GEOGRAFIE DEL POTERE.
Dal Nord al Sud e ritorno
Il Collettivo Gerusija intervista Città Future
L’intervista riportata di seguito, condotta dal «Collettivo
Gerusija (http://gerusija.com/)»
di Novi Sad (Serbia), è stata pubblicata sulla rivista
«Stvar/Thing-Journal for theoretical practices», num. 6, 2014.
Collettivo Gerusija: Come potreste presentare il vostro
gruppo, la vostra rivista e le linee generali in cui si articola
il vostro lavoro?
Città future:
Per rispondere a questa domanda sarebbe necessario dividere la
breve storia della nostra rivista in diversi periodi. Quello
originario, in cui ancora doveva formarsi un gruppo di
collaboratori più o meno assidui, nel quale l’obiettivo era
sostanzialmente quello di riuscire a dare una lettura politica
della realtà e dei cambiamenti allora in corso senza adottare
una prospettiva “politicista”, senza cioè essere dentro la
politica ufficiale. C’è stato poi un secondo periodo, in cui
abbiamo individuato tre nuclei tematici o rubriche da sviluppare
(“Esperienza e rappresentazione”, “La città dell’uomo” e
“Transizioni”), con l’ambizione di farli diventare anche gruppi
di lavoro in grado di darsi obiettivi di studio più condivisi e
a lungo termine e in cui la rivista era sostanzialmente il
risultato dell’assemblaggio di articoli ruotanti attorno alle
rubriche. Infine c’è il periodo attuale, in cui siamo, con
difficoltà, alla ricerca di un nuovo equilibrio, forse
impossibile, tra l’indole politica iniziale e la tendenza
all’approfondimento focalizzato su singoli punti che, per altri
versi, avvertiamo come necessaria in questo momento, in
un’indagine problematica che affronti anche il senso del “fare
politica” oggi.
Il nome della vostra rivista si riferisce direttamente all’opera
di Antonio Gramsci, cioè a Città futura, il famoso numero unico
pubblicato nel 1917 che includeva uno degli scritti più noti di
Gramsci, quello sugli “Indifferenti”. Innanzitutto, come
considerate oggi l’importanza del pensiero gramsciano, giunti
nello stadio attuale del capitalismo finanziario e dell’egemonia
dell’ideologia neoliberista? A noi sembra che l’idea di una
“città futura”, di uno spazio della compartecipazione militante
dei cittadini, in cui, come scriveva Gramsci, “la catena sociale
non pesa su pochi”, non abbia perso la sua attualità.
Gramsci è un riferimento imprescindibile per epoche come la
nostra, così confuse e poco lineari. Il suo contributo
profondamente “culturale” e, allo stesso tempo, “politico” (ma
c’è davvero differenza tra questi due termini?), ci sembra un
approccio molto indicato se si vuole tentare di comprendere
davvero cosa accade attorno a noi. Il suo pensiero ci sembra del
tutto “inattuale”, cioè inteso nella sua doppia accezione di
agente di trasformazioni tanto necessarie quanto più che mai
lontane da una “percezione sociale media” di tale necessità. La
città futura acquista, in questa situazione, delle sfaccettature
“plurali” tra le quali si rischia di poter scorgere brandelli di
spazi di compartecipazione, accanto ad ambiti di “rivendicazione
di oppressività” davvero inquietanti. Le prospettive future sono
cioè ambigue, e per noi il riferimento all’ideale gramsciano può
avere senso tanto in veste programmatica quanto in termini di
“misurazione” dell’entità delle divergenze attuali da esso. In
ambo i casi è implicita l’attualità del pensiero di Gramsci.
Nei suoi Quaderni dal
Carcere, Gramsci introduce una
metafora politica: “il mistero di Napoli”, riferendosi al fatto
che l’industriosità dei napoletani, in un sistema a dominanza
capitalista, non si dimostra produttiva. È uno spunto che
confluisce poi nella famosa questione meridionale e nell’analisi
dello squilibrio tra Sud e Nord, che contrassegna la storia
politica ed economica italiana sin dalla sua nascita. Oggi,
però, sembra che tale asimmetria venga trasposta anche al
livello europeo, con tutte le narrazioni ideologiche e
propagandistiche che l’accompagnano (Nord europeo produttivo,
laborioso e parsimonioso – Sud inefficace e parassita etc).
