DESTINI DELLA MEMORIA NEL MONDO SENZA TEMPO
Annelise D'Egidio
Il testo riportato di seguito è l’intervento tenutosi l’11 giugno scorso
all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, nell’ambito dei seminari
intitolati Anestesie del presente (9-11 giugno 2014).
Il treno del tempo è un treno
che spinge davanti a sé le sue rotaie.
Il fiume del tempo è un fiume
che porta con sé le sue rive.
Chi viaggia si muove tra pareti solide
su un pavimento solido;
ma pavimento e pareti
sono messi insensibilmente in moto rapidissimo
dal moto dei viaggiatori
(R. Musil, L’uomo senza qualità)
Prologo
Se,
come afferma Virilio, «la velocità è la vecchiaia del mondo», allo stato
attuale ci troviamo su un pianeta che sta arrancando e non poco. Non si
insisterà mai abbastanza sui pericoli per la nostra stessa sopravvivenza
derivanti da un intensivo ed indiscriminato sfruttamento delle risorse
naturali. Oltre alla globalizzazione dei mercati economici, le sorti
locali sono divenute globali da quando è stato possibile avvalersi di
mezzi di trasporto talmente veloci da rendere non troppo dispendioso –
né troppo lungo – il tragitto che separa Città del Capo (Sud Africa) da
Hammerfest (Norvegia) o, ragionando in orizzontale, il Giappone dalla
Spagna. Il villaggio globale di McLuhan non è mai stato così piccolo e
l’emblema di questo restringimento degli spazi è la città metropolitana,
letteralmente presa d’assalto da orde di turisti, piuttosto che
pellegrini o migranti in cerca di lavoro. Le masse umane che
quotidianamente si riversano su Bombai, Calcutta, Pechino, Brasilia, New
York, Tokio, Parigi, Londra, Roma, Madrid, Sidney, Abuja, Nairobi,
ridisegnano una geopolitica dei luoghi assolutamente inedita e, in un
certo senso, scompaginano i tradizionali rapporti di potere. Le città
sono il tavolo su cui si consuma il braccio di ferro tra tendenze,
istanze e rivendicazioni di segno opposto. Più che un terreno di
scontro, le metropoli globali sono divenute vere e proprie bolle in
sospensione, sempre sull’orlo della deflagrazione. Per evitare il peggio
e gestire il caos, tutto un apparato umano e tecnologico della
prevenzione viene schierato a guardia del territorio. Le nostre città
coi loro spazi pubblici sono oramai sempre più spesso presidiate
militarmente[1].
È l’emblema del panico collettivo che popola il nostro immaginario e ci
anestetizza giorno dopo
giorno, rendendoci incapaci d’indignarci e di solidarizzare l’un con
l’altro. Sovente dicono e diciamo che ci manca il tempo, che vorremmo
averne di più. La frenesia dei nostri ritmi di vita dovrebbe essere
indice di un’esistenza piena, e perciò, appagante. Ma è davvero così?
Avere poco tempo non sarà conseguente al non saperlo gestire? Se le
giornate sono sempre state di 24 ore perché ora sembrano non bastare
più? Il senso di precarietà e incertezza che trasforma il nostro futuro
in una landa di disperazione ha a che fare con la tirannia del nostro
tempo accelerato? Cosa perdiamo ogni volta che invece di spostarci a
piedi o in bici, preferiamo prendere l’automobile per fare prima –
correndo seriamente il rischio di restare imbottigliati nel traffico? A
mano a mano che arretriamo, concedendo piazze, parchi, ma anche beni
pubblici, veniamo inghiottiti sempre più dal vortice mortifero – cioè
tanatopolitico – delle
anestesie del presente. Riprendere in mano il proprio tempo, come ci
dimostra la rivolta di Gezi Park a piazza Taksim, nella città di
Istanbul, è possibile solo se si ha il coraggio (ed il tempo) di
difendere spazi che appartengono a tutti, cioè sono spazi aperti e,
perciò, lontani dal panico che si aggira, come uno spettro,
indistintamente, in ognuna delle megalopoli del Pianeta. Citando ancora
Virilio e per concludere: «La città è il museo dell’incidente, la più
grande catastrofe del xx
secolo».
Sai cos’è il rischio morale? Sai che significa?
Significa che se vieni aiutata penserai di poterlo fare di nuovo!
