14
Ottobre 2014

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GEOGRAFIE DEL POTERE.

Dal Nord al Sud e ritorno

Il Collettivo Gerusija intervista Città Future

 

L’intervista riportata di seguito, condotta dal «Collettivo Gerusija (http://gerusija.com/)» di Novi Sad (Serbia), è stata pubblicata sulla rivista «Stvar/Thing-Journal for theoretical practices», num. 6, 2014.

 

Collettivo Gerusija: Come potreste presentare il vostro gruppo, la vostra rivista e le linee generali in cui si articola il vostro lavoro?

 

Città future: Per rispondere a questa domanda sarebbe necessario dividere la breve storia della nostra rivista in diversi periodi. Quello originario, in cui ancora doveva formarsi un gruppo di collaboratori più o meno assidui, nel quale l’obiettivo era sostanzialmente quello di riuscire a dare una lettura politica della realtà e dei cambiamenti allora in corso senza adottare una prospettiva “politicista”, senza cioè essere dentro la politica ufficiale. C’è stato poi un secondo periodo, in cui abbiamo individuato tre nuclei tematici o rubriche da sviluppare (“Esperienza e rappresentazione”, “La città dell’uomo” e “Transizioni”), con l’ambizione di farli diventare anche gruppi di lavoro in grado di darsi obiettivi di studio più condivisi e a lungo termine e in cui la rivista era sostanzialmente il risultato dell’assemblaggio di articoli ruotanti attorno alle rubriche. Infine c’è il periodo attuale, in cui siamo, con difficoltà, alla ricerca di un nuovo equilibrio, forse impossibile, tra l’indole politica iniziale e la tendenza all’approfondimento focalizzato su singoli punti che, per altri versi, avvertiamo come necessaria in questo momento, in un’indagine problematica che affronti anche il senso del “fare politica” oggi.

 

Il nome della vostra rivista si riferisce direttamente all’opera di Antonio Gramsci, cioè a Città futura, il famoso numero unico pubblicato nel 1917 che includeva uno degli scritti più noti di Gramsci, quello sugli “Indifferenti”. Innanzitutto, come considerate oggi l’importanza del pensiero gramsciano, giunti nello stadio attuale del capitalismo finanziario e dell’egemonia dell’ideologia neoliberista? A noi sembra che l’idea di una “città futura”, di uno spazio della compartecipazione militante dei cittadini, in cui, come scriveva Gramsci, “la catena sociale non pesa su pochi”, non abbia perso la sua attualità.

 

Gramsci è un riferimento imprescindibile per epoche come la nostra, così confuse e poco lineari. Il suo contributo profondamente “culturale” e, allo stesso tempo, “politico” (ma c’è davvero differenza tra questi due termini?), ci sembra un approccio molto indicato se si vuole tentare di comprendere davvero cosa accade attorno a noi. Il suo pensiero ci sembra del tutto “inattuale”, cioè inteso nella sua doppia accezione di agente di trasformazioni tanto necessarie quanto più che mai lontane da una “percezione sociale media” di tale necessità. La città futura acquista, in questa situazione, delle sfaccettature “plurali” tra le quali si rischia di poter scorgere brandelli di spazi di compartecipazione, accanto ad ambiti di “rivendicazione di oppressività” davvero inquietanti. Le prospettive future sono cioè ambigue, e per noi il riferimento all’ideale gramsciano può avere senso tanto in veste programmatica quanto in termini di “misurazione” dell’entità delle divergenze attuali da esso. In ambo i casi è implicita l’attualità del pensiero di Gramsci.

