REDDITO, DEMOCRAZIA, ESPROPRIO - Per una rifondazione della politica
Alessandro D'Aloia
È davvero
incomprensibile la balbuzie della sinistra italiana degli, almeno,
ultimi dieci anni di fronte allo stato delle cose presente e la
straordinaria capacità di essere a corto di idee di fronte all’evidenza
finalmente schiacciante delle contraddizioni del sistema capitalista.
Forse la sinistra è divenuta preda di afasia politica per il timore di
apparire banale nell’interpretazione di una realtà che parla così
esplicitamente di se stessa da rendere superflue le parole. Ora che
tutto è così evidente a che serve parlarne? Così si lascia la parola a
chi, ringraziando, egemonizza il dibattito politico con lo sproloquio.
Le destre cercano lo sfondamento a sinistra incastrando a forza le
parole in combinazioni la cui arditezza concettuale è uno sconcerto
della logica. Ma già Reich (Psicologia di massa del fascismo) notava
come la fraseologia di destra, durante l’ascesa dei fascismi, sfondava
tra le masse quanto più astraeva dalla logica. A dispetto delle
apparenze però, in una prospettiva di ricostruzione della sinistra, il
momento attuale è da considerare propizio, un nuovo inizio possibile.
Ovviamente questa “percezione all’incontrario” sembra suggerire la
necessità di accelerare (vedi il Manifesto per una politica
accelerazionista) taluni processi politici piuttosto che ostacolarli,
per crescerci dentro ed essere, con gioia, al punto giusto nel momento
giusto. E allora, tanto per concedersi un piccolo tuffo nel contingente,
è forse meglio che un governo a maggioranza lega-5stelle si sia formato,
piuttosto che perdere altri due lustri in un’alternanza tra le due forze
politiche vincitrici delle elezioni del 4 marzo, prima che possa essere
definitivamente chiaro come la loro fraseologia “anti-sistemica” sia
invece tutta proprio interna al sistema. Sarà probabilmente solo a
partire da quel momento che si riapriranno per la sinistra delle chiare
possibilità di crescita, sempre che essa stessa abbia, nel frattempo,
vinto la paura di passare alla storia. Vincere la paura di spingersi
oltre le Colonne d’Ercole del capitalismo servirà a non ripetere la
parabola, recente in termini storici, della sinistra greca che per prima
si è trovata di fronte alla vertigine del vuoto di una simile
prospettiva in Europa, restandone però immobilizzata nel terrore di
cambiare davvero il corso della storia quando ne ha avuto la possibilità
nell’estate del 2015. Perché è chiaro che l’impossibilità per la
sinistra di collocarsi strategicamente all’interno delle compatibilità
di sistema implica il coraggio di abbandonare i territori fin qui
frequentati dalla proposta politica socialdemocratica – vera causa dello
scenario politico delineatosi.
