Il
grande problema sorge quando ci si domanda come potranno gli
oppressi, che “ospitano” in sé l’oppressore, partecipare
all’elaborazione della pedagogia della loro liberazione, dal momento
che sono soggetti a dualismo e inautenticità. Solo nella misura in
cui scopriranno di ospitare in sé l'oppressore, potranno contribuire
alla creazione comune della pedagogia che li libera. […] La
pedagogia dell’oppresso, che non può essere elaborata
dall’oppressore, è uno degli strumenti per questa scoperta critica:
gli oppressi che scoprono sé stessi e gli oppressori che sono
scoperti dagli oppressi, come manifestazione di un processo
disumanizzante. […] Nella prima fase di questa scoperta, quasi
sempre gli oppressi, invece di cercare la liberazione nella lotta e
attraverso di essa, tendono a essere anche loro oppressori, o
oppressi in secondo grado. La struttura del loro pensiero si trova
condizionata dalla contraddizione vissuta nella situazione concreta,
esistenziale, in cui si “formano”. Il loro ideale è realmente essere
uomini, ma per loro essere uomini è essere oppressori, a causa della
contraddizione in cui si sono sempre trovati e il cui superamento
non è loro chiaro. Gli oppressori sono per loro l’unico modello di
umanità.
Con questa affermazione non vogliamo dire che gli oppressi, in tal
caso, non sappiano di essere oppressi. Tuttavia, la loro conoscenza
di sé stessi come oppressi si trova falsata dal fatto che vivono
immersi nella realtà degli oppressori. “Riconoscersi” a questo
livello, in opposizione all’altro, non significa ancora lottare per
il superamento della contraddizione. Nasce di lì l’aberrazione: uno
dei poli della contraddizione non aspira a liberarsi, bensì a
identificarsi con il suo opposto. In questo caso, per gli oppressi,
“l’uomo nuovo” non è l’uomo che deve nascere dal superamento della
contraddizione, con la trasformazione dell’antica situazione di
oppressione che ceda il posto a una nuova, di liberazione. Per loro,
l’uomo nuovo sono loro stessi, che diventano oppressori degli altri.
Vogliono la riforma agraria, in questo caso, non per liberarsi, ma
per divenire proprietari, o più esattamente padroni di nuovi servi.
Perfino le rivoluzioni, che trasformano la situazione concreta di
oppressione in un’altra, di liberazione, affrontano questa
manifestazione tipica della coscienza oppressa. Molti degli oppressi
che partecipano alla rivoluzione, sia direttamente sia
indirettamente, sotto l’influenza dei vecchi miti della struttura
anteriore pretendono fare della rivoluzione la loro rivoluzione
privata. Perdura in essi, in un certo senso, l’ombra dell’oppressore
antico. Questo continua a essere purtroppo il loro modello di ciò
che è “umanità”.
Uno degli elementi fondamentali nel processo di mediazione
oppressi/oppressori è la prescrizione. Ogni prescrizione è
l’imposizione di una scelta, esercitata da una coscienza su
un’altra. Perciò il significato della prescrizione è alienante,
perché trasforma la coscienza di colui che la riceve in una
coscienza-ospite dell’oppressore. Il comportamento degli oppressi è
una specie di comportamento “prescritto”. Si struttura su criteri
estranei, che sono quelli degli oppressori. Gli oppressi, che
introiettano l’ombra degli oppressori e seguono i loro criteri,
hanno paura della libertà, perché essa, comportando l’espulsione di
quest’ombra, esigerebbe che il vuoto da lei lasciato fosse riempito
con un altro “contenuto”, quello della loro autonomia, o della loro
responsabilità, senza la quale non sarebbero liberi. La libertà, che
è una conquista e non un’elargizione, esige una ricerca permanente.
