DA LAVORATORI A BLOGGERS?
Benjamin, Lukàcs e il mito della Coscienza di Classe
Massimiliano Di Leva
Tutti cercano la felicità, nessuno eccettuato; per quanto siano diversi
i mezzi che impiegano, tutti tendono a questo fine.... se gli uni vanno
alla guerra, e gli altri non ci vanno, è per questo stesso desiderio,
che agisce in entrambi ma accompagnato da vedute diverse. Ogni più
piccolo moto della volontà tende a questo oggetto, questo è il motivo di
tutte le azioni, di tutti, anche di quelli che si impiccano.
(Blaise Pascal)
Nella
settima delle
Tesi
di Filosofia
della Storia,
Benjamin disegna
chiaramente la
linea di demarcazione
tra storicismo e materialismo
storico. Il
punto di rottura
è il
concetto di
Einfühlung.
Un’analisi più approfondita
di questo
termine –
spesso tradotto
come “immedesimazione”
– è
essenziale per
comprendere l’ottica
in cui l’autore inserisce
la propria
critica dello
storicismo. Benjamin
afferma: «Non
si potrebbe
definire meglio
il metodo
con cui
il materialismo
storico ha
rotto i
ponti. È
un processo
di immedesimazione
(Einfühlung)»[1].
Ciò si
attua con
il «cacciarsi
di mente tutto
quello che
egli [lo
storico] sa
del corso successivo
della storia».
Tale
è il
metodo dello
storicista. La connotazione
del termine
risulta chiara
nella frase
successiva in
cui Benjamin
stabilisce che
l’origine di
questo processo
è «l’indolenza
del cuore
(die
Trägheit
des Herzens),
acedia»[2].
Il termine
greco ἀκηδία
descrive uno
stato di
apatia o
torpore, noncuranza o disinteresse
nei confronti
del mondo.
Nella tradizione
scolastica, il termine
acedia viene
riferito allo
stato di malinconia
o incapacità
di lavorare
o pregare
che colpisce
la vita
contemplativa. Appare evidente
che alla
base del
concetto di
Einfühlung, dal
punto di
vista benjaminiano, vi sia
una mancanza
di pathos
(nell’accezione greca
di emozione
vitale). L’intero
processo rappresenta
un esercizio
puramente speculativo,
relegato nello
spazio della
mera contemplatività. Dall’altro lato,
la «genuina
immagine storica»
(des echten
historischen Bildes) ricercata
dal materialista
storico è
puro pathos,
esplosione improvvisa che «balena
fuggevolmente» (das
flüchtig aufblitzt). È colma di
densa individualità
ed emozione
intima.
Tale
interpretazione appare
corroborata dal
passaggio in cui
Benjamin prende
l’esperienza poetica
di Flaubert
come esempio
di quella
peculiare forma di
tristezza da
cui si
origina l’acedia. Benjamin riprende
una frase
in francese:
«Peu
de gens
devineront combien il a fallu
être triste pour
ressusciter Carthage»[3]
[Poche persone
immagineranno quanto
è stato necessario essere
tristi per
resuscitare
Cartagine]. Il riferimento
risulta abbastanza
criptico. Cosa
mette in
connessione la
resuscitata tristezza flaubertiana alla
base dell’allegoria
poetica con l’indolenza
medievale considerata progenitrice dell’ignavia?
La citazione
è presa da una
lettera che
Flaubert scrive
a Ernest
Feydeau (Croisset,
29-30 novembre
1859). Leggendola
nel contesto,
si può
forse intendere
cosa Benjamin
avesse in
mente: «Quand
on lira
Salammbô, on
ne
pensera pas,
j’espère [il
corsivo è
mio], à l’auteur
! Peu
de gens
devineront
combien il
a fallu
être
triste pour
ressusciter Carthage!»
[Quando si
leggerà Salammbô,
spero
che nessuno
pensi
all’autore! Poche
persone immagineranno quanto è
stato necessario
essere tristi
per resuscitare
Cartagine]. Flaubert
dichiara il
proprio desiderio
di sopprimere
ogni forma
di emozione
personale e la
volontà di
raggiungere la
pura idea
universale che
contenga ogni
individualità. Egli
mostra
«come i
passi compiuti
per distanziarsi
dal sentimento
personalizzato lo abbiano
condotto lontano
dalla “tristezza”
e verso
il deserto»
che è
il luogo
flaubertiano privilegiato del
vuoto e
della morte,
origine dislocata
del paradiso
perduto[4].
Einfühlung s’identifica con
questa vacuità,
la completa assenza
di emozione.
Per gli storicisti, è l’apatica
immedesimazione con il freddo istinto
dominatore dei
vincitori, con
l’universale
indifferenza delle leggi
di natura.
Il materialista
storico “distanzia”
(abrücken) se
stesso dal
processo della
tradizione
(das
Prozeß
der Überlieferung),
dalla consolidazione
del passato
come eterno
presente dei
vincitori. Egli
si pone
al fianco
di coloro
«che
giacciono prostrati» e contempla
la falsificazione
dell’ordine naturale con
orrore. Il
materialista
storico non
è un
osservatore distaccato
(ein distanzierter
Betrachter) nel senso
di freddo
spettatore. Ciò lo
porterebbe al vuoto
flaubertiano. Egli sente
l’orrore del
dominio. Non
è un
apatico commentatore pronto a
saltare sul
carro del
vincitore. Benjamin
si oppone
qui ad
ogni tipo
di contemplatività,
la classe
di intellettuali
indolenti, gli
«uomini della
mente» contro
cui egli argomenta
in
L’autore
come
produttore. Egli
contrappone alla loro
intorpidita tristezza la
“felicità” che
è presentata come orientamento
per «l’ordine
del profano»
nel Frammento
teologico-politico[5].