Potremmo dire allora che oggi siamo testimoni di tanti “misteri
di Napoli” contemporanei, dispersi sul territorio europeo e
anche mondiale, per il fatto che il capitalismo genera un
conflitto e una “periferizzazione” sociale lungo le linee
geografiche Nord-Sud, nonché Est-Ovest. Quale è la voce del Sud
all’interno di una tale geografia dei poteri?
Gramsci insegna che esistono delle “geografie storiche”, se così
possiamo dire, le quali rendono articolata la storia degli
attecchimenti locali e specifici del capitalismo su scala
globale. Inoltre non tutte le forme di operosità umane sono per
forza produttive. Egli considerava però anche inevitabile il
“progresso industriale” di stampo fordista. Nondimeno le realtà
socialmente meno propense, per ragioni storiche, alla
produttività di stampo capitalistico (ma sarebbe meglio parlare
di strati sociali) sono pienamente interne all’equilibrio
capitalistico su scala complessiva ed altrettanto necessarie di
quelle “centrali”. Probabilmente un capitalismo non diseguale
non potrebbe sussistere e se le differenze tra centro e
periferia non esistessero storicamente esso dovrebbe introdurle
di sana pianta, dal momento che il centro ha bisogno della
periferia quale ambito di contrasto alla caduta tendenziale del
saggio di profitto. È corretto sostenere che il capitalismo
genera una “periferizzazione” economica lungo le linee
geografiche (e sociali) storicamente meno inserite nella
dinamica efficientista, senza dimenticare che esso può
introdurre tale periferizzazione, in varie forme, anche
all’interno dei centri attuali se necessario. Dal momento però
che è stata la storia a definire queste geografie della
produttività, si potrebbe interpretare lo statuto dei sud del
mondo oggettivamente quale “banca dei semi” (in progressivo
depauperamento) delle diverse possibilità al dominio del mercato
finanziario, senza però indulgere sul fatto che manca
attualmente ai sud del mondo la consapevolezza soggettiva della
propria posizione negli equilibri generali e che sia necessario
un certo “beneficio di inventario” rispetto alle eredità della
storia. In altre parole, il sud porta con sé alcuni tratti
socio-culturali che potrebbero ispirare una società non più
mercantile, ma lo fa cercando ancora di liberarsene nel
tentativo di inseguire il nord. Su queste premesse la sua voce
non può che restare contraddittoria e, purtroppo, minoritaria.
Come oggi il capitalismo neoliberista struttura lo spazio urbano
della vostra città, una città affascinante, ricca di storia e di
paradossi? Ad esempio, in che modo Napoli affronta il fenomeno
oggi noto come “gentrification” – intesa come imborghesimento e
rivalutazione economica degli interi quartieri precedentemente
popolari o poveri o mal messi? Un tema delicato, come del resto
il problema dei rifiuti a Napoli, che sembra altrettanto
pertinente all’idea di purezza che lo spazio capitalista impone.
L’accumulazione della spazzatura al centro di una città pare una
sorta del ritorno del rimosso, del soppresso, dello scarto che
il capitalismo “sottoproduce” e vuole eliminare, in questa
tendenza nominata “gentrification” che vorrebbe omogeneizzare e
controllare lo spazio urbano.