Finché sono influenzati dalla paura della libertà, si rifiutano di
rivolgersi ad altri e di ascoltarne l’appello, preferendo essere
“aggregati” piuttosto che compagni in una convivenza autentica;
preferiscono l’adattamento a cui li obbliga la loro non-libertà a
una comunione creatrice, alla quale la libertà porta l’uomo, anche
quando essa è solo una ricerca. Subiscono un dualismo che si
installa nell’intimo del loro essere. Scoprono che, non essendo
liberi, non arrivano a “essere” autenticamente. Vorrebbero “essere”,
ma hanno paura.
La trama della loro lotta si delinea tra l’essere se stessi o
l’essere duplici. Tra l’espellere o no l’oppressore che sta “dentro”
di loro. Tra il superare l’alienazione o rimanere alienati. Tra
seguire prescrizioni o fare delle scelte. Tra essere spettatori o
attori. Tra agire o avere l’illusione di agire, mentre sono gli
oppressori che agiscono. Tra il “parlare” o non avere voce, castrati
nel loro potere di creare e ricreare, nel loro potere di trasformare
il mondo. È questo il tragico dilemma degli oppressi, che la loro
pedagogia deve affrontare.
Per noi, tuttavia, il nocciolo della questione non consiste
nell’illuminare le masse, ma nel dialogare con loro sui motivi e le
modalità della loro azione. Comunque, il dovere che Lukacs
attribuisce al partito rivoluzionario di «illuminare alle masse la
loro propria azione» coincide con l’esigenza da noi posta
dell’inserzione critica delle masse nella loro realtà attraverso la
prassi, per il fatto che nessuna realtà trasforma sé stessa.
La pedagogia dell’oppresso, che cerca la restaurazione della
intersoggettività, si presenta come pedagogia dell’Uomo. Al
contrario, la pedagogia che, partendo dagli interessi egoistici
degli oppressori (egoismo camuffato con apparenze di generosità), fa
degli oppressi gli oggetti del suo umanitarismo, mantiene e incarna
l’oppressione. Questa è la ragione per cui, come s’è già detto,
questa pedagogia non può essere elaborata né praticata dagli
oppressori. Sarebbe una contraddizione se gli oppressori non solo
difendessero ma praticassero un’educazione liberatrice. Se però la
pratica di questa educazione esige che gli oppressi esercitino il
potere politico, come realizzare la pedagogia dell’oppresso prima
della rivoluzione?
La pedagogia dell’oppresso, come pedagogia umanistica e liberatrice,
avrà due momenti distinti. Il primo, in cui gli oppressi scoprono il
mondo dell’oppressione e si impegnano nella prassi a trasformarlo;
il secondo, in cui, trasformata la realtà oppressiva, questa
pedagogia non è più dell’oppresso e diventa la pedagogia degli
uomini che sono in processo di permanente liberazione.
Nel momento però in cui il nuovo potere si indurisce come burocrazia
dominante, si perde la dimensione umanistica della lotta e non si
può più parlare di liberazione. Ecco il perché dell’affermazione
fatta in precedenza, per cui il superamento autentico della
contraddizione oppressi/oppressori non consiste nel cambio di
guardia, nello scambio dei poli; non consiste neppure nel fatto che
gli oppressi di oggi, proprio in nome della libertà, passino ad
avere nuovi oppressori.
Questa tendenza degli oppressori a rendere senza vita tutto e tutti,
che si trova nella loro ansia di possesso, si identifica
indiscutibilmente con la tendenza sadica. «Il piacere che nasce dal
dominio completo su un altro essere (o su un’altra creatura animata)
costituisce l’essenza dell’impulso sadico.
Il sadismo appare così come una delle caratteristiche della
coscienza dell’oppressore, nella sua visione necrofila del mondo.
Per questo il suo amore è un amore a rovescio, un amore per la morte
e non per la vita.
Dichiararsi impegnato con la liberazione e non essere capace di
entrare in comunione con il popolo, che si continua a considerare
assolutamente ignorante, è un equivoco doloroso.