Il «telos
della dinamica
storica» è
qui rappresentato
dalla venuta
del Regno
messianico. In questa
dialettica di
opposizioni
Identico/Dinamico, Vita
contemplativa/Ordine
del Profano,
in ultima
analisi
Teoria/Praxis,
la venuta
del Regno
è annunciata
dalla lotta
di classe.
Nella
iv
delle Tesi
sulla Filosofia
della Storia,
Benjamin afferma:
«La
lotta di classe [...] è una lotta per le cose crude e materiali senza le
quali non posso esistere quelle raffinate e spirituali»[6].
Tale
affermazione sembra
andare contro
uno dei
concetti fondamentali della teoria
marxista di
classe, ovvero
quello di
Klassenbewusstsein,
ovvero coscienza
di classe.
Cercherò di
dimostrare
come la
questione posta
da Benjamin
rappresenti il
nucleo essenziale
del tema,
vale a
dire come
il mito di
coscienza di classe
abbia distorto
l’intera teoria.
Cos’è
la coscienza
di classe?
Secondo la
vulgata marxista,
due furono
le ragioni
per cui
agli albori
della rivoluzione industriale il
proletariato fu facilmente
espropriabile: da un
lato, i
paleo-proletari mantennero
la stessa
coscienza dei loro
padri (agricoltori
e artigiani);
dall’altro, non avevano
mai avuto la
possibilità di esperire
l’unione sindacale.
In una
parola, non
avevano ancora
raggiunto la propria
coscienza di
classe.
Secondo Lukács,
uno degli
elementi essenziali
della coscienza
di classe
è l’oggettività,
o negazione
della soggettività dell’individuo
all’interno del
gruppo e
di quella
del gruppo
stesso.
Il concetto
classico di
coscienza –
legato all’esperienza individuale –
non ha
nulla a
che vedere
con la
coscienza di
classe. Come
egli scrive
in Storia
e coscienza
di classe
(1920): «La coscienza
di classe
non è
la coscienza
di singoli
proletari oppure
la coscienza
(intesa in
termini di
psicologia di
massa) della loro
totalità,
ma
il senso
divenuto cosciente
della situazione storica della
classe (der
bewußt gewordene
Sinn der
geschichtlichen Lage
der Klasse)»[7].
Questo significa
chiaramente che non
vi è
un soggetto
reale della
coscienza di
classe. Quindi,
chi detiene
questa coscienza
se non
il singolo
proletario o il
proletariato come tutto?
La risposta
è nella
critica che
Lukács muove
allo storicismo.
Nel rifiuto
delle leggi
naturali come
forze predeterminate che guidano
la Storia,
egli afferma
l’indipendenza di
quest’ultima come
soggetto indipendente. Quel “senso”
è effettivamente
incarnato dallo
spirito della
Storia che
guida gli
uomini ad
agire in
una specifica
situazione come
«se
(i proletari)
fossero
stati in
grado di
cogliere
pienamente questa situazione
e gli
interessi da essa
emergenti, sia
in rapporto
all’agire immediato,
sia in
rapporto alla
struttura –
conforme a
questi
interessi –
dell’intera società»[8].
Le azioni
umane sembrano
così essere
guidate da
forze che
sono allo
stesso tempo
strettamente legate
alle esistenze
individuali e
da esse
indipendenti. L’uomo appare
come un
attore cieco
in un’opera
scritta da
un autore
chiamato a
sostituire la
Natura, ma
che
condivide con
questa la
medesima astrattezza. Lukács sottolinea,
inoltre, la
dimensione inconscia della
coscienza di
classe, affermando che essa
è
«allo
stesso tempo
un’inconsapevolezza
(Unbewußtheit) classicamente determinata rispetto alla
propria situazione economica storico-sociale»[9].
L’individuo è essenzialmente inconsapevole della propria condizione,
ma ha una inconsapevole
coscienza di questa.
Il
problema è,
a questo punto,
capire per
quale motivo
il proletariato
si organizzi
e muova
all’azione. Lukács
afferma
che è dall’interna
contraddizione dialettica della coscienza
borghese che
la classe
operaia esce dalla pura
negatività e «riceve una
propria figura storica cosciente ed attiva»[10].
Da quel momento
tutto sembra
mutare. Partendo
da un confusamente
identificato momento
in cui «la teoria
e la
praxis del
proletariato hanno
elevato sino
alla coscienza
sociale questo
principio
inconsapevolmente
rivoluzionario dello
sviluppo
capitalistico»[11],
il proletariato
cessa di
essere un
soggetto cieco
e prende
coscienza delle
proprie azioni.
Ma come
accade tutto
ciò? Il
proletariato continua a
non giocare
alcun ruolo
attivo. È
forzato dalla
«necessità storica
(geschichtlich
Notwendige)» ad
agire. Se
andiamo ad
investigare il
presunto percorso
autoconoscitivo del
proletariato che
Lukács analizza
nel saggio
su Reificazione
e coscienza
del proletariato[12],
il
percorso da
lui descritto
appare non
privo di
contraddizioni. Atto di
nascita della
coscienza del proletariato
è la
presa consapevolezza da parte
di questo
del problema
del tempo-lavoro.
Come appena
sottolineato, esso
come soggetto-oggetto della Storia
è «sospinto
(hinaustreiben)»[13]
da una necessità
deterministica.
L’autore è
molto chiaro
a riguardo.
Il proletario
gioca un
ruolo di
per se
stesso irrilevante in questa
partita[14].
Egli è semplicemente il
punto di forza
che la Storia utilizza per
far leva
e scardinare
la struttura
sociale. Messo
dinanzi
all’annientamento della propria
umanità in
nome del
mercato di
scambio, egli
dovrebbe prendere
coscienza di
se stesso
come merce.
