LO SPETTATORE LIBERATO.
Esperienza e rappresentazione nella sala cinematografica
Dario Malinconico
Questo testo è la trascrizione di un intervento presentato al
seminario Anestesie del
presente, riportato qui senza sostanziali modifiche. Si è
scelto tuttavia di omettere, per ragioni di scorrevolezza e di
concisione, una prima parte in cui si delineava il progetto più
generale di ricerca entro cui l’intervento stesso si
collocherebbe[1].
1
Innanzitutto, vorrei soffermarmi brevemente sull’argomento
generale del nostro seminario,
Anestesie del presente.
Come ogni titolo pensato e meditato a lungo, anche il nostro
potrebbe far sorgere subito almeno due questioni: che cosa oggi
è anestetizzato? In
che consiste l’anestetico
di cui andiamo discutendo? Credo che le risposte di chi
interverrà non saranno univoche, anche se tenteranno di disporsi
in un discorso quanto più possibile unitario.
Riguardo alla prima questione, io penso che una delle “parti
anestetizzate” oggi sia la nostra capacità di messa a distanza
critica dall’esistente, cioè di guadagnare un grado accettabile
di autonomia e di emancipazione dalle cose così come esse
socialmente sono.
Preciso: non mi riferisco alla capacità di produrre
un’accettabile teoria critica della società, tradizionalmente
appannaggio di pochi, ma piuttosto ad una capacità che dovrebbe
appartenere ad ognuno, pur se con gradazioni diverse. Anche
perché, se esiste davvero un
anestetico che
inibisce e “addormenta” tale capacità - e arrivo alla seconda
questione - non potrà che funzionare
erga omnes, ovvero
come un anestetico di massa, i cui effetti si riflettono in modo
massificato e in ambiti diversi. Di che si tratta? Il nostro
gruppo di ricerca l’ha finora identificato con il processo di
progressiva “virtualizzazione” della società contemporanea,
tentando in vario modo di collocarlo nel livello attuale dello
sviluppo capitalistico, come ultima grande rivoluzione
industriale (o post-industriale).
Ovviamente, espresso in questi termini, l’argomento può sembrare
piuttosto vago. Nel senso che sono in tanti, oggi, a fare
l’apologia dei nuovi mezzi di comunicazione di massa, così come
sono molti coloro che li ritengono semplicemente neutrali e
relativamente pochi quelli che li criticano o li rifiutano. Io
vorrei innanzitutto svincolarmi da queste posizioni generali e
focalizzare l’analisi sulle contraddizioni e sulle novità di un
processo, quello dell’informatizzazione, che possiede
un’evidente origine capitalistica, non semplicemente tecnica.
Sono convinto infatti che non sia possibile, nel tempo della
modernità, separare Capitale e Tecnica, perché negli ultimi due
secoli la tecnica è sempre stata,
in primis, un prodotto
della società capitalistica finalizzato ad incrementare o a
trasformare la fase stessa della produzione; solo
in secundis la tecnica
è stata anche altro, e cioè un fattore di avanzamento umano, di
sfida prometeica, di espansione dell’orizzonte del possibile.
Questa tecnica, lo spiegava il giovane Marx, non produce solo
merci e valore, ma anche alienazione dell’uomo da se stesso.
Alcuni, dopo di lui, hanno aggiunto che produce
irreggimentazione, conformismo, “bisogno artificiale di merci”,
normalizzazione dei comportamenti, modificazioni antropologiche
(perdonate la carrellata superficiale, ma l’impone il poco tempo
a disposizione). Infine
– si potrebbe aggiungere con la dovuta modestia – produce oggi anche una sorta di
anestesia da ciò che
abbiamo intorno, che con sempre più fatica riusciamo a
discernere o a criticare. Se scegliamo di seguire questa strada,
la domanda di fondo sarà allora la seguente:
perché il processo
contemporaneo di virtualizzazione della società rischia di
funzionare come una sorta di
anestetico di massa?
