PENSARSI COME COLLETTIVI PER LA RIFONDAZIONE COMUNISTA
Rino Malinconico
Intervento introduttivo all’attivo
regionale campano del PRC – Napoli, 11 aprile 2013
Quid est quare ego ulla verba coram amico meo retraham?
quid est quare me coram illo non putem solum?
Perché di fronte ad un amico dovrei pesare le parole?
perché davanti a lui non dovrei sentirmi come se fossi solo?
(Seneca, Epistole a Lucilio)
Questo mio intervento si sottrarrà
programmaticamente ai modi consueti della relazione riassuntiva del
cosiddetto “punto di vista del partito”. Intanto non c'è una struttura
regionale, non c'è in Campania una segreteria regionale in grado di
maturare un ragionamento collettivo; e per quanto riguarda gli
orientamenti definiti a livello nazionale, i compagni hanno comunque
avuto modo di leggere i deliberati del
cpn. Inoltre mi sembra sia
stata aperta, dallo stesso cpn,
una fase di discussione aperta, per cui introdurrò sì questi lavori, ma
dicendo le cose proprio per come le penso io.
Certamente ho una opinione, come tutti i
presenti, sulle questioni più importanti, quelle che esistono, aldilà di
noi, in Italia e fuori d’Italia: ho un'opinione sul decorso attuale
della crisi economica, sul conflitto di classe possibile, sulla
scomposizione e ricomposizione degli assetti sociali, sulla
scomposizione e ricomposizione degli aspetti politici ed istituzionali.
Tuttavia non affronterò questi argomenti. Scelgo, invece, di parlare di
un’unica, difficile questione, che reputo essere quella decisiva ora,
quella che tutti abbiamo non astrattamente davanti ma concretamente in
testa. Questo argomento complicato siamo noi. E per la verità lo
faccio con minor patema d'animo di come avrei creduto. So in partenza di
proporre una riflessione che a non pochi compagni sembrerà molto, forse
troppo, cruda. Mi sento, però, relativamente incoraggiato dall’esito di
ieri della Direzione Nazionale, che ha reso pubblica una opportuna
“lettera ai compagni e alle compagne della sinistra” comunque collocati.
Per quanto la reputi ancora
insufficiente rispetto a quello che, a mio parere, occorrerebbe proporsi
di fare, nondimeno tale lettera segna un obiettivo passo avanti non solo
rispetto alle fumose indicazioni circolate dopo le elezioni (tipo
“rilanciare Rivoluzione civile” o anche “rifondare Rifondazione
comunista”), ma anche rispetto ai troppi “segnali di normalità” che ci
sono venuti dal dibattito ufficiale, e che io giudico abbastanza fuori
luogo. E voglio precisare che qualifico come “segnali di normalità” sia
i dispositivi votati a maggioranza, quelli sul congresso a fine anno,
con la relativa costituzione della commissione congressuale, i seminari
tematici e la prevista conferenza programmatica tra qualche mese, e sia
le posizioni risultate di minoranza, che prospettavano un congresso a
tempi ravvicinati, le dimissioni a tamburo battente del gruppo
dirigente, e via dicendo. C'è proprio, a mio avviso, il presupposto
comune (e improduttivo) della “normalità” in tutto l'insieme di queste
posizioni, in quanto non fanno i conti, nessuna di loro, col paradosso
autentico che ci attraversa. Per la verità, neppure la lettera
licenziata ieri dalla Direzione è risolutiva. Tuttavia mi pare almeno
più consapevole del fatto che c'è da attraversare una fase di
eccezionalità, e che bisogna mettersi alle spalle le modalità
consuete di auto-rappresentazione di noi stessi.
