NARRAZIONE DI UNA LOTTA-VERTENZA
L'esperienza dell'ex-Canapificio e dei migranti di Caserta
Collettivo di studio e lavoro di Caserta
1) Sabato 8 giugno, al centro sociale
ex-Canapificio di Caserta circa trenta compagne e compagni hanno dato
vita a tre ore di serrata discussione. Si è trattato di un incontro
estremamente proficuo: in primo luogo, perché si è avuto modo di
riflettere più da vicino sulla lunga, straordinaria esperienza costruita
dai compagni dell’ex-Canapificio assieme ai migranti; in secondo luogo,
perché la stessa semplice narrazione di quel percorso ha messo in
risalto taluni decisivi nodi teorici e politici.
Il movimento dei migranti e dei
rifugiati di Caserta è cresciuto progressivamente soprattutto sulla
questione del permesso di soggiorno. Ed è stata una crescita davvero
considerevole. Per ricordare un dato, gli ultimi cortei promossi
dall’ex-Canapificio, il 19 e 20 aprile a Napoli e a Caserta, hanno visto
mobilitati, in entrambe le giornate, oltre cinquemila migranti. Non sono
cose che avvengono spesso, specie ora che si registra ovunque, in
Italia, un plumbeo ristagno del conflitto in tutte le sue articolazioni.
D’altronde, l'esperienza del movimento dei migranti e dei rifugiati
collegati all’ex-Canapificio dura ormai da più di dieci anni. Al suo
attivo ci sono oltre 8 mila permessi di soggiorno, letteralmente
strappati con la lotta.
2) Tutto è iniziato tra il 2002 e il
L’atteggiamento dei compagni del
Canapificio, che fino ad allora avevano costruito semplicemente dei
rapporti di “soccorso militante” con le diverse comunità dei migranti,
soprattutto con la comunità senegalese, fu molto particolare. Da un
lato, come tutta la sinistra diffusa, essi denunciarono la legge
Bossi-Fini per i suoi connotati razzisti, in particolare per la
costruzione del reato di clandestinità; dall'altro, colsero
immediatamente che proprio quella legge creava, paradossalmente, grandi
aspettative tra i migranti stessi, per il cosiddetto “periodo
transitorio” ai fini della regolarizzazione. Capirono, allora, che forse
si poteva utilizzare la stessa dinamica determinata dalla applicazione
della norma per rovesciarne la logica ispiratrice.
Non è inutile ricordare che la loro
scelta fu liquidata come “minimalista”, e anzi controproducente ai fini
della “giusta denuncia politica” della Bossi-Fini. I tanti compagni che,
in buonissima fede, davano facilmente l’appellativo di “lotte” alle pure
sonorità delle assemblee o al ritmo degli slogan urlati dagli
altoparlanti dei cortei, non potevano capacitarsi che si potesse essere
contro la legge fascistoide del governo e, contemporaneamente,
utilizzarne i pochi spazi per costruire conflitti reali. Furono perciò
davvero pochi, nell’Italia di allora, a cogliere nella Bossi-Fini
l’occasione propizia per sviluppare un vero movimento di lotta dei
migranti teso alla regolarizzazione.
La legge, infatti, si presentava sì con
l'intento reazionario di chiudere le frontiere e di avviare le
espulsioni, ma anche con la logica tecnocratica di mettere
complessivamente “ordine” tra i migranti presenti in Italia, in parte
regolarizzandoli. L'iniziativa dell'ex-Canapificio, assieme ai migranti
con i quali era in contatto, si incentrò, dunque, sulla parola d'ordine
dell'allargamento degli spazi di regolarizzazione previsti dalle norme.
La logica fu quella di creare contraddizioni nella controparte; e, più
in generale, di creare contraddizioni nella società, sfruttando tutti i
varchi possibili.
3) Cominciava così a precisarsi la
caratteristica essenziale dell'iniziativa dell'ex-Canapificio, e cioè la
lotta-vertenza sul permesso di
soggiorno. Da un lato, “lotta-vertenza” significa costruire conflitto
non solo indicando una prospettiva di tipo generale, ma anche puntando a
strappare risultati immediati e parziali; dall'altro, l'individuazione
del permesso di soggiorno come questione centrale significa cogliere
esattamente il cuore pulsante della effettiva condizione migrante.