Come dicevo in apertura, tale processo riguarda necessariamente
sfere diverse della vita umana: io ho scelto di riflettere su
ciò che esso implica per la nostra
esperienza della
rappresentazione, ovvero per il rapporto che c’è tra il
nostro modo di esperire il reale e le forme socialmente mediate
di elaborazione e rielaborazione del reale stesso che siamo
soliti chiamare “rappresentazioni”. Si tratterà dunque di
un’analisi del medium
e del suo rapporto col soggetto/spettatore. Per evitare di
mettere troppa carne al fuoco, cercherò di seguire il filo di
quella che probabilmente può essere considerata una delle forme
di rappresentazione più complesse
– il Cinema
– dato che si
presenta, al tempo stesso, come una sorta di
summa delle arti
precedenti (pittura, narrazione, drammaturgia) e come la prima
forma di spettacolo di massa, nata tecnicamente nel cuore della
lunga rivoluzione industriale. È un’esperienza che ha il proprio
luogo peculiare di svolgimento nella sala cinematografica, e che
oltretutto appartiene più al secolo appena trascorso che al
nostro, nel senso che ha già consumato in larga parte la propria
parabola di cambiamento antropologico (impossibile da riassumere
in questa sede). Parlare del cinema per parlare poi della
virtualità potrebbe sembrare azzardato; mi scuso perciò fin da
ora per la provvisorietà del mio intervento, ma confido che la
forma del seminario potrà contribuire ad affinare, e forse anche
a criticare, alcuni dei concetti che utilizzerò.
2
Il punto di partenza è che un’esperienza mediata del reale non è
mai neutrale, ma è sempre socialmente e tecnicamente
determinata.
Un po’ come le lenti
colorate di cui parlava Kant, che se indossate in maniera
permanente modificherebbero le categorie stesse del colore.
Sostenere questo, tuttavia, non significa affermare che il
medium ha sempre la
meglio sul soggetto/spettatore che ne usufruisce. Ecco il perché
del titolo Lo spettatore
liberato: si tratta infatti di capire come (e se) il
soggetto/spettatore riesce a “fuoriuscire” dalla passività della
sua fruizione, in rapporto ad una forma socialmente mediata di
rappresentazione del reale.
Una prima ipotesi è che lo spettatore può
sempre liberarsi dalla
sua passività, indipendentemente dalla rappresentazione in
questione, e che anzi la rappresentazione stessa funziona “al
suo meglio” quando consente tale “emancipazione”. Lo sostiene ad
esempio Jacques Ranciére in un piccolo saggio intitolato
Le spectateur émancipé
del 2008. Nelle prime pagine, Ranciére afferma che è stata
soprattutto «l’assenza di ogni relazione evidente tra il
pensiero dell’emancipazione intellettuale e la questione dello
spettatore oggi» ad averlo spinto a interrogarsi sul pregiudizio
di passività insito nella nostra concezione del ruolo dello
spettatore. Riferendosi in particolare al caso del teatro, che
nelle sue avanguardie novecentesche amava presentarsi come una
forma di rottura con ogni passività, ad esempio tramite la messa
a distanza dalla catarsi
(Brecht), o con l’abolizione di ogni distanza dalla scena
(Artaud), Ranciére sostiene che lo spettacolo stesso diventa
politico solo quando riesce a porre sullo stesso piano l’autore
e lo spettatore, quando consente a quest’ultimo di muovere da
solo i passi verso il proprio sapere, innescando un possibile
movimento di emancipazione dal reale dato.
Questa funzione, quasi pedagogica, dello spettacolo, non si
esplica attraverso le forme spesso didascaliche dello
spettacolo politico in
senso stretto; per Ranciére, infatti, l’atto stesso della
visione è già una forma di azione sul reale, poiché lo
spettatore, «osservando, selezionando, comparando e
interpretando» ciò che ha di fronte, spesso in modo
imprevedibile per colui che mette concretamente in scena lo
spettacolo, scompagina prima di tutto «l’identità di causa ed
effetto», ovvero la corrispondenza tra il messaggio originale e
la sua (univoca) rielaborazione. Riassemblando ciò che ha appena
visto «alla sua maniera», lo spettatore mette segretamente in
dubbio la distinzione stessa tra attività e passività, che certo
non ritroviamo solo sulla scena di un teatro, ma in qualsiasi
divisione sociale e politica. Egli comprende (o forse
può comprendere,
Ranciére non lo specifica) che ciò che può essere detto, visto o
fatto si colloca sempre entro un determinato regime di
dominazione e di organizzazione simbolica del reale.
Emanciparsi come spettatori significa in primo luogo capire che
tale organizzazione simbolica è sempre una separazione, e può
essere «confermata o trasformata» anche dal semplice atto della
visione. Del resto, secondo Ranciére l’artista stesso,
nonostante i suoi proponimenti,
ignora la reale
destinazione della propria opera e del proprio sapere; così come
lo spettatore, associando e dissociando ciò che percepisce nello
spettacolo, si ritrova in una condizione non così dissimile dal
suo normale modo di agire. Entrambi si aprono a qualcosa di
inaspettato, perché c’è sempre un sapere potenziale che opera
malgrado le intenzioni
di chi lo trasmette, così come c’è sempre un’attività di
ricostruzione soggettiva, potenzialmente emancipativa,
nell’essere spettatori di qualcosa.