 

Nei suoi Quaderni dal Carcere, Gramsci introduce una metafora politica: “il mistero di Napoli”, riferendosi al fatto che l’industriosità dei napoletani, in un sistema a dominanza capitalista, non si dimostra produttiva. È uno spunto che confluisce poi nella famosa questione meridionale e nell’analisi dello squilibrio tra Sud e Nord, che contrassegna la storia politica ed economica italiana sin dalla sua nascita. Oggi, però, sembra che tale asimmetria venga trasposta anche al livello europeo, con tutte le narrazioni ideologiche e propagandistiche che l’accompagnano (Nord europeo produttivo, laborioso e parsimonioso – Sud inefficace e parassita etc). Potremmo dire allora che oggi siamo testimoni di tanti “misteri di Napoli” contemporanei, dispersi sul territorio europeo e anche mondiale, per il fatto che il capitalismo genera un conflitto e una “periferizzazione” sociale lungo le linee geografiche Nord-Sud, nonché Est-Ovest. Quale è la voce del Sud all’interno di una tale geografia dei poteri?

 

Gramsci insegna che esistono delle “geografie storiche”, se così possiamo dire, le quali rendono articolata la storia degli attecchimenti locali e specifici del capitalismo su scala globale. Inoltre non tutte le forme di operosità umane sono per forza produttive. Egli considerava però anche inevitabile il “progresso industriale” di stampo fordista. Nondimeno le realtà socialmente meno propense, per ragioni storiche, alla produttività di stampo capitalistico (ma sarebbe meglio parlare di strati sociali) sono pienamente interne all’equilibrio capitalistico su scala complessiva ed altrettanto necessarie di quelle “centrali”. Probabilmente un capitalismo non diseguale non potrebbe sussistere e se le differenze tra centro e periferia non esistessero storicamente esso dovrebbe introdurle di sana pianta, dal momento che il centro ha bisogno della periferia quale ambito di contrasto alla caduta tendenziale del saggio di profitto. È corretto sostenere che il capitalismo genera una “periferizzazione” economica lungo le linee geografiche (e sociali) storicamente meno inserite nella dinamica efficientista, senza dimenticare che esso può introdurre tale periferizzazione, in varie forme, anche all’interno dei centri attuali se necessario. Dal momento però che è stata la storia a definire queste geografie della produttività, si potrebbe interpretare lo statuto dei sud del mondo oggettivamente quale “banca dei semi” (in progressivo depauperamento) delle diverse possibilità al dominio del mercato finanziario, senza però indulgere sul fatto che manca attualmente ai sud del mondo la consapevolezza soggettiva della propria posizione negli equilibri generali e che sia necessario un certo “beneficio di inventario” rispetto alle eredità della storia. In altre parole, il sud porta con sé alcuni tratti socio-culturali che potrebbero ispirare una società non più mercantile, ma lo fa cercando ancora di liberarsene nel tentativo di inseguire il nord. Su queste premesse la sua voce non può che restare contraddittoria e, purtroppo, minoritaria.

 

Come oggi il capitalismo neoliberista struttura lo spazio urbano della vostra città, una città affascinante, ricca di storia e di paradossi? Ad esempio, in che modo Napoli affronta il fenomeno oggi noto come “gentrification” – intesa come imborghesimento e rivalutazione economica degli interi quartieri precedentemente popolari o poveri o mal messi? Un tema delicato, come del resto il problema dei rifiuti a Napoli, che sembra altrettanto pertinente all’idea di purezza che lo spazio capitalista impone. L’accumulazione della spazzatura al centro di una città pare una sorta del ritorno del rimosso, del soppresso, dello scarto che il capitalismo “sottoproduce” e vuole eliminare, in questa tendenza nominata “gentrification” che vorrebbe omogeneizzare e controllare lo spazio urbano.