A un certo momento dell’esperienza esistenziale degli oppressi, si
verifica un’attrazione irresistibile verso l’oppressore. Verso il
suo stile di vita. Partecipare a questo stile di vita costituisce
un’aspirazione irresistibile. Nella loro alienazione vogliono, a
ogni costo, somigliare all’oppressore. Imitarlo. Seguirlo. Ciò si
verifica soprattutto negli oppressi della classe media, la cui
aspirazione è divenire uguali all’uomo “illustre” della cosiddetta
classe “superiore”. È interessante osservare come Memmi, in
un’analisi assolutamente straordinaria della “coscienza
colonizzata”, si riferisce al rifiuto del colonizzato davanti al
colonizzatore, rifiuto che però è mescolato a un’attrazione
“appassionata” per lui.
A forza di sentirsi dire che sono incapaci, che non sanno nulla, che
non possono sapere, che sono malati cronici, indolenti, e che non
producono per via di tutto questo, finiscono per convincersi della
loro “incapacità”. Parlano di sé stessi come di coloro che non
sanno, e del “dottore” come di colui che sa e che si deve ascoltare.
Sono loro imposti criteri di sapere convenzionali.
Il fatto è che pensare autenticamente è molto pericoloso. Lo strano
umanesimo di questa concezione “depositaria” si riduce al tentativo
di fare degli uomini esattamente il loro contrario, degli automi,
cioè la negazione della vocazione ontologica a essere di più. Gli
esecutori di questa concezione “depositaria”, coscienti o no (perché
esiste un certo numero di educatori di buona volontà che ignorano di
essere al servizio della disumanizzazione, praticando questo mercato
da banchieri) non si accorgono che tali “depositi” sono pieni di
contraddizioni […].
La persona necrofila è spinta dal desiderio di trasformare
l’organico nell’inorganico, di accostarsi alla vita meccanicamente,
come se tutte le persone viventi fossero cose.
«Ama il controllo, e nell’atto di controllare, uccide la vita».
La sua intenzione è esattamente opposta: controllare il pensiero e
l’azione, portando gli uomini ad adattarsi al mondo.
Quando gli uomini, per un motivo qualunque, sentono la proibizione
di agire, quando si scoprono incapaci di usare le loro facoltà,
soffrono. […]. Ma il fatto di non poter agire, che provoca la
sofferenza, provoca anche negli uomini la reazione per cui rifiutano
la loro impotenza. Allora tentano di ristabilire «la loro capacità
di amare» (Fromm). «Possono farlo? Come? Un modo è quello di
sottomettersi a una persona o a un gruppo, di identificarvisi.
Questo stesso tipo di reazione forse si può riscontrare negli
oppressi, quando sono immersi nei fenomeni “populisti”. La loro
identificazione con i “leader” carismatici, attraverso i quali
possano sentirsi attuanti, e quindi nell’esercizio del potere, così
come la loro ribellione, quando emergono dal processo storico, sono
avvolte da questo impeto di ricerca di realizzazione di potere. Per
le élite dominanti questa ribellione, che le minaccia, trova la sua
medicina in una dominazione ancor più forte, nella repressione,
fatta, tra l’altro, in nome della libertà, e nella restaurazione
dell’ordine e della pace sociale. Pace sociale che in fondo non è
altro che la pace privata dei dominatori.
L’educazione come pratica di dominio, che è l’oggetto di questa
critica, conservando la coscienza “naturale” degli educandi,
pretende, nell’ambito della sua definizione ideologica (raramente
percepita da coloro che la realizzano) addottrinarli, affinché si
adattino al mondo dell’oppressione.
Il nostro obbiettivo è fare un richiamo agli autentici umanisti e
avvertirli che non possono, nella ricerca della liberazione,
servirsi della concezione “depositaria”, sotto pena di contraddire
la loro stessa ricerca. Così pure, questa concezione non può
diventare eredità della società oppressiva alla società
rivoluzionaria, la quale, se mantiene questa concezione
“depositaria” dell’educazione, o è caduta in equivoco o si è
lasciata “mordere” dalla sfiducia nell’uomo. In qualunque ipotesi,
sarà minacciata dallo spettro della reazione.