Non è un caso che lo stesso Ranciére, quando definisce il
termine “emancipazione”, ricorre alla celebre definizione
kantiana dell’uscita dallo stato di minorità. Kant sosteneva infatti che essere
spettatori pubblici e
disinteressati di un evento, anche se svolto a grande
distanza da noi (il suo esempio riguardava la Rivoluzione
Francese), non significa ritrovarsi in una posizione passiva o
distaccata, ma, al contrario, significa “partecipare” a
quell’evento nella forma propria dell’universale, sconfinando
addirittura nell’entusiasmo
vero e proprio (Kant, Se
il genere umano sia in costante progresso verso il meglio,
par. 6). Sia Kant che Ranciére, dunque, anche se in modo molto
diverso, sostengono che essere
spettatori implica
sempre un’attività peculiare, e non una semplice forma di
passività.
Potremmo formulare però una seconda ipotesi: ovvero, che la
“liberazione” dalla passività dello spettatore deve passare a
sua volta per una sorta di “liberazione” dalla rappresentazione
stessa, ovvero per un movimento di fuoriuscita dal
medium da parte di chi
ne usufruisce. Quest’ipotesi presuppone ciò che indirettamente
sostiene anche Ranciére, e cioè che il soggetto/spettatore possa
disporsi simbolicamente sullo stesso piano della sua
“contro-parte”; tuttavia, a mio avviso, la questione riguarda
anche la “natura” peculiare del tipo di fruizione, nel senso che
alcune forme di rappresentazione consentono maggiormente tale
“fuoriuscita simbolica” - almeno in via potenziale - ed altre
decisamente meno. È questo il punto focale che mi permette di
introdurre le prime differenze tra le diverse modalità di
esperienza della
rappresentazione che prenderò in esame: l’esperienza del
virtuale e l’esperienza della
fiction. La differenza
riguarda essenzialmente: a) il diverso grado di autonomia del
soggetto/spettatore; b) la diversa articolazione del rapporto
tra verità e falsità; 3) le differenti possibilità liberatrici e
di emancipazione che ci pongono davanti, oltre al grado di
alienazione e di soggezione che, dialetticamente, esse stesse
producono.
Ho già detto che mi concentrerò sull’esperienza cinematografica.
Non è però mia intenzione avventurarmi in una discussione sulla
“teoria del cinema”, analizzando ad esempio il Deleuze de
L’Image-mouvement e
L’Image-temps, oppure
la monumentale Histoire(s)
du cinéma di Jean-Luc Godard. Per confrontare davvero Cinema
e Virtualità bisogna a mio avviso soffermarsi essenzialmente
sulle modalità di fruizione di un’opera cinematografica, cioè
sulla peculiare esperienza
della rappresentazione che ciò comporta. E sono due le
caratteristiche principali di questa esperienza che proverò a
illustrare: la prima, riassunta con un’espressione di Virginia
Woolf, consiste nella perturbante esperienza di osservare la
vita «così com’è
quando non abbiamo un ruolo in essa», ovvero come essa è in
nostra assenza; la seconda, che proverei ad indicare con la
metafora dei “titoli di coda”, riguarda invece l’esperienza che
si consuma nel peculiare tempo di passaggio che intercorre tra la fine di un film e l’uscita
degli spettatori dalla sala cinematografica.
3
Il saggio di Virginia Woolf del 1926 si intitola
The Movies and Reality, tradotto recentemente da Mimesis col titolo
Il cinema. Anche se il
materiale a sua disposizione era piuttosto limitato,
circoscritto alla nascente cinematografia inglese (legata
soprattutto alla trasposizione letteraria, di carattere storico
o documentaristico) Woolf si interrogava in modo sorprendente
sulle potenzialità ancora inespresse della nuova arte, a suo
dire ignote persino agli stessi registi. E quest’interrogazione
giunge ad affrontare proprio lo statuto peculiare dell’immagine
filmica, del suo rapporto col reale e della sua fruizione da
parte dello spettatore.