Chi non ha il permesso di soggiorno non
può contrattare, neppure dentro le regole del mercato capitalistico, la
propria prestazione lavorativa. È costretto a lavorare in condizioni di
ricatto continuo, accontentandosi di salari assolutamente irrisori e
subendo le angherie più disparate. E se alla fine gli venissero negati
finanche i pochi soldi pattuiti, non avrà alcuna possibilità di
ricorrere alla giustizia. Per giudici e poliziotti, infatti, egli è
colpevole in partenza in quanto "irregolare", e perciò è meritevole di
immediata espulsione. Il permesso di soggiorno compendia allora, in sé,
esattamente la contraddizione di fondo della condizione migrante: il
basso valore della propria forza-lavoro. Di converso, la lotta per il
permesso di soggiorno è già, in sé, una lotta per il valore del lavoro
e, più in generale, per il valore dell'esistenza. È lotta di classe.
In sostanza, l'ex-Canapificio avviava un
percorso, a partire dal contenzioso sugli spazi di regolarizzazione
della Bossi-Fini, molto diverso dalle semplici enunciazioni delle
questioni politiche e giuridiche legate al tema dei migranti, che molto
caratterizzavano, e ancora caratterizzano, l'iniziativa della sinistra
antagonista e dei centri sociali; ed era un percorso molto diverso anche
dalla semplice tutela attivata dal sindacato confederale. Si trattava
piuttosto di rivendicare, con le modalità tipiche della lotta – cortei,
sit-in, scioperi delle rotonde, occupazioni di luoghi simboli (per es.,
il Duomo di Caserta, occupato per diversi giorni), ecc. – la
velocizzazione delle procedure per l’esame delle richieste di
regolarizzazione, facendo sentire alla prefettura e alla questura la
presenza della piazza mobilitata.
Si ebbero i primi risultati positivi e
ciò incoraggiò ulteriormente il movimento. L’ex-Canapificio aprì allora
un nuovo fronte sulla questione dei “rifugiati e richiedenti asilo”.
Anche qui si trattava di utilizzare una brutta e contorta legge dello
Stato, per aprire tutti i varchi possibili e dare fiato al movimento.
L’obiettivo divenne, perciò, non solo aiutare i migranti a presentare
richiesta d’asilo, ma anche, e soprattutto, l’accelerazione delle
audizioni esplicitamente previste dalla legge per i rifugiati
“richiedenti asilo”.
Fu questa una scelta coraggiosa, che
molti, nel movimento a scala nazionale, criticarono duramente,
paventando un effetto-boomerang. Molto meglio, dicevano, le lungaggini
della commissione, perché dava ai "richiedenti" la possibilità di essere
posti “in attesa”, senza essere espulsi. Già: li garantiva
temporaneamente dalla espulsione, ma li teneva anche senza permesso di
soggiorno. Con tutto ciò che questo significava sul valore del lavoro e
dell’esistenza.
Di fatto, con le lotte (cortei anche a
Roma, organizzati dal solo Canapificio) si arrivò a un risultato enorme,
e cioè si ottenne che
4) È senz'altro singolare come una
esperienza così vincente abbia poi influito così poco sul piano
nazionale. D’altra parte, non si è costituito, finora, un movimento
generale degli immigrati in Italia. Ha pesato certamente il fatto che la
logica della lotta-vertenza fatica a farsi strada proprio nella sinistra
di alternativa, la quale esaurisce troppo spesso il suo dibattito
polarizzandosi tra “partitisti” e “movimentisti”, e lasciando al
“sindacato” il tema, squisitamente politico, delle vertenze. Sui
migranti, poi, la sinistra di alternativa oscilla tranquillamente tra
l'attenzione smodata alle pure enunciazioni e la “emergenza
soccorrevole” rispetto alle situazioni più eclatanti. Il risultato è che
una esperienza come quella dell’ex-Canapificio, che avrebbe tanto da
insegnare, resta ancora sostanzialmente in ombra.
Ma a determinare il “cono d’ombra” ha
contribuito anche la narrazione troppo estemporanea e per nulla
sistematica che lo stesso Canapificio ha fatto della propria esperienza.
E forse qui c’è stata una qualche sottovalutazione dell’importanza della
“politica”, intesa nel suo senso più profondo, e cioè come costruzione
della “memoria”. “Noi lottiamo non per il potere, ma per la memoria”, ci
dicono gli zapatisti del Chiapas col loro nuovo messaggio di speranza,
proprio a significare che la politica è molto più del potere.