È, tuttavia,
difficile comprendere
le dinamiche
di questa
improvvisa illuminazione. Perché
il proletario,
infatti, si
possa percepire
come merce
è necessario
che prenda
coscienza innanzitutto della
complessa architettura nella
quale la
società capitalistica
ha fissato
i rapporti
di forza
tra le
parti. Non
è qualcosa
che può
avvenire per
una pura
necessità endogena
della concatenazione
storica o
della logica
del capitale.
In tali
condizioni, quello che
il proletario
può effettivamente
percepire è
lo sfruttamento della sua
persona fisica
dovuto a
condizioni di
lavoro massacranti o eventualmente
il proprio
essere oggetto
che vende
se stesso.
È questo
sufficiente per parlare
di autocoscienza?
Inoltre, per percepirsi come oggetto
è necessario che egli in
primo luogo concepisca la
dialettica soggetto-oggetto, struttura intellettuale
che non
può essere
semplicemente intuita come
la dialettica io-altro alla
base della
coscienza del
Sé. Ma mettiamo
l’ipotesi che l’educatore
qui intervenga[15]
e ponga
il proletario
dinanzi alla
sua condizione
di oggetto
nelle mani
del capitalista.
Questo già
di per sé
contraddice il principio
della necessità
storica e
dell’immediatezza
dell’autocoscienza, in
quanto attraverso l’intervento esterno
vi è
una coscienza
indotta e
non autoriflessiva.
Ma ancora
più importante,
è sufficiente
questo intervento
esterno per
suscitare la comprensione
profonda del
fenomeno della
reificazione che
tante implicazioni intellettuali possiede? La
risposta è
no e lo
stesso Lukács
ne è
consapevole, infatti,
nel testo
afferma
che la
classe operaia
«si sente
annientata
nell’estraneazione, vede in
essa la
sua impotenza».
La molla
che fa uscire
effettivamente il proletario
della propria
inconsapevolezza è la
frustrazione, che esso
vive nei
confronti di
un potere
che lo
schiaccia
inesorabilmente e lo
consuma fisicamente.
Ecco perché non può
che degenerare
in violenza.
Quella che
si vuole fa
passare per
autocoscienza non
è altro
che
desiderio di
riscossa da
una prostrazione fisica, incisa
nella carne.
E cosa
accadrebbe se
l’operaio accettasse la propria
condizione di
merce pur di
garantirsi la
sussistenza? Il
rifiuto del
sistema può
nascere solo
dalla consapevolezza ideale della
soggettività. L’operaio lotta
per condizioni lavorative migliori, non
per lo
scopo ultimo
indicato già
da Marx quale
fine della
lotta di
classe, ovvero
l’abolizione del
sistema salariale[16].
Egli non
mette in
discussione l’assetto sistemico
capitalistico. Questo sembra
essere confermato
dalle modalità
in cui
le rivoluzioni
si sono
dispiegate. In nessun
paese industrializzato, si
è avuta una reale
rivoluzione proletaria. Se
si prendono in
considerazione i moti
rivoluzionari nei paesi
industrializzati
europei nei primi decenni del
xix secolo, leggiamo
una
dinamica ben
diversa. Con
la Rivoluzione di Luglio
(1830) da
cui poi la
furia rivoluzionaria
si propaga in
Inghilterra e in
vari altri
paesi europei,
assistiamo
all’opposizione violenta
della borghesia cittadina al tentativo restauratore
da parte della
monarchia. Nel
1848 saranno gli
studenti, figli
della borghesia
parigina, ad innescare la
rivolta. In tutti questi moti,
il popolo o il
proletariato è
sempre e semplicemente
trascinato da
una furia che
scaturisce altrove e che per
frustrazione risuona empaticamente nella
sua furia.
La rivoluzione
che dovrebbe
essere l’esito
ultimo ed
inevitabile del
processo di
autocoscienza non
avviene nei
paesi industrializzati dove la
lotta di
classe (mediata dalle
forme sindacali) diventa lotta
per migliorare
la condizione
individuale del soggetto-merce
e non per
abbattere tale
condizione. La
rivoluzione proletaria, invece, si
attua in
quei paesi
in cui
il popolo
vive una
condizione personale
ancora più
disumana dell’operaio
dei paesi
industrializzati ed
è spinto
per fame
o oppressione politica a
ribellarsi. La stessa
rivolta dei
tessitori della
Slesia, che tanto
aveva colpito
Marx e che Lukács
richiama nel
suo saggio viene
provocata da
un taglio improvviso
dei salari da parte del costruttore Zwanziger nella
intera regione, aggravato da
una serie di pessimi
raccolti[17].
Il proletariato
sembra non
essere disposto
a rovesciare
il sistema
in cui
la sua
soggettività
“riscoperta” è schiacciata.
Ciò che
sembra interessargli
è mitigare
quella condizione
con un
bilanciamento di
tipo economico
o delle condizioni lavorative.
Siamo ben
lontani dal
fine ultimo
che Marx
sognava.
Quello che
appare preponderante è la
prostrazione del singolo
che lotta
per la
sopravvivenza dinanzi
ad una
struttura di
potere che
lo sovrasta.
Proseguendo nel
testo, dopo
il momento
epifanico della
presa di
coscienza, si assiste
secondo Lukács
alla genesi
del proletariato
come classe.
Nell’analisi di tale
passaggio, è come
se l’autore
percepisse quello
scollamento
fondamentale tra individuo
e totalità;
sottolinea, infatti, che
per il
proletariato «il
senso di
classe [...] consiste
nella soppressione
dell’isolamento (Aufhebung
der
Vereinzelung)
che così
si realizza
nella
presa di
coscienza
del carattere
sociale dell’uomo»[18].
