IN LUOGO DELL'ALIENAZIONE
Alessandro D'Aloia
Premessa
Con il tentativo di riflessione fatto
nel numero precedente[1] intorno al
significato del luogo, credo si sia toccato un punto di discussione
potenzialmente fecondo per il momento storico che stiamo vivendo. Per
questo motivo reputo giusto non lasciar cadere l’argomento. Il presente
articolo vuole essere un ragionamento ulteriore, e solo iniziale,
sull’importanza del tema dei luoghi per l’agire politico nel contesto
attuale. Cercherò perciò di chiarire in che termini ritengo centrale
questo tema.
Partirò da un’impressione generale
apparentemente scollegata dal discorso: la società attuale disprezza il
lavoro. Questa impressione potrebbe essere confermata e difficilmente
confutata da una serie di analisi più approfondite condotte con scrupolo
scientifico, tuttavia in tal modo devierei dal cuore del discorso che mi
preme. Mi limito ad osservare che essa è in piena coerenza con alcune
assunzioni teoriche, che lungi dal restare nel campo della teoria
economica, sono ormai di palmare evidenza. Mi riferisco a specifiche
ricadute della totalizzazione del
rapporto di capitale, dando per scontata l’assunzione di tale
riferimento generale per i fenomeni che si osservano nella realtà di
oggi.
Una delle conseguenze della
totalizzazione è
«l’allungamento della giornata lavorativa sociale a livello planetario»[2] e vale a dire
la riduzione generalizzata dei salari come tendenza complessiva del
capitalismo in questa fase. È evidente che tra de-prezzamento
generalizzato del lavoro umano e suo “disprezzo” c’è più di qualche
semplice relazione etimologica.
Un’altra delle conseguenze dell’assunto
teorico della totalizzazione è la centralità del problema
dell’alienazione quale caratteristica non più limitata al solo campo
dell’attività dell’operaio preso nei meccanismi della divisione del
lavoro, ma quale proprietà dell’attività umana considerata
complessivamente. Essere estraniato dal prodotto del proprio lavoro non
è più solo un problema dell’operaio, ma una questione generale anche per
quelle attività che non sono sottoposte all’organizzazione capitalistica
del lavoro. Vale a dire che i problemi del deprezzamento e
dell’alienazione toccano ormai tanto le produzioni materiali quanto, se
non a maggior ragione, quelle immateriali e sarebbe un’illusione pensare
di poter essere, in qualche modo, al riparo dai meccanismi economici che
colpiscono il lavoro dipendente, anche dove il lavoro che si svolge ha
natura diversa da quello dipendente. La stessa attività “intellettuale”
non sfugge alla regola della valorizzazione mercantile. Basterebbe
analizzare la condizione dei lavori immateriali nel contesto attuale.
La situazione è tale che d’ora in avanti
sarà sempre più difficile mantenere in vita la relazione storica tra
lavoro, ma sarebbe più corretto dire occupazione, e reddito. Potrebbe
non essere così, ma si dovrebbe rinunciare alla tecnologia[3], cosa
impossibile dal momento in cui essa entra, per un verso o per l’altro,
praticamente in ogni attività lavorativa e se non entra massicciamente
in una certa attività ne configura ugualmente il contesto.
Significato dell’alienazione oggi
In forme e gradi diversi, ogni
produttore è alienato dal prodotto del proprio lavoro. Vorrei proporre
la lettura del termine alienazione come sinonimo di indifferenza
generalizzata della macchina produttiva capitalistica (e dei suoi
componenti individuali) rispetto a tre ordini di categorie chiave:
l’individuo, la società, il territorio.
A questa scala il problema
dell’alienazione non è più solo inerente al senso dell’attività
lavorativa individuale, ma tocca le ragioni stesse della produzione
considerata nel suo complesso e in rapporto alla sua finalizzazione. Si
tratta cioè di un modo di produzione compiutamente autoreferenziale.
La tecnologia ha un ruolo determinante
in questo stato di cose. Essa non solo estromette progressivamente parti
crescenti di attività umana dal processo produttivo, cosa che in
differenti rapporti di produzione avrebbe indubbiamente dei vantaggi, ma
fatto più importante, determina ciò che viene prodotto e i caratteri di
tale produzione.