Allora: cosa siamo stati noi, e cosa in
parte siamo ancora, e cosa, in effetti, non possiamo più essere? Noi
siamo stati, e in parte siamo ancora, due cose: 1) una comunità concreta
di compagne e compagni; 2) un partito politico con un nome e cognome,
con le sue strutture, col suo “agire da partito”. Per lungo tempo,
sostanzialmente fino a ieri, abbiamo potuto ragionevolmente pensare
queste due cose - la comunità e il
prc - come un’unica,
identica cosa, come parole e pratiche interscambiabili. Possiamo ancora
rappresentarci così? Io non credo. È questo il paradosso, per molti
versi drammatico, che ci attraversa: la comunità concreta è un fatto
reale, ed è ancora relativamente estesa (per quanto, dagli oltre 100.000
dell'inizio siamo passati alle molte decine di migliaia del periodo
2001- 2006, e siamo oggi alle poche decine di migliaia), ma il Partito
della rifondazione comunista non è più una realtà vitale. Lo voglio dire
nella maniera più brutale: il
prc è oggi una
entità sostanzialmente inesistente nella società italiana.
La domanda che pongo è: cos'è un
partito? I cattedratici di dottrine politiche e i commentatori dei
giornali usano con molta facilità il termine “partito”, al massimo fanno
una distinzione quantitativa: esistono i grandi partiti, i piccoli
partiti, esistono i partitini, eccetera. Ma per gente come noi, che
viene da due secoli di storia gigantesca, la parola “partito” non può
essere solo un dato lessicale. Non a caso, nella storia del movimento
operaio dell’Ottocento e del Novecento non si parlava di un
partito, ma si utilizzava, in un'accezione significativamente singolare,
l’articolo determinativo: il partito. Marx ed Engels non
scrissero il manifesto di un partito comunista, ma il manifesto
del partito comunista. Insomma, nella nostra cultura tale parola
allude direttamente alla struttura organizzata della classe degli
sfruttati, del proletariato. Poi il tempo si è incaricato di dimostrare
che il proletariato si esprime con più soggettività politiche, e che ad
una composizione tecnica più o meno unitaria della figura sociale
proletaria non necessariamente corrisponde una univoca composizione
politica. Sono esistiti i partiti socialisti e i partiti comunisti; e ci
sono state le versioni socialdemocratiche della soggettività politica e
le versioni rivoluzionarie. E tuttavia, non è venuto meno l'assunto di
fondo. Se per la normativa giuridica borghese e per la pubblicistica
delle dottrine politiche un partito è semplicemente una libera
associazione organizzata (è questo il suo significato letterale), per
noi il termine conserva, come dato costitutivo, il legame con la
società: nel senso preciso che il partito dei comunisti è tale se è una
struttura riconoscibile e riconosciuta da settori più o meno ampi delle
classi sociali cui facciamo riferimento. Non a caso, noi non siamo mai
stati indifferenti verso le elezioni, non abbiamo mai avuto suggestioni
bordighiste o anarchiche di astensionismo. Lo abbiamo fatto proprio
perché le elezioni sono uno dei termini decisivi (ovviamente ce ne sono
anche altri) del riconoscimento sociale. Misurano il grado di effettiva
presenza nella società, in ultima analisi misurano il grado di effettiva
esistenza del partito, così come lo concepiamo nella nostra
cultura.
Ma anche in questo rapporto tra
prc e società c'è
una storia, che va dall'8,6% iniziale all’oscillazione attorno al 5%
fino al 2006, e poi al declino accelerato cominciato nel 2008 con le
elezioni politiche, proseguito nel 2009 con le elezioni europee e le
elezioni provinciali, nel 2010 con le elezioni regionali, e poi con
varie amministrative (come quelle di Napoli, dove la Federazione della
Sinistra ha eletto 6 consiglieri, ma solo col 3,6% di voti) fino, in
ultimo, alla pesantissima debacle del febbraio scorso. Come pare abbia
rilevato un noto istituto di analisti, che ha guardato dentro il 2,3 di
Rivoluzione Civile, il nostro apporto come FdS può quantificarsi, nel
migliore dei casi, intorno all'1,5% (che, peraltro, sarebbe addirittura
un po' di più di quanto abbiamo preso qui alle regionali del 2010). Sono
cinque anni di ininterrotte, crescenti sconfitte elettorali,
indipendentemente dai simboli che abbiamo utilizzato, e anche dalla
collocazione che abbiamo assunto.