Pier Paolo Pasolini, nei primi anni ’70, scriveva che Napoli
rappresenta una sorta di “sacca storica”, sopravvissuta indenne,
coi suoi vizi e le sue virtù, al vento impetuoso della
modernità. Da allora, potremmo aggiungere che Napoli ha vissuto
tutte le storture più evidenti del capitalismo post-bellico
(grandi industrie inquinanti, ghettizzazione delle periferie,
edilizia selvaggia ovunque, corruzione, delinquenza organizzata
e di strada), eppure quel carattere di eccezione pare ancora
permeare il “ventre” vero e proprio della città, dove anche la
gentrification (che
pure esiste, ovviamente) assume il carattere di una mediazione
necessaria tra le antiche abitudini dei residenti storici e
popolari, e le nuove classi medio-borghesi. Lo spazio di Napoli
è obbiettivamente difficile da “normalizzare”, almeno nei
termini del capitalismo attuale, mentre sembra viverne tutte le
contraddizioni più palesi in termini di degrado e di marginalità
esistenziali, schiacciato com’è dal rapporto “necessario” tra
centro e periferia cui si accennava in precedenza. La spazzatura
che periodicamente invade le strade è perciò solo l’epifenomeno
di una logica perversa che da anni martirizza le nostre terre,
diventate oltretutto lo sversatoio per ogni tipo di rifiuti
tossici da tutta Italia: la sua visibilità – ma ancor più la sua
invisibilità, dato che invade i campi e le falde acquifere –
segna senza dubbio il ritorno simbolico, e quasi sistemico
potremmo dire, della mole infinita di “scarti” che la nostra
società produce in modo ormai inesorabile. Per questi motivi la
“questione ambientale” non può che diventare, per noi, una
questione politica in senso assoluto.
È importante questa prospettiva della totalità sociale, in cui
anche lo sguardo sui problemi “locali” o comunali, quale la
gestione dei rifiuti, guadagna una luce più netta. Il problema
dei rifiuti viene presentato di solito come causato dalla
malagestione, dal “managment” irresponsabile o dalla corruzione
che impedisce lo svolgimento normale della vita civica, mentre
il problema sta forse in questa stessa cosiddetta normalità
della vita, in questa – appunto – logica perversa che penetra
l’intera società, tra il visibile e l’invisibile. Diciamo che in
Italia i confini tra il normale e l’abnormale sono assai labili.
Ad esempio, alcuni parlano dell'Italia come di un’eccezione
esemplare. Questa eccezione ed abnormalità (che spesso si
attribuisce alle differenze culturali, allo spirito
mediterraneo, alle specificità popolari etc.) è inserita in
realtà in una normalità capitalista perversa, su scala globale,
come dicevate. Ad esempio, anche la figura deviante di
Berlusconi viene vista all’estero come un “fenomeno tipicamente
italiano”, una sorta della caricatura simpatica felliniana, con
tutta la sua rete clientelare e corrotta composta da
imprenditori, escort, giullari da corte e giornalisti pagati.
Eppure perché “l’anomalia Berlusconi”, se torniamo alla logica
del sistema e alle differenze Nord-Sud, deve essere più indegna
– ad esempio – di Helmuth Kohl, cancelliere tedesco per 16 anni,
che accumulò 2 milioni di marchi dai fondi neri ed illegali,
oppure di Gerhard Shroeder e dei suoi “affari” con Gasprom russo
(della Merkel non sappiamo ancora niente, è ancora in carica),
oppure di Jacques Chirac, il presidente francese per 12 anni,
che è addirittura accusato per abuso d’ufficio e conflitto
d'interesse? Tutti questi personaggi sono ancora considerati,
nella “percezione collettiva”, i pilastri della storia politica
europea, mentre Berlusconi è “lasciato andare”. Tornando alla
logica visibile-invisibile: forse “il peccato” unico dell’Italia
sta nel fatto che, lì da voi, è soltanto più visibile ciò che
ormai funziona come logica immanente e silenziosa della politica
capital-parlamentare in tutta l'Europa.
