SGUARDO E ODIO
Giulia Inverardi
È stato banale l’episodio dell’insulto
da parte del manifestante al poliziotto, ma cocente tutto quello che ne
è seguito, soprattutto per il senso di beffa nel confrontare
quest’attenzione spropositata a due insulti e l’attenzione che brilla
per la sua assenza, che pesa, che resta attesa, urlata, invocata,
riguardo a grandi questioni: salute, sperpero di denaro e di vita,
aggressività abituale dall’altro lato della barricata.
Eppure non è banale, anzi è epico ed
epocale ciò a cui questo episodio ha rimandato, cioè: lo sguardo che
intercorre nelle società moderne fra poliziotto o omologo e
manifestante, fra due figure polarizzate e caricate di valori estremi,
spesso strumentalizzate da chi strumenti non ne ha e nemmeno scrupoli.
Non credo sia utile dilungarsi sul
singolo caso, se non per rilevare quanto assurde possano essere le
reazioni «a caldo», ed in particolare la più frequente e gretta: il
«magnifico» carabiniere eroe del giorno umilia il «barbetta» (che lavoro
farà? ha precedenti penali? sarà di lì o sarà un perditempo che va in
giro per l’Italia a insultare?), barbetta che meriterebbe gli si
spaccasse la faccia a suon di manganellate invece di resistere in uno
stoico silenzio. Questa è la linea esposta orgogliosamente dai
lampadati-camiciati-aperitivofili, quelli che nella Brescia bene (e
forse in tutta l’Italia, o l’Europa bene) non mettono il naso fuori
dall’auto che pagano in 800 rate mangiando grissini per anni, se non per
piazzare nel bel mezzo di dibattiti cruciali queste massime senza peso,
acuminate e irrefutabili. E questa, questa è violenza non solo verbale,
sorretta da una strafottenza doppia rispetto a quella del
manifestante-barbetta: la differenza è che il manifestante la faccia ce
la mette, e per qualcosa che vive sulla pelle, qualcosa d’importante, di
collettivo, non per un’autoreferenziale presunzione della propria
splendideria.
Mi sta a cuore come poche cose, invece,
capire cosa c’è nei nostri sguardi, come ci si può opporre senza
divorarsi, o se siano tutte ingenuità e tutto ciò che ci resta è l’odio.
Mi allontana sentire in corteo «Beeeee»,
«Siete porci, non pecore», «ce-le-ri-no pe-zzo di mer-da» e simili.
Credo c’entri la mia patologia da contrasto, e non c’entrino affatto
saggezza o umanismo, anzi – l’umanismo ha sempre due facce, e se ne può
vedere solo una alla volta. Eppure, a me tutte le facce attirano al di
là della mia volontà, un uomo è lì e buono o cattivo, bastardo o no, io
non riesco a trasformarmi nella parola che lo colpisce, nella figura che
quella parola evoca: perché, se lo facessi, non potrei guardare,
scoprire, e anche, poi, odiare. Persino il celerino mi attira dietro i
suoi occhi, anzi la sua visiera, non per le solite storielle (la sua
famiglia che è come tutte e lo aspetta a casa, il suo stipendio più
vicino certo a quello operaio che a quello del Capo della polizia, il
suo senso del dovere che ci protegge quando abbiamo bisogno di lui, il
suo essere, magari, «di sinistra»); accade solo perché effettivamente lì
di fronte c’è un corpo umano e un’anima, e forse ingenuamente il mio
corpo e la mia anima ripetono, a martellate, che c’è molto più di simile
che di dissimile in noi. Eppure, eppure.