Cos’è che lo stupisce [Woolf si riferisce all’occhio dello
spettatore, ndr.], dunque, destandolo all’improvviso nel mezzo
del suo piacevole torpore? L’occhio è in difficoltà. L’occhio
vuole aiuto. L’occhio si rivolge al cervello. “Sta accadendo
qualcosa che non comprendo affatto. C’è bisogno di te”. Assieme
guardano quel Re, quell’imbarcazione, quel cavallo ed il
cervello, immediatamente, si accorge che essi hanno assunto una
qualità che non appartiene più alla semplice riproduzione della
vita reale. Non sono divenuti più belli, nel senso in cui le
immagini si dicono belle, ma dovremmo definirli (il nostro
vocabolario è miseramente insufficiente) più reali, o reali di
una realtà differente da quella che noi percepiamo nella vita
quotidiana? Scorgiamo come essi sono in nostra assenza. Vediamo
la vita così com’è quando non abbiamo un ruolo in essa. Mentre
li fissiamo, sembrano essere espulsi dalla meschinità della vita
reale. Il cavallo non ci calpesterà. Il Re non ci stringerà le
nostre mani. L’onda non bagnerà i nostri piedi. Da questa
posizione privilegiata, mentre osserviamo i capricci della
nostra specie, abbiamo il tempo di provare compassione e
diletto, di generalizzare, di attribuire ad un solo uomo le
qualità della specie tutta […] E a volte, al cinema, nel mezzo
della sua smisurata destrezza ed immensa competenza tecnica, si
apre il sipario e scorgiamo, in lontananza, qualche sconosciuta
e inaspettata bellezza. Ma ciò accade per un solo istante.
Perché è accaduto un fatto strano - al contrario delle altre
arti che sono state concepite nude, questa, la più giovane, è
stata concepita completamente abbigliata. È in grado di dire
tutto prima che abbia qualcosa da dire[2].
Seguendo il discorso di Woolf, potremmo dire che l’esperienza
cinematografica pone il soggetto/spettatore ad una doppia
distanza da ciò che ha di fronte: una distanza per così dire
classica, aristotelica, che consente la
catarsi da ciò che
viene rappresentato; e una distanza di tipo nuovo, perché
riguarda l’occhio umano nell’atto stesso della sua visione. Le
cose si presentano davanti allo spettatore come se fossero vere,
reali, tangibili, ma non potranno toccare, stringere o bagnare
il corpo che le osserva: sono reali, certo, ma paiono come
«espulse dalla meschinità della vita reale», impossibilitate al
contatto, come se l’osservatore diventasse improvvisamente
invisibile e si aggirasse per il mondo, tra le case, in mezzo
alle persone. Ovviamente, tutto questo stupore per noi oggi pare
quasi surreale, abituati come siamo al bombardamento di immagini
24h/24. Ed infatti si posiziona agli albori del cinema.
Oltretutto, ad
emergere è prima di tutto la complessità tecnica del cinema, il
suo costitutivo “realismo visivo”, ovvero la similitudine con
l’esperienza dell’occhio umano; caratteristiche che, ad esempio,
il teatro inteso in senso classico, come teatro di parola e di
messa in scena, di assi che scricchiolano e di evidente
“fiction”, non possiede (diverso il caso, ad esempio, di alcune
esperienza teatrali contemporanee, che puntano invece
sull’immagine sincretica, cioè mischiata con musica e
recitazione, che prova a porsi come vera e propria esperienza
sensibile trasfigurata, come nel caso dei lavori della
«Raffaello Sanzio Societas»).
Questa strana esperienza di un occhio che guarda la realtà come
se non ci fosse un corpo concreto ad esperirla, che rende lo
spettatore anonimo e quasi invisibile - non a caso il rapporto
cinema/voyerismo verrà indagato da decine di registi, prima fra
tutti Hitchcock - ha luogo nello spazio a metà strada tra un
“tempio” e un “circo” che è la sala cinematografica. Il suo buio
pare quasi favorire l’anonimato di chi guarda, sì che lo
spettatore sembra catturato in quello che il critico francese
Serge Daney definiva una sorta
di “elitarismo popolare”, che consente a chiunque di entrare in
rapporto con qualsiasi cosa, anche in mezzo ad altra gente[3].
Catturato, tuttavia, ma non fino in fondo. Perché quella sullo
schermo è una vita che non potrà mai appartenere al suo
spettatore, che non potrà mai lasciarlo davvero “entrare”.
Non è un caso, forse, che una delle prime riflessioni
meta-cinematografiche riguardi proprio questo peculiare rapporto
tra schermo, spettatore e realtà. Mi riferisco ad uno dei
capolavori di Buster Keaton,
Sherlock Jr. del 1924,
di cui ad esempio René Clair scrisse che svolse per il cinema un
ruolo «paragonabile a ciò che furono per il teatro i
Sei personaggi in cerca di
autore di Pirandello». In una celebre scena, il
protagonista, che di mestiere fa il proiezionista e che è appena
stato vittima di un raggiro da parte del suo rivale in amore, si
assopisce sconsolato nel bel mezzo di una proiezione, si sdoppia
magicamente e la sua immagine onirica vede improvvisamente, al
posto degli attori che interpretano il film, proprio la sua
bella e il suo rivale. Inizia, cioè, a proiettare la propria
storia in quella del film, fino a cambiarne i volti e le
espressioni. Si avvicina sempre più allo schermo, mentre gli
spettatori continuano tranquilli a guardare il “vero” film, e ad
un tratto decide di «entrare nello schermo».