 

Pier Paolo Pasolini, nei primi anni ’70, scriveva che Napoli rappresenta una sorta di “sacca storica”, sopravvissuta indenne, coi suoi vizi e le sue virtù, al vento impetuoso della modernità. Da allora, potremmo aggiungere che Napoli ha vissuto tutte le storture più evidenti del capitalismo post-bellico (grandi industrie inquinanti, ghettizzazione delle periferie, edilizia selvaggia ovunque, corruzione, delinquenza organizzata e di strada), eppure quel carattere di eccezione pare ancora permeare il “ventre” vero e proprio della città, dove anche la gentrification (che pure esiste, ovviamente) assume il carattere di una mediazione necessaria tra le antiche abitudini dei residenti storici e popolari, e le nuove classi medio-borghesi. Lo spazio di Napoli è obbiettivamente difficile da “normalizzare”, almeno nei termini del capitalismo attuale, mentre sembra viverne tutte le contraddizioni più palesi in termini di degrado e di marginalità esistenziali, schiacciato com’è dal rapporto “necessario” tra centro e periferia cui si accennava in precedenza. La spazzatura che periodicamente invade le strade è perciò solo l’epifenomeno di una logica perversa che da anni martirizza le nostre terre, diventate oltretutto lo sversatoio per ogni tipo di rifiuti tossici da tutta Italia: la sua visibilità – ma ancor più la sua invisibilità, dato che invade i campi e le falde acquifere – segna senza dubbio il ritorno simbolico, e quasi sistemico potremmo dire, della mole infinita di “scarti” che la nostra società produce in modo ormai inesorabile. Per questi motivi la “questione ambientale” non può che diventare, per noi, una questione politica in senso assoluto.

 

È importante questa prospettiva della totalità sociale, in cui anche lo sguardo sui problemi “locali” o comunali, quale la gestione dei rifiuti, guadagna una luce più netta. Il problema dei rifiuti viene presentato di solito come causato dalla malagestione, dal “managment” irresponsabile o dalla corruzione che impedisce lo svolgimento normale della vita civica, mentre il problema sta forse in questa stessa cosiddetta normalità della vita, in questa – appunto – logica perversa che penetra l’intera società, tra il visibile e l’invisibile. Diciamo che in Italia i confini tra il normale e l’abnormale sono assai labili. Ad esempio, alcuni parlano dell'Italia come di un’eccezione esemplare. Questa eccezione ed abnormalità (che spesso si attribuisce alle differenze culturali, allo spirito mediterraneo, alle specificità popolari etc.) è inserita in realtà in una normalità capitalista perversa, su scala globale, come dicevate. Ad esempio, anche la figura deviante di Berlusconi viene vista all’estero come un “fenomeno tipicamente italiano”, una sorta della caricatura simpatica felliniana, con tutta la sua rete clientelare e corrotta composta da imprenditori, escort, giullari da corte e giornalisti pagati. Eppure perché “l’anomalia Berlusconi”, se torniamo alla logica del sistema e alle differenze Nord-Sud, deve essere più indegna – ad esempio – di Helmuth Kohl, cancelliere tedesco per 16 anni, che accumulò 2 milioni di marchi dai fondi neri ed illegali, oppure di Gerhard Shroeder e dei suoi “affari” con Gasprom russo (della Merkel non sappiamo ancora niente, è ancora in carica), oppure di Jacques Chirac, il presidente francese per 12 anni, che è addirittura accusato per abuso d’ufficio e conflitto d'interesse? Tutti questi personaggi sono ancora considerati, nella “percezione collettiva”, i pilastri della storia politica europea, mentre Berlusconi è “lasciato andare”. Tornando alla logica visibile-invisibile: forse “il peccato” unico dell’Italia sta nel fatto che, lì da voi, è soltanto più visibile ciò che ormai funziona come logica immanente e silenziosa della politica capital-parlamentare in tutta l'Europa.

 