Dunque: una vicenda forte; e però, tutto
sommato, isolata sul piano nazionale. Il che rappresenta, in realtà, un
problema per tutti. Di fatto, l’ex-Canapificio ha dovuto contrastare da
solo interpretazioni totalmente erronee della vicenda migrante, e ciò
sia sul piano dell'analisi sociale e sia sul piano della stessa cronaca
degli avvenimenti. Un esempio emblematico può essere quello della strage
di Castel Volturno. Come si ricorderà, nel 2008 alcuni sicari della
camorra spararono all'impazzata verso un gruppo di immigrati,
ammazzandone sei. Nel volontariato di tipo religioso e di ispirazione
laica (collegato comunque alla Chiesa), ma anche negli ambienti della
sinistra e dei “compagni”, quella vicenda non fu colta per quella che
era: un'aggressione di stampo razzista, effettuata, coi suoi sistemi,
dal braccio armato illegale di un settore delle classi possidenti (la
camorra, appunto), al fine di impaurire l'insieme delle comunità
migranti. Si disse, invece, talora apertamente e talora sottovoce, che
probabilmente c'entrasse lo spaccio della droga e che quei morti non
fossero per nulla “anime
candide”. Il Canapificio, che aveva conoscenza diretta delle vittime ed
una relazione attiva con la realtà di Castel Volturno, affermò subito
che le cose non stavano in quel modo. Ma la sua voce, la sua battaglia
per la verità, non riuscì a mobilitare molto al di là dei migranti. E
però un qualche effetto pure l'ha avuto, se è vero che la sentenza nei
confronti del gruppo di fuoco dei cosiddetti “casalesi”, responsabile
dell'eccidio, è rafforzata (ed è la prima volta che succede in Italia)
dalla riconosciuta "aggravante di odio razziale".
Più in generale, ha fatto capolino
abbastanza spesso, riguardo la vicenda dei migranti di Caserta, una
cattiva abitudine molto radicata nell’attuale sinistra di alternativa:
il parlare “per impressioni”, senza alcuno studio serio e senza alcuna
“inchiesta” sul campo. Ed anche questo è un punto di grande peculiarità
dell'esperienza dell’ex-Canapificio, che invece fa proprio
dell'inchiesta un elemento costante della lotta-vertenza. Il centro
sociale di Caserta utilizza, a tal fine, soprattutto gli sportelli di
assistenza e di tutela giuridica; ma la logica dell'inchiesta percorre
l'attività e le discussioni in tutto il susseguirsi dei cicli di lotta.
5) Dieci anni e passa di lotte
significano anche una varietà assoluta di situazioni incontrate, una
quantità enorme di azioni specifiche, e soprattutto tanta, tanta fatica.
Chi costruisce una lotta è chiamato a una relazione pressoché quotidiana
con le persone in carne ed ossa che la portano avanti. I momenti
esaltanti, i cortei, le grandi assemblee, i sit in, eccetera, hanno
dietro di loro un lavoro meticoloso di contatti e attività preparatorie.
E dopo i cortei e le azioni di piazza, vengono i momenti di confronto
con la controparte, che implicano uno scrupoloso studio delle leggi e
delle procedure, ed una puntuale attenzione ai passaggi concretamente
operativi.
Inoltre, la lotta è sempre un percorso
di auto-disciplina per tutti. Ad esempio, poiché uno dei fondamentali
punti di forza del movimento di Caserta era ed è la rete di simpatia
attorno alle lotte dei migranti – dalla Chiesa cattolica
all'associazionismo laico, fino alle più variegate realtà politiche e
sindacali – la capacità di “catturare simpatia” diventava essa stessa, e
diventa tutt’ora, una rilevante questione politica. E così ci sono state
ore e ore di riunioni, addirittura assemblee affollatissime, sul
problema dell’alcol nelle giornate di mobilitazione, in modo da
condividere il principio che, in quei momenti, birre, vini e liquori
venissero totalmente banditi. Oppure, altre ore ed ore di discussioni e
di decisioni su una questione che può sembrare spicciola, ma tanto
spicciola non è, per le implicazioni che determina nell’opinione
pubblica: la pipì all’aperto nell’area urbana, nei giardinetti o a
ridosso di muri isolati. Del resto, rompere il pregiudizio
dell’immigrato “come portatore di comportamenti incivili” significa, al
tempo stesso, restituire al migrante una più piena fiducia in se stesso,
nella propria capacità di porsi da pari a pari con gli interlocutori
italiani.
Insomma, un percorso così pieno come
quello dei migranti collegati all’ex-Canapificio non si produce né con
l'improvvisazione né con la partecipazione estemporanea dei compagni.