È vero, uno dei problemi maggiori è che oggi
ingiustizie, disuguaglianze e disfunzioni vengono sempre
imputate ad una cattiva gestione della macchina statale o
dell’economia. Si divide il capitalismo in “buono”, virtuoso e presentabile da un lato (i vari Kohl e Chirac di cui
parlavate), e “cattivo”, corrotto e irresponsabile dall’altro. Sembra non esserci più spazio per
una voce che sostenga, al contrario, che il capitalismo, nella
sua anormale normalità, nel suo diseguale equilibrio, produce
in modo sistemico l’accentramento di potere nelle mani di
pochi (la corruzione è perciò un effetto, non una causa), il
delirio di onnipotenza delle elite mondiali, la paura del futuro
e del cambiamento, l’alienazione e le disuguaglianze (compresa
quella Nord-Sud). Berlusconi ha rappresentato uno dei vertici
assoluti di un nuovo tipo di capitalismo, legato essenzialmente
al controllo dei mass-media e di tutto ciò che vi ruota attorno;
la sua ascesa in politica è stata anche l’ascesa diretta di
questo tipo di capitalismo arrenbante all’interno della macchina
statale. Per questo Berlusconi è stato, insieme al suo gruppo
imprenditoriale, uno dei momenti fondamentali
– non solo in Italia
–
dell’affermarsi di una destra di tipo neo-liberista,
intenzionata a distruggere lo stato sociale e a trapiantare ad
ogni livello la mentalità competitiva dell’azienda. Per anni
Berlusconi ha ricevuto il sostegno incodizionato di industriali
e grandi potentati economici. Quando la sua figura personale, i
suoi guai giudiziari (e della sua azienda), la “corte dei
miracoli”
di cui parlavate (che, oltre al Fellini più sfrenato, ricorda la
corte corrotta di un imperatore romano da Basso Impero)
non è apparsa più in grado di garantire stabilità e affidabilità
ai poteri forti, questi stessi poteri forti
–
italiani ed europei
– lo hanno messo da parte. Forse il paragone è azzardato, ma somiglia un po’
alla fine di certi imperatori diventati ormai ingestibili, fatti
fuori dai loro stessi pretoriani. La logica attuale del dominio,
infatti, ha bisogno di quella che voi chiamate invisibilità,
e che Guy Debord chiamava la logica dello spettacolo integrato,
ovvero disposto ad ogni livello della vita sociale; l’ultimo
Berlusoni, quello delle
escort e degli scandali, appartiene più alla forma dello
spettacolo concentrato, e quindi ormai poco funzionale al
sistema stesso.
La nostra rivista Stvar, in cui sarà pubblicata questa
intervista, porta il sottotitolo: rivista per le prassi
teoriche, proponendosi di indagare le diverse posizioni teoriche
che possono servire alla critica dello sfruttamento sociale ed
economico ed alla costruzione di una nuova politica di sinistra.
Secondo voi quale ruolo può giocare la teoria nella battaglia
anticapitalista e nell’articolazione delle politiche alternative
d’emancipazione? Quali riferimenti teorici potete individuare
come più importanti o pertinenti per voi?
L’estrema confusione ideologica cui assistiamo oggi è
sicuramente un effetto dell’abbandono della teoria quale “guida
dell’azione”. In un certo qual modo si tratta forse di un
passaggio obbligato, dal momento che in passato teoria e
ideologia finivano troppo spesso per coincidere e sfociare in
niente di diverso da un’autorità indiscutibile delle dirigenze
politiche che egemonizzavano la prassi partitica. Oggi la fase
dei partiti, intesi tradizionalmente, sembra per molti versi
conclusa, e come spesso accade nei passaggi storici, si finisce
per buttare con l’acqua sporca anche il bambino. Certamente la
gran parte della politica attuale non risponde più a visioni
teoriche organiche e risulta essere un assemblaggio casuale di
puri tatticismi elettoralistici. In questo contesto la teoria
non ha più nessun ruolo pratico. Restiamo però convinti della
sua utilità imprescindibile se il fine non è quello di
partecipare alla rappresentazione parlamentare ma quello di
comprendere la realtà e, insieme a questa, le sue possibilità di
trasformazione. Da questo punto di vista procedere senza
riferimenti teorici saldi equivale addirittura all’idiozia.