Si pensi, solo ad esempio, alla forma
dei moderni telefonini. Si tratta in sostanza di schermi sensibili al
tatto. Accade così che uno strumento di comunicazione che dovrebbe
servire i sensi vocale ed auditivo, finisce per essere principalmente
utilizzato dai sensi tattile e visivo. Questo succede non perché sia
necessario trasformare la comunicazione verbale in comunicazione visiva
e testuale, ma semplicemente perché la tecnologia disponibile permette
questo tipo di trasformazione. I nuovi telefoni saranno anche
intelligenti, ma sono alienanti. I prodotti dell’attività umana non
rispondono più alle funzioni che ne giustificano l’esistenza.
L’autoreferenzialità tecnologica della
produzione non tiene in conto nessun tipo di singolarità. Il processo
produttivo astrae tanto dai bisogni reali e particolari dell’individuo
considerato nella sua veste di consumatore, quanto da quelli
dell’individuo considerato nella veste di produttore. La produzione
industrializzata continua ad essere l’avanguardia della
standardizzazione produttiva, mentre altri tipi di produzione continuano
a conformarsi, in modo sempre crescente, al modello industriale
dell’indifferenza verso il singolare. Un prodotto industriale non è mai
pensato in riferimento agli utenti particolari, esso si giustifica in
quanto tale, indipendentemente da chi lo produce, da chi lo consuma, da
dove viene prodotto e dove viene utilizzato o consumato. Nel percorso di
nascita e morte della merce, l’individuo con i suoi bisogni e le sue
aspirazioni, le geografie sociali e territoriali, rappresentano dati
puramente incidentali. Nessuno sa mai da dove vengono le materie prime,
la forza lavoro, l’energia necessaria alla produzione, come nessuno si
chiede dove la merce sarà consumata e dove sarà riciclata, se sarà o
meno riciclata al termine del proprio ciclo. Il tempo d’esistenza dei
prodotti comprende, in misura crescente e aleatoria, spazi tra loro
diversi. Questa modalità produttiva globalizzata cancella in modo
irreversibile le geografie produttive ereditate dalla storia, per cui
non c’è nessuna relazione tra un determinato territorio ed una
determinata produzione, allo stesso modo di come non c’è relazione tra
l’individuo ed il prodotto del proprio lavoro. Niente li lega, tutto è
interscambiabile a seconda delle convenienze di mercato contingenti. La
possibilità di scambiare manodopera, porta con sé quella di scambiare
sedi produttive con la conseguenza dell’indifferenza generalizzata della
produzione rispetto alle vocazioni territoriali, sia in termini di
risorse naturali e fisiche, che in termini di risorse lavorative e
formative. Nessun territorio è in grado di far valere le proprie
specificità e di investire su di esse e a lungo andare ciò instaura una
effettiva equivalenza tra territori e culture produttive tra loro anche
diversissime. L’impossibilità del lavoratore di esprimere la propria
personalità nel processo produttivo diventa l’impossibilità dei
territori di esprimere una loro cifra geografica nella produzione
globalizzata. Sono ormai pochi i prodotti che possono essere
riconosciuti come espressione particolare di una data geografia e di una
data cultura produttiva. La produzione di beni tende all’asetticità,
all’indifferenza, all’inespressività. Si tratta, a ben vedere, di
un’omogeneizzazione totalizzante dei linguaggi creativi. Ciò che
determina la localizzazione materiale di una data produzione è
sostanzialmente il costo del lavoro su scala globale. I territori sono
impotenti di fronte a questa dinamica e con essi i loro abitanti. Con
questo non si dice niente di nuovo. Ma quello che preme sottolineare è
il venire meno, la negazione, del legame tra produzione globale e
condizioni locali.