Per carità, le sconfitte elettorali non
vanno enfatizzate più del necessario. Ma quando sono in una sequenza
così straordinaria ha poco senso la cautela. Esse ci segnalano una
condizione reale, che riguarda l'essenza stessa dell'essere “partito”
(“partito”, sempre nell'accezione culturale che noi abbiamo mutuato
dalla lunga tradizione del movimento operaio). Sarebbe forse utile
riflettere sul perché noi ci siamo sentiti costantemente diversi dal
compagno Marco Ferrando e dal suo Partito comunista dei lavoratori, così
come da tutti gli altri partiti che si chiamano comunisti qui in Italia.
Al di là dei contenuti differenti e al di là del fatto che li
giudichiamo culturalmente settari, e che di converso giudichiamo noi più
aperti e più capaci di guardare la complessità, li abbiamo innanzitutto
qualificati come partiti puramente nominali, come partiti che usavano
impropriamente, tramite una fortissima inclinazione alla “falsa
coscienza”, la dizione “partito”. Essi pensavano e pensano, un po'
troppo infantilmente, di essere un partito, mentre invece erano, e sono,
un semplice collettivo più o meno largo di compagni. Non possedevano, e
non possiedono, cioè, un riconoscimento sociale seppur limitato; non si
muovevano, e non si muovono, in una tendenziale caratterizzazione di
massa della loro organizzazione. Noi siamo, almeno così riteniamo, più
capaci e più organizzati del partito di Ferrando; e siamo anche,
obbiettivamente, più numerosi e più estesi. E però, oggi come oggi, la
diversità tra noi e loro è soprattutto di natura quantitativa, non più
di natura qualitativa: attiene alla nostra maggiore elaborazione, forse
alla nostra maggiore capacità di partecipare al conflitto, al più
elevato spessore della nostra discussione, alla maggiore sensatezza
delle nostre proposte e delle nostre parole d’ordine. Ma non siamo più
ad una differenza di natura qualitativa, tra un partito puramente
nominale e un partito qualificato invece, come tale, dal riconoscimento
sociale.
La questione di fondo è capire se questa
nostra sostanziale interruzione di esistenza come specifico “partito”
(sempre nell'accezione significativa che questa parola ha nella nostra
storia) sia di natura contingente, un mero incidente di percorso; se
sia, insomma, un qualcosa di reversibile. Io credo francamente che non
si tratti di una situazione contingente. Inclino invece a pensare che
siamo di fronte a una sorta di “rivelazione conclusiva”, a una vicenda
organizzativa sostanzialmente consumata. Ma consumata da chi? Certamente
si possono elencare i tanti errori soggettivi susseguitisi nel tempo. E
sicuramente ne sono stati fatti anche nell’ultima vicenda elettorale. Ma
la logica dei capri espiatori mi pare davvero un'assurdità in queste
circostanze.
Molto più degli errori ha pesato,
infatti, la nostra mancata presa d’atto di tre processi storici,
consolidatisi ormai non solo in Italia ma a scala generale. Il primo è
la chiusura del Novecento. Noi l'abbiamo anche detto: il Novecento è
finito; ma poi abbiamo sempre aggiunto un “però”, un “tuttavia”.
L’abbiamo detto, ma non ci abbiamo creduto davvero. Il secondo processo
che non abbiamo colto è la inedita articolazione del rapporto sociale di
capitale. Anche qui: lo abbiamo detto, ma non ci siamo messi a studiare
(nel senso letterale del termine) le nuove dinamiche del rapporto di
capitale. Ne abbiamo semplicemente parlato, ripetendo vecchi assunti e
affastellandoli scompostamente con nuove suggestioni. Infine, il terzo
processo storico che abbiamo accuratamente evitato di incontrare è la
progressiva “libricizzazione del marxismo”. Il marxismo è una
straordinaria forza intellettuale che può contribuire a cambiare la
realtà materiale; se però diventa semplicemente i “libri di Marx” più o
meno sfogliati e più o meno orecchiati, e cessa di agire in quanto
teoria “viva”, in quanto teoria capace di innovarsi continuamente,
allora si trasforma in orpello inerte, se non addirittura in un
impaccio. E questo nostro “non camminare con Marx dopo Marx” ci consegna
facilmente alla egemonia altrui.
A ben vedere, in qualche modo la storia
ci sta presentando il conto. Il punto decisivo, tuttavia, è che la
storia non la si può far indietreggiare operando semplicemente con una
intelligenza più intelligente e una volontà più volenterosa.