Ovviamente difficoltà e contraddizioni
sono insorte continuamente in ogni passaggio, e continuano ad
affacciarsi nel percorso quotidiano delle vertenze. Ad esempio, il
movimento punta alla auto-organizzazione, e però, per il continuo
turn-over dei partecipanti (ottenuto il permesso di soggiorno la
stragrande maggioranza dei migranti si sposta al nord per lavorare), non
può certo praticarla con la modalità dei delegati revocabili; deve far
vivere, invece, la propria struttura di direzione – uno staff operativo,
composto oggi da una cinquantina di persone, per i quattro quinti
migranti – col sistema, indubbiamente spurio, delle cooptazioni; e
dunque sa in partenza di dover procedere coi limiti, e con gli eccessi,
dell’“assemblearismo” e dell’“organizzativismo”. Oppure, per fare un
altro esempio, il movimento mira programmaticamente ad affermare la
situazione dei migranti come “condizione proletaria”, e perciò spinge
costantemente per superare le separazioni etniche e di cultura; ma sa
anche che dovrà comunque mediare questa sua traiettoria con
l’autoriconoscimento “per comunità”, largamente presente nella concreta
realtà migrante.
Come si intuisce, non si tratta per
nulla di problemi di piccolo cabotaggio. I compagni e le compagne
dell’ex-Canapificio sono riusciti finora a reggere l'insieme delle
questioni proprio perché sono stati animati da una solida mentalità di
tipo costruttivo. E anzi, l'attitudine costruttiva è forse la
caratteristica più evidente dell’intera esperienza dell’ex-Canapificio.
6) Schematizzando, nell’area della
sinistra di alternativa, convivono facilmente, magari nelle stesse
strutture organizzate, due logiche molto diverse. La prima è quella di
chi si rapporta ai movimenti e alle lotte con l’assillo della
“bandiera”, per cui dà anche una mano ai conflitti concreti, ma
prestando attenzione essenzialmente all'intensità delle enunciazioni più
o meno rivoluzionarie che possono avere cittadinanza nel percorso di
lotta. L’altra modalità, quella appunto dell’esperienza casertana, non
dà affatto per scontato l'esistenza del movimento in quanto
spontaneamente costituito, e si misura, prima di ogni cosa, esattamente
con la sua costruzione. In tale ottica, si guarda soprattutto al grado
di coinvolgimento e di condivisione dei passaggi di lotta da parte delle
persone concrete.
La obiettiva diversità di
lotta per la bandiera e
lotta-vertenza pone ciascun
militante della sinistra di alternativa di fronte non a modalità più o
meno equivalenti, ma a distinte, e per molti versi contrapposte,
ispirazioni complessive. La “lotta per la bandiera” è, tutto sommato
abbastanza semplice, e anzi, a rigore, non è neppure una vera e propria
lotta, bensì una attività di propaganda. Essa mira a costruire passaggi
simbolici – cortei, assemblee, campagne elettorali – in sé conchiusi; e
affida alla pressione sulle istituzioni, costruita in siffatto modo, la
concretizzazione delle scelte favorevoli alle classi subalterne. La
“lotta-vertenza” muove, invece, con l’intento di
praticare l’obiettivo attraverso l’iniziativa di massa, e cioè
mobilita in vista di un fine raggiungibile, accompagnandone i passaggi
con modalità “di contrattazione”. Il che vuol dire che gli stessi
cortei, sit in, occupazioni, assemblee permanenti, ecc. non valgono “in
sé”, ma per gli effetti che producono in termini di contenziosi
procedurali con la controparte e di rafforzamento delle contestazioni di
merito sul piano delle trattative.
La prima modalità soddisfa
immediatamente la “voglia di politica” dei militanti politici; la
seconda disloca la politica-politica dei militanti politici su tempi
certamente più lunghi; e però facilita l’ingresso delle “grandi masse”
nello stesso scenario politico.
Ovviamente, se si sceglie, alla maniera
dell’ex-Canapificio, di praticare il percorso delle lotte-vertenze, i
problemi che si hanno di fronte si moltiplicano in maniera esponenziale.
Da un lato, si entra in un ambito di costruzione che impone ai militanti
sistematicità nella partecipazione e disciplina di comportamento;
impone, in particolare, una “attitudine al fare” che sopravanzi
nettamente “l’attitudine al dire”. Dall’altro, ci si espone senza
misericordia all'andamento molto complicato delle lotte stesse.