Geografie lavorative
In definitiva se si è dell’avviso che i
luoghi sono definiti dalla traccia storica dell’attività umana sullo
spazio in cui essa avviene, si può comprendere bene come la modalità
produttiva capitalistica, per sua natura, agisca contro i luoghi. In
altri termini se i luoghi sono espressione storica delle cifre
produttive della civiltà, e dunque segno della spazializzazione del
tempo sociale, laddove salta il rapporto tra attività umana e spazio,
salta la possibilità stessa di parlare di luoghi. Il risultato della
globalizzazione capitalistica è la riduzione del globo a non-luogo,
ovvero l’evoluzione del rapporto storico d’interdipendenza tra l’uomo e
il proprio spazio vitale verso un modello di coesistenza compiutamente
alienata, nella quale i due termini del rapporto, l’uomo e il proprio
ambiente, sono estranei l’uno all’altro.
In effetti se l’uomo non fosse alienato
da se stesso e dal proprio ambiente, non si potrebbe neanche concepire
il suo livello di indifferenza rispetto alle sorti del pianeta in
generale e della sua geografia di appartenenza in particolare.
In concreto la situazione descritta fa
in modo che l’individuo con qualsiasi tipo di formazione, considerato
tanto singolarmente, quanto collettivamente, non possa in nessun modo, e
neanche volendo, prendere in considerazione la possibilità concreta di
agire finalizzando la propria attività lavorativa in funzione del
proprio ambiente di vita. Egli non può nulla nei propri confronti e nei
confronti del proprio spazio. Non dispone della propria forza lavoro,
presa in meccanismi che non dipendono, in nessun caso, dalla sua
volontà. Al contrario la propria sopravvivenza personale è possibile
solo sul presupposto del progressivo depauperamento delle condizioni al
contorno.
Anti-polis
La totalizzazione dell’alienazione
intesa come indifferenza della macchina produttiva rispetto
all’individuo, la società e il territorio, determina, in altre parole,
la fine del lavoro, della democrazia e dell’ambiente, il che equivale,
evidentemente, a dire la fine della politica. Porre oggi un problema
d’esistenza della politica, significa dunque ristabilire una fecondità
del rapporto tra lavoro, democrazia e ambiente, considerati quali tracce
significanti dell’azione individuale, sociale e sul territorio.
Se la globalizzazione è contro la
politica, e questo è un problema generale, la soluzione, ma sarebbe
meglio dire le soluzioni, è situata a livello locale. Il problema
generale richiede soluzioni particolari. Quello che sto tentando di dire
è che se ci si interroga su cosa significhi fare politica oggi si
dovrebbe rispondere che significa occuparsi dei luoghi in cui si vive,
dal momento che la globalizzazione capitalistica si configura come
cancellazione generalizzata dei luoghi. L’obiettivo di tornare a creare
luoghi milita direttamente contro la riduzione del pianeta a non-luogo.
Nello specifico, l’individuo preso nelle
dinamiche del mercato del lavoro, considerando se stesso come a
disposizione delle richieste di mercato, si de-territorializza nella sua
disponibilità a spostarsi a seconda delle esigenze. Il lavoratore in
balia delle richieste di mercato finisce per non sentirsi legato ad un
determinato contesto sociale e territoriale, dato che potrebbe prestare
la sua forza lavoro in qualunque contesto lo richieda. Questo vale sia
per le mansioni manuali, che per quelle intellettuali. La società viene
a costituirsi come un insieme di individui de-territorializzati e il
territorio finisce per ospitare masse di persone nomadizzate dalle leggi
del mercato, che pertanto non si sentono legate a nessun territorio in
particolare. Si tratta dunque di ricostruire luoghi e questa costruzione
avviene con il lavoro.
Spaesamenti
Il livello di alienazione è tale da
lasciare considerare del tutto normale che per poter lavorare bisogna
spostarsi. A nessuno questo dato sembra procurare allarme. Se in passato
lasciare il proprio paese in cerca di occupazione era decisione chiamata
con il suo nome, oggi l’emigrazione assumendo caratteri di mobilità
permanente, anche quando si resta fermi, non è più vista come svolta
netta nell’esistenza. Tuttavia questo semplice dato oggettivo ha
ricadute importantissime sul rapporto di appartenenza che c’era in
passato tra gli individui e il loro spazio di vita. L’interiorizzazione
dello spirito nomade sta riconducendo l’umanità a de-civilizzare il
proprio rapporto con l’ambiente. Le persone si comportano come il
capitale che non ha patria e fluttua senza tregua. Non c’è dimostrazione
più palese del concetto di sussunzione della personalità al capitale.