Intelligenza e volontà sono necessarie ma non bastano. Occorre, invece,
cercare di vivere non prescindendo, ma proprio nelle nuove condizioni
date: ovvero, continuare a combattere per l'alternativa di società pur
senza potere più autorappresentarci come “partito” in senso proprio.
Cambiare nome? e a che serve, se poi siamo sempre noi così come siamo? E
d’altronde, non l’abbiamo già fatto, o perlomeno proposto, con la
Federazione della sinistra, o anche con la stessa Rivoluzione civile? Si
dirà: ma quelle cose poi non hanno funzionato. Già. Non hanno funzionato
semplicemente per difetto d'intelligenza e di volontà? o perché ci sono
questioni più profonde con le quali ci dobbiamo cimentare? In breve, per
me il problema non sono i nomi e, a dirla tutta, non è neppure quello
che diciamo. Lo dico con tutta la nettezza necessaria: il problema siamo
esattamente noi, la nostra singolare incapacità di muoverci
riconoscendo la realtà per quello che è.
Per come la vedo io, la nostra comunità
di compagne e compagni può ora riuscire a vivere soltanto dismettendo -
non in linea di principio, ma per una fase storica determinata, di medio
periodo - di pensarsi come
“partito”, con la logica dell’“agire da partito”, con la supponenza di
poter parlare comunque “al paese”, con la pratica politica dei gesti
simbolici, dei comunicati-stampa e delle bandiere portate alle
manifestazioni, con l’attenzione certosina a tutti passaggi
istituzionali, quasi potessimo esserne in qualche modo protagonisti… Non
sto teorizzando il superamento del partito come un fatto teorico, di
principio. Non è questo. Ritengo però che per una fase di medio periodo
(2, 3, 4, 5 anni) la nostra unica possibilità è di proporci all’esterno
direttamente come comunità concreta di compagne e compagni; e se invece
continuiamo ad autorappresentarci come “partito”, con tutta la
pesantezza che tale termine comporta, ci illuderemo semplicemente di
essere vivi invece di vivere realmente.
Occorre, dunque, organizzarci per quello
che siamo, per quello che possiamo. Il che significa che dobbiamo
accentuare, ed anzi far diventare come intero della nostra
auto-rappresentazione e della nostra pratica concreta, il nostro essere,
nei territori e sulle questioni, esattamente dei “collettivi di
iniziativa politica e culturale per la rifondazione comunista”. Ciò vuol
dire raggrupparsi, nelle concrete specificità territoriali e sui temi
specifici, in modo non burocratico; vuol dire mettersi in rete anche con
altri che non sono la nostra comunità in senso stretto; vuol dire
ridurre al minimo l'apparato di connessione fra i diversi collettivi. In
sostanza: dobbiamo metterci risolutamente alle spalle la fase storica
del “partito pesante”, e dobbiamo invece vivere con la logica della
prossimità, immersi nelle specificità che ci caratterizzano
concretamente, tenendoci certamente in connessione ma senza presupporci
come un “partito” in senso proprio.
Per esemplificare, prendiamo la
questione elettorale. Io non credo che si voterà a giugno; ma se si
votasse, davvero pensiamo che dovremmo fare le nostre liste, non importa
ove collocate, e provare a competere? in queste condizioni? dopo il
combinato disposto che c'è venuto addosso dal 2008 al febbraio scorso? O
non avrebbe più senso stabilire che i compagni che agiscono per la
rifondazione comunista non partecipano al passaggio elettorale, sia
perché non lo ritengono utile nel percorso di ricostruzione nel quale
sono impegnati e sia perché si terranno con una legge pessima e comunque
non proporzionale? Una rete di collettivi può praticare, senza perdere
la faccia, una tale scelta, che ritengo assolutamente sensata, ed anzi
sostanzialmente obbligata. Un partito, anche un partito solo nominale,
non potrebbe farlo: resterebbe comunque prigioniero del nome.