(Jacob Moore nel film Wall Street, il
denaro non dorme mai[2])
Più si guarda indietro, più si guarda avanti
(W. Churchill)
Scriveva Ezra Pound[3]
che l’usura arrugginisce il cesello e l’arte dell’artigiano, fa morire
le pecore e tarlare le tele nei telai, svuota i mercati; insomma,
l’usura è come peste. Altrove, il giudizio del poeta è ancor più chiaro
e tranciante: in Addendum
l’usura è definita nell’ordine «il nocciolo del male», «l’inferno che
brucia senza tregua», «il cancro che tutto corrode», «sifilide dello
Stato», «porro del bene pubblico», «tumore che guasta ogni cosa», «buio
profanatore», «gemello d’Invidia», «Idra dalle sette teste». Fin dal
Medioevo, d’altra parte, l’usura era considerata pratica deprecabile e,
di fatti, Dante collocava gli usurai all’Inferno, in un posto peggiore
perfino di quello assegnato a bestemmiatori e sodomiti. Nel settimo
cerchio del terzo girone vede queste “anime meste” vomitare quel denaro,
che tanto avevano inseguito ed accumulato in vita, da ogni orifizio,
secondo la logica del contrappasso. Nell’al di qua non è che le cose
andassero poi molto meglio: la reputazione di quanti praticavano l’usura
era pessima. Generalmente li si raffigurava con specifici quanto
inequivocabili attributi: borsa piena, sguardo torvo, pinguedine
eccessiva. Paragonati a vampiri assetati di sangue, erano secondi per
ripugnanza ai soli ebrei, usurai anch’essi e medici, cioè esperti in
quelle professioni che il Cristianesimo non ammetteva per i suoi adepti.
Di usura si dibatté parecchio in tutto il Basso Medioevo: lo dimostrano
i sinodi tenutisi tra il 1000 ed il 1300[4],
che peraltro ribadivano posizioni di condanna già espresse nei secoli
precedenti[5],
e il grande spazio riservato al tema dalla teologia[6].
Secondo San Tommaso l’usura è una questione di giustizia che riguarda
direttamente Dio poiché l’usuraio mette a frutto, cioè guadagna,
mercanteggiando col tempo, proprietà esclusivamente divina. Per di più,
ottenere guadagno da qualcosa che di per sé è sterile, come il denaro,
era considerato un peccato contro natura e, pertanto, gravissimo. Appare
facilmente comprensibile, allora, perché tanto accanimento contro
l’usura, bersaglio preferito dei predicatori. Sono innumerevoli le
vicende di usurai dannati o redenti in punto di morte giunte sino a noi
in forma di exempla adoperati per le
omelie. Ma inaspettatamente, nonostante il pubblico biasimo e la
riprovazione ecclesiale, sul finire del
xii secolo, si escogitò una
soluzione conciliante per un problema oramai dilagante. Nasceva così il
Purgatorio[7],
un unicumm dell’escatologia
cattolica, che svuotava di anime l’Inferno, accogliendo nel suo limbo un
enorme numero di anime bisognose di ulteriore purificazione. Tra di esse
anche quelle degli usurai, cui si riservava una particolare clemenza:
avrebbero scampato infatti le fiamme dell’Inferno sia quanti il cui
pentimento era arrivato in tempo utile – ed avevano perciò almeno
cominciato a restituire il maltolto – come pure coloro che si erano
pentiti in punto di morte. Dell’immensa misericordia divina avrebbero
potuto beneficiare da allora in poi anche questa specie particolare di
reprobi, cui il sacramento della confessione avrebbe cancellato l’onta
d’ogni nefandezza passata[8].
In un momento in cui la Chiesa subiva i forti attacchi degli ordini
mendicanti, favorevoli ad uno stile di vita più sobrio e frugale ad
imitazione di Cristo Gesù, normalizzare lo strozzinaggio significava
adattarsi alle mutate condizioni storiche. La cosiddetta “Rinascita
dell’anno Mille” aveva trasformato ogni ambito della società,
stravolgendone le fondamenta economiche (nascita delle banche) e
politico-sociali (i Comuni). La ripresa dei commerci non solo favorì
l’ascesa del mercante, ma stimolò la circolazione monetaria – sino ad
allora stagnante. Disporre di denaro da investire e scambiare era
fondamentale per le neonate attività professionali e chi non ne aveva
doveva ricorrere al prestito. Versando in garanzia oro e preziosi, i
contraenti ricevevano una nota di banco con cui si certificava
l’esistenza del deposito. Il sistema fu adottato per primo dagli orafi
che, quando compresero che i clienti preferivano esibire le cedole,
anziché prelevare di volta in volta, divennero custodi di questa specie
di fondi di risparmio ante litteram. Era nata l’economia monetaria e, con essa, le prime
banche, che, molti secoli più tardi, sarebbero state definite da Marx
come mere società di speculatori affiancatesi ai governi, cui prestano
soldi in virtù dei privilegi ottenuti. Facendo una rapida ricognizione
dell’attualità, il giudizio di Marx suona come un’autentica profezia. Il
cuore pulsante del sistema economico ha cessato d’essere da qualche
decennio la produzione industriale: per valorizzare il capitale banche,
investitori, enti pubblici e privati, ricorrono sempre più
massicciamente alla finanza. La fase intermedia della lavorazione delle
merci viene preferibilmente bypassata, nonostante l’automazione
tecnologica, perché considerata comunque troppo lenta e, perciò, non
abbastanza redditizia. Da quando la finanza ha escogitato prodotti
sempre più sofisticati – contratti swap, obbligazioni Otc, fondi di
investimento e fondi pensione – il capitale ricorre sempre più
all’autovalorizzazione finanziaria gli consente di estrarre plusvalore
ad un ritmo superiore a quello sostenibile dall’economia reale, senza i
problemi a questa legati. La realizzazione di extra-profitti attraverso
spericolate operazioni borsistiche gli consente inoltre di compensare la
caduta tendenziale del saggio di profitto[9].