Qui non si sta certo predicando la necessità dell’interdizione a potersi
spostare nel mondo, al contrario quella di rimuovere i caratteri di
costrizione che determinano i flussi migratori attuali. La condizione
migrante, e lo sradicamento conseguente, è oggi una disposizione
esistenziale che riguarda, in misure diverse, tutti.
Dall’altro lato è possibile osservare
una netta opposizione tra strati sociali nomadizzati dalla ricerca di
occupazione e strati sociali dominanti, arroccati nei loro luoghi di
controllo dei flussi di persone, merci e capitale. Non ci si pone
attenzione, ma la distanza tra società e politica è aumentata anche
nella misura in cui mentre la prima conserva gelosamente i propri
luoghi, i suoi palazzi (quelli tradizionali, dal parlamento ai municipi)
creandone in continuazione dei nuovi in cui barricarsi, come le
istituzioni sovranazionali e le sedi di questo o quell’organo politico
di controllo, la seconda viene sistematicamente privata di qualsiasi
occasione di incontro e scambio reciproco, dal luogo di lavoro, alla
piazza del paese. È palese, a questo punto, che l’individuo e le
comunità senza luogo sono disarmati rispetto al potere. Se fossimo nel
medioevo potremmo figurarci questa situazione nel modo seguente: entro
le mura della città tutti quelli che hanno una qualche mansione di
potere, tutti gli altri fuori, in balia degli elementi. Oggi le grandi
città non hanno mura, eppure sono luoghi privilegiati con forme
differenziate di accessibilità sociale.
Per una
nea-polis
Il compito politico odierno, in poche
parole, è quello di ri-territorializzare l’uomo. Che significa?
Diciamo subito che questo compito è
politico ma non della politica, nel senso che non ci si può aspettare
che sia la politica dei politici ad attuarlo. Si tratta infatti di
riconquistare i luoghi esattamente come si conquisterebbero bastioni,
castelli e città in una guerra d’altri tempi.
In un periodo storico in cui il lavoro è
disprezzato dal sistema che lo sfrutta, quanto detto finora si traduce
in una cosa molto semplice: è praticamente impossibile per tutti
riuscire a fare quello che si vuole fare, ovvero riuscire a trovare uno
sbocco pratico alla propria formazione nel luogo in cui si vive. Questo
per di più accade di fronte alla latitanza crescente delle istituzioni
che dovrebbero occuparsi di dare risposta ai bisogni concreti delle
popolazioni. Essendo la produzione di beni e servizi determinata
unicamente dai flussi di mercato, avviene che i bisogni dei territori
restino sostanzialmente senza soddisfazione. Cioè la dinamica anarchica
del mercato e la sussunzione delle istituzioni alla medesima, generando
un ritiro generalizzato dello Stato[4], aprono
scenari di autodeterminazione territoriale impensabili in precedenza. Si
dice che “manca il lavoro”, come se la crisi di circolazione del
capitale, fosse il riflesso di una reale diminuzione dei bisogni della
società e non piuttosto il contrario. La verità è che non sono i bisogni
delle persone a far muovere il sistema del lavoro. Per questo esso non
conserva quasi più traccia di un’utilità sociale.
Si pone quindi un problema generale di
utilità sociale delle occupazioni, al quale si può dare risposta solo
immaginando una diversa organizzazione del lavoro ad ogni livello. La
speranza di trovare occupazione secondo le modalità tradizionali, cioè
all’interno di un rapporto di produzione in cui la figura
imprenditoriale domina nella separazione da quella dipendente e in cui
l’imperativo è costituito dalla ricerca di profitto, ha sempre più i
caratteri di una soluzione solo parziale in termini di sussistenza e del
tutto mortificante sul piano delle capacità individuali. Il presupposto
per una riqualificazione delle occupazioni del futuro è quello di
organizzare la forza lavoro in modo autonomo a partire dallo studio
delle istanze socio-territoriali delle geografie di appartenenza. Se
questo presupposto avrà anche un risvolto economico per la forza lavoro
impiegata, dipenderà dalle capacità di sapersi inserire nelle reali
contraddizioni della situazione in cui si agisce. Ma il problema
generale del reddito è, come detto, già di fatto tendenzialmente
alienato dalle occupazioni concrete.