Ovviamente, pensarsi come “collettivi
per la rifondazione comunista”, con una struttura sostanzialmente
reticolare e programmaticamente aperta, necessita di un esplicito
passaggio formale, che potrebbe essere effettuato proprio dal congresso
di fine anno. Ma come lo si fa il congresso? Alla maniera solita, con le
mozioni da votare, le percentuali da calcolare, la composizione dei
gruppi dirigenti calibrata sulle mozioni, e via dicendo? Io credo
francamente che non lo reggeremmo. Ritengo perciò che dovrebbe essere un
congresso preceduto certamente da molti contributi scritti, che
sollecitino e costruiscano discussione e confronto, ma senza documenti
da votare, senza percentuali da definire. E, inoltre, dovrebbe essere un
congresso unico, a discussione aperta, senza i passaggi congressuali di
federazione (quelli possono, semmai, venire dopo), e con una platea di
delegati ampia e non costruita col bilancino dei farmacisti. Per
esempio, potrebbe andar bene anche un delegato ogni circolo, e in
aggiunta un delegato per comitato federale e regionale e, in aggiunta
ancora, tutti i membri dell'attuale comitato politico nazionale. Penso,
in sostanza, ad un congresso che voti direttamente in sede congressuale
generale i suoi dispositivi su come pensare e far vivere questa comunità
concreta, come dislocarla nella società, come aprirla realmente
all’esterno e metterla in sinergia con tutto ciò che c’è in quanto
sinistra, conflitto e alternativa.
Io auspico, in sintesi, un esito della
discussione che modifichi in profondità il nostro assetto “da partito”,
e che delinei una soggettività fortemente incentrata sui territori,
capace di vivere con strutture agili di coordinamento. I “comitati
politici”, i “comitati centrali”, le direzioni, le segreterie, eccetera,
possono (forse) andar bene per partiti in senso proprio, ma nella realtà
nostra attuale hanno poco senso. E quindi andrebbero bene dei semplici
coordinamenti provinciali e nazionali, con esecutivi di coordinamento e
con i portavoce a rotazione. Insomma una struttura snella e operativa,
piuttosto che “di direzione”, con un apparato minimo; e soprattutto
senza la pretesa di giocare un ruolo da “partito nazionale”, ma col
proposito di percorrere il cammino concreto proprio sui territori – lo
ripeto, io penso ad una fase di medio periodo - per far ripartire
un'aggregazione. Da questo punto di vista, l’indicazione di una
“costituente della sinistra” va senz’altro bene; ma dovrebbe trattarsi
di una entità tenuta “costitutivamente aperta” per un periodo lungo, che
va fatta crescere attraverso una effettiva pluralità di concrete
pratiche sociali, dal conflitto alla cura al solidarismo alla cultura
critica.
So bene che si annida, in una tale
prospettiva, il rischio della dispersione, finanche della inconcludenza.
Ma: da un lato, l’alternativa a me pare esclusivamente la pratica
sterile della autoreferenzialità, tipica della “falsa coscienza” di
quello che si è; dall’altro, è senz’altro possibile evitare la
dispersione valorizzando la curvatura pratica-operativa dei collettivi
all’interno del conflitto e dell’impegno possibile, quello che io credo
possa snodarsi esattamente lungo l’asse del “valore dell'esistenza” (non
semplicemente sul “valore del lavoro”), e in tal senso definirsi come
conflitto ed impegno “per una nuova cittadinanza umana”. Da minimo
comune denominatore fungerebbero, peraltro, anche le campagne politiche
generali, quelle che riguardano le grandi questioni della pace, della
solidarietà dei popoli, degli stessi diritti sociali e civili. In breve,
io non avrei troppa paura della dispersione; mi preoccupa molto di più,
invece, l'immobilismo, il falso-movimento che può imporsi come riflesso
spontaneo dell’attuale situazione di stallo.
Ho utilizzato, in uno scritto che forse
alcuni di voi avranno letto[1] (un testo politico
in forma poetica), la metafora del veliero. Avevamo un veliero, non
grande ma capace di navigare; ora però esso giace immobile, riverso alla
bocca del porto. Non lo si può più riparare, e non ci sono altre navi su
cui imbarcarci; e non ci sono forge, gru, materiali per costruire
un’altra nave. Esistono, tuttavia, ancora i marinai; e ci sono alberi
intorno. C’è dunque la possibilità di fabbricare barche e metterle in
mare. Io penso che questa sia oggi la nostra unica possibilità per
muoverci: andare per mare con le piccole barche che possiamo costruire,
tenendoci a portata di voce.