La speculazione, infatti, per chi è abile e ne conosce le leggi,
triplica l’ammontare dei guadagni e abbatte i tempi, specie da quando i
governi occidentali hanno deregolamentato l’intero ambito, rinunciando
ad esercitare e a far rispettare la propria sovranità. La speculazione,
infatti, per chi è abile e ne conosce le leggi, triplica l’ammontare dei
guadagni e abbatte i tempi, specie da quando i governi occidentali hanno
deregolamentato l’intero ambito, rinunciando ad esercitare e a far
rispettare la propria sovranità. Come la Chiesa con gli usurai, dagli
anni ‘80 dello scorso secolo in poi la politica si è mostrata via via
più indulgente e tenera con la finanza, fino alla connivenza odierna[10].
Da quando il neoliberismo si è insinuato in ogni anfratto della vita
pubblica, diventando l’unico riferimento dell’azione politica – tanto a
destra, quanto a sinistra – il Purgatorio si è svuotato in un colpo. I
discendenti dei vampiri del Medioevo sono balzati tutti in Paradiso.
D’altra parte, più grosso è il rischio e più cresce la posta in gioco: a
noi, oggi, sembra normale perché è il meccanismo cui ci hanno abituato i
trionfi del venture capitalism. È il modo del suo stesso funzionamento:
accelerare il tempo, che tradotto in linguaggio tecnico significa le
promesse di guadagno, riducendo al minimo il rischio diretto, scaricato
sulla collettività. Può apparire paradossale, ma il combustibile che ha
alimentato tutto il sistema, sin dal suo sorgere, è la fiducia. Come
ogni religione che si rispetti, anche il capitalismo – la più tremenda
delle religioni secondo Benjamin – ha il suo credo, qualcosa da
promettere per l’avvenire, sebbene non conosca né redenzione né
misericordia[11].
È sempre più frequente attribuire la fiducia ai mercati finanziari: in
realtà si tratta del più bieco dei calcoli, basato sulla commistione tra
controllori e controllati che contraddistingue i torbidi intrecci tra
politica e finanza. Il pronunciamento delle agenzie di
rating – i cui proprietari
sono spesso investitori e finanzieri – valuta la credibilità dei Paesi,
cioè, in termini pratici, la loro solvibilità. Un Paese è credibile
quando può pagare gli interessi sui debiti che ha contratto. Nella
logica del finanzcapitalismo[12]
fiducia è sinonimo di debito. A rendere possibile la commistione è
il cuore stesso di tutto il sistema, ovvero il credito. La miracolosa
moltiplicazione degli introiti è artatamente ottenuta: le banche
concedono “in buona fede” mutui per l’acquisto di case a chi non ha
sufficienti garanzie di solvibilità, subito dopo impacchettano il debito
contratto sotto la più elegante forma del derivato e lo scambiano con
altre banche o altri enti. Sviluppando un effetto leva (o
leverage), il mercato dei derivati ripaga ampiamente i creditori:
all’aumento del debito corrisponde un aumento del rischio di insolvenza,
dunque i prestatori per essere rassicurati, perché insomma continuino a
nutrire ancora fiducia,
ricevono lauti interessi. Ma cosa succede se il meccanismo si inceppa?
Nessuno è capace di rassicurare i mercati, crolla la loro fiducia e
salgono lo spread e il panico. Scoppia la bolla, cioè piombiamo indietro, al
2007, quando il gioco perverso della moltiplicazione del debito, in
perfetto stile casinò[13],
è deflagrato. Alla sbornia del credito facile è seguita l’austerità, con
i costi sociali, economici ed ambientali a tutti noti. Sulla
collettività è scaricato il peso di scelte sbagliate, imputabili
esclusivamente a manager avidi e controllori compiacenti. Questo breve e
quanto mai veloce excursus lungo la linea evolutiva del capitalismo
termina con le parole di Gordon Gekko, protagonista del film
Wall Street, il denaro non dorme mai[14]
: «in conclusione, il vero
nemico è il prestito. È ora di riconoscere che è un biglietto sicuro per
la bancarotta, senza ritorno. È sistemico, maligno ed è globale, come il
cancro. È una malattia e dobbiamo combatterla.»[15].