Fare politica oggi non può che
significare “fare luoghi”, letteralmente creare luoghi di lavoro. Per
farlo si partirà dalle formazioni. Queste infatti non sono solo il
bagaglio di conoscenze e capacità che il soggetto ha appreso nel suo
processo di formazione precedente all’immissione nel mondo del lavoro,
ma portano con loro un carico di aspirazioni personali per lo più
destinate ad essere frustrate in modo permanente. Il soggetto non ha
scelta, o ridimensiona le proprie aspirazioni, nel migliore dei casi
trovando occupazioni che non hanno nulla a che fare con le proprie
capacità, oppure si pone il problema di creare le condizioni per poter
mettere in pratica quanto imparato nella propria esperienza formativa.
Se si sceglie la seconda via, ci si rende immediatamente conto che è
impossibile muoversi in solitudine. Dunque il problema individuale di
lavorare è subito riconosciuto come il problema comune alla medesima
categoria formativa e per estensione alle altre. Si tratta perciò di
capire come fare per lavorare e di come farlo con gli altri. Sarà
necessario costituire gruppi e reti. Il problema del lavoro è dunque
intimamente legato a quello sociale. Non sarà sufficiente creare
un’attività, ma sarà necessario organizzare collettivamente e
liberamente l’attività.
Quest’organizzazione porrà una questione
fondamentale che è quella della democrazia. Che obiettivi darsi? Come
rapportarsi tra membri del gruppo? cosa proporre all’esterno? In
sostanza cosa produrre, come farlo e per chi. Un’altra domanda però
risulterà fondamentale: con chi organizzarsi? Certamente, come detto, in
base alle categorie formative, almeno in prima istanza, ma in concreto
non avrebbe senso organizzarsi con tutti i membri di una data categoria
(mentre ha certamente senso, a questa scala, costruire reti), bensì con
quelli che operano nello stesso territorio e questo per ovvie ragioni
logistiche. Dal momento che i gruppi dovranno lavorare insieme, essi
saranno localizzati. Questa necessità logistica sarà l’anello di
saldatura tra i gruppi e le reti ed il loro proprio contesto
socio-territoriale. Quest’ordine di legami avrà influenze sulla stessa
definizione degli obiettivi e delle proposte. Sarà cioè il territorio a
fornire le istanze autoctone alle quali rispondere per poter realizzare
e sostenere l’attività. Dal momento che i gruppi lavorano sul territorio
essi si pongono anche come osservatori critici su quel territorio, il
quale entra direttamente e indirettamente negli interessi dei produttori
di beni e servizi. Viene cioè ristabilita la relazione tra lavoro,
democrazia del lavoro e ambiente, inteso come contesto, in senso lato,
dell’occupazione.
In questi termini occuparsi del problema
del proprio lavoro, implica una stretta concatenazione, che possiamo
riconoscere come intimamente “politica”, tra formazione individuale,
modalità organizzative, sua potenziale utilità sociale e vocazione
ambientale. Questa natura “politica” del lavoro, porrà prima o poi anche
il problema del rapporto con la politica, sarebbe ingenuo pensare di
riuscire semplicemente a by-passare le resistenze istituzionali
all’autonomia lavorativa della società.