Ma uscire
dall’isolamento e riconoscere
un gruppo
di appartenenza
non indica
necessariamente una
presa di
coscienza del
proprio essere
in quanto
gruppo, ma
il riconoscere piuttosto
negli altri
membri del
gruppo un
mezzo per
l’ottenimento di
un vantaggio
personale e
paradossalmente
trasformare l’altro
in oggetto
funzionale. Questo conflitto
tra interessi
particolari (immediati) e
interesse di
classe (mediato)
è ammesso e
rapidamente liquidato da Lukács
con un troppo sbrigativo
«è ovvio
che in
questo caso
l’immediatezza debba essere
abbandonata»[19].
Ma come?
L’immediatezza delle
necessità individuali può essere
abbandonata nel momento
in cui
essa venga
pienamente appagata
e non sublimata come
egli sembrerebbe
intendere. Il richiamo
a ciò
che di
“umano” si
è perduto
nel processo
di reificazione
è costante
nel testo,
ma
quello che
in esso
s’intende per “umano” appare più come
una pura categoria
intellettuale svuotata
di ogni principio
di realtà. È
il concetto
dell’umano che
l’intellettuale ha
sviluppato nella
propria teoria:
un “umano”
da
laboratorio, costruito
in provetta.
Ancora una
volta, sembra
che persino
l’intellettuale che
si pone
al fianco
dei lavoratori pecchi di
quell’apatia che Benjamin
rimproverava allo storicismo.
Lukács sembra
gettare un
occhio distratto sulle contraddizioni
che la
teoria instaura
con la
realtà senza
risolverle. Sembra
quasi che
il materialista
storico, una
volta scoperta
l’artificialità delle
leggi storiche,
non si
preoccupi più
di piegare
la storia
alla propria
idea. Paradossalmente
quello che
manca nel saggio sulla reificazione è
proprio l’uomo
con il
suo carico
esistenziale e
le sue necessità quotidiane.
La pragmaticità
alla quale
Lukács ambisce
è quella
che trasforma
in realtà
la sua
idea, come
uno scienziato
che dopo
aver elaborato
un’ipotesi cerca di
dimostrarla attraverso esperimenti
di laboratorio.
Il
proletario nella sua
realtà sparisce
ed è
sostituito da
un prototipo
ideale, a
sua volta,
disciolto nella
generalità del
gruppo. Nel
processo descritto, egli assurge
nel trionfo
delle contraddizioni
sottolineate ad
una dimensione
nuova astrattamente
intellettualizzata. Nel
saggio sulla
coscienza di
classe dopo
aver introdotto il punto
di disvelamento
della stessa,
Lukács modifica il proprio
approccio al proletariato
e introduce
nuove categorie
per descrivere
la sua
comprensione della lotta
di classe
e tutte
queste categorie
sono categorie
intellettuali. Se in
un primo
momento la
violenza
era la
tattica della
lotta di
classe, dopo
la trasformazione, la «verità»
diventa «l’arma
che porta
alla
vittoria»[20].
Il proletariato
è improvvisamente
chiamato ad
una dinamica attività
di discernimento
per «una
giusta comprensione
dell’essenza della
società (in das
Wesen
der Gesellschaft)»[21].
Senza spiegare
come la
dimensione
intellettuale del singolo
proletario possa essere
conquistata, Lukács –
che rifiuta la
dimensione psicologica della
coscienza di classe
– identifica
la maturità ideologica (ideologische Reife)
della classe
come l’unica
possibilità di una
rivoluzione reale[22].
Ci
sono forti
contraddizioni in questa
concezione della coscienza
di classe.
In primo
luogo, come
è possibile
per il
proletariato
raggiungere questa maturità
ideologica? Chi ha
il compito
di portare
i proletari
a comprendere la natura
della società
e la
rilevanza della
loro presenza
in essa?
Inoltre, come
Theodor Geiger
ha rilevato,
come può una coscienza
non psicologica
aspirare ad
un obiettivo[23]?
È
ormai abbastanza
evidente che
queste contraddizioni riflettano uno
scarto essenziale
all’interno del marxismo tra
classe operaia e
intellettuali. Lukács
ha creato il concetto di
coscienza di
classe ed
ha dovuto
spiegare come
fosse possibile per le
classi che
non potevano
raggiungere una
consapevolezza di
tipo intellettuale muovere verso
la rivoluzione.
Era necessario
inserire questo
fenomeno nel
quadro del
materialismo storico.
A tale scopo, egli
utilizza un
termine talmente pregno di
significati e connesso
con le
radici stesse
dell’individualismo che
sarebbe stato
impossibile non
cadere in
contraddizione. Il
punto epifanico è confuso,
imprecisato, carico di
conseguenze
contraddittorie. È questo
il punto in cui
non solo universale e
particolare si
incontrano, ma
anche Storia
e Natura.
Quel punto è
in realtà l’istinto di
sopravvivenza. La ragione fondamentale
per cui
il proletariato e spinto
alla rivoluzione
è il
bisogno. Il
proletario non
lotta per
la giustizia dell’ideale
come fa
l’intellettuale, bensì
contro l’ingiustizia della fame.
Per il
lavoratore, non esiste
alcuna opposizione tra l’interesse
immediato e lo
scopo ultimo
della lotta.
Questo è
una pura
intellettualizzazione alla
quale il lavoratore
può difficilmente
arrivare a
meno di una indottrinazione forzata che
ha poco
a che
vedere con
la coscienza e
la maturità
ideologica.