È vero, uno dei problemi maggiori è che oggi ingiustizie, disuguaglianze e disfunzioni vengono sempre imputate ad una cattiva gestione della macchina statale o dell’economia. Si divide il capitalismo in “buono, virtuoso e presentabile da un lato (i vari Kohl e Chirac di cui parlavate), e “cattivo, corrotto e irresponsabile dall’altro. Sembra non esserci più spazio per una voce che sostenga, al contrario, che il capitalismo, nella sua anormale normalità, nel suo diseguale equilibrio, produce in modo sistemico l’accentramento di potere nelle mani di pochi (la corruzione è perciò un effetto, non una causa), il delirio di onnipotenza delle elite mondiali, la paura del futuro e del cambiamento, l’alienazione e le disuguaglianze (compresa quella Nord-Sud). Berlusconi ha rappresentato uno dei vertici assoluti di un nuovo tipo di capitalismo, legato essenzialmente al controllo dei mass-media e di tutto ciò che vi ruota attorno; la sua ascesa in politica è stata anche l’ascesa diretta di questo tipo di capitalismo arrenbante all’interno della macchina statale. Per questo Berlusconi è stato, insieme al suo gruppo imprenditoriale, uno dei momenti fondamentali non solo in Italia dell’affermarsi di una destra di tipo neo-liberista, intenzionata a distruggere lo stato sociale e a trapiantare ad ogni livello la mentalità competitiva dell’azienda. Per anni Berlusconi ha ricevuto il sostegno incodizionato di industriali e grandi potentati economici. Quando la sua figura personale, i suoi guai giudiziari (e della sua azienda), la “corte dei miracoli di cui parlavate (che, oltre al Fellini più sfrenato, ricorda la corte corrotta di un imperatore romano da Basso Impero) non è apparsa più in grado di garantire stabilità e affidabilità ai poteri forti, questi stessi poteri forti italiani ed europei lo hanno messo da parte. Forse il paragone è azzardato, ma somiglia un po’ alla fine di certi imperatori diventati ormai ingestibili, fatti fuori dai loro stessi pretoriani. La logica attuale del dominio, infatti, ha bisogno di quella che voi chiamate invisibilità, e che Guy Debord chiamava la logica dello spettacolo integrato, ovvero disposto ad ogni livello della vita sociale; l’ultimo Berlusoni, quello delle escort e degli scandali, appartiene più alla forma dello spettacolo concentrato, e quindi ormai poco funzionale al sistema stesso.

 

La nostra rivista Stvar, in cui sarà pubblicata questa intervista, porta il sottotitolo: rivista per le prassi teoriche, proponendosi di indagare le diverse posizioni teoriche che possono servire alla critica dello sfruttamento sociale ed economico ed alla costruzione di una nuova politica di sinistra. Secondo voi quale ruolo può giocare la teoria nella battaglia anticapitalista e nell’articolazione delle politiche alternative d’emancipazione? Quali riferimenti teorici potete individuare come più importanti o pertinenti per voi?

 

L’estrema confusione ideologica cui assistiamo oggi è sicuramente un effetto dell’abbandono della teoria quale “guida dell’azione”. In un certo qual modo si tratta forse di un passaggio obbligato, dal momento che in passato teoria e ideologia finivano troppo spesso per coincidere e sfociare in niente di diverso da un’autorità indiscutibile delle dirigenze politiche che egemonizzavano la prassi partitica. Oggi la fase dei partiti, intesi tradizionalmente, sembra per molti versi conclusa, e come spesso accade nei passaggi storici, si finisce per buttare con l’acqua sporca anche il bambino. Certamente la gran parte della politica attuale non risponde più a visioni teoriche organiche e risulta essere un assemblaggio casuale di puri tatticismi elettoralistici. In questo contesto la teoria non ha più nessun ruolo pratico. Restiamo però convinti della sua utilità imprescindibile se il fine non è quello di partecipare alla rappresentazione parlamentare ma quello di comprendere la realtà e, insieme a questa, le sue possibilità di trasformazione. Da questo punto di vista procedere senza riferimenti teorici saldi equivale addirittura all’idiozia. Sembra anche chiaro però che la teoria non può più essere pensata come separata dall’azione politica o incapace di nascere e crescere nel vivo dei processi. Di conseguenza siamo interessati alla conoscenza di tutte le elaborazioni che partono da questo tipo di presupposti e convinti della necessità di tendere a spiegazioni organiche di quanto osserviamo cambiare intorno a noi. Non siamo in grado di fornire un elenco definito, ma possiamo citare un esempio, che alcuni di noi reputano originale e complessivo, di un’elaborazione teorica incontrata ultimamente anche se maturata tra gli anni ottanta e novanta nell’ambiente politico napoletano: la teoria della totalizzazione del rapporto di capitale, secondo quanto sistematizzato e divulgato da Rino Malinconico nella sua opera in tre volumi dedicata al tema. Si tratta di un’efficacissima integrazione della teoria economica marxiana in grado di gettare una luce nuova sugli sviluppi attuali del capitalismo ed, allo stesso tempo, di un approccio teorico “aperto” che richiede ulteriori approfondimenti per apprezzare adeguatamente le implicazioni politiche che la teoria suggerisce.