Ritengo, d’altronde, che in tal maniera
saremmo più aperti e disponibili anche rispetto alle novità positive che
potrebbero venire dall'esterno di noi: per esempio, dall’esplicitarsi di
un “populismo di sinistra” in una parte almeno dei “cinque stelle”;
oppure dal delinearsi, dentro il Partito democratico, di un percorso di
scomposizione e ricomposizione in direzione del cosiddetto “partito del
lavoro”. Potremmo interloquire da pari a pari con tali possibili novità,
proprio se la nostra identità resta territorialmente situata dentro le
dinamiche concrete del conflitto. L’agire “da partito” generale (senza
però esserlo perché privi del riconoscimento sociale necessario) ci
consegnerebbe, invece, a una interlocuzione subalterna; oppure, per
evitare la subalternità, al rifiuto aprioristico di qualsiasi
interlocuzione. È proprio ciò che dovremmo temere di più: la tenaglia
distruttiva di opportunismo e immobilismo.
Per concludere: io suggerisco di
strutturarci come insieme di collettivi di lavoro e discussione
politica, dislocando “in orizzontale” l’intera nostra comunità di
compagni e compagne impegnati nella prospettiva della “rifondazione
comunista”. È una modalità che ci spinge ad essere parte attiva del
conflitto possibile, che ci permette di studiare e riflettere
autonomamente (e autocriticamente), che ci facilita la connessione con
ciò che nella società si muove in direzione dell’alternativa, che ci
consente di presentare come una proposta vera, e non come una mera
declamazione, la stessa ipotesi di “costituente (processuale) della
sinistra”.
E voglio finire con un esempio concreto
di cosa possa significare agire nelle nuove condizioni. Il 19 aprile ci
sarà a Napoli un corteo organizzato dal movimento dei migranti di
Caserta e dai movimenti dei disoccupati organizzati. L’obiettivo è di
avviare una lotta-vertenza sul salario reale, avviare, cioè, una
dinamica di conflitto esattamente sul “valore dell'esistenza”, oltre che
“del lavoro”. Va da sé che noi dovremmo essere presenti in questo
percorso. Ma come? Partecipando, come pure è giusto, al corteo del 19
con le nostre bandiere, e magari con un nostro volantino? Oppure
costruendo, ciascuno di noi nella concreta realtà in cui è inserito, in
una effettiva “azione di prossimità”, la possibile interagenza con
questo conflitto e con la più generale questione del “valore
dell'esistenza”? Non bastano più le partecipazioni simboliche; e anzi
sono addirittura controproducenti perché ci illudono di “fare” mentre in
effetti “non facciamo” affatto. Un “partito” in senso reale, se porta i
propri dirigenti ai cancelli di una fabbrica in lotta, dà un segnale
simbolico che è di per sé un fatto politico, produce effetti, crea
schieramento. Ma nella situazione in cui siamo, noi gli effetti possiamo
produrli soltanto con l’azione diretta di costruzione, non semplicemente
“partecipando”.
Insomma, dobbiamo evitare la suggestione
del falso-movimento. Se camminiamo ininterrottamente dalla prua alla
poppa e dalla poppa alla prua di un veliero bloccato nella risacca ed
inidoneo ormai, indipendentemente dai marosi e dai venti, a prendere il
largo, faremo senz’altro chilometri su chilometri; ma non ci sposteremo
di un millimetro dal punto di immobilità in cui siamo. Certo, andare
sull’onda con le barche comporta molti problemi e molti pericoli. Ma io
dico, compagne e compagni, che sono comunque meglio le barche. Perché
quelle ancora possono sfidare il mare.
APRILE
2013
[1] vedi la seguente poesia.
IN
PROVVISORIO APPRODO
di Rino Malinconico
Oh, noi vecchi lupi di mare
in provvisorio approdo costretti
per tante caute orme perdute
color della terra!
Noi vecchi lupi impietriti
qui sospirando un naviglio qualunque
un legno appena stridente sui flutti.
Noi superstiti lupi del mare
noi qui consacrati
di naufragio recente
di così aspri silenti declivi
coi panni attaccati alla pelle.