A questo punto nessuno educa nessuno, e neppure sé stesso: gli
uomini si educano in comunione, attraverso la mediazione del mondo.
Nessuno può “essere’’, con autenticità, mentre impedisce che gli
altri siano. E questa un’esigenza radicale. L’essere di più
ricercato nell’individualismo conduce a un avere di più egoista, che
è una forma di essere di meno.
Per il pensare acritico, l’importante è adattarsi a questo oggi
normalizzato. Per quello critico, l’importante è la trasformazione
permanente della realtà, in vista della permanente umanizzazione
degli uomini.
Questa pratica esige che l’accostamento alle masse popolari si
faccia, non per portare loro un messaggio “salvifico”, in forma di
contenuto da depositarsi, ma per conoscere, nel dialogo con esse,
non soltanto l’oggettività in cui si trovano, ma la coscienza che
hanno di questa oggettività: i vari livelli di percezione di sé
stessi e del mondo, in cui e con cui si trovano.
Ne deriva che il contenuto di un programma di azione, che appartiene
ad ambedue, non può essere una scelta esclusiva degli educatori o
dei politici, ma di loro e del popolo.
È lo sforzo di proporre agli individui dimensioni significative
della loro realtà, la cui analisi critica renda loro possibile
riconoscere l’interazione delle sue parti.
In una visione liberatrice, e non più “depositaria” dell’educazione,
il contenuto dei programmi non è l’involucro degli obiettivi da
imporre al popolo, ma il riflesso delle sue aspirazioni e le sue
speranze (perché parte e nasce dal popolo, in dialogo con gli
educatori). Dunque la ricerca della tematica è il punto di partenza
del processo educativo e della sua capacità di dialogo.
La “coscienza possibile” (Goldmann) sembra che si possa identificare
con quello che Nicolai chiama “soluzioni praticabili non percepite”
(che è poi il nostro “possibilità ancora inedite di azione”) in
opposizione alle “soluzioni praticabili percepite” e alle “soluzioni
effettivamente realizzate”, che corrispondono alla “coscienza reale”
o effettiva di Goldmann.
Gli individui “immersi” nella realtà con la sola sensibilità dei
propri bisogni, ne emergono, e così raggiungono la ragione dei loro
bisogni. In questo modo potranno superare molto più rapidamente il
livello della “coscienza reale” e attingere quello della “coscienza
possibile”. Se tale è l’obiettivo dell’educazione “problematizzante”
che difendiamo, l’investigazione tematica, che ne è lo strumento,
non più sottrarsi a questo obiettivo.
Gli uomini sono esseri di prassi. Sono esseri del “che-fare”, mentre
gli animali sono esseri del puro “fare”. Gli animali non “vedono” il
mondo. Vi si immergono. Gli uomini, al contrario, in quanto esseri
del “che-fare”, ne emergono e, oggettivandolo, possono conoscerlo e
trasformarlo col loro lavoro.
Gli uomini invece sono esseri del “che-fare”, perché il loro
“che-fare” è azione e riflessione. È prassi. È trasformazione del
mondo. Se il “che-fare” è prassi, il fare dell’uomo deve avere una
teoria che necessariamente lo illumini. Il “che-fare” è teoria e
pratica. È riflessione e azione.
La famosa affermazione di Lenin: «Senza teoria rivoluzionaria non ci
può essere movimento rivoluzionario» significa precisamente che non
si fa rivoluzione col verbalismo, e nemmeno con l’attivismo, ma con
la prassi, cioè con la riflessione e l’azione, che influiscono sulle
strutture in trasformazione. Lo sforzo rivoluzionario che ne
consegue non può avere nella sua leadership uomini del che-fare e
nelle masse oppresse uomini ridotti al puro fare.