 

Uno dei temi che il nostro collettivo affronta è l’EU e la cosiddetta transizione dei paesi post-socialisti. La Serbia è candidata ad entrare nell’EU, e quasi tutte le forze politiche da noi condividono “la necessità” di questa adesione. Sotto tale programma vengono fatte ormai tutte le riforme neoliberiste: privatizzazioni e smantellamento di quel poco che è rimasto dello stato sociale, con una precarizzazione di massa e disuguaglianze crescenti. Al contrario, l’euroscetticismo è appannaggio della destra, che pensa di isolarsi, di allearsi con la Russia oppure con altri paesi orientali, con l’idea che questo possa cambiare qualcosa. La domanda che ci siamo posti e che poniamo a voi: di chi è l’Unione Europea?

 

Non è una domanda semplice. Le contraddizioni latenti dell’EU, che provengono da un processo di unificazione deciso dall’alto e con finalità essenzialmente economiche, sono oggi sotto gli occhi di tutti, e stanno minando profondamente la fiducia dei cittadini europei nei confronti delle istituzioni comunitarie. Il meccanismo della crisi economica ha determinato di fatto un’Europa a guida tedesca e imprigionata in un modello tecnocratico, in cui il rigido assetto neo-liberista continua ad essere presentato come l’unica possibilità di riguadagnare un ruolo da leader nella competizione mondiale. O meglio: come l’unica possibilità sic et simpliciter. Il risultato è che intere fasce di popolazione (in Grecia, in Italia, in Spagna, ma anche in centro-Europa) sono sprofondate in una voragine di diritti negati, di impoverimento progressivo e di reale perdita di sovranità. Nel frattempo, l’Europa si compiace di auto-rappresentarsi attraverso un’ideologia e una retorica più o meno definite, fatte di diritti umani (sulla carta), di logica della competizione estesa ad ogni livello della vita sociale e di pensiero unico. Stando ad oggi, l’EU sembra perciò appartenere ai cosiddetti “tecnici” (esecutori anonimi della governance neoliberista), ai grandi potentati economici (che stanno conducendo una battaglia furibonda con Cina e Stati emergenti) e ai suoi numerosi “ideologi”. Ma non possiamo fermarci qui. Perché l’Europa può essere (ancora) uno spazio comune di lotta, per chi come noi propone una visione critica del capitalismo e si batte per le politiche di emancipazione: fuoriuscire dalle logiche strettamente nazionali significa infatti chiudere con le piccole identità difese a denti stretti contro l’Altro (immigrato, diverso, anormale), e scrollarsi di dosso quella gabbia identitaria così cara alle destre europee. Insomma, vi rigiriamo prudentemente la domanda: l’Europa può essere oggi una “posta in gioco” anche per noi, tolta finalmente dalle grinfie dei liberisti e dei nazionalisti? Ripetiamo: è una domanda difficile, ma è anche una domanda che individua forse la possibile prassi comune per il futuro.

 

Con il declino della figura di Berlusconi, che per 20 anni ha dominato la politica italiana, negli ultimi anni l’Italia ha prodotto due nuove facce nel campo politico: Beppe Grillo, il capo del Movimento 5 stelle, e Renzi, il giovane capo del Partito Democratico. Il primo canalizza l’insoddisfazione verso il sistema creando una contestazione ideologicamente confusa e controversa, il secondo rappresenta il sistema senza un minimo di contestazione. Quale sarebbe la risposta della sinistra italiana a queste “nuove” ed attuali riconfigurazioni politiche?