Il punto è che le lotte non sempre
vincono, neppure quando l’economia va a gonfie vele; e in un contesto di
crisi i risultati sono davvero incerti. E tuttavia non bisogna
assolutizzare, perché una situazione di crisi economica non equivale mai
al completo azzeramento dei valori e del possibile contenzioso sui
valori. La crisi è sempre anche un “nuovo inizio”. C’è comunque
dinamicità all'interno del capitalismo della crisi; e forse oggi siamo
già di fronte, contemporaneamente, alla crisi del 2008 che continua e
alle dinamiche embrionali del suo superamento. Il che vuol dire che un
po' di spazi ci sono, per puntare ad un concreto accrescimento del
valore del lavoro e dell'esistenza.
Inoltre, c'è una circostanza che va
oltre il dato della crisi economica: i risultati vengono col lumicino
proprio nei settori più tradizionali del lavoro dipendente, per esempio
nelle grandi fabbriche; ma tendono a venire in modo più consistente
proprio dove la condizione dell’esistenza è più precaria e il lavoro è
più svalorizzato. E questo, per la buona ragione che mentre il
proletariato di più vecchia composizione (che continua, ovviamente, ad
esser sfruttato, e vede costantemente peggiorare la situazione del
“salario relativo”) si situa comunque nel punto alto della media dei
valori del lavoro, il proletariato senza garanzie, e in particolare i
migranti, si collocano esattamente dalla banda opposta, nel punto più
basso della media dei valori del lavoro. Questo significa che esiste un
più aperto spazio per le rivendicazioni sulla condizione materiale. La
crisi rende tutto più difficile, ma margini di manovra ce ne sono
ancora.
7) Diventa decisiva, nella costruzione
effettiva della lotta di classe, una pratica che punti davvero al
risultato, e quindi lanci parole d’ordine non solo “giuste”, ma anche
credibilmente realistiche in quanto esito della lotta. Ci devono poter
credere esattamente le “grandi masse”, non solo, per dirla brutalmente,
“i compagni”. D’altronde, una lotta che ottiene risultati moltiplica non
soltanto se stessa ma l'insieme delle lotte che ha intorno. È in questo
modo che si può davvero vincere la sfida per l’egemonia, e convincere i
settori più sfiduciati che, anziché subire, elemosinando l’aiuto di
qualche potente e affidandosi al caso o a Dio, vale davvero la pena di
lottare. Ed è in questo modo, per accumulo di risultati positivi, che si
sviluppa realmente il conflitto sociale e la lotta di classe.
E tanto più notevoli sono gli esiti
conseguiti dall'ex-Canapificio perché, a differenza delle lotte di
fabbrica del Novecento, per i migranti non esiste un luogo fisico in cui
è possibile ritrovarsi concentrati. Il conflitto nelle grandi fabbriche
– sui ritmi, sulla nocività, contro i cottimi, sul salario… – aveva
indubbiamente la stessa logica della lotta-vertenza proposta
dall’ex-Canapificio. Ma quel settore del proletariato si ritrovava
aggregato in forza di un contesto già costruito dalla materialità della
condizione lavorativa, in forza della sua stessa composizione tecnica.
Con i migranti, invece, siamo in presenza di una totale dispersione
fisica, ulteriormente esaltata da una grande varietà delle culture di
provenienza, dalla stessa lingua utilizzata e, in ogni caso, dalle
concrete condizioni lavorative, che sono davvero le più disparate. Non è
subito visibile dove si situi realmente la linea della contraddizione.
La scelta dell'ex-Canapificio di puntare
sul permesso di soggiorno, non come semplice elemento del diritto
astratto, ma come luogo effettivo della contraddizione sul nodo del
“valore”, è stata indubbiamente una scelta felice. Ha di fatto
riproposto la via della lotta di classe anche nelle forme proprie della
flessibilità e della dispersione proletaria promossa dall’odierno
capitalismo, il quale diversifica costantemente le figure proletarie ma
le colloca entro una unitarietà assoluta di funzione, tesa
all'innalzamento della produttività dell'individuo produttivo sociale, e
quindi alla costruzione del general intellect e della interagenza
sociale del lavoro.