Sembra anche chiaro però che la teoria non può più essere
pensata come separata dall’azione politica o incapace di nascere
e crescere nel vivo dei processi. Di conseguenza siamo
interessati alla conoscenza di tutte le elaborazioni che partono
da questo tipo di presupposti e convinti della necessità di
tendere a spiegazioni organiche di quanto osserviamo cambiare
intorno a noi. Non siamo in grado di fornire un elenco definito,
ma possiamo citare un esempio, che alcuni di noi reputano
originale e complessivo, di un’elaborazione teorica incontrata
ultimamente anche se maturata tra gli anni ottanta e novanta
nell’ambiente politico napoletano: la teoria della
totalizzazione del rapporto di capitale, secondo quanto
sistematizzato e divulgato da Rino Malinconico nella sua opera
in tre volumi dedicata al tema. Si tratta di un’efficacissima
integrazione della teoria economica marxiana in grado di gettare
una luce nuova sugli sviluppi attuali del capitalismo ed, allo
stesso tempo, di un approccio teorico “aperto” che richiede
ulteriori approfondimenti per apprezzare adeguatamente le
implicazioni politiche che la teoria suggerisce.
Uno dei temi che il nostro collettivo affronta è l’EU
e la
cosiddetta transizione dei paesi post-socialisti.
Non è una domanda semplice. Le contraddizioni latenti dell’EU,
che provengono da un processo di unificazione deciso dall’alto e
con finalità essenzialmente economiche, sono oggi sotto gli
occhi di tutti, e stanno minando profondamente la fiducia dei
cittadini europei nei confronti delle istituzioni comunitarie.
Il meccanismo della crisi economica ha determinato di fatto
un’Europa a guida tedesca e imprigionata in un modello
tecnocratico, in cui il rigido assetto neo-liberista continua ad
essere presentato come l’unica possibilità di riguadagnare un
ruolo da leader nella competizione mondiale. O meglio: come
l’unica possibilità
sic et simpliciter.
Il risultato è che intere fasce di popolazione (in Grecia,
in Italia, in Spagna, ma anche in centro-Europa) sono
sprofondate in una voragine di diritti negati, di impoverimento
progressivo e di reale perdita di sovranità. Nel frattempo,
l’Europa si compiace di auto-rappresentarsi attraverso
un’ideologia e una retorica più o meno definite, fatte di
diritti umani (sulla carta), di logica della competizione estesa
ad ogni livello della vita sociale e di pensiero unico. Stando
ad oggi, l’EU
sembra perciò appartenere ai cosiddetti “tecnici”
(esecutori anonimi della governance neoliberista), ai
grandi potentati economici (che stanno conducendo una battaglia
furibonda con Cina e Stati emergenti) e ai suoi numerosi
“ideologi”. Ma non possiamo fermarci qui. Perché l’Europa può
essere (ancora) uno spazio comune di lotta, per chi come noi
propone una visione critica del capitalismo e si batte per le
politiche di emancipazione: fuoriuscire dalle logiche
strettamente nazionali significa infatti chiudere con le piccole
identità difese a denti stretti contro l’Altro (immigrato,
diverso, anormale), e scrollarsi di dosso quella gabbia
identitaria così cara alle destre europee. Insomma, vi rigiriamo
prudentemente la domanda: l’Europa può essere oggi una “posta in
gioco” anche per noi, tolta finalmente dalle grinfie dei
liberisti e dei nazionalisti? Ripetiamo: è una domanda
difficile, ma è anche una domanda che individua forse la
possibile prassi comune per il futuro.
Con il declino della figura di Berlusconi, che per 20 anni ha
dominato la politica italiana, negli ultimi anni l’Italia ha
prodotto due nuove facce nel campo politico: Beppe Grillo, il
capo del Movimento 5 stelle, e Renzi, il giovane capo del
Partito Democratico. Il primo canalizza l’insoddisfazione verso
il sistema creando una contestazione ideologicamente confusa e
controversa, il secondo rappresenta il sistema senza un minimo
di contestazione. Quale sarebbe la risposta della sinistra
italiana a queste “nuove” ed attuali riconfigurazioni politiche?