Siamo davvero sicuri che vi è l’intenzione seria di farlo? O forse
lentamente dimenticheremo anche questa crisi, sino al verificarsi della
prossima? Chi compie speculazioni finanziarie sa che a fare la
differenza è sempre la prontezza, cioè la velocità, qualcosa di ben
distinto e dalla riflessione speculativa e da un qualunque tipo di
logica della complessità. Ma velocità e fiducia, come pure velocità e
memoria, non legano bene tra loro. Lo esprime ottimamente Kundera quando
afferma: «il grado di velocità è direttamente proporzionale
all’intensità dell’oblio. […] la nostra epoca si abbandona al demone
della velocità, ed è per questo motivo che dimentica tanto facilmente se
stessa. Ma io preferisco rovesciare questa affermazione: la nostra epoca
è ossessionata dal desiderio di dimenticare, ed è per realizzare tale
desiderio che si abbandonano al demone della velocità; se accelera il
passo è perché vuol farci capire che oramai non aspira più ad essere
ricordata; che è stanca di se stessa, disgustata di se stessa; che vuole
spegnere la tremula fiammella della memoria»[16].
L’arditezza dell’usuraio che rubava il tempo di Dio per offrirlo agli
uomini, scommettendo sugli eventuali ricavi, celava null’altro che la
possibilità di immaginare un progetto di vita individuale, liberamente
inventato dal singolo. È propriamente questo che inquieta i vertici
della Chiesa nel Medioevo: lo “sterco del Diavolo” – come usavano
definire il denaro – non solo faceva gola, ma effettivamente offriva
possibilità di lauti guadagni. In buona sostanza, l’usura annuncia il
successivo spirito del capitalismo, certamente lodevole quanto a
creatività ed estro, ma debole di memoria. Volendo, potremmo paragonare
il capitalismo e noi tutti, in quanto suoi prodotti, ad Henry Molaison,
morto in Connecticut nel 2008. Quest’uomo fu sottoposto ad un delicato
intervento nel 1953 per provare a salvarlo dai ripetuti attacchi
epilettici. In camera operatoria gli fu asportato l’ippocampo e ciò gli
permise di vivere a lungo. Tuttavia, pochi giorni dopo l’intervento, ci
si accorse di un fatto sorprendente: Henry non registrava nessuna delle
novità che gli capitavano durante l’arco della giornata. La sua memoria
era rimasta ferma al giorno prima dell’incidente. Da allora avrebbe
vissuto ogni avvenimento – incontri, abitudini, ricorrenze – come se
fosse stata la prima volta. Ma la cosa che sorprese ancor più i
ricercatori che si occupavano del suo caso fu che, all’assenza di
memoria, era abbinata un’assoluta incapacità di immaginarsi il futuro.
Questo ci suggerisce che memoria del passato e visione del futuro
procedono di pari passo. Quanto più si dimentica tanto meno si riesce a
programmare il futuro, insomma. La vita di Molaison offre la controprova
vissuta alle tesi di Paul Ricoeur sulla memoria[17].
Nelle sue riflessioni, memoria e oblio sono complementari e anche di
questo vi è la controprova scientifica perché sappiamo che la memoria è
sempre una selezione di ricordi. Trent’anni orsono la psicologa
statunitense Elizabeth Loftus ed il suo team hanno scoperto che la
memoria umana è una memoria ricostruttiva[18],
confermando in un certo senso quanto già sostenuto da Husserl nelle sue
Lezioni sulla coscienza interiore
del tempo (1904-1905). Il flusso temporale della coscienza è una
catena, un gomitolo, come amava dire Bergson: l’aggiunta di ciascun
anello non è ininfluente per i successivi, ma modifica anch’essi,
secondo il doppio lavoro di protenzione e ritenzione. Insomma, e veniamo
a Ricoeur, il lavoro della memoria è sempre un lavoro di rimemorazione
giocato sulla combinazione dialettica di assenza-presenza. Quel che
emerge è la natura chiaroscurale, per così dire, della nostra identità.