Ma non è stata una scelta felice
soltanto perché fa venire allo scoperto i rapporti di valore che si
annidano dietro la condizione giuridica; lo è soprattutto perché tende a
costruire, dentro lo scontro sul valore, anche lo scontro
per la dignità. È questo un aspetto che diventa decisivo,
particolarmente nell’età del capitalismo della totalizzazione. La linea
della contraddizione tra proletariato e classi possidenti non è soltanto
interna al rapporto di capitale in quanto tale, e cioè relativa alla
relazione quantitativa fra il “capitale variabile” e il “plusvalore”, al
come accrescere l'entità di Cv (che è il punto di vista del
proletariato) oppure l’entità di Pv (che è il punto di vista dei
capitalisti). Proprio perché il rapporto totale di capitale connette
lavoro e vita, esso chiama in gioco direttamente l'esistenza delle
persone, obbligate ora a lavorare costantemente “su se stesse” per
essere sempre disponibili a multi-impieghi, disponibili ad attivare
comportamenti consoni alla mobilitazione produttiva del corpo sociale,
disponibili ad essere sprecati e degradati secondo le convenienze del
ciclo di valorizzazione, e quindi ad essere intrinsecamente produttive
in quanto tali.
La contraddizione diviene, perciò, tra
il sistema capitalistico complessivo e la possibile condizione di “nuova
cittadinanza umana” per tutte e tutti, una condizione che potrebbe
davvero costruirsi solo nella nostra epoca, con le potenzialità
onnilaterali venute storicamente a maturazione attraverso la modernità
capitalistica. In tal modo la vertenza per il valore è anche una
vertenza di significazione storica, tesa ad affermare il
valore dell'esistenza. Non è
la dignità giuridica, ma la dignità umana in senso proprio, la reale
posta in gioco. Non a caso, la nuova fase che oggi il centro sociale
ex-Canapificio sta provando ad aprire, assieme alle realtà di lotte
organizzate del napoletano, a partire dai disoccupati organizzati, si
incentra proprio sul salario reale,
vale a dire sul riconoscimento – finanche nei termini di valore del
capitalismo – della densità assoluta dell'esistenza.
8) Un rilevantissimo problema che hanno
davanti le lotte-vertenze è la sedimentazione dello schieramento
determinatosi nel conflitto, la sua persistenza dopo le lotte, la sua
tenuta sui tempi lunghi. Quando si strappano risultati si determina, è
già stato sottolineato, un effetto moltiplicatore. Ma la partecipazione
alle lotte e alle vertenze non stabilizza da sola la coscienza critica
del capitalismo, né tanto meno costruisce un effettivo blocco sociale
animato da duraturi sentimenti anticapitalistici. C’è bisogno
dell'esperienza delle lotte, ma coscienza e blocco sociale
anticapitalista non sono meccanicamente risolti da quelle.
Si tratta, in verità, di un dato che
rinvia al problema più complessivo del superamento del capitalismo. Ed è
un problema non risolvibile per nulla con le scorciatoie politiciste. La
traiettoria fondamentale, infatti, va dalle lotte alla politica; non è
quella, facilmente autoreferenziale, che va dalla politica alle lotte.
Oggi come oggi, va già bene che chi fa l’esperienza della lotta porti
con sé almeno un atteggiamento di sfida all’ordine esistente, una voglia
di “alzare la testa”. È quello che succede ai tanti migranti che hanno
lottato col Canapificio, quando vanno poi al Nord come lavoratori “con
diritti”. Essi magari si iscrivono al sindacato e continuano a mantenere
un legame sentimentale con quella loro prima vittoria. Ma tra
l’esperienza fatta col Canapificio e l’esperienza dentro le strutture
tradizionali del movimento operaio non c’è reale simmetria. Il vecchio
movimento operaio, quello che proviene nelle sue variegate forme dal
Novecento, non può accogliere più di tanto, e sentire come parte di sé,
una generazione di proletari completamente diversa dai modelli
tradizionali, resa tale da un capitalismo diverso anch’esso da quello
dell’Ottocento e della gran parte del Novecento. C’è bisogno di andare
oltre, di un altro tipo di “movimento operaio”.
In sostanza, a fianco alle lotte, e al
di là di esse, sarà comunque necessario – e diverrà sempre più urgente –
costruire nuovi istituti di
auto-organizzazione proletaria a carattere sindacale, politico e
culturale. Il Novecento ha elaborato l'idea del partito politico di
classe e dei sindacati di classe, concepiti per compartimenti separati e
strutture verticali. Nel XXI secolo si dovrà sperimentare qualcosa di
diverso, probabilmente degli organismi più orizzontali e meno a
compartimenti stagni. Di fatto, occorrerà provare a dar vita a strutture
segnate da una logica immanente di costruzione del conflitto, e
immediatamente proiettate nella critica pratica, oltre che culturale,
dell’intera società esistente. La qualcosa implica, ovviamente, molte
ulteriori questioni e molti ulteriori interrogativi.
GIUGNO 2013