Eppure questo faccia a faccia si fa
sempre più duro, personale. E la prima cosa che penso è che nel mezzo e
ai lati di queste due figure c’è una spaventosa assenza: chi di dovere,
di riferimento, chi ne avrebbe l’autorità e la responsabilità, si è
dileguato. Il cittadino valsusino (ma è solo un esempio) per anni anzi
lustri ha cercato «ghandianamente» di parlare, protestare, argomentare,
portando una quantità inimmaginabile di dati, professionalità attivate
ed alternative, viene ignorato, gli si chiudono porte in faccia, e
l’unico emissario che vede arrivare è una tenuta antisommossa il cui
messaggio non è fraintendibile: botte, se ti opponi. Non deve
prendersela col carabiniere, il cittadino, nel frattempo diventato,
varcando la soglia di casa, elemento anarco-insurrezionalista
socialmente pericoloso: non è giusto, non è utile, il carabiniere non ha
fatto nulla, ambasciator non porta pena. In questo caso, però,
l’ambasciatore non solo porta pena, ma la esegue, la concretizza, la
materializza. Bene, e cosa può esserci nel cuore del cittadino, nel suo
sguardo verso il carabiniere? Perché è questo che voglio fare: mettermi
non nei miei occhi, ma in quelli di chi odia, di chi giustificatamente
odia.
In fondo resta solo una domanda: come
può arrivare ancora, qualcuno che subisce direttamente pressioni da
parte dello stato in armi, a vedere l’emblema e il braccio di questo
stato come «uguale a lui», come fa a vedere un carabiniere uguale a lui,
dopo tutto quanto è accaduto, e chi se ne frega che il carabiniere sia
magari figlio di operai come lui (Pasolini si sarà rivoltato migliaia di
volte nella tomba, pensando: «Se avessi saputo che sareste stati così
cretini da fraintendere tutto, quella poesia non l’avrei scritta!»)?
Come può rendere visibile al proprio sguardo che «non è colpa sua», che
«lui è l’ultimo anello della catena», che «lui non c’entra»? Ma poi, può
significare qualcosa il «non c’entrare», può esistere? Materialmente,
l’uniforme, la preparazione militare dell’incolpevole carabiniere, la
sua presenza fisica, la sua obbedienza, sono ciò che rende operativo un
ordine non solo inutile, non solo ingiusto, ma mortale per il cittadino,
la sua città, la sua valle, la sua famiglia.
Non ha diritto di odiarlo, no? Non ha
«diritto di ACAB»? Eppure. Eppure.
Eppure è troppo facile rendere piane le
condizioni estreme; è troppo facile lasciare che agisca
l’immedesimazione automatica, aprioristica, e che si attui
l’avvicinamento, che lo sguardo resti umano per tutte le facce della
medaglia annullando torti e ragioni, credendo magari che questo creerà,
un giorno o l’altro, un virtuoso circolo di rispetto naturale, persino
di comprensione, e magari il capovolgimento che i sognatori sperano.
Sarebbe facile, dolce, ritenere che il mio impulso di non contrasto sia
il più giusto, di principio.
E se invece si dissodasse il terreno
dello scontro, per estirpare e seminare, e mettere in atto tutt’altre
condizioni, le sole a poter evitare che il faccia a faccia fra
carabiniere e manifestante si riduca unicamente a una stretta di odio
reciproco? Meno facile, ma in fondo basterebbero due cose, proprio due.
Basterebbe che le forze armate si
defascistizzassero, e che dunque di regola e massivamente non si
inoculassero principi fascisti nel singolo carabiniere, tra i quali
obbedienza cieca agli ordini, parallela all’esaltazione dell’eversivismo
sacrosanto, per quelli che sanno di «essere nel giusto» (tradotto:
obbedisci all’ordine di sgomberare, senza chiederti se è giusto, e
eccedi pure nella violenza se credi, perché sei nel giusto, e la
violenza vuol dire potere, vuol dire comando, affermazione); o ancora,
concezione purista e nazista della società, da purificare da zecche e
parassiti (nelle chat libere dei carabinieri fioccano le battute sulla
scarsa pulizia delle antagoniste, o su abitudini di vita dei militanti
considerate subumane e repellenti).
Basterebbe che le forze dell’ordine si
individualizzassero. Il codice identificativo non sarebbe solo
obbligatorio, legalmente ma più importa moralmente, per distinguere il
«bravo carabiniere», o per sapere chi ti sta picchiando, chi sta
abusando del tuo potere; sarebbe pacificante a livello umano: ho a che
fare con un individuo, che fa pur sempre parte di un corpo con molti
problemi, ma che forse può essere diverso, può essere più sensibile,
meno violento, potrebbe eseguire gli ordini a malincuore o, guardandomi
negli occhi da individuo a individuo, non eseguirli più e passare
finalmente dalla mia parte.
