IL REFERENDUM DI
MIRAFIORI
Rinascimentale
coraggio operaio
Redazione
C'è sempre un piano più alto da cui può
calare la tristezza. Questa volta è il piano alto degli uffici a far
pesare il proprio potere. Se la sconfitta dell'ottanta fu simbolizzata
dalla cosiddetta marcia dei 40.000, questa volta ci ricorderemo il
voto dei 400. È la potenza
della «democrazia»: ottenere molto di più con molto meno sforzo. Il
referendum di Mirafiori è deciso dai colletti bianchi, cioè da chi è
meno toccato, nelle condizioni di lavoro, dall'accordo che accetta.
Giorgio Airaudo spiega che i «colletti bianchi» a Mirafiori sono per di
più «capi e struttura gerarchica».
Piccoli manager, insomma, posti un po' più sopra nella gerarchia
aziendale, da chi lavora alle linee. Quattrocentoventuno di loro, su un
totale di quattrocentoquarantuno, votano a favore del
sì. Non importa che il
sì abbia prevalso per 9 voti
anche fra i soli operai, importa che questi ultimi siano divisi
esattamente a metà, mentre degli impiegati non può dirsi che siano
divisi. A differenza dei lavoratori, che votano
sì per paura di perdere il
lavoro, qui si percepisce quell'autocompiacimento di sentirsi estranei
alla condizione degli operai. È il voto a raccontare la minore
sofferenza nel dire sì da
parte degli impiegati. Ed è questo il grosso problema in Italia, questo
voler far finta che tanto il peggio tocca sempre ad altri, che
noi siamo posizionati meglio, per fortuna, o ancora peggio per
nostro «merito». In realtà non si capisce mai, e questa volta in
particolare, che le battaglie dei lavoratori sono battaglie dell'uomo
e non di una categoria. Tocca sempre ad «altri», agli studenti, agli
operai, agli immigrati e così via, senza accorgersi che è tutto il paese
che sprofonda ogni volta un po' di più, ma complessivamente. Nella
nostra società implosa in mille sacche di potere, viene meno il sentirsi
società. Non c'è più società, ma pezzi di società, gruppi, corporazioni,
che non si considerano più collegati tra di loro, che smarriscono un più
generale senso di appartenenza e che camminano per fatti propri verso la
notte. Tutto è potere e si esprime «democraticamente». I colletti
bianchi sono una piega di potere, una schiera di capetti, piccoli
marchionne, che detengono misere porzioni di controllo sui lavoratori.
Tanto gli basta per sentirsi parte dei piani alti. Queste pieghe di
potere non sono «esterne», non vengono da fuori, ma sono parte dei
meccanismi «democratici». Sono un regolatore interno, un moderatore
dell'utilizzo della democrazia. Servono a non imporre nulla, ma ad
intervenire nel processo, ad essere
parte in causa. Candidamente votano e lo fanno compatti, mentre i
lavoratori di linea vengono definiti come «ideologizzati» ad ogni minimo
accenno di resistenza. È un macchina inesorabile, in cui la voce del
padrone è ormai muto dominio. La proprietà Fiat non ha proferito parola
in tutta la vicenda. Non ne ha avuto bisogno. Il consenso ai suoi
interessi privati esiste a priori, si manifesta nella macchina
«democratica», scatta automatico. Marchionne sembra il padrone, ma è
solo un dipendente, come gli «impiegati». Laddove la lotta di classe
sembra dunque scomparsa, consumata formalmente all'interno di una stessa
«classe», essa è solo agita in un unico senso. L'intera nazione dei
piani alti parla ormai solo la lingua dei padroni, più di loro e con più
convinzione, al loro posto. I padroni veri osservano in silenzio, come
dei dell'Olimpo.
Ma questa volta l'assordante monologo di
corte, malgrado l'apparenza, non ha convinto proprio nessuno, neanche
chi ha votato sì, che sa benissimo perché lo ha fatto. Questa volta
l'enorme mobilitazione mediatica ha partorito un risultato appena
sufficiente. Qualcosa di antico sta buttando una sabbia luminosa negli
ingranaggi della moderna macchina del potere.
Il coraggio «rinascimentale» di chi ha
votato no, che non era solo un
no all'accordo, ma un
no all'arroganza disumana
delle ragioni della produzione messe al di sopra di quelle dell'uomo.
Questo coraggio è l'unica «nuova
antichità» degli operai.
Il coraggio di rimettere l'uomo al
centro, le sue ragioni, le sue necessità, prima ancora che i suoi
«diritti» e di farlo, non senza rischio personale. Qui non si trattava,
come avviene spesso, di esprimere un voto del valore di un'opinione
personale sul «meno peggio» della politica istituzionale. Qui si
trattava di esprimere un'idea di cosa sia accettabile e cosa non lo sia
di fronte alla propria faccia nello specchio, di fronte ai propri figli
e cari e si trattava di esprimerlo al costo di dovere ripensare in
blocco alla propria esistenza futura. Questo referendum ha toccato una
soglia, ha costituito un evento molto più importante di qualsiasi
elezione politica. È stato un voto inciso sulla propria pelle, con
conseguenze immediate. L'affluenza record sta lì a dimostrarlo.
Non ci resta che attaccarci a questa
nuova speranza che cresce, ringraziare gli operai per la loro capacità
di ricordarci che si può ancora essere uomini, contro ogni idea di
nuovo medioevo, e ringraziare
La lezione di questa
magnifica sconfitta operaia,
solo per poco sconfitta, e solo per ora, è l'unica speranza di farla
finita con lo spettacolo indecente di una politica senza più anima né
faccia, il cui unico «coraggio», se così si può chiamare, è quello di
prendere decisioni che riguardano gli altri, o di non prenderne affatto,
e che nonostante ciò, osa, senza vergognarsi, di usare espressioni del
tipo «se io fossi un operaio…»
per cercare di etero-dirigere, persino in quest'occasione, gli operai
rispetto al «da farsi», invece che cogliere l'occasione di osservare
silenzio ed imparare.
GENNAIO 2011