Tutto
ciò
che ha
a che
fare con
la Struttura
muove secondo
l’istinto di
sopravvivenza, mentre
gli
ideali sono
relegati nel
dominio della
Sovrastruttura. Questo
principio non
appartiene
esclusivamente al
proletariato. Alla
base dei
movimenti borghesi,
si può riconoscere un
istinto di
dominio che
è la
modalità secondo
la quale
l’istinto di
sopravvivenza si
attua all’interno delle classi
superiori. Con
quello di
sopravvivenza vorrei
individuare così
un concetto
più ampio.
Tale sopravvivenza
non è
la semplice
lotta per
evitare l’annientamento
fisico. È,
piuttosto, il
conflitto costante
per preservare
ciò che
ogni individuo
riconosce alla
base della
propria sussistenza. Questi
fondamentali sono
cibo per
il paleo-proletario, dominio per
il borghese,
una quantità
minima di
mezzi elettronici per il
lavoratore/consumatore
contemporaneo. Nella maggior
parte dei
casi, la
Storia e
il sistema
economico capitalistico
provvedono alla costante
ridefinizione del concetto
di sopravvivenza.
Qualunque lotta
di classe
(tra classi
e all’interno
della stessa
classe) è
una lotta per
la sopravvivenza.
Non c’è
coscienza, non c’è
consapevolezza, né maturità
ideologica.
In
ultim’analisi la ragione
profonda per
cui il concetto
di coscienza
di classe
non funziona
è perchè
il concetto
stesso di
classe non
funziona.
Cosa
è la
Classe? Secondo
Lenin:
«Le
classi sono
larghi gruppi
di individui
che differiscono
gli uni
dagli altri
in virtù
del posto
che occupano in
un sistema
di produzione
sociale storicamente
determinato, in
virtù delle
loro relazioni (nella
maggior parte
dei casi,
fisse e
stabilite per
legge) con
i mezzi
di produzione, in virtù
del proprio
ruolo nell’organizzazione sociale del
lavoro e,
di conseguenza, in
virtù della
dimensione della
condivisione di
ricchezza sociale
di cui essi dispongono
e le
modalità di
acquisizione di quest’ultima»[24].
Tutto
ciò
si riassume
in una
definizione essenziale: ‘classe’
è quel
gruppo di
individui che
condividono interessi comuni e
comuni relazioni
al lavoro
e ai
mezzi di
produzione.
Quando Lionel
Robbins nel
suo Saggio
sulla Natura
e il
Significato della Scienza
Economica (1932, 2nd
ed. 1935) ridefinisce
il concetto
di Economia
come disciplina
che studia
«il comportamento
umano come
relazione tra
fini e
mezzi scarsi
che possono
essere usati
in maniera
alternativa»[25],
non sta
solo eliminando
la lotta
di classe
dagli studi
economici, egli sta
bensì cancellando
la rilevanza dell’individuo nel
processo economico,
che è
esattamente cosa
avviene nella teoria della coscienza
di classe,
dissolvendo l’individuo nella
totalità della
classe. Questa totalità
non avrebbe
potuto incorporare
tutte le
singole individualità
se non
attraverso una imprudente
universalizzazione. Il
concetto di
classe è
un paradigma vuoto che
non considera
la diversificazione
degli interessi
all’interno della stessa
classe.
Adorno nelle sue
Riflessioni sulla
Teoria
della Classe presenta
la classe borghese come prototipo di tutte le
classi, la
cui unità
è «uno
strumento per
proteggere il
privilegio del
settore dominante
sui
suoi sostenitori nascondendolo»[26].
Vi
è una
essenziale non-unità
della classe
borghese che
sottolinea
«la sua
non meno
reale unità».
La non-unità
è collegata
all’ineguaglianza di interessi
all’interno della
classe dei
proprietari che
per preservarsi tempera il
conflitto interno
costruendo l’idea
di unità.
Per la
classe borghese,
sembra essere
più appropriato,
quindi, parlare
di una
coscienza di classe costruita
ad hoc.
È la coscienza edificata
sull’istinto di sopravvivenza
che ho
precedentemente menzionato.
Non è
questo il caso
della classe operaia che
non è mai
uscita dalla
propria non-unità.
Il concetto
di una classe
proletaria unita non
considera che all’interno
della classe
lavoratrice vi
è almeno
una
distinzione essenziale tra “classe
operaia” impiegata
e “classe
operaia” disoccupata che produce
una lotta
interna legata
agli interessi
differenti all’interno dello
stesso gruppo
che rompe
la sua
unità. Questa non-unità
non può
raggiungere alcuna coscienza
di classe
perché è
intrappolata in una
lotta per le
necessità materiali
senza le
quali nessuna
attività superiore
e spirituale è possibile.
La
storia recente
dei sindacati
offre un
esempio di ciò
che sto cercando di
dimostrare. Questi hanno
svolto una
funzione effettiva
finché la
società occidentale è stata
in grado
di provvedere
alle classi
più basse
l’illusione del
benessere, mantenendo
un tasso
di disoccupazione
sufficientemente basso da
evitare qualsiasi
lotta significativa all’interno della
classe lavoratrice
tra quelle
che possiamo
chiamare le
sue “sottoclassi” o
“microclassi”. L’ondata di
neoliberismo inaugurato da
Thatcherismo e Reaganomics
e la
crisi iniziata
nel 2007
con la
crisi dei
subprime hanno messo sindacati
e movimenti
operai in
ginocchio. L’ultimo
passo di
questo lungo
processo è
l’attacco sferrato
dai
colossi finanziari americani agli
impianti socialisti
delle Costituzioni europee impensabile
fino a
trent’anni fa.
In una
ricerca pubblicata nel 2013,
la J
P
Morgan
attacca i
sistemi europei
e la loro «protezione
costituzionale dei
diritti dei
lavoratori»[27].
La crisi
ha dissolto
le classi
e condotto
la lotta
ad una
nuova e
più dura
configurazione.