Non è possibile che la leadership consideri gli oppressi puri e
semplici esecutori delle sue determinazioni, attivisti cui si neghi
la riflessione sul proprio fare. Gli oppressi, nell’illusione di
fare qualcosa (attraverso l’azione della leadership) continuano a
essere manipolati, ed esattamente da coloro che non dovrebbero
farlo, in ragione della natura della loro funzione. Perciò, quando
la leadership nega la vera prassi agli oppressi, nega anche la sua.
Se l’impegno della leadership è veramente quello della liberazione,
il suo “che-fare” (azione e riflessione) non può esistere senza
l’azione e la riflessione degli altri.
Una leadership rivoluzionaria, che non sia dialogica con le masse, o
mantiene “l’ombra” del dominatore “dentro” di sé, e non è
rivoluzionaria, o si trova in un grosso equivoco, e diviene
prigioniera di un settarismo indiscutibilmente morboso; anche in
questo caso non è rivoluzionaria. Può arrivare al potere, ma
dubitiamo di una rivoluzione che risulti da questo “che-fare”
anti-dialogico.
Tra l’altro il dualismo esistenziale può favorire la nascita di un
clima di settarismo che porta facilmente alla strutturazione di
“burocrazie” che corrodono la rivoluzione. Se le masse prendono
coscienza, nel corso del processo, di questa ambiguità, può accadere
che accettino la propria partecipazione al potere con uno spirito di
rivincita più che di rivoluzione. Possono inoltre aspirare alla
rivoluzione come a un mezzo di dominazione e non come a un cammino
di liberazione. Possono visualizzare la rivoluzione come la loro
rivoluzione privata, ciò che ancora una volta rivela una delle
caratteristiche degli oppressi, di cui si è parlato nel primo
capitolo di questo saggio.
La vera rivoluzione, prima o poi, deve aprire il dialogo coraggioso
con le masse; la sua legittimità si trova in questo dialogo, e non
nel ristagno o nella menzogna. Non può temere le masse, la loro
espressività, la loro partecipazione effettiva, al potere. Non può
negarle. Non può sottrarsi a una resa dei conti con esse, a dire
loro i successi, gli errori, gli equivoci, le difficoltà. Siamo
convinti che, quanto prima comincia il dialogo, più rivoluzione ci
sarà. Questo dialogo, come esigenza radicale della rivoluzione,
risponde a un’altra esigenza radicale, quella degli uomini, che non
possono “essere” fuori della comunicazione, perché sono
“comunicazione”. Ostacolare la comunicazione significa trasformarli
quasi in cose, e questo è compito e obiettivo degli oppressori, non
dei rivoluzionari.
Cioè, la leadership ha negli oppressi i soggetti dell’azione
liberatrice, e nella realtà la mediazione dell’azione trasformatrice
di ambedue. In questa teoria dell’azione, esattamente perché è
rivoluzionaria, non è possibile parlare di attore al singolare né di
attori al plurale, ma di attori nella inter-soggettività,
nell’intercomunicazione.
Molti, perché attaccati a una visione meccanicistica, pensano che la
trasformazione della realtà si può fare in termini meccanici: essi
non percepiscono l’ovvia verità che la situazione concreta, in cui
gli uomini stanno, condiziona la loro coscienza del mondo, e questa
a sua volta condiziona il loro atteggiamento e la loro maniera di
affrontarla. Cioè pensano che la trasformazione della realtà si può
fare senza problematizzare questa falsa concezione del mondo o senza
che l’azione rivoluzionaria approfondisca la sia pur meno falsa
coscienza degli oppressi. Non esiste realtà storica (altra
affermazione ovvia) che non sia umana. Non c’è storia senza gli
uomini, come non c’è una storia per gli uomini, ma una storia di
uomini che, fatta da loro, al tempo stesso li fa, come disse Marx.