Per vivere ci è assolutamente necessario dimenticare, noi viviamo
dimenticando, oscurando parti del nostro stesso vivere, che significa
molto più banalmente non tanto (e non solo) rimuovere, ma lasciar
sfumare il tempo. «Ad ogni azione occorre l’oblio, come alla vita di
tutto ciò che è organico occorre, non solo la luce, ma anche l’oscurità»
dice Nietzsche nella seconda delle sue Considerazioni inattuali, che non
a caso scelse di intitolare
Sull’utilità e il danno della storia per la vita (1874). Conserviamo
una memoria estremamente labile del passato ed è con essa che ci
predisponiamo verso il futuro. Salvo poi accorgerci che certi ricordi
sono ingannevoli e vanno rivisti. Non è improprio affermare che è in
quest’ambivalenza che si gioca la questione della memoria ed il senso
del suo paradossale destino. Un ricordo è il più delle volte il ricordo
di un lutto, come insegna la psicanalisi. Ecco perché ricordare è
sovente un’operazione dolorosa, di scavo fino alle gole più profonde,
alle pieghe più recondite, della nostra memoria e dei nostri
piccoli/grandi traumi che, per quanto ci si danni, resta pur sempre un
esile tentativo; a cui prima o poi bisognerà rimettere mano. Elaborare
il lutto è il dazio che deve pagare chiunque voglia ricordare; così
come, per altro verso, una volta che l’elaborazione del ricordo è
avvenuta, significa che il lutto si è esaurito. In conclusione, avere a
che fare con la memoria è sempre e comunque una questione di violenza. E
la prova è offerta dal fatto che molto spesso le commemorazioni
collettive celebrino guerre, tragedie, uccisioni, massacri. Ma tant’è:
noi siamo al centro dell’intersezione di memoria collettiva e memoria
personale (la mienneté).
Esattamente ciò che Croce aveva in mente quando parlava della Storia
come di un’autobiografia. Noi, e ciascuno di noi, siamo il combinato
disposto, la sommatoria di una infinità di storie e, come in un gioco di
matriosche, ad un ricordo fa eco un altro e così via, all’infinito[19].
In termini pratici, la posta in gioco dell’intera questione si traduce
nello sforzo, cruciale e decisivo per l’esistenza di ognuno, di
raccontare e raccontarsi la sua
propria storia. In tal senso è quasi scontato che si citi l’opera
monumentale di Proust. Ma, volendo mantenersi su toni e piani più
prosaici, sarà meglio soffermarsi ancora su un esperimento. Il prossimo
non riguarda uno smemorato[20],
ma dei bambini. Sono gli allievi di un asilo molto particolare,
ovviamente statunitense, la Bing
Nursery gestita dalla Stanford
University. In questo posto i genitori accompagnano ogni mattina i
propri figli sapendo che saranno sottoposti a test psicologici e prove
di vario genere, a seconda degli studi sviluppati dai ricercatori
dell’università. Data la gradevolezza degli ambienti, la cura degli
spazi e il grande numero di giocattoli, non hanno quasi mai problemi a
dare il loro assenso. Era il 1969, quando Walter Mischel iniziava
l’“esperimento dei marshmallow” della durata di 5 anni. Vi furono
sottoposti circa 500 bambini ai quali si chiedeva di scegliere se
mangiare un dolce subito oppure due dopo dieci minuti di attesa. Le
registrazioni delle telecamere presenti in sala mostravano come i
bambini che sceglievano di aspettare tentassero di “dimenticare” il
dolce incustodito sulla tavola. Non essendo presenti giochi né altri
oggetti, il loro non era certo uno sforzo da poco e per resistere
ciascuno inventava uno stratagemma: c’era chi fissava punti della stanza
lontani dal tavolo, chi teneva le mani una nell’altra e via dicendo. A
distanza di molti anni, gli sperimentatori hanno verificato che la
maggior parte di quei bambini si è realizzato ed ha avuto una carriera
lavorativa soddisfacente. Tra coloro che invece avevano scelto un
marshmallow subito, un certo numero aveva avuto problemi di droga e/o
con la giustizia. È chiaro che non c’era alcuna intenzione di
criminalizzare i bambini, neppure da adulti. L’esperimento sottolineava
semplicemente come la capacità di sopportare la tentazione in vista di
un bene maggiore nel futuro spesso paghi. Si stima che un individuo in
condizioni psicofisiche normali pensa al futuro con una media di 59
volte al giorno, cioè ogni 16 minuti durante la veglia[21].
Ed è precisamente questa la specificità umana: rispetto agli altri
animali il nostro cervello quando non è affaccendato va col pensiero al
futuro. Consideriamo ora la controprova: psicologi e psichiatri sanno
perfettamente che i soggetti depressi hanno completamente perso il senso
del tempo e del futuro. Ciò li espone fatalmente al rischio di diventare
preda di pensieri ossessivi, tra cui il desiderio di morire.
Recentemente è stato scoperto che intervenendo su di essi è possibile
aiutare a “riscrivere” il futuro di molti soggetti a rischio[22].
Al
termine di questo secondo excursus, stavolta non più sul terreno
dell’economia, ma a cavallo tra la psicologia ed un ambito di studi oggi
in forte ascesa, la psicobiologia[23],
è opportuno il riferimento al padre degli studi sulla genesi del
concetto di tempo in psicologia a partire dai suoi celebri studi sui
bambini; cioè Jean Piaget[24].