 

Il movimento di Grillo si è sempre caratterizzato, fin dall’inizio, come un agglomerato di istanze legalitarie e anti-partitiche, impostate sulla logica del “né di destra né di sinistra” e su una polarizzazione estrema tra buoni (loro) e cattivi (tutti gli altri, ovvero corrotti, mafiosi, massoni etc.). Il tutto inserito dentro un’apologia piuttosto ingenua dei nuovi mezzi virtuali (le loro votazioni le fanno su un blog di proprietà dello stesso Grillo), che sarebbero liberi e democratici di per sé – eludendo tutta una serie di questioni che noi poniamo da tempo sulla nostra rivista, e cioè se i nuovi media siano neutrali o meno, che rapporto hanno con la fase attuale del capitalismo, etc. Il collettivo «Wu Ming», tempo fa, aveva sostenuto che i 5 stelle, lungi dall’essere un gruppo anti-sistema, rappresentano in realtà un fattore di consolidamento del sistema stesso, perché impediscono che tutta una serie di istanze anche giuste sfocino in una chiara e consapevole politica anti-capitalista e anti-liberista; direi che su questo la nostra posizione è molto simile alla loro. Oltretutto, la scelta del M5S di allearsi in Europa con la destra inglese di Farange e con altri gruppuscoli xenofobi e nazionalisti, la dice lunga sulla loro reale collocazione politica, al di là degli slogan qualunquisti che utilizzano.

Il Partito Democratico, da anni il principale sostenitore della necessaria “normalizzazione” della politica italiana, di cui sia Berlusconi che Grillo rappresentano le tendenze singolari, ha finalmente trovato il suo interprete perfetto. Renzi è, più di Grillo, il presente della politica italiana e lo è indipendentemente dal suo destino di uomo politico. L’Italia sognata dal Partito Democratico è un paese semplificato, in cui le stratificazioni storico-sociali di cui parlava Gramsci sono eluse come per incanto e in cui se ognuno farà il suo dovere, responsabilmente, tutto potrà risolversi nel migliore dei mondi neoliberisti. Per questo motivo non c’è ragione di opporsi alla normalizzazione, ovvero al pacifico e benevolo dispiegarsi di un liberismo illuminato, in cui il capitale privato potrà essere coinvolto virtuosamente, e perciò apertamente, nella co-gestione politica della cosa pubblica. Si tratta di una sorta di paternalismo politico dei più insidiosi perché condotto direttamente a partire da quella base sociale che in passato si è ritenuta la referente della potenziale rottura con il capitalismo. Al di là di Renzi, il Partito Democratico è il più convinto sostenitore, e per ora a ragione (visto il risultato elettorale), della completa americanizzazione della politica italiana.

La sinistra italiana, in questo quadro a-ideologico sempre più fluido e cangiante, sembra ancora più incapace che in passato di posizionarsi in un qualche modo chiaro, risultando per di più sempre più divisa tra istanze puramente nostalgiche da un lato ed istanze inguaribilmente opportuniste dall’altro, mentre le destre dichiaratamente xenofobe e fasciste avanzano, sgombre dall’imbarazzo ideologico che sembra invece irretire le sinistre.