Chi può pensare senza le masse (e non può permettersi il lusso di
non pensare ad esse), è l’élite dominante; […] Pensare con esse
sarebbe il superamento della loro contraddizione. Pensare con loro
significherebbe non dominare più. Perciò l’unica forma di pensare
giusto dal punto di vista degli oppressori è non lasciare che le
masse pensino, il che vuol dire: non pensare con esse.
“Benché sembri magnifico in teoria il progetto di dare istruzione
alle classi lavoratrici, sarebbe nocivo alla loro morale e alla loro
felicità; insegnerebbe a disprezzare la loro missione nella vita,
invece di farne buoni servi per l’agricoltura e altri impieghi;
invece di insegnare loro ad essere subordinati, li renderebbe
ribelli e refrattari, come si rivelò evidente nelle contee
manifatturiere; li renderebbe capaci di leggere libercoli sediziosi,
libri perversi e pubblicazioni contro la cristianità: li renderebbe
arroganti verso i loro superiori, e in pochi anni diverrebbe
necessario, per la legislazione, dirigere contro di essi il braccio
forte del potere». In fondo, quello che MrGiddy, citato da Niebhur,
voleva, è simile a ciò che vogliono i MrGiddy di oggi, cioè che le
masse non pensino.
Alcuni pensano, a volte con retta intenzione, ma in base a equivoci,
che giacché il processo dialogico è lento (il che non è vero) si
deve fare la rivoluzione senza comunicazione, attraverso comunicati,
e dopo che si è fatta, allora svolgere un ampio sforzo educativo.
Anche perché, dicono, non è possibile fare educazione prima della
presa del potere. Educazione liberatrice. Nelle affermazioni di
coloro che pensano così ci sono alcuni punti fondamentali. Credono
(ma non tutti) alla necessità del dialogo con le masse, ma non che
sia possibile prima della conquista del potere. Quando affermano che
non è possibile un tipo di comportamento educativo-critico prima
della conquista del potere, negano il carattere pedagogico della
rivoluzione, come azione culturale, che si prepara ad essere
rivoluzione culturale. D’altra parte, confondono il senso pedagogico
della rivoluzione con la nuova educazione che deve essere inaugurata
dopo la conquista del potere. […] la conquista del potere è solo un
momento, anche se decisivo. In quanto processo, il “prima” della
rivoluzione si trova nella società oppressiva ed è solo apparente.
Ecco perché la conquista del potere è appena un momento decisivo di
un processo che continua. Quindi, in una visione dinamica e non
statica della rivoluzione, essa non ha un prima e un dopo assoluti.
[…] Generata in determinate condizioni obiettive, essa cerca il
superamento della situazione oppressiva con l’instaurazione di una
società di uomini in processo di permanente liberazione. Il senso
pedagogico, dialogico, della rivoluzione, che ne fa anche una
“rivoluzione culturale”, deve accompagnarla in tutte le sue fasi. È
questo un mezzo efficace per evitare che il potere rivoluzionario si
istituzionalizzi, stratificandosi nelle forme di una “burocrazia”
contro-rivoluzionaria, perché la contro-rivoluzione è caratteristica
anche dei rivoluzionari che diventano reazionari.
Si deve riconoscere al processo rivoluzionario il suo carattere
eminentemente pedagogico. Di una pedagogia che formula problemi e
non deposita nozioni in banca.
Nel processo di manipolazione quasi sempre le sinistre si sentono
tentate dal “giro intorno al potere”, e dimenticando i loro incontri
con le masse, in funzione dell’organizzazione, si perdono in un
“dialogo” impossibile con le élite dominanti. E finiscono per essere
manovrate da queste élite e cadono in un gioco di gruppi dirigenti,
che chiamano realismo...
La manipolazione, nella teoria dell’azione anti-dialogica, deve
anestetizzare le masse popolari affinché non pensino, allo stesso
modo della conquista, al cui servizio essa si trova. Le famiglie e
le scuole, elementari medie superiori di livello universitario, che
non esistono per aria, ma nel tempo e nello spazio, non possono
sfuggire alle influenze delle condizioni strutturali obiettive.