Reddito
Già il Marx dei Grundrisse notava come la meccanizzazione dei gesti
dell’operaio preludesse alla sostituzione dell’operaio con il meccanismo
stesso e come nel totalizzarsi di questo processo la creazione della
ricchezza dipendesse necessariamente sempre più dalla “potenza degli
agenti produttivi” che dalla quantità di lavoro (umano) impiegato. Era
cioè già chiaro a Marx che lo sviluppo della tecnologia delineasse
un’andersiana obsolescenza produttiva dell’uomo di fronte alle macchine
e che questo significasse una prospettiva da “fine del lavoro”, come
Rifkin sintetizzava meglio di chiunque altro nel 1995, finalmente, con
il suo La fine del lavoro. Se le macchine sostituiscono l’uomo nella
produzione a tutti i livelli (non solo nella manualità) amplificandone
esponenzialmente la capacità produttiva allora è chiaro che il reddito
dovrà, prima o poi, essere sganciato dal lavoro semplicemente perché non
ci sarà più abbastanza lavoro per tutti. Uno degli slogan più importanti
del movimento operaio degli anni ‘70 capace di sintetizzare
perfettamente interi libri di teoria era: “lavorare tutti, lavorare
meno”. La questione della “fine del lavoro” pone ormai in modo urgente
la necessità da un lato di accorciare globalmente la giornata lavorativa
dall’altro di garantire ad una giornata lavorativa contratta (o
tendenzialmente annullata) una parità di retribuzione con la giornata
“standard”, parità senza la quale lo slogan della distribuzione del
lavoro (e per altro verso della ricchezza) non avrebbe, evidentemente,
senso. Diventa allora chiaro come l’istituzione di un “reddito di base
incondizionato” da un lato e la lotta salariale dall’altro non siano che
due aspetti della stessa questione: la liberazione progressiva dell’uomo
dal lavoro; sempre più a portata di mano con l’avanzamento tecnologico
eppure, incredibilmente, sempre meno al centro della lotta politica,
quest’ultima incondizionatamente votata alla sempre più assurda, anche
se non dichiarata, difesa della proprietà privata dei mezzi di
produzione. Cos’altro è la precarizzazione del lavoro e della vita a
fronte della crescita esponenziale della capacità produttiva dei mezzi
di produzione (privati e non socializzati)? Il tema del reddito sociale
in una società senza lavoro è il tema del presente e del futuro, a cui
solo una prospettiva libera dalle compatibilità capitalistiche di
sistema (nulla a che vedere con il REI o con il reddito di cittadinanza
propinato dai 5 stelle) può conferire una soluzione positiva per
l’umanità. Si tratta in definitiva di scegliere tra l’essere,
finalmente, liberi oppure, eternamente, precari. In materia la
letteratura, anche degli ultimi tempi, è ricchissima, basta consultare
il sito del «BIN (Basic Income Network) Italia» con i Quaderni per il
reddito per farsene un’idea.
Democrazia
Il tema della democrazia è l’altro grande termine del triangolo
strategico, dal momento che la democrazia è, come il lavoro, l’altra
grande vittima predestinata del sistema capitalista di gestione del
mondo. Una lontana parvenza di democraticità sempre più svuotata di
significato mediante un meccanismo di rappresentanza che pure laddove
sopravvive non garantisce nessuna relazione tra l’intento e l’azione
politica, sortendo il prevedibile effetto dell’alienazione sempre più
completa della società dalla politica, è ciò che resta oggi dei grandi
ideali passati. Ma una civiltà senza democrazia non è più tale. L’uomo
a-politico non è più un uomo. L’antidemocraticità della gestione del
mondo non si cura con meno democrazia, ma con più democrazia. E il
problema di come ottenere più democrazia è vitale quanto quello del come
ottenere più reddito in cambio di meno lavoro. Se il reddito è il corpo
della politica, la democrazia ne è l’anima. Ma i termini del triangolo
strategico per una rifondazione della politica sono anche nodi sui quali
si innestano altri termini confluenti. La liberazione di tempo implicita
nella lotta per il reddito fornisce la base materiale per la crescita
culturale e la formazione di nuove soggettività cui non basteranno più
le forme preistoriche di democrazia rappresentativa. La cultura di
un’epoca emancipata dal lavoro coatto esigerà forme di democrazia e
strumenti che permettano realmente di partecipare alla scrittura della
storia. La democrazia però non è solo un fine ma deve essere anche il
mezzo stesso con cui si perseguono i fini. Allora una organizzazione
qualsiasi che aspiri a divenire forza politica deve essere il luogo in
cui si sperimentano le nuove forme di democrazia, applicando a se stessa
il metodo che vuole proporre alla società. Questo lo diceva già Lukacs
nel 1922 (Considerazioni metodologiche sulla questione
dell’organizzazione in Storia e coscienza di classe). Democrazia come
modo di produzione di soggettività non assoggettate. Dire democrazia
oggi è però riconoscere la necessità di una grossa rieducazione ad una
pratica pressoché sconosciuta, oltre che spaventosa per i più. Si tratta
sicuramente del compito più difficile, in cui non basterà certo fornire
un’app, un algoritmo in una piattaforma, anche se probabilmente questa
sarà indispensabile.