 

Ed a favore di questo parlano anche i risultati delle ultime elezioni europee. L’avanzata dei partiti populisti di destra e conservatrici (Le Pen in Francia, Farage in Inghliterra) nuotano sull’onda euroscettica e sulla sfiducia nelle istituzioni europee. Però è interessante notare che Le Pen in Francia ha spostato il suo discorso politico verso i temi sociali e più economici, cosicché alcuni definiscono il suo programma elettorale addirittura “keynesiano” (a differenza del suo padre, Jean-Marie Le Pen, che era grande fautore della privatizzazione totale). E questo cosa ci dice? Non soltanto che c'è un senso subdolo del realismo da parte delle destre, ma che c'è uno spazio politico intero svuotato che aspetta ancora “presa egemonica” da parte delle forze veramente emancipatrice ed anticapitaliste, socialiste e comuniste. Le Pen si è spostata dal discorso esplicitamente anti-immigrazionista ai temi sociali e la sinistra invece non sa nemmeno come rispondere alla domanda sull’immigrazione. La sinistra italiana mainstream adopera acriticamente il termine “integrazione” conformemente al liberalismo multiculturale dominante: bisogna far integrare gli immigrati, con rispetto e tolleranza. Ma si dimentica così che la logica d’integrazione, nel senso di consolidazione dei mercati e del bisogno di forza-lavoro esterna, ha già portato molta di questa gente nei paesi occidentali (come porta anche gli Italiani stessi in Germania). Allora chi parla dell’integrazione delle culture, senza entrare nella dinamica dell’economica politica, segue ancora la logica del corpo nazionale che deve pacificare gli elementi “esterni” ed “estranei”, così che questi, non proprio grazie alle loro differenze culturali, partecipano ed alimentano la riproduzione sociale della quotidianità.

 

Sicuramente la paura dell’immigrazione e l’insoddisfazione verso le politiche europee sono stati i fattori decisivi dell’avanzata delle destre in queste ultime elezioni europee. Le Pen, Farange (aggiungeremmo in parte lo stesso Grillo, oltre alla Lega Nord in Italia) si sono presentati come i difensori dei popoli europei contro i tecnocrati e gli sporchi immigrati. Le Pen soprattutto, avete ragione, cerca di mettere insieme una vaga politica economica di tipo “sociale”, ma che come avviene da sempre mantiene i caratteri, ormai a-storici, del protezionismo e della chiusura nazionale. Sull’immigrazione si gioca una partita criminale: da un lato, la xenofobia diffusa non riesce ad impedire che masse disperate di profughi – in fuga da guerre, dittature e disastri che di naturale hanno ben poco – giungano in Europa a fare da manodopera a basso costo, ma sta riuscendo ugualmente a mantenere il livello dei loro diritti sociali in uno stato miserabile, da xix secolo; dall’altro quella che voi chiamate l’ideologia dell’integrazione, con le sue debolezze e i suoi compromessi, accettando tacitamente la funzione del migrante nella società del capitalismo di oggi (e cioè serbatoio a basso costo di lavoro dequalificato e sottopagato), non riesce che a fissare “sulla carta” dei piccoli passi in avanti sul tema dei diritti, che però nella realtà materiale valgono ben poco. Il tema delle migrazioni oggi è il grande riflesso globale dello squilibro Nord-Sud cui accennavamo, ed è anche la testimonianza concreta dell’incapacità dei nostri dispositivi di cittadinanza di funzionare in maniera realmente estensiva. Ecco perché, tra la risposta semplice e brutale delle destre (via tutti, selezione alle frontiere etc.) e quella debole delle sinistre di governo (integriamo il più possibile nel nostro sistema di vita e di lavoro), la possibilità di modulare una risposta di tipo diverso (quella presa egemonica di cui parlate) diventa sempre più difficile. Resta l’inesorabilità di una fenomeno che nessun razzista e nessun xenofobo, per ora, riesce a fermare, perché è sistemico, riguarda l’attuale sistema mondiale di disuguaglianze e di dominio. Guardiamo perciò con interesse e solidarietà alla capacità degli stessi migranti di auto-organizzarsi in forma politica, per rivendicare i diritti che le nostre costituzioni proclamano a gran voce; per questo abbiamo tentato, e cercheremo di farlo ancora di più in futuro, di dare spazio sulla nostra rivista, ad esempio, alle voci dei migranti organizzati della zona di Castel Volturno e di Caserta, dove il centro sociale Ex-Canapifico sta conducendo da anni una vera battaglia di “prassi teorica” sul tema dei diritti e della riflessione sulla soggettività migrante.