Basterebbe che le forze dell’ordine non
si distinguessero così spesso per violenza impunita, persino baldanzosa
per l’immunità sicura, per il comodo scudo di eroismo, rispettabilità,
legalità pronto ad accoglierli.
Basterebbe cancellare dalla storia
italiana un episodio assurdo come quello della morte di Giuliani, ma
ancora più l’orrore della Diaz: giovani innocenti, che non erano andati
al mulino, ne sono usciti infarinati di sangue e di terrore, picchiati
come bestie e con un’inumanità che fatico a togliere dalle orecchie,
dalle mani, perché è stata un’inumanità indelebile, acuta, esaltata
dall’arroganza della supremazia facile, garantita, su esseri umani
addormentati e sempre del tutto inermi: «Non avete scampo, perché noi
possiamo farvi ciò che vogliamo».
Basterebbe poter togliere dalla vista
l’orrore del bel viso di Aldrovrandi sfigurato, l’occhio di Cuchi uscito
dalla sede naturale. E i molti, molti, molti casi, che testimoniano non
il sadismo di un singolo svitato, ma il solidizzarsi di un’abitudine, di
un’attitudine presente, coltivata, incentivata, normalizzata: è
un’attitudine ormai metabolizzata, fattasi naturale.
Basterebbe che scomparisse non il motto
ACAB, ma le circostanze che l’hanno prodotto: se non sono tutti
bastardi, chi potrebbe negare che si fa di tutto per spingerli ad
esserlo? La differenza non è tra buoni e cattivi poliziotti, ma tra
quelli la cui personalità, storia, vissuto han reso più cedevoli a
questo andazzo di imperante instronzimento e quelli che, per i medesimi
fattori, conservano barriere più alte, conservano sguardo umano, se ne
fregano di sentirsi potenti come Chuck Norris, e non sentono di dover
sfogare frustrazioni su ragazzine indifese o stranieri da gettare nel
fiume sino a farli crepare di congelamento.
Basterebbero incentivi in senso
contrario. Basterebbe che il poliziotto non fosse solo un braccio.
Capisco la disciplina, capisco l’ordine. Ma prima c’è l’umano, di tutti,
anche dei poliziotti, e di quelli con cu hanno a che fare. Un’umanità
spezzata dalle manganellate sulla schiena.
Basterebbe rifondare le forze armate,
creandone di umanitarie davvero, con diritto di veto, di assemblea, di
«rispedizione al mittente» di ordini ritenuti sbagliati, insomma di
opposizione per giusta causa.
Basterebbe che ora, dalla mente di
ciascuno e soprattutto dai corpi di chi c’era, sparissero le urla
animalesche, terrorizzate dai manganelli che piovono più duri del ferro
e solo manganelli, manganelli e silenzio alle implorazioni di pietà;
perché, se non sparisse tutto questo, chi darebbe a chiunque altro il
diritto di dimenticare, o di perdonare? E chi se lo prenderebbe questo
diritto, in nome delle vittime, in nome dei rotti, dei terrorizzati, in
nome delle vite stortate, ingabbiate, impedite?
Non io. E allora, cosa ci resta da fare,
con lo sguardo sospeso di fronte a un altro sguardo vuoto, o duro, o che
mastica rabbia e freme contro di noi? Provare l’impossibile, mentre
tutto rema contro, quando il fallimento è quasi una certezza, o
abbandonarsi all’odio di difesa, all’odio giusto?
E perché non entrambe le cose? Io guardo
a testa alta, ma io non dimentico che si ha sempre una scelta e che chi
sceglie di mettere in atto l’ingiustizia non può essere dalla mia parte,
finché non ci verrà davvero. E non dimentico soprattutto che la Storia
non è mia, non è il prodotto del mio sguardo, ma la somma degli sguardi;
per questo, non possiamo alleggerirci il compito e pensare di dover solo
creare condizioni migliori per i nostri figli: non possiamo dimenticare
i nostri padri, i nostri nonni, e i nostri fratelli altrove o accanto, e
per rendere loro giustizia non basta cambiare le cose che hanno
violentato le loro vite, occorre qualcosa che se non è la vendetta ne ha
la stessa potenza, la stessa forza affermativa in grado di ristabilire,
davvero, giustizia.
AGOSTO 2012