Noi vecchi noi lupi
dagli occhi accorrenti alla schiuma
in sopravvento sospinti dall’onda
di bolina piegando lo scafo
qui ora
ghermendo quasi il respiro proteso
alle nubi fuggenti lontano.
E ci guardiamo qui attorno smarriti
noi superstiti vecchi del mare
sperando cogli occhi un ingaggio
un andare un viaggio qualsiasi
che ci culli e sciabordi il fasciame.
Perché ancora agogniamo l'immenso
ed il vivere senza confini.
E anch'io voglio
io voglio
io pure qui anelo al viaggio.
Ma fratelli miei fratelli del mare
qui fratelli perduti di terra
miei compagni di mille tempeste
tanti approdi e risacche stagnanti
lo sapete è finito
non più corre
il veliero è finito di ieri.
Immobile giace
alla bocca riverso del porto.
E canteremo qui a lungo dolenti
un suono stanco guardandoci il viso
noi superstiti vecchi del mare
sperando cogli occhi un andare
un viaggio
un viaggio un andare qualunque
che ci culli e sciabordi il fasciame.
In provvisorio approdo costretti
sempre ancora agogniamo l'immenso
ed il vivere senza confini.
Noi superstiti vecchi di mare
col velato scandirsi del tempo
tesi all’onda muggente lontano.
Oh, disperati fratelli e compagni
oh, voi lupi smarriti del mare
prigionieri di terra perduti!
Nei rudi panni attaccati alla pelle
per quanto ancora staremo all’approdo?
È giusto
fratelli compagni del mare
ma non basta non serve il lamento.
Abbiamo ancora
due braccia robuste
e il fatato vigore del sogno.
Io posso. Io posso.
Io posso qui abbattere un albero
e un altro poi un altro se serve
fino a farne un naviglio sicuro
che nel vento dispieghi la vela.
Noi possiamo
possiamo pur sempre
per gli anfratti scoscesi di mare
nuovamente sospingere l’onda.
Su compagni fratelli perduti
con le asce lucenti nel sole
e gli arbusti qui intorno frondosi!
Lo sapete
non vi sono nel porto più navi
non più cime e non forge fumanti
né le corde disposte ad intreccio
non paranchi o catene rombanti
lo sapete
solo braccia segnate dal mare
e quel sogno fatato del cuore.
Innalziamo
qui dunque le barche
con le vele nel vento spiegate
tante barche sfreccianti sull’onda.
Barche spoglie per quel che possiamo
miei compagni di pelle indurita
di salsedine amara di mare.
Ma le barche
fratelli di terra
sopra l’onda pur vanno lontano.
Era bello a vedersi il veliero
quietava l’acqua fendendo di prua
e copriva il furore del mare.
Urlava sordo allora l’immenso
dalla chiglia
sferzato e domato.
Era bello il veliero a vedersi.
Ora immobile giace
alla bocca riverso del porto.
Non c’è più quel suo grido di guerra.
Ma qui ancora stringiamo le asce
ed il sangue che scorre nel cuore
braccia forti ed alberi buoni
leste barche potremo assemblare.
E le barche
fratelli del mare
sopra l’onda pur vanno lontano.
In provvisorio qui approdo costretti
noi che ancora agogniamo l’immenso
con paziente impulsivo coraggio
sempre volti ad un sogno fatato
non piangiamo
compagni fratelli
come ubriachi che fissano il mare.
Corre il legno pur sempre alla prua
barche nuove pur vanno lontano.
Forza dunque
allestiamo il viaggio
un andare un viaggio qualunque
che ci culli e sciabordi il fasciame.
Noi vecchi induriti
noi molecole incerte dell’acqua.
Di barca in barca
chiamandoci a voce
noi superstiti umani del mare
con le orme dei troppi navigli.
Dal provvisorio approdare di adesso
con estremo amorevole sguardo
noi vecchi ostinati in avanti
per anfratti scoscesi di mare.
Scaglie sparse sul pelago immenso
noi lupi noi ancora trafitti
dal respiro solenne dell’onda.
Il viaggio
un andare un viaggio qualunque
dalle barche
chiamandoci a voce.
Bramosia dell’andare infinito
che ci culla e sciaborda il fasciame.
Marzo 2013