Funzionano in gran parte dentro le strutture di dominazione, come
agenzie formatrici di futuri “invasori”. I rapporti padri-figli,
nelle famiglie, riflettono generalmente le condizioni
oggettivo-culturali della totalità di cui fanno parte. E se queste
condizioni sono autoritarie rigide dominatrici, penetrano nelle
famiglie che favoriscono il clima di oppressione. Quanto più si
sviluppano questi rapporti di tipo autoritario tra genitori e figli,
tanto più i figli, nella loro infanzia, introiettano l’autorità
paterna.
Bambini deformati in un ambiente senza amore, oppressivo, frustrati
nella loro potenza, come direbbe Fromm, se non riescono nella
gioventù a orientarsi nel senso di una ribellione autentica, o si
adagiano nelle dimissioni complete della volontà, alienati
all’autorità e ai miti che questa autorità usa per “formarli”, o
potranno poi assumere forme di azione distruttiva. Questa influenza
della famiglia prosegue nell’esperienza della scuola. In essa gli
educandi scoprono presto che, così come in famiglia, per avere
qualche soddisfazione devono adattarsi ai precetti stabiliti
verticalmente. E uno di questi precetti è non pensare. Introiettando
l’autorità paterna attraverso un tipo rigido di rapporti che la
scuola accentua, la loro tendenza, quando divengono dei
professionisti, è di seguire i modelli rigidi in cui si sono
formati, perché dentro di loro si installa la paura della libertà.
Ciò, insieme alla loro posizione classista, spiega forse il motivo
per cui un gran numero di professionisti aderisce a un’azione
anti-dialogica (Questo forse aiuta a spiegare l’anti-dialogicità di
coloro che, pur convinti della loro scelta rivoluzionaria,
continuano tuttavia a non avere fiducia nel popolo, temendo la
comunione con esso. Senza accorgersene, mantengono ancora dentro di
sé l’oppressore. In realtà temono la libertà finché ospitano dentro
di sé il “signore”.). Qualunque sia la loro specializzazione che li
mette in contatto col popolo, la loro convinzione quasi incrollabile
è che compete loro “trasferire” o portare o consegnare al popolo le
loro nozioni e le loro tecniche.
I professionisti, a livello universitario o no, in qualunque
specializzazione, sono uomini cresciuti sotto la
“sovra-determinazione” di una cultura oppressiva che li ha portati
al dualismo. Anche se venissero dalle classi popolari, la loro
deformazione in fondo sarebbe la stessa, o addirittura peggiore.
Tuttavia questi professionisti sono necessari alla riorganizzazione
della nuova società. Ci sembra che non solo potrebbero ma dovrebbero
essere recuperati dalla rivoluzione, dal momento che un gran numero
tra loro, anche se feriti dalla “paura della libertà” e incerti
nell’adesione a una azione umanizzante, in realtà si trovano più che
altro in equivoco.
Nella misura in cui la coscientizzazione, nella “rivoluzione
culturale” e attraverso di essa, diviene più profonda, nella prassi
creatrice della società nuova gli uomini vanno disvelando le ragioni
della permanenza delle “sopravvivenze” mitiche, che in fondo sono
realtà forgiate nell’antica società. Potranno allora liberarsi più
rapidamente da questi spettri che costituiscono sempre un problema
serio per ogni rivoluzione, perché ostacolano l’edificazione della
nuova società. Attraverso queste “sopravvivenze” la società
oppressiva continua a “invadere”, e a questo punto invade la stessa
società rivoluzionaria. È questa una terribile “invasione”, perché
non è fatta direttamente dall’antica élite dominante (che si
riorganizzasse eventualmente per questo) ma dagli uomini che hanno
preso parte alla rivoluzione. “Ospiti” dell’oppressore, resistono
come lui farebbe, di fronte a misure fondamentali che
necessariamente vengono prese dal potere rivoluzionario. Come esseri
dualisti però, accettano anche, in funzione delle “sopravvivenze”,
il potere che diviene burocrazia e che li reprime violentemente.