Senza scendere nei dettagli, è noto quali ne siano stati gli esiti: un
senso per così dire maturo del tempo viene sviluppato costruttivamente,
ovvero quando il bambino impara a pensare simultaneamente, a coordinare
le diverse velocità, cioè i diversi spostamenti che percepisce. Prima di
questo momento, il bambino pensa a se stesso nel mondo come all’origine,
alla fonte del tempo. O, detto in altri termini, è incapace di concepire
altri movimenti, altri tempi, altre velocità che non siano le sue.
Venute meno l’egocentricità e l’irreversibilità, il bambino impara a
lavorare sul tempo, a “percorrerlo” in avanti e indietro.
Prima
di passare oltre, una breve ricapitolazione: indagando l’usura nel
Medioevo, abbiamo scorto le radici di una mentalità moderna che
approccia al tempo diversamente dal passato. Che fa calcoli ed ipotesi
sul tempo, lo conta e lo
divide, lo scompone e lo razionalizza, lo misura e poi lo
usa. Abbiamo poi notato che la
progettualità è una specifica del senso che del tempo sviluppa la
coscienza umana. Il futuro è una dimensione a cui pensiamo di continuo
nell’arco di una giornata. Ma la nostra progettualità poggia sul ricordo
del passato, un ricordo mai definitivo e sempre aperto a essere
modificato – elastico per dirla altrimenti. Insieme, progetto e memoria
connotano la nostra personale identità. Tuttavia, e qui ripiombiamo
nell’attualità, a furia di rischiare il futuro con azzardate scommesse
finanziarie, esso sembra esserci sfuggito tra le mani, sparito,
evaporato. L’incapacità di offrire alternative e risposte alla crisi non
è altro che incapacità di immaginare il futuro, un futuro per tutti.
Nella deresponsabilizzazione collettiva che contraddistingue la nostra
epoca, la visione infantilistica del tempo ha giocato di sicuro un ruolo
tutt’altro che trascurabile.
Viaggiare è proprio utile, fa lavorare l’immaginazione
Tutto il resto è delusione e fatica.
Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario.
Basta chiudere gli occhi [...]. È dall’altra parte della vita.
(F. Célin, Viaggio al termine
della notte)
Il mondo è divenuto troppo piccolo per la pace
(P. Virilio, L’incidente del
futuro)
Gli
esiti: «L’altrove comincia qui»[25]
Immaginiamo la folle corsa di un’automobile – ma non necessariamente
quella dei prototipi costruiti per competere nei circuiti di Formula 1.
Risulta impossibile guardare fuori dal finestrino per osservare i
paesaggi che si attraversano. Somiglia più ad una incursione che non ad
uno spostamento, in pieno stile militare. Si percorrono le strade a
grande velocità, come se le si dovesse espugnare: il traffico nelle ore
di punta è in filigrana una guerra di movimento. In autostrada la scelta
delle corsie da impegnare è pura strategia; di cui il sorpasso
costituisce la principale espressione tattica[26].
Il paragone non deve stupire: trasporti, velocità e guerra procedono di
pari passo. Vincere uno scontro e prevalere in guerra hanno sempre
richiesto un’ottima capacità di sincronizzare l’attacco, di qualunque
tipo esso fosse (terrestre, marino o aereo). La sincronia, comunque, non
riguarda solo la guerra, ma è un attributo anche della pace o, meglio,
della civiltà; addirittura indice di perfezione quando è osservata,
colta, nei gesti coordinati tra loro di una coppia di danzatori o di una
intera squadra di nuoto sincronizzato. Sommate insieme, sincronia e
civiltà producono la disciplina. L’incremento nella produzione di
orologi, che, da un secolo a questa parte, non vengono più considerati
beni di lusso, sta lì a dimostrarlo. C’è di più: nel 1955, grazie agli
orologi al cesio sparsi in tutto il mondo, è sorto l’utc
– tempo coordinato universale – su cui si regolano tutti i fusi orari.
Non è solo questione di fusi e di orologi: l’impatto delle
telecomunicazioni è stato altrettanto potente. La circolazione
incessante di notizie, la possibilità di una diretta senza limiti, ma,
ancor più, l’interazione continua col pubblico stravolgono i canoni
della comunicazione – i suoi linguaggi ed i suoi tempi. Pertanto, se
tutto ad-viene in diretta
planetaria, nulla può veramente
sub-cede e, se ciascuno di noi è costantemente (in)seguito
dall’occhio indiscreto della telecamera o dello smartphone, più che
agenti, diventiamo attori. Il narcisismo imperante – di cui i
selfie sono solo l’ultima
ipostasi – è l’altra faccia, il completamento, del
voyerismo scandalistico, a cui
i talk show e i rotocalchi ci hanno ammaestrato. Insieme queste due
componenti sono il combustibile di alimentazione della socialità
odierna, una socialità versione light, trasparente e scintillante,
chiassosa ed ambigua, non troppo impegnativa né compromettente – in una
sola parola, social.