«La
lotta di
classe [...]
è una
lotta per
le cose
crude e
materiali senza
le quali
non posso
esistere quelle
raffinate e
spirituali». Benjamin
cerca di
liberare così
la teoria
marxista da
ogni forma
di sovra-intellettualizzazione, da ogni
forma di
universalizzazione che egli
riconosce come
base della contemplativa
acedia. Non
ci sono
ideali finché
non si provvede alla
sopravvivenza essenziale dell’individuo. La
sopravvivenza è primo
motore immobile
del cambiamento storico. Egli
vuole dare una
possibilità alle masse. Egli
riconosce l’ambiguità di
questo concetto
che è
un altro
sottoprodotto del processo
marxista di
universalizzazione che
taglia l’individuale dall’Ideale. Benjamin
si spoglia
della presunta
onniscienza dell’intellettuale e
si colloca
al fianco
dell’uomo comune. Egli
siede nel
mezzo della
folla e
non al
di sopra
di essa,
come è
consuetudine per molti
teorici. Per
lui il
proletariato non
è una
massa informe
da indottrinare, ma
la diversificazione
delle realtà umane
che lo circondano con i
loro profili e le
loro specializzazioni.
Egli non si
lancia mai in
astratte
generalizzazioni. Per
lui ogni
esperienza umana è
degna di
attenzione per la
sue peculiarità
come contributo per l’edificazione
della verità.
Ne
L’opera d’arte
nell’epoca della
sua riproduzione meccanica, egli
guarda benevolmente
al concetto
di expertise che le
tecnologie moderne hanno
esteso. Come
egli stesso
afferma: «La
tecnica del
film, esattamente come la
tecnica sportiva,
implicano che
chiunque assista
alle
prestazioni che
esse rappresentano assume le
vesti di
un semispecialista.
Basta aver
sentito anche
soltanto una
volta un
gruppo di
giovani strilloni
di giornali
discutere, appoggiati alle
loro biciclette,
I risultati
di una
competizione ciclistica»[28].
Le
nuove tecnologie
hanno offerto
ad un numero sempre
maggiore di
individui la
possibilità di affermarsi
secondo i
loro propri
talenti e
competenze.
Viene
definitivamente mandata
in pensione l’idea di
qualsiasi verità.
Con ciò
Benjamin ridefinisce il ruolo
dell’intera elite intellettuale,
distruggendone il preteso
possesso esclusivo
o preferenziale di essa.
Egli parte
con il
contraddire l’arroganza
tipica
dell’intellettuale con
lo stesso
processo di
demistificazione che il
materialista storico
aveva attuato
nei confronti
dello storicismo
e la
sua apatica
pietrificata idea di
legge naturale.
Scala così
fino all’Empireo
per demolire
addirittura i paradigmi
delle discipline
più riverite, come la
letteratura. Proseguendo ne
L’Opera d’Arte, egli
afferma: «Il
fenomeno cominciò
quando la stampa
quotidiana aprì
ai lettori
la propria
rubrica delle
“lettere al direttore”;
oggi è
ben difficile
che ci sia un
europeo partecipe
del processo
di produzione
che non
abbia per
principio l’occasione
di pubblicare da qualche
parte un’esperienza
di lavoro,
una denuncia,
un reportage
e simili.
Con questo
la distinzione
tra autore
e pubblico
è in
procinto di
perdere il
suo carattere sostanziale […].
In quanto
competente di qualcosa,
poiché volente
o nolente
lo è
nell’ambito di
un processo
lavorativo estremamente
specializzato, se anche
soltanto in
quanto competente di una
funzione irrisoria
– ha
accesso alla
schiera degli
autori»[29].
Benjamin colora
in sfumato.
Disegna un
chiaroscuro profondo
della società.
Non cade
mai nella
tentazione di
generalizzare. Il concetto di classe,
come quello di massa,
è per lui
un insoddisfacente
contenitore vuoto
in cui
la complessità dell’esistenza umana
non può
essere contenuta.
Da qui,
ogni universalizzazione
perde il
pathos della
realtà in
nome dell’apatica acedia della
teoria. Il
proletariato per
Benjamin è
esattamente quel
pathos (come
rappresentazione delle
possibilità delle
classi inferiori della società)
che manca
a molti
intellettuali. Le cose
raffinate e spirituali,
egli scrive,
«si manifestano in questa
lotta come
coraggio, spirito,
scaltrezza e
forza d’animo»[30].
Questo è
il motivo
per cui
egli vuole
mettersi al
fianco dei
proletari. È
un materialista storico che
lotta per
coloro che
sono sfruttati.
È questo un principio che
Benjamin afferma
con estrema
forza. Per lui,
la battaglia
è combattuta
sul campo
delle emozioni
e del
sentire fisico.
In
L’Autore
come
Produttore, egli
celebra il
«processo di
scioglimento»
attraverso cui «l’autorità
dello scrivere
non è più fondata
su uno
specifico processo
di formazione ma
in uno
di tipo
politecnico ed in questo modo diventa di pubblico dominio»[31].
Questa evoluzione
esprime la
sconfitta della
coscienza superiore
degli “uomini
della mente”.
L’intellettuale discende dall’Olimpo
e diventa
un produttore. Egli può
sentire empatia
per qualcuno
che finalmente
riconosce come compagno.
Il concetto
di classe
cambia così
completamente. È esteso
ad una
complessa varietà
di
individui che
possono trovarsi
in varia
maniera coinvolti
nel processo
produttivo. Questa
è la
ragione per
la quale
«attraverso
l’esperienza della
solidarietà al
proletariato, l’autore
come produttore esperisce [...]
la propria solidarietà con altri produttori che fino a quel momento avevano rappresentato ben poco
per lui»[32].