Questo potere burocratico, violentemente repressivo, può essere a
sua volta spiegato attraverso ciò che Althusser chiama
«riattivazione di elementi antichi», ogni volta che circostanze
speciali lo favoriscono nella nuova società. Per tutto ciò
difendiamo il processo rivoluzionario come azione culturale
dialogica che si prolunga in “rivoluzione culturale” con la presa
del potere. […] Nella rivoluzione culturale infine, la rivoluzione,
sviluppando la pratica del dialogo permanente tra leadership e
popolo, consolida la partecipazione di quest’ultimo al potere.
Perciò le soluzioni puramente riformiste che queste società
affrontano, pur se a volte bastano a spaventare i settori più
reazionari delle sue élite, non arrivano a risolvere le
contraddizioni interne. Quasi sempre, se non sempre, queste
soluzioni riformiste sono suggerite dalla stessa metropoli, come
risposta nuova che il processo storico impone, ma nel senso di
mantenere la sua egemonia. È come se la metropoli dicesse: «Facciamo
le riforme, prima che le società dipendenti facciano la
rivoluzione». E per raggiungere questo scopo, la società
metropolitana non ha altre strade che non siano la conquista, la
manipolazione, l’invasione economica e culturale (a volte militare)
della società dipendente.
[…] ripetiamo ciò che siamo andati affermando nel corso di questo
saggio: l’impossibilità che la leadership rivoluzionaria usi gli
stessi processi anti-dialogici di cui si servono gli oppressori per
opprimere.
Nel suo diario della lotta in Bolivia, Guevara si riferisce varie
volte alla mancata partecipazione dei contadini. Quando cerchiamo di
spiegare questa paura e questa poca efficienza dei contadini,
scopriamo in essi, in quanto coscienze dominate, l’oppressore
“introiettato”.
Nella teoria dell’azione dialogica, non c’è posto per la conquista
delle masse agli ideali rivoluzionari, ma per la loro adesione.
La leadership deve confidare nella potenzialità delle masse, che non
può trattare come oggetti della sua azione. Deve confidare che esse
siano capaci di impegnarsi nella ricerca della loro liberazione, ma
deve diffidare, sempre diffidare, dell’ambiguità degli uomini
oppressi. Diffidare degli uomini oppressi, non è propriamente
diffidare di loro in quanto uomini, ma diffidare dell’oppressore
“ospitato” dentro di loro.
Guevara mette in rilievo in questo racconto la comunione col popolo
come il momento decisivo per la trasformazione di quella che era
stata una «decisione spontanea e un po’ lirica», in una forza di
valore definitivo e più serena. E spiega che, a partire da quella
esperienza di comunione, i contadini senza accorgersene divennero
gli “artefici” della ideologia rivoluzionaria.
La comunione provoca la collaborazione, che porta la leadership e le
masse a quella fusione cui accenna il grande leader scomparso.
[…] se per dividere è necessario mantenere l’io dominato “aderente”
alla realtà oppressiva, mitizzandola, il primo passo per unire è la
demitizzazione della realtà.
[…] se per dividere è necessario mantenere l’io dominato “aderente”
alla realtà oppressiva, mitizzandola, il primo passo per unire è la
demitizzazione della realtà
Commenti al testo
Il
povero Cristo
ha visto com'è l'uomo
che il povero Cristo
mangia verze e patate
e intanto chi gli è sopra
si gode oro e alloro
e ammucchia per sé solo
ricchezze smisurate
ma appena gliele ha tolte
non divide in uguaglianza
ma del padrone apprende
il pensiero e l'arroganza
(Vinicio Capossela – Il povero Cristo, in Ballate per
uomini e bestie)