Il movimento di Grillo si è sempre caratterizzato, fin
dall’inizio, come un agglomerato di istanze legalitarie e
anti-partitiche, impostate sulla logica del “né di destra né di
sinistra” e su una polarizzazione estrema tra buoni (loro) e
cattivi (tutti gli altri, ovvero corrotti, mafiosi, massoni
etc.). Il tutto inserito dentro un’apologia piuttosto ingenua
dei nuovi mezzi virtuali (le loro votazioni le fanno su un blog
di proprietà dello stesso Grillo), che sarebbero liberi e
democratici di per sé – eludendo tutta una serie di questioni
che noi poniamo da tempo sulla nostra rivista, e cioè se i nuovi
media siano neutrali o meno, che rapporto hanno con la fase
attuale del capitalismo, etc. Il collettivo «Wu
Ming», tempo fa, aveva sostenuto che i 5 stelle, lungi
dall’essere un gruppo anti-sistema, rappresentano in realtà un
fattore di consolidamento del sistema stesso, perché impediscono
che tutta una serie di istanze anche giuste sfocino in una
chiara e consapevole politica anti-capitalista e anti-liberista;
direi che su questo la nostra posizione è molto simile alla
loro. Oltretutto, la scelta del M5S di allearsi in Europa con la
destra inglese di Farange e con altri gruppuscoli xenofobi e
nazionalisti, la dice lunga sulla loro reale collocazione
politica, al di là degli slogan qualunquisti che utilizzano.
Il Partito Democratico, da anni il principale sostenitore della
necessaria “normalizzazione” della politica italiana, di cui sia
Berlusconi che Grillo rappresentano le tendenze singolari, ha
finalmente trovato il suo interprete perfetto. Renzi è, più di
Grillo, il presente della politica italiana e lo è
indipendentemente dal suo destino di uomo politico. L’Italia
sognata dal Partito Democratico è un paese semplificato, in cui
le stratificazioni storico-sociali di cui parlava Gramsci sono
eluse come per incanto e in cui se ognuno farà il suo dovere,
responsabilmente, tutto potrà risolversi nel migliore dei mondi
neoliberisti. Per questo motivo non c’è ragione di opporsi alla
normalizzazione, ovvero al pacifico e benevolo dispiegarsi di un
liberismo illuminato, in cui il capitale privato potrà essere
coinvolto virtuosamente, e perciò apertamente, nella co-gestione
politica della cosa pubblica. Si tratta di una sorta di
paternalismo politico dei più insidiosi perché condotto
direttamente a partire da quella base sociale che in passato si
è ritenuta la referente della potenziale rottura con il
capitalismo. Al di là di Renzi, il Partito Democratico è il più
convinto sostenitore, e per ora a ragione (visto il risultato
elettorale), della completa americanizzazione della politica
italiana.
La sinistra italiana, in questo quadro a-ideologico sempre più
fluido e cangiante, sembra ancora più incapace che in passato di
posizionarsi in un qualche modo chiaro, risultando per di più
sempre più divisa tra istanze puramente nostalgiche da un lato
ed istanze inguaribilmente opportuniste dall’altro, mentre le
destre dichiaratamente xenofobe e fasciste avanzano, sgombre
dall’imbarazzo ideologico che sembra invece irretire le
sinistre.