La centralità accordata al luogo di
lavoro, tra tutti i luoghi possibili, deriva semplicemente dalla
constatazione che continua ad essere il lavoro il mezzo fondamentale
attraverso il quale l’uomo può pensare di finalizzare le proprie energie
vitali. È anche il caso di chiarire, a questo punto, che intendo il
lavoro nella sua accezione di finalizzazione dell’energia umana, non
dell’occupazione resa in cambio di un salario o stipendio che sia. È
inoltre evidente, che dal momento in cui la precarizzazione dei rapporti
di lavoro e la dispersione produttiva hanno dato il via
all’irreversibile erosione capitalistica dei luoghi di lavoro, intesi
come spazi in cui la forza lavoro veniva coattamente concentrata, ma nei
quali riusciva, in qualche modo, a sentirsi parte di un progetto più
ampio (il progresso, il benessere e così via), si è assistito alla
definitiva scomparsa del senso di comunità che precedentemente legava
tra loro i medesimi componenti dei diversi settori sociali. Tale
scomparsa ha innescato la trasformazione progressiva in non-luoghi non
solo di quegli spazi che nascevano già in queste condizioni sociali, ma
anche degli spazi che provenivano da storie precedenti e che ancora
conservano un’eco della civiltà umana che fu.
Pensare il lavoro come libera attività
autonoma di gruppi localizzati, e in definitiva come riappropriazione
del proprio tempo lavorativo, non è schema semplice come quello
tradizionale che assegnava alla classe operaia, per ragioni arcinote, il
ruolo di avanguardia nell’appropriazione del sistema produttivo,
tuttavia esso ha il pregio di estendere le problematiche tradizionali
sul controllo della produzione e l’autodeterminazione lavorativa, ad
ambiti occupazionali esterni all’unità di produzione industriale, in una
fase storica in cui le condizioni alienanti del lavoro operaio hanno
permeato tutto il campo dell’attività umana.
Infine è forse il caso di accennare ad
un dato della realtà attuale, collegato al discorso fin qui fatto, ma
attinente, almeno sul piano del consumo di massa, più alla sfera del
tempo libero che di quello lavorativo, costituito dalla “fuga dal reale”
che la tecnologia informatica, nelle sue diverse forme, induce. Il
proliferare, su scala mai concepita precedentemente, della produzione di
non-luoghi virtuali, fruibili unicamente attraverso terminali
informatici con la finalità della distrazione delle energie vitali dalla
realtà, dietro il velo rassicurante e divertente della ludicizzazione[5] del tempo
libero (social network, videogiochi, intrattenimento televisivo e via
dicendo), acquisisce una dimensione sempre più rilevante e determinante
nel processo di de-politicizzazione di massa. Avviene cioè che i
soggetti alienati da occupazioni lavorative sempre meno coinvolgenti sul
piano della partecipazione personale, trasferiscano la ricerca di
soddisfazioni compensative in attività ludiche che di fatto annullano la
dimensione sociale del tempo libero, istituendo una modalità ulteriore,
molto concreta e potente, di erosione dei luoghi di socializzazione come
corollario dell’appropriazione del tempo lavorativo già insito nei
rapporti di produzione.
DICEMBRE 2013
[1] Redazione (a cura di), Che cos’è un luogo? In «Città Future» n. 11.
[2] V. Fiano, La totalizzazione del rapporto di capitale, in «Città Future» n. 09.
[3]
La tecnologia considerata come aumento della composizione
organica, cioè macchinina o tecnica, del capitale è lo strumento
principale per la valorizzazione illimitata dell’ora lavorata e
la conseguente de-valorizzazione dell’apporto umano alla
produzione, in un contesto in cui non si riesca a realizzare
effettivamente tutto il valore incorporato nelle merci.
[4]
Si pensi solo ad esempio alla vicenda di L’Aquila e su scala
maggiore al Decreto n. 59,
Disposizioni urgenti per il riordino della Protezione Civile,
varato sotto il governo Monti, il 17 maggio 2012, qualche giorno
prima del terremoto in Emilia, con il quale si stabilisce che lo
Stato non si fa più carico delle spese di ricostruzione per
eventi calamitosi come, ad esempio, i terremoti. Il significato
intimo di un tale provvedimento non è altro che la metamorfosi
dello Stato in nemico di se stesso, ovvero
l’istituzionalizzazione dell’alienazione da sé.
[5]
Si veda a tal proposito l’interessante serie di articoli
pubblicata sul numero di dicembre di «Le Monde
diplomatique», dedicati all’evoluzione straordinaria della
produzione di videogiochi negli ultimi anni.