Assistiamo quindi al trauma di Buster Keaton che, come scrive il
critico cinematografico Giorgio Cremonini, «si ritrova
catapultato dentro il continuo cambiamento degli spazi imposto
dal montaggio: un giardino, una strada, una tana di leoni, un
deserto», in un crescendo sempre più vertiginoso e surreale.
Successivamente, riesce anche ad assumere a suo modo un “ruolo”
nella storia, quello di un detective che risolve un complicato
caso di furto e salva la ragazza dai banditi. Alla fine del
film, la stessa ragazza lo raggiunge nella sala di proiezione e
lo sveglia, svelandogli con rimorso che ha scoperto l’inganno
perpetrato ai suoi danni. Il protagonista, gettando sguardi
furtivi allo schermo, imita i due “veri” attori, accarezza e
infine bacia la ragazza. Poi però si ferma, perplesso: uno
stacco di montaggio ha infatti mostrato i due attori del film
sposati e circondati di bambini. Ecco lo scarto, l’impossibilità
di «imitare fino in fondo» la vita sullo schermo. Bisogna
fuoriuscirne, definitivamente, un po’ per scelta, un po’ per
necessità.
Lo sguardo dubbioso di Buster Keaton cattura meravigliosamente
quest’enigma.
4
Torniamo ora alla sala, perché la seconda caratteristica cui
accennavo riguarda esattamente il modo in cui si è organizzata
la visione filmica all’interno della sala cinematografica,
attraverso un peculiare rapporto tra dentro/fuori, luce/buio.
Che succede quando ritorna il buio nella sala? Io credo che in
fondo esista la necessità, per la rappresentazione
cinematografica, di scomparire, di eclissarsi, altrimenti non
funzionerebbe come tale, ma come qualcos’altro – e cioè come un
esperienza simbolica, cui siamo sempre in qualche modo esterni,
che ci accoglie in quanto
appartenenti ad una medesima comunità di senso, oppure come
un’esperienza di simulacro, da cui non riusciamo ad uscire, che
ci rinchiude all’interno di un rapporto “autistico” con la
realtà. Questo perché è nello spazio reso vuoto dalla sua
sparizione che ha luogo il momento decisivo dell’esperienza cinematografica.
La sala cinematografica, fin dagli albori della cinematografia
intesa come arte della rappresentazione in movimento, somiglia
in questo all’antico teatro delle ombre cinesi, che non a caso
un attento cinefilo come Sergio Leone poneva in apertura del suo
C’era una volta in America,
trasponendolo in una fumeria d’oppio della New York anni ’30.
L’apparizione e la sparizione delle figure, in un’arte che
risale forse in Cina ai primi secoli dopo Cristo, avveniva su un
telo bianco semi-trasparente, dietro cui gli attori muovevano
delle figure di carta che una potente luce bianca ingigantiva e
rendeva animate.
Quando i fratelli Lumière trasformarono quelli che fino ad
allora era stati dei semplici esperimenti scientifici in una
nuova, dirompente, forma di spettacolo, e il 28 dicembre 1895,
al Gran Café del
Boulevard des Capucines di Parigi, presentarono il primo film
della storia in una piccola saletta resa buia per l’occasione,
l’impressione dei pochi presenti (paganti) fu enorme. Durante la
proiezione di circa mezz’ora, che comprendeva
La sortie des usines
Lumière e Le repas du
bébé, tutti affermarono di essersi ritrovati completamente
immersi in quel miracolo di immagini in movimento, come
catturati una sorta di esperienza totalizzante, quasi
extra-corporea. Quando il buio piombò nuovamente nella sala,
quando la sequenza animata di immagini sparì, si resero conto
lentamente di quel che era successo e, con gli occhi ancora
pieni di meraviglia, coprirono di applausi i due fratelli che se
stavano nascosti nel fondo, dietro il loro Cinématographe. Pur
senza voler seguire troppo il filo della suggestione, in quel
breve lasso di tempo tra l’apparizione e la sparizione
dell’immagine in movimento, quando l’occhio entusiasta della
propria onnipotenza s’era trovato dinnanzi lo schermo bianco e
la luce spenta, proprio in quel momento, per la prima volta,
avveniva una nuova esperienza del reale, attraverso una finzione
artificiale proiettata malamente su una parete.