 

La crisi del sistema rappresentativo ormai è palese. Anche tenendo conto della non molto fortunata storia della sinistra extraparlamentare italiana negli anni ‘70, cosa si può dire oggi riguardo alle possibilità (extra)parlamentari di cambiare radicalmente la realtà sociale? Se la via parlamentare non è sufficiente, dall’altro lato l’assenza di una soluzione parlamentare di sinistra in Europa è la cosa più grave. Quali sono i movimenti, i gruppi o solo i personaggi in Italia in cui vedete una possibile strada per un futuro diverso?

 

Quella della sinistra extra-parlamentare italiana è una storia complessa, per le dimensioni di consenso che assunse, per il ruolo sociale che giocò negli anni ’70 e anche per la sua singolare durata temporale, che fu maggiore rispetto al resto d’Europa. Potremmo sintetizzarla così: si osò molto, si tentò “l’assalto al cielo”, e forse per questo le ricadute di quella sconfitta (fatta di bombe, terrorismo e segreti di stato) furono così devastanti. Il lungo riflusso degli anni ’80 e l’implosione del partito comunista all’inizio dei ’90 segnarono uno spartiacque netto nella storia della sinistra italiana. Da allora, la via parlamentare non fu più considerata come una scelta strategica più o meno contingente, ma piuttosto come l’unico orizzonte di sopravvivenza possibile, perché nel frattempo mancava una reale presa sulla società e sui suoi conflitti. La damnatio memoriae degli anni ’70, che sopravvivono annacquati e scialbi soltanto nella memoria televisiva condivisa, ha portato per molto tempo a considerare quasi impossibile una politica che si svolgesse interamente fuori dai palazzi del potere. Oggi questa scelta sta mostrando tutti i suoi limiti, con una presenza ormai residuale nel parlamento italiano, e in parte anche in quello europeo. Più che da gruppi o da personaggi (in una politica che è diventata ormai intermante “personaggi” e “spettacolo”), forse oggi bisogna ripartire da quelle che voi definite sapientemente come “prassi teoriche”, ovvero da pratiche concrete di opposizione che generino nuove teorie per comprendere il presente, e da teorie critiche della società che si misurino con i nuovi orizzonti di cambiamento antropologico del capitalismo attuale.

 

Quali sono i vostri prossimi progetti oppure i temi/problemi che volete affrontare?

 

L’unica cosa sicura è che i progetti sono eccessivi in relazione alle nostre possibilità concrete, per questo la priorità nel prossimo futuro sarà di tipo organizzativo, volta a capire in che modo ottimizzare gli sforzi e magari allargare il bacino delle collaborazioni. L’attuale modalità di costruzione dei numeri della rivista è tale da non darci idee sui prossimi temi da trattare prima di cominciare a farlo davvero. Resta aperto il lavoro che abbiamo condotto fin qui - attraverso seminari e incontri pubblici - sulle trasformazioni antropologiche della nuova società virtuale, collocata storicamente all’interno della fase attuale dello sviluppo capitalistico, intesa come fucina di nuovi modi di vita, nuove forme di alienazione e di razionalizzazione dei comportamenti umani. Così come resta aperta la dialettica che dicevamo all’inizio tra un’indole politica (che è locale ma anche globale, almeno così speriamo) e la necessità dell’approfondimento teorico - una dialettica a nostro parere necessaria, che non va ridotta né da un lato né dall’altro, anche se difficile da portare avanti concretamente. Ci sono però sicuramente ambiti del progetto iniziale che potrebbero essere più adeguatamente sviluppati. Il primo esempio è la pubblicazione di contributi monografici di approfondimento maggiore rispetto agli articoli della rivista e ai quali stiamo già lavorando. Il secondo esempio potrebbe essere il tentativo di maggior internazionalizzazione del nostro lavoro attraverso traduzioni mirate di alcuni materiali.

 

GIUGNO 2014