “fuga dal reale” che la tecnologia informatica, nelle sue diverse forme, induce. Il proliferare, su scala mai concepita precedentemente, della produzione di non-luoghi virtuali, fruibili unicamente attraverso terminali informatici con la finalità della distrazione delle energie vitali dalla realtà, dietro il velo rassicurante e divertente della ludicizzazione[5] del tempo libero (social network, videogiochi, intrattenimento televisivo e via dicendo), acquisisce una dimensione sempre più rilevante e determinante nel processo di de-politicizzazione di massa. Avviene cioè che i soggetti alienati da occupazioni lavorative sempre meno coinvolgenti sul piano della partecipazione personale, trasferiscano la ricerca di soddisfazioni compensative in attività ludiche che di fatto annullano la dimensione sociale del tempo libero, istituendo una modalità ulteriore, molto concreta e potente, di erosione dei luoghi di socializzazione come corollario dell’appropriazione del tempo lavorativo già insito nei rapporti di produzione.

 

DICEMBRE 2013

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[1] Redazione (a cura di), Che cos’è un luogo? In «Città Future» n. 11.

[2] V. Fiano, La totalizzazione del rapporto di capitale, in «Città Future» n. 09.

[3] La tecnologia considerata come aumento della composizione organica, cioè macchinina o tecnica, del capitale è lo strumento principale per la valorizzazione illimitata dell’ora lavorata e la conseguente de-valorizzazione dell’apporto umano alla produzione, in un contesto in cui non si riesca a realizzare effettivamente tutto il valore incorporato nelle merci.

[4] Si pensi solo ad esempio alla vicenda di L’Aquila e su scala maggiore al Decreto n. 59, Disposizioni urgenti per il riordino della Protezione Civile, varato sotto il governo Monti, il 17 maggio 2012, qualche giorno prima del terremoto in Emilia, con il quale si stabilisce che lo Stato non si fa più carico delle spese di ricostruzione per eventi calamitosi come, ad esempio, i terremoti. Il significato intimo di un tale provvedimento non è altro che la metamorfosi dello Stato in nemico di se stesso, ovvero l’istituzionalizzazione dell’alienazione da sé.

[5] Si veda a tal proposito l’interessante serie di articoli pubblicata sul numero di dicembre di «Le Monde diplomatique», dedicati all’evoluzione straordinaria della produzione di videogiochi negli ultimi anni.