Ovviamente quest’evento, dal carattere quasi mitico, momento
aurorale della visione filmica, si trasformò in un breve volgere
di anni nel più grande fenomeno di massa del nuovo secolo, con
le sale cinematografiche che si moltiplicavano rapidamente tanto
nelle grandi città quanto nei piccoli paesini (senza contare una
prima fase, molto suggestiva, in cui il cinema era itinerante e
si muoveva di piazza in piazza come uno spettacolo di
marionette). La sala cinematografica divenne il luogo in cui si
veniva trasportati altrove,
e la sua potenza scenica metteva in secondo piano forme più
tradizionali come il teatro o l’opera (sì che un grande
“teatrante” come Orson Wells sosteneva che solo il cinema avesse
un futuro, mentre il teatro era sostanzialmente morto).
Tuttavia, sia che la rappresentazione cinematografica si
posizionasse sulla scia dei Lumière (rappresentazione dinamica
della nuova realtà industriale e dei suoi miti - treni,
fabbriche, scenari urbani), sia che la si intendesse come faceva
George Méliès (possibilità tecnica per nuovi
trucchi sempre più
complessi, commuoventi, surreali), ad un certo punto essa doveva
necessariamente sparire, lasciar spazio al buio della sala,
permettere che il rito collettivo proseguisse all’esterno, fuori
dallo schermo.
È interessante notare come, progressivamente, questo “spazio
vuoto” verrà “occupato” da qualcos’altro (i cinegiornali, la
propaganda di guerra, la pubblicità), diventando preda del più
grossolano indottrinamento ideologico così come della più
sofisticata cooptazione all’interno società dei consumi.
Rimandando di continuo il momento del “buio”, della fuoriuscita
dall’immagine, del ritrarsi del soggetto dalla fusione con la
rappresentazione che ha davanti agli occhi, si trasforma di
fatto la peculiarità dell’esperienza cui si faceva prima
riferimento, si elidono le sue potenzialità. Elenchiamole:
a. il soggetto riesce a fuoriuscire dalla rappresentazione non
per sua semplice iniziativa (cosa che potrebbe avvenire in
qualsiasi momento), quanto piuttosto per una proprietà che è
costituiva di quella stessa rappresentazione: ovvero, per la sua
necessaria sparizione nel buio della sala, che reinserisce nella
realtà fatta di sedie che scricchiolano, voci che si alzano,
luci che si accendono. È il mondo vero che giunge addosso dopo
il mondo falso. L’autonomia del soggetto riemerge anch’essa con
lo stropiccio degli occhi e col ritorno, imprevisto o fragoroso,
alla parola.
b. la verità e la falsità si confondono, si inseguono e si
mescolano, come in ogni rappresentazione riuscita, potremmo
dire. Tuttavia, permane sempre quell’antica componente fatta di
ombre che si allungano e di trucchi che si negano, attraverso
cui si riesce a godere del falso come se fosse vero solo a patto
di accettare la dimensione dell’illusione, come quando si segue un prestigiatore fare le sue
“magie”, che lasciano sbigottiti, pur sapendo bene che non si
tratta di magia in senso assoluto (un bravo prestigiatore
dichiara questa distinzione prima ancora di cominciare il suo
numero). « È solo un trucco», afferma il protagonista
dell’ultimo, osannato film di Paolo Sorrentino, e quella frase
si pone forse, nel 2013, come un epitaffio del cinema tutto.
c. «Il cinema non cambia il mondo», ripetono da sempre i
cineasti più impegnati, ed è verissimo. L’emancipazione che ci
viene da questa esperienza
della rappresentazione batte infatti altre strade: riguarda
essenzialmente la possibilità di emanciparsi dalla
rappresentazione stessa, di non soccombere ad alcun enigmaticità
irrisolvibile, di non rifarsi ad nessun senso pre-esistente per
comprendere ciò che esperiamo, riguadagnando il filo libero
dell’interpretazione senza abolire il reale, senza renderlo un
semplice riflesso autistico. Per questo l’emancipazione dalla
rappresentazione si situa al suo
margine, nello spazio vuoto della sua sparizione, e non certo nel
nulla assordante della sua assenza.