Profusione di informazioni, bombardamento mass mediatico, necessità di
accelerare le prestazioni, bruciando tappe e ogni tipo di resistenza,
alla ricerca del record. «Il messaggio non è il movimento del veicolo,
ma il movimento del movimento, il vettore della velocità»[27]
– scriveva esattamente trent’anni fa Paul Virilio. Parole che non
sorprendono affatto perché sintetizzano ottimamente la nostra
condizione. La rapidità che durante la Guerra Fredda si provava ad
imprimere, da entrambi i lati del Muro, alla produzione industriale e
alla sperimentazione scientifica – per intenderci, la corsa alla Luna e
prima, mentre il conflitto infuriava, la corsa all’atomica – è stata il
vero terreno di scontro politico tra i due blocchi. E tale è rimasta
anche quando il Muro è caduto: intuitivamente riusciamo ancora a
coglierlo, anche se individuare con precisione la posta in gioco della
partita che oggi si sta giocando è complicato. In estrema sintesi,
l’infrastrutturazione invasiva con cui è stata addomesticata la terra –
strade, ponti, porti, cavalcavia, gallerie, piste di atterraggio – così
da permettere prestazioni macchiniche ad alta velocità, si sta
progressivamente concentrando nei corpi umani che alla centrifuga della
velocità sono costantemente sottoposti. Perché possano durare e perché
possano reggere l’urto, perché si mantengano reattivi, è necessario
invaderli e riplasmarli dal didentro[28].
In un mondo che invoca disperatamente il sovvertimento dello
status quo, senza però
riuscire a produrlo, la vera rivoluzione è già in atto e passa
inosservata (o quasi). La bomba
genetica[29]
è scoppiata e sta fagocitando il vivente, con voracità sempre crescente,
ma microscopica, come microscopiche sono le protesi che dispensa:
nanotecnologie, microprocessori, i più recenti sviluppi della
claytronica[30];
e, guarda caso, il tutto mentre procede speditamente proprio quella
“vivisezione” e messa a frutto del tempo cui diedero avvio, molti secoli
orsono, gli usurai medioevali. Entro il 2020 si prevede la “scoperta”
degli attosecondi, l’ultima frontiera della «conquista del tempo”[31]
o, più correttamente, della sua cannibalizzazione. Nel circuito
diabolico «tecnologia-velocità-tecnica-accelerazione» la memoria è la
vera posta in gioco dell’azione politica. L’induzione silenziosa
all’oblio che subiamo costantemente è una forma di coercizione efficace
e morbida. Il lavoro di assemblaggio dei ricordi collettivi e personali,
fondamentale nella costruzione dell’identità di ognuno, non ha margini
di realizzazione. L’elaborazione del lutto è quanto di più lontano ci
sia dalla velocità e richiede tempi impossibili da preventivare. Quando
non lo si compie – Freud insegna – insorge la melanconia, una nevrosi in
cui l’io patisce un insostenibile sovrainvestimento libidico, che ne
minaccia la vita stessa. La maniera in cui il capitalismo sia riuscito a
mettere a frutto perfino il surplus di libido melanconico è una trovata
geniale, un capolavoro di acume e perfidia. La smaterializzazione del
medium ha lasciato orfano il
messaggio, che non c’è, è sparito, senza destare particolari ansie o
preoccupazioni presso gli agenti del regime dello spettacolo, i quali,
anzi, si sono ritrovati alleggeriti di un carico non indifferente. Alla
fase di elaborazione del messaggio hanno del tutto abdicato: sono gli
utenti che provvedono a riempirlo di contenuti e di emozioni. Non di
rado, radio e telegiornali danno conto di “sollevazioni popolari” o
“campagne dal basso” che hanno luogo sui
social
network. L’indignazione e lo
sdegno corrono insomma sul Web: ci si mobilita per la sorte di una donna
nigeriana condannata alla lapidazione o di una bambina indiana
barbaramente uccisa, lasciando che il palazzo di casa propria continui a
bruciare con i suoi abitanti ignari all’interno. La velocità è una
trappola con cui la realtà ci viene poco a poco sottratta, schermata. In
effetti, potremmo anche farne a meno oramai: perfino i prodotti della
terra possono essere, e vengono, clonati. Molto presto, le grandi
multinazionali che detengono la proprietà delle sementi avranno in pugno
l’intero mercato alimentare. Il dominio dei popoli, come sanno fin
troppo bene gli Africani, non ha bisogno necessariamente di armi ed
eserciti: basta molto meno!