Nella sua
discesa, egli
riavvalora
l’individualità. Egli riconosce
l’importanza di
coloro che
lo circondano. Se per
molti intellettuali,
la
Teoria
è sempre monodirezionale
(solitamente, dall’alto
verso il
basso), per
Benjamin è
multidirezionale. Il
suo è
un criticismo esoterico. Non
vi è
proselitismo. La parola
chiave della
sua teoria
è “disvelare”
come sottolinea
Susann Buck-Morss[33].
Egli vuole
che i
proletari sviluppino talenti
individuali e una
coscienza positiva.
Questa non
può derivare
da alcun
processo di
indottrinamento, ma
emergere
autonomamente
dall’interno. Non cerca
di trasformare
i proletari
in intellettuali,
ma
renderli consapevoli
delle proprie
possibilità
individuali. Egli
auspica che
sviluppino le
loro competenze peculiari.
L’esempio della
letteratura indica il
percorso. Con la
sua estensione
all’uomo comune,
essa «guadagna in larghezza
ciò che
perde in
profondità»[34].
Quest’ultima non è
più un
valore supremo.
Questo universo
di lettori-scrittori,
in cui
ognuno è
chiamato a
presentare la
propria
specializzazione,
questo vuoto
contenitore riempito
con micro-cosmi
differenziati in funzione
di tendenze,
questo spazio
privo di
regole in
cui il
concetto di
verità si
scioglie in
una varietà
di voci che
parlano linguaggi
profondamente
differenti è
oggi incarnato
dall’universo del
Blog. Discendente
diretto di
quell’apertura
rappresentata dalla “lettera
all’editore”, il Blog
è l’arena
in cui
l’Autorialità è
stata definitivamente sconfitta.
La
parola Blog
nasce da
due contrazione
successive. Nel 1997,
Jorn
Barger,
un saggista
americano che
ha pubblicato
numerosi scritti
online su
Joyce e
l’intelligenza
artificiale, tra gli
altri temi,
conia il termine
Weblog
per descrivere il processo
di “logging
the web”.
Successivamente nel 1999,
un altro
giornalista online Peter
Merholz riduce
Weblog
in Blog
al fine
di farlo
entrare meglio
nella
barra laterale
del suo
sito.
Il
moderno fenomeno
del “blogging”
si evolve
dai primi
diari e
threads
online degli anni ’90.
I suoi
precursori sono
considerati una
vasta gamma
di comunità
digitali come
Usenet (un
sistema di discussione
in Internet
diffuso a
livello globale
nel quale
gli users
potevano leggere
e inviare
messaggi inserendoli in una
o più
categorie, conosciuti come
newsgroups), servizi commerciali
online e
mailinglist.
Durante l’ultima
decade del
xx secolo, Internet
forum software, come WebEx,
crearono conversazioni aperte con
“threads”, vale a
dire connessioni
tra argomenti
similari tra
messaggi inviati
su metaforiche
lavagne.
Il
primogenitore del fenomeno
Blog è
tuttavia considerato
Justin Hall
che nel
1994 mentre
era
ancora uno studente allo Swarthmore College,
inizia il
proprio diario online dal titolo
Justin’s Links
from the
Underground,
che offriva
uno dei primi tour
guidati della
storia del
Web[35].
Quelli che
potremmo chiamare
paleo-bloggers erano
principalmente scrittori, saggisti
e giornalisti
che portavano
avanti diari
online mettendo insieme i
propri lavori.
I
primi weblogs
erano
semplicemente liste di
componenti aggiornate
manualmente in
siti
comunitari.
L’evoluzione di strumenti
per semplificare
la produzione
e la
manutenzione degli
articoli pubblicati in ordine
cronologico invertito rese
il processo
di pubblicazione
accessibile a un
pubblico molto
più ampio
e meno tecnico.
Le
forme originali
di “paleo-blog”
si moltiplicarono
scindendosi in varie
categorie come,
ad esempio, gli
Angry bloggers
(vale a
dire, bloggers
arrabbiati che
discutevano in maniera
polemica un’ampia
varietà di
argomenti), gli Emo bloggers
(principalmente adolescenti della classe
media che
si lamentavano delle loro
vite piccolo-borghesi)
o gli
Obsessive bloggers (un
sottoinsieme di
bloggers appassionatamente interessati ad
un singolo
argomento o
area di argomenti
e si
spingevano alla ricerca
di altri
bloggers con
interessi simili).
Da queste
categorie, molte
altre categorie
si sono originate. Ad
esempio, gli
Angry bloggers
si sono
trasformati in Political
bloggers che
si sono
a loro
volta evoluti
in Activist bloggers. O
ancora più
interessante: dagli Obsessive
bloggers sono
evoluti
diversi tipi
di giornalisti ossessivi come
gli High-tech
bloggers, i Food
bloggers, i Travel
bloggers, gli Art&Design
bloggers, i Fashion
bloggers o
i
D.I.Y.
Bloggers. Questo
è esattamente il mondo
di lettori/autori di
cui parlava Benjamin.
Quello dei Blog è precisamente quello spazio dove
chiunque, secondo
la propria
esperienza, prende coscienza
di se
stesso e
si mette
in contatto
con altri
membri della
comunità internautica che condividono
la sua
stessa passione.
La coscienza
non è imposta
dall’alto. La
coscienza non
è una
prerogativa
intellettuale e non
deve svilupparsi
necessariamente secondo
percorsi
intellettualizzati. È
una coscienza
di gruppo
che si
organizza autonomamente intorno ad
una nuova
idea di
consapevolezza. È questa
una maniera
per le
masse di
uscire dall’indistinzione. A ciascuno
secondo le
proprie capacità,
a ciascuno
secondo la
propria passione
– potremmo
dire. L’universo
Blog apre
nuove aree
di conoscenza
condivisa. Ciascuno
può trovare
il
proprio posto
in seno
ad una
comunità. La
consapevolezza si
differenzia e
non è
più appannaggio di un
solo gruppo,
inserita in
un più ampio
ambito di
contestualizzazione.