Queste potenzialità, attraverso cui il cinema ha modificato in
maniera significativa l’antropologia del Novecento, possono
rivelarsi molto utili per comprendere ciò che il nostro
seminario definisce le
anestesie del presente. La sala cinematografica è infatti
parzialmente implosa, sommersa dalla televisione e dai nuovi
mezzi virtuali, sopravvivendo solo come appendice di un sistema
di rappresentazioni (e di simulazioni) del reale che non termina
mai, che rifugge dalla sua stessa sparizione come fosse la
peste. Si tratta forse di un’ulteriore perdita dell’aura
dell’opera d’arte, che dalla riproducibilità collettiva (il
cinema) approda infine a quella privata e reiterabile
all’infinito (lo schermo in ogni casa, o addirittura in ogni
luogo - il tablet)? Oppure si tratta della progressiva
“sterilizzazione” della rappresentazione, priva di qualsiasi
rimando immaginifico ad un
altrove che superi il muro di immagini perenni in cui siamo
immersi? O è forse solo la realizzazione del sogno di qualche
regista visionario (Fellini), il quale auspicava, in futuro non
troppo lontano, che il film potesse essere proiettato
direttamente nel cervello di ciascun spettatore?
5
Tuttavia, anche a dispetto di ciò che abbiamo appena detto, i
film si continuano a vedere, su un piccolo schermo portatile
così come sui giganteschi schermi 3D. Cosa è cambiato allora? Io
credo che sia stato progressivamente soppresso quello “spazio”
simbolico, fatto di assenza e di distanza, che rendeva
l’esperienza della rappresentazione cinematografica
potenzialmente liberatrice per lo spettatore. Il virtuale è per
sua stessa natura un wide
space, che per quanto abnorme rimanda sempre a
qualcos’altro. Ha una caratteristica sottaciuta: non è mai
vuoto, così come la televisione, che trasmette in eterno il suo
segnale e la sua “offerta”.
Vorrei a questo proposito presentarvi un ultimo brano, che
permetterà di avviarci alla conclusione. È di Günther Anders, un
autore che mi è già capitato di utilizzare in passato per la
rivista, ed è tratto dal secondo volume de
L’uomo è antiquato.
Interrogandosi sulla natura peculiare del conformismo nella
società di massa (dove mai «il dominio è stato esercitato con
così buona coscienza»), Anders tratteggia attraverso un esempio
illuminante il modo in cui il consumatore odierno fa
“esperienza” dei prodotti che gli vengono offerti/comandati
(giocando sull’ambiguità del verbo tedesco “geboten/gebieten”)
dalla società capitalistica.
Noi veniamo conformati attraverso un processo il cui effetto ci
resta impercettibile, del cui effetto insomma non ci accorgiamo.
E non ce ne accorgiamo per il semplice fatto che esso è più di
un singolo processo, ovvero di un processo che avevamo inteso
come una singola misura repressiva. Piuttosto è il processo
ininterrotto, in definitiva nient’altro che il
modus di come si è
trattati, quello di cui perennemente “facciamo l’esperienza”
(cioè: da cui veniamo permanentemente impressionati). E proprio
per questo non lo “sperimentiamo” (nel senso che non lo
“appercepiamo”). Poiché
ciò di cui si “fa esperienza permanente” (nel senso del
venire impressionati) non
lo si “sperimenta” (nel senso di appercepire). Le condizioni
dell’esperienza non sono gli oggetti dell’esperienza. La
pressione dell’oceano, di cui i pesci permanentemente “fanno
esperienza” (cioè: da cui permanentemente vengono colpiti), essi
non la “sperimentano” (nel senso che non la appercepiscono).
Piuttosto questa pressione fa parte fin dall’inizio del loro
meccanismo di movimento, anzi dell’intera struttura dei loro
corpi. Lo “schema di
coercizione” è diventato la conditio sine qua non della loro
vita di modo che, quando vengono issati a bordo dai pescatori,
scoppiano. […] Lo stesso vale anche per certe condizioni
artificiali prodotte dall’uomo. Nella nostra esistenza è
calcolato il modus con
cui veniamo trattati e a cui siamo sottoposti permanentemente.
Pertanto, non ne “facciamo esperienza”; o al massimo, la
facciamo solo quando esso viene meno provvisoriamente: infatti,
soltanto l’assenza rende
visibile la presenza quotidiana[4].