Ed a favore di questo parlano anche i risultati delle ultime
elezioni europee. L’avanzata dei partiti populisti di destra e
conservatrici (Le Pen in Francia, Farage in Inghliterra) nuotano
sull’onda euroscettica e sulla sfiducia nelle istituzioni
europee. Però è interessante notare che Le Pen in Francia ha
spostato il suo discorso politico verso i temi sociali e più
economici, cosicché alcuni definiscono il suo programma
elettorale addirittura “keynesiano” (a differenza del suo padre,
Jean-Marie Le Pen, che era grande fautore della privatizzazione
totale). E questo cosa ci dice? Non soltanto che c'è un senso
subdolo del realismo da parte delle destre, ma che c'è uno
spazio politico intero svuotato che aspetta ancora “presa
egemonica” da parte delle forze veramente emancipatrice ed
anticapitaliste, socialiste e comuniste. Le Pen si è spostata
dal discorso esplicitamente anti-immigrazionista ai temi sociali
e la sinistra invece non sa nemmeno come rispondere alla domanda
sull’immigrazione. La sinistra italiana mainstream adopera
acriticamente il termine “integrazione” conformemente al
liberalismo multiculturale dominante: bisogna far integrare gli
immigrati, con rispetto e tolleranza. Ma si dimentica così che
la logica d’integrazione, nel senso di consolidazione dei
mercati e del bisogno di forza-lavoro esterna, ha già portato
molta di questa gente nei paesi occidentali (come porta anche
gli Italiani stessi in Germania). Allora chi parla
dell’integrazione delle culture, senza entrare nella dinamica
dell’economica politica, segue ancora la logica del corpo
nazionale che deve pacificare gli elementi “esterni” ed
“estranei”, così che questi, non proprio grazie alle loro
differenze culturali, partecipano ed alimentano la riproduzione
sociale della quotidianità.
Sicuramente la paura dell’immigrazione e l’insoddisfazione verso
le politiche europee sono stati i fattori decisivi dell’avanzata
delle destre in queste ultime elezioni europee. Le Pen, Farange
(aggiungeremmo in parte lo stesso Grillo, oltre alla Lega Nord
in Italia) si sono presentati come i difensori dei popoli
europei contro i tecnocrati e gli sporchi immigrati. Le Pen
soprattutto, avete ragione, cerca di mettere insieme una vaga
politica economica di tipo “sociale”, ma che come avviene da
sempre mantiene i caratteri, ormai a-storici, del protezionismo
e della chiusura nazionale. Sull’immigrazione si gioca una
partita criminale: da un lato, la xenofobia diffusa non riesce
ad impedire che masse disperate di profughi – in fuga da guerre,
dittature e disastri che di naturale hanno ben poco – giungano
in Europa a fare da manodopera a basso costo, ma sta riuscendo
ugualmente a mantenere il livello dei loro diritti sociali in
uno stato miserabile, da
xix secolo; dall’altro quella che voi chiamate
l’ideologia dell’integrazione, con le sue debolezze e i suoi
compromessi, accettando tacitamente la funzione del migrante
nella società del capitalismo di oggi (e cioè serbatoio a basso
costo di lavoro dequalificato e sottopagato), non riesce che a
fissare “sulla carta” dei piccoli passi in avanti sul tema dei
diritti, che però nella realtà materiale valgono ben poco. Il
tema delle migrazioni oggi è il grande riflesso globale dello
squilibro Nord-Sud cui accennavamo, ed è anche la testimonianza
concreta dell’incapacità dei nostri dispositivi di cittadinanza
di funzionare in maniera realmente estensiva. Ecco perché, tra
la risposta semplice e brutale delle destre (via tutti,
selezione alle frontiere etc.) e quella debole delle sinistre di
governo (integriamo il più possibile nel nostro sistema di vita
e di lavoro), la possibilità di modulare una risposta di tipo
diverso (quella presa egemonica di cui parlate) diventa sempre
più difficile. Resta l’inesorabilità di una fenomeno che nessun
razzista e nessun xenofobo, per ora, riesce a fermare, perché è
sistemico, riguarda l’attuale sistema mondiale di disuguaglianze
e di dominio. Guardiamo perciò con interesse e solidarietà alla
capacità degli stessi migranti di auto-organizzarsi in forma
politica, per rivendicare i diritti che le nostre costituzioni
proclamano a gran voce; per questo abbiamo tentato, e cercheremo
di farlo ancora di più in futuro, di dare spazio sulla nostra
rivista, ad esempio, alle voci dei migranti organizzati della
zona di Castel Volturno e di Caserta, dove il centro sociale
Ex-Canapifico sta conducendo da anni una vera battaglia di
“prassi teorica” sul tema dei diritti e della riflessione sulla
soggettività migrante.