Esproprio
Sembra a questo punto che basterebbe volere per potere. Se i fini sono
il reddito e la democrazia cosa impedisce semplicemente di perseguirli?
La risposta è banale: l’egemonia del capitale. È esattamente la
coscienza di questo piccolo problemino che permette di superare una
visione semplicemente socialdemocratica. Il realismo politico non
permette di credere alla possibilità di realizzare fini sociali stante
l’egemonia del capitale. Ma non c’è nessun orgoglio nell’essere
maggiormente consapevoli delle difficoltà. La politica è lotta, è
conquista. L’esproprio è lo strumento della lotta, intesa come
progressiva erosione del ruolo del capitale privato nella produzione e
gestione del mondo. D’altra parte come realizzare reddito e democrazia
senza espropriare progressivamente ricchezza e politica dominanti? È
evidente che è detto “esproprio” ma si può leggere “appropriazione”.
Anche per questo terzo termine sono dunque chiari i rapporti con gli
altri due e si intravede già la confluenza di altre (apparentemente)
tematiche politiche. Ad esempio che farsene di un concetto come Stato?
Lo Stato coincide con il Pubblico? Secondo alcuni no. Di fatto però dare
per scontato il fallimento del Pubblico senza aver considerato il peso
della sua incompiutezza tanto dal punto di vista della produzione quanto
da quello della gestione democratica è forse prematuro. Dire che non ha
funzionato proprio nelle condizioni che ne negavano il funzionamento
sembra un po’ come avvallare, senza giustificazione ulteriore, le
ragioni del Privato. Probabilmente la categoria del Pubblico ha ancora
qualcosa da dire, ma bisogna pensarla in uno Stato produttore
(proprietario di mezzi di produzione) in grado di espropriare
progressivamente il mercato e rivolgere la produzione al valore d’uso
piuttosto che a quello di mercato. Uno Stato che aspiri ad egemonizzare
in prima persona la produzione di ricchezza democratizzandone, questo è
vitale, la gestione. Questo percorso può partire subito proprio da
quegli ambiti che il mercato non può coprire perché non profittevoli,
lasciando vuoti che solo lo Stato può colmare. Le pratiche del
mutualismo sono un esempio di questo processo di colmatura dei vuoti del
mercato, ma andrebbero sistematizzate. L’esproprio del Privato è un
termine che confluisce necessariamente nei primi due. Da un lato se è lo
Stato che si pone quale produttore lo fa anche in ragione del reddito
che assicura. A questo livello viene da sé che la partecipazione alla
produzione di ricchezza da parte delle persone, pur se non coatta, non è
necessariamente da escludere, ma può essere un’opzione. Inoltre la
liberazione di tempo dovuta al reddito di base incondizionato rende
democratica la scelta del cosa e come produrre e dunque finalmente
l’inclusione della produzione stessa nella sfera politica.
Nell’equilibro dei tre termini, a differenza della “possibilità” degli
altri due, l’esproprio rappresenta la “necessità”, senza la quale non si
dà possibilità.
Si è detto dei tre termini trattati aggettivandoli con “strategici”, ma
si tratta di una strategia in un atto unico, senza soluzione di
continuità tra il presente ed il futuro. La questione del reddito è
urgente ma non lo è di meno quella della democrazia, da considerarsi
ormai la base materiale stessa perché una forza politica possa prendere
forma, così come il mutualismo, oppure il lavoro non monetizzabile che
confluisce nel cosiddetto “terzo settore” o nel Comune, può considerarsi
l’embrionale pratica di espropriazione della politica dal dominio
totalizzante del mercato e dei suoi agenti. Su questo si dovrebbe
lavorare per una rifondazione della politica d’ora in avanti.