L’assenza momentanea
di cui parla Anders, che rende percepibile l’oceano di
rappresentazioni di cui facciamo esperienza in maniera coattiva,
rischia sempre più di farci scoppiare come i pesci abissali
issati su una barca. È un’assenza cui ci stiamo completamente
disabituando. Perché quelle rappresentazioni non ci mantengono
più “fuori” di esse, magari lasciandoci con il desiderio
frustato di “entrare” nella vita sullo schermo, così distante
eppure così vicina. Nel virtuale lo spettatore non sperimenta né
l’anonimia (in senso positivo, come anonimia collettiva in
situazione, non l’anonimia di chi, al riparo di uno schermo, può
diventare chiunque e scrivere qualunque cosa) e neppure
sperimenta il piccolo trauma dei “titoli di coda”, ovvero
dell’uscita forzosa ma benefica dall’esperienza della visione,
che permette di riguadagnare a fatica il reale attorno,
qualunque esso sia. Certo, un film si può rivedere più volte,
così come un libro si può riaprire, e al tempo stesso una pagina
internet si può chiudere e un programma
tv si può spegnere.
Tuttavia, nei primi casi ci ritroveremo sempre allo stesso
punto, nelle stesse identiche situazioni, mentre negli altri
casi tutto sarà diverso, nuove informazioni e nuovi spettacoli
ci “re-immergeranno” (per riprendere la metafora di Anders)
nella pressione continua delle rappresentazioni, senza assenza,
senza distacco. Rappresentazioni che si
presentano come trasparenti, più “vere
del vero” e perciò sempre “in-equivoche”, perché sussumono la
realtà empirica e ce la ripresentano bastante a se stessa.
Questo modo di esperienza – che, come dicevo all’inizio,
potremmo considerare in un certo senso autistico – vorrei
definirlo appunto
esperienza-simulacro, poiché “simula” un’esperienza che, non
trovando mai realmente lo spazio e il tempo della sua assenza,
viene continuamente “rimandata” in avanti, e in molti casi non
avviene mai. Almeno non “dentro” la rappresentazione stessa.
Concludo con un aneddoto: si dice che il gruppo dei surrealisti
francesi, capitanato da Andrè Breton, corrèsse letteralmente di
cinema in cinema e di sala in sala, muovendosi freneticamente
per Parigi alla ricerca di una visione cinematografica sempre
nuova, mettendo insieme brandelli di pellicola spesso molto
diversi tra loro (soprattutto Chaplin e Keaton, per tornare ai
temi trattati prima); e, detto per inciso, questo modo
naif di approcciarsi
al Cinema fu uno dei motivi della rottura col gruppo surrealista
di un cineasta assoluto come Luis Buñuel. Tuttavia, quello che
negli anni ’20 era solo un vezzo avanguardistico, oggi è la
situazione comune dell’utente di YouTube, che di “surrealista”
ha ben poco.
Che conclusioni potremmo trarre da questo
excursus, certamente
parziale e incompleto? In cosa consiste la
liberazione dello
spettatore? Io credo che la rappresentazione filmica, attraverso
l’esperienza co-essenziale della sala cinematografica, ci fa
rivivere il reale, come dice Virginia Woolf, così come esso è (o
potrebbe essere) in nostra assenza, ci mostra la vita «quando
non abbiamo un ruolo in essa». È un’esperienza potenzialmente
liberatrice, non soltanto per il suo valore estetico o per i
«momenti di bellezza» che ci restituisce, ma perché insegna a
muoversi a margine del
reale, con il passo falsato della rappresentazione. Ci insegna
cioè a ritrovare, nel tempo della sua sparizione, nel buio della
sala che cede lentamente il posto alla luce, il rumore amico di
un reale che osserviamo e giudichiamo con occhi diversi.
[1]
Questo progetto ha come titolo provvisorio
Simboli,
rappresentazioni, simulacri, e si propone di
indagare ciò che si potrebbe definire la nostra
“esperienza della rappresentazione” in rapporto a
diversi ambiti della vita culturale e sociale, con
l’intenzione di individuare una linea, teorica e storica
al tempo stesso, di continuità e di discontinuità, che
contribuisca a chiarire i tratti peculiari
dell’esperienza della “virtualità” nell’epoca
contemporanea. Si tratta di un progetto
in progress, sviluppato nell’ambito di un gruppo collettivo di
ricerca, di cui il presente intervento potrà costituire
una sorta di esemplificazione e di introduzione, pur
nella sua parzialità e nei suoi limiti.
[2]
V. Woolf, Il
cinema,
Mimesis,
Sesto San Giovanni (MI) 2012, pp. 9 e 16.
[3]
Scrive Daney: «Ciò che è stato magnifico con il cinema è
che un individuo (l’autore, l’attore) poteva comunicare
con un altro individuo nell’anonimato collettivo della
sala. Era elitario, certo, ma di un elitarismo popolare
che funzionava per uno qualsiasi».
[4]
G. Anders, L’uomo
è antiquato, vol. II,
Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 183-184.