La differenza
nella profondità
dei contributi significa ben
poco in
confronto all’estensione della
possibilità in quanto
tale. In
Internet, la
supremazia della
“mente” si
scioglie. I
pensieri sono
condensati e
diventano molto
più prossimi
alle emozioni.
Si pensa
che la
prossima generazione
di blogger
sarà quella
del
micro-blogging:
evoluto da Twitter,
prende quello che un vecchio
blogger avrebbe detto
in 12.000 caratteri
e lo
condensa in
140 caratteri. È questa
una più
superficiale maniera di
comunicare? Non necessariamente.
È questa
una nuova
maniera di
definire i
parametri del
sapere stesso? Definitivamente,
sì. Gli “uomini della
mente” sono
costretti a
riportare le
loro conoscenze al livello
delle conoscenze
altrui. In
questa nuova
era, non
esiste più
alcuna superiorità della verità
dal momento
che questa
è connessa
con la sfera emotiva,
con la
concretezza della carne.
Pathos, emozioni,
irrazionalità –
pur sotto
la guida
della ragione
– riconquistano
una nuova
rilevanza. In questo
concetto fluido
di cultura
e verità,
la profezia
benjaminiana sembra lentamente
prendere forma: «la
mente [...]
deve scomparire.
La mente
che crede
unicamente nella
propria forza
magica
scomparirà»[36].
NOVEMBRE 2014
[1]
W. Benjamin, Theses on the Philosophy of History, in
Illuminations, Schocken Books, New York 1968, p. 256.
[2]
Ibidem.
[3]
Ibidem.
[4]
B. Schlossman, The Orient of Style: Modernist Allegories of
Conversion, Duke University Press, Durham 1991, p. 117.
[5]
W. Benjamin, Theologico-Political Fragment, in
Reflections, Schocken Press, New York 1986, pp. 312-313.
[6]
W. Benjamin, Theses on the Philosophy of History, cit.,
p. 254.
[7]
G. Lukács, Coscienza di classe, in Storia e Coscienza
di Classe, Mondadori, Milano 1973, p.96.
[8]
Ibidem,
p.66.
[9]
Ibidem,
p.67.
[10]
Ibidem,
p. 85.
[11]
Ibidem.
[12]
G. Lukács, La reificazione e la coscienza del proletariato,
in Storia e Coscienza di Classe, cit.
[13]
Ibidem, p. 217.
[14]
«Il proletario […] si presenta come puro e semplice oggetto
dell'accadere storico (Es erscheint vorerst als reines
und bloßes Objekt des gesellschaftlichen Geschehens)»,
Ibidem, p.218.
[15]
È lo stesso Lukács alla fine del saggio a sostenere l’importanza
dell’educazione in questo processo.
Cfr. Ibidem, p.274.
[16]
K. Marx, Salario, prezzo e profitto.
[17]
Silesian Weavers’ Uprisings,
in The Great Soviet Encyclopedia, 1979.
[18]
G. Lukács, La reificazione e la coscienza del proletariato, cit.,
p.226.
[19]
Ibidem, p. 228.
[20]
G. Lukács, Storia e Coscienza di Classe, cit., p.89.
[21]
Ibidem.
[22]
Ibidem, p. 91.
[23]
Cfr. T. Geiger, Interesse di classe e coscienza di classe,
in Saggi sulla società industriale,
utet, Torino 1970.
[24]
V. I. Lenin, A Great Beginning, in Collected Works, Vol.
29, Progress Publishers, Moscow 1965, p 421.
[25]
L. Robbins, An Essay on the Nature and Significance of
Economic Science,
London 1932, p.16.
[26]
T. W. Adorno, Can One Live After Auschwitz?: A Philosophical
Reader, University Press, Stanford 2003, p.98.
[27] «At the start of the crisis, it was generally assumed that the national
legacy problems were economic in nature. But, as the crisis has
evolved, it has become apparent that there are deep seated
political problems in the periphery, which, in our view, need to
change if emu is
going to function properly in the long run. The political
systems in the periphery were established in the aftermath of
dictatorship, and were defined by that experience. Constitutions
tend to show a strong socialist influence, reflecting the
political strength that left wing parties gained after the
defeat of fascism. Political systems around the periphery
typically display several of the following features: weak
executives; weak central states relative to regions;
constitutional protection of labor rights; consensus building
systems which foster political clientalism; and the right to
protest if unwelcome changes are made to the political status
quo. The shortcomings of this political legacy have been
revealed by the crisis».
J. P. Morgan, The Euro area adjustment:
about halfway there, «Europe Economic Research»,
28 May 2013.
[28]
W. Benjamin, L’opera d’arte nell’era della sua
riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966.
[29]
Ibidem.
[30]
Walter Benjamin, Theses on the Philosophy of History,
cit., p. 255.
[31]
W. Benjamin, The Author as Producer, in Understanding
Brecht, Verso, London-New york, 1998, p.90.
[32]
Ibidem,
p. 95.
[33] S. Buck-Morss, The Origin of Negative Dialectics. Theodor W. Adorno,
Walter Benjamin and the Frankfurt Institute, The Free Press,
New York 1977, p. 142.
[34]
Ibidem,
p. 90.
[35] R. Harmanci, Time to get a life - pioneer blogger Justin Hall bows
out at 31, «San Francisco Chronicle», February 20, 2005.
[36]
W Benjamin, The Author as Producer,
cit., p.103.