Ecco
come la dipendenza diventa anestesia e l’anestesia una dipendenza:
insomma, l’estetizzazione spettacolare si fa regime e comanda la
sparizione di tutto ciò che offende il gusto per imperfezione delle sue
superfici e rozzezza. Il vero e unico programma di governo è la lotta
senza quartiere all’oscenità[32]
di cui la colonizzazione dei corpi dall’interno è lo stadio finale. A
furia di asportazioni e aggiunte, sferrate con chirurgica precisione
all’ambiente naturale, la Terra è stata ripulita e lisciata, spolpata
come un’anguria, per creare le condizioni favorevoli a raggiungere la
trasparenza totale. Non ci vorrà molto prima che l’orografia diventi un
lontano ricordo! Simile ad uno schermo, la realtà ora può riflettere per
intero la luce sprigionata dalla velocità: è la pista da corsa più
ospitale che ci sia[33].
Questo bagliore perpetuo, quasi paradisiaco, che annulla percezioni,
ricordi e memoria, realizza l’eternità extratemporale nel modo esatto in
cui l’avevano teorizzata Parmenide e poi, dopo di lui, Platone[34]
– lezione che il Medioevo cristiano non tarderà a recepire. L’antica
tradizione greca dava al termine
aeviternitas una forte carica vitale, giacché le
aeviternitas erano gli evi, le
epoche in cui si articolava la storia del mondo e dei suoi cambiamenti[35].
Non era ancora intervenuta la frattura del divenire, che sorgerà
successivamente, quando sarà necessario inquadrare la questione del
movimento all’interno dell’ontologia. Se l’essere è essenza, a cosa va
imputata la sua caducità? Nel problema si erano già imbattuti gli
Egiziani, che avevano fatto ricorso all’urobóro.
È l’immagine di un serpente che morde di continuo la sua stessa coda,
poi ripresa da Aristofane il quale definisce uno “strisciare” lo
scorrere delle stagioni. Ma il nesso del serpente col tempo è
riscontrabile fin dal poema di Gilgameš: l’animale ruba al protagonista la pianta dell’immortalità
che si era procurato per far rivivere l’amico morto e se ne ciba.
L’abbinamento col serpente suggerisce che la visione del tempo è
istintivamente perturbante; anzi, è in qualche modo il perturbante
stesso. Il rettile, come il tempo, non è un animale domestico, in tutto
e per tutto avvertito come familiare, ma con entrambi gli uomini hanno
pur sempre confidenza, vi si imbattono spesso. L’ambiguità umana
rispetto al tempo è riscontrabile anche tra gli esponenti del pensiero
teorico. Per Anassimandro le cose che esistono pagano la colpa di
esistere con la distruzione; mentre secondo Solone il tempo è il padre
di Dike perché conosce cosa è
avvenuto e cosa avverrà. L’ambivalenza del tempo è espressa con ancor
maggior forza dalla “posizione di cerniera” dell’associazione tra il dio
bifronte, Ianus, e il mese di
Gennaio, a cavallo tra due anni. Probabilmente è la funzione liminare
del tempo a rendere problematica una sua tematizzazione. Eppure
tentativi in tal senso ce n’erano stati: il
kairos, in latino tradotto con
il termine occasio o anche
momentum, è l’istante adatto a fare qualcosa, iconicamente
rappresentato come un fanciullo esile, capace di sgusciare via molto in
fretta e pressoché calvo, ad eccezione della fronte. Date la sua
rapidità e agilità, gli uomini sono costretti ad inseguirlo, ma, non
avendo punti cui appigliarsi, difficilmente riescono ad acciuffarlo. Per
Platone l’istante ha uno status molto particolare, che lo rende
inassimilabile al tempo: in quanto portatore di novità, il
kairos è piuttosto ciò che vi
conferisce senso, senza venirne assimilato[36].
Se la sua natura effimera lo rende impalpabile, è nella sostanza che
bisogna andare allora a cercare gli effetti del tempo. La teoria del
moto di Aristotele spiega che ogni cosa tende a tornare nel luogo
dell’elemento da cui proviene (se è fumo tenderà a salire in alto, dove
si trova l’aria; se è metallo cadrà in basso verso la terra di cui è
composto e così via). Se ne ricava che ogni ente obbedisce alla sua
struttura interna, secondo il principio di causalità finale. Ma se
questo è vero sempre, è impossibile che un qualsiasi ente si trovi dove
non dovrebbe essere e sia ciò che non potrebbe essere. Detto
diversamente: se A è A, A non può essere B. Si tratta del principio di
non contraddizione[37].
Cos’ha a che fare tutto questo col tempo? È presto detto: nel quarto
libro della Fisica si legge
«il tempo è il divenire stesso in quanto numerato secondo il prima