La crisi del sistema rappresentativo ormai è palese. Anche
tenendo conto della non molto fortunata storia della sinistra
extraparlamentare italiana negli anni ‘70, cosa si può dire oggi
riguardo alle possibilità (extra)parlamentari di cambiare
radicalmente la realtà sociale? Se la via parlamentare non è
sufficiente, dall’altro lato l’assenza di una soluzione
parlamentare di sinistra in Europa è la cosa più grave. Quali
sono i movimenti, i gruppi o solo i personaggi in Italia in cui
vedete una possibile strada per un futuro diverso?
Quella della sinistra extra-parlamentare italiana è una storia
complessa, per le dimensioni di consenso che assunse, per il
ruolo sociale che giocò negli anni ’70 e anche per la sua
singolare durata temporale, che fu maggiore rispetto al resto
d’Europa. Potremmo sintetizzarla così: si osò molto, si tentò
“l’assalto al cielo”, e forse per questo le ricadute di quella
sconfitta (fatta di bombe, terrorismo e segreti di stato) furono
così devastanti. Il lungo riflusso degli anni ’80 e l’implosione
del partito comunista all’inizio dei ’90 segnarono uno
spartiacque netto nella storia della sinistra italiana. Da
allora, la via parlamentare non fu più considerata come una
scelta strategica più o meno contingente, ma piuttosto come
l’unico orizzonte di sopravvivenza possibile, perché nel
frattempo mancava una reale presa sulla società e sui suoi
conflitti. La damnatio
memoriae degli anni ’70, che sopravvivono annacquati e
scialbi soltanto nella memoria televisiva condivisa, ha portato
per molto tempo a considerare quasi impossibile una politica che
si svolgesse interamente fuori dai palazzi del potere. Oggi
questa scelta sta mostrando tutti i suoi limiti, con una
presenza ormai residuale nel parlamento italiano, e in parte
anche in quello europeo. Più che da gruppi o da personaggi (in
una politica che è diventata ormai intermante “personaggi” e
“spettacolo”), forse oggi bisogna ripartire da quelle che voi
definite sapientemente come “prassi teoriche”, ovvero da
pratiche concrete di opposizione che generino nuove teorie per
comprendere il presente, e da teorie critiche della società che
si misurino con i nuovi orizzonti di cambiamento antropologico
del capitalismo attuale.
Quali sono i vostri prossimi progetti oppure i temi/problemi che
volete affrontare?
L’unica cosa sicura è che i progetti sono eccessivi in relazione
alle nostre possibilità concrete, per questo la priorità nel
prossimo futuro sarà di tipo organizzativo, volta a capire in
che modo ottimizzare gli sforzi e magari allargare il bacino
delle collaborazioni. L’attuale modalità di costruzione dei
numeri della rivista è tale da non darci idee sui prossimi temi
da trattare prima di cominciare a farlo davvero. Resta aperto il
lavoro che abbiamo condotto fin qui - attraverso seminari e
incontri pubblici - sulle trasformazioni antropologiche della
nuova società virtuale, collocata storicamente all’interno della
fase attuale dello sviluppo capitalistico, intesa come fucina di
nuovi modi di vita, nuove forme di alienazione e di
razionalizzazione dei comportamenti umani. Così come resta
aperta la dialettica che dicevamo all’inizio tra un’indole
politica (che è locale ma anche globale, almeno così speriamo) e
la necessità dell’approfondimento teorico - una dialettica a
nostro parere necessaria, che non va ridotta né da un lato né
dall’altro, anche se difficile da portare avanti concretamente.
Ci sono però sicuramente ambiti del progetto iniziale che
potrebbero essere più adeguatamente sviluppati. Il primo esempio
è la pubblicazione di contributi monografici di approfondimento
maggiore rispetto agli articoli della rivista e ai quali stiamo
già lavorando. Il secondo esempio potrebbe essere il tentativo
di maggior internazionalizzazione del nostro lavoro attraverso
traduzioni mirate di alcuni materiali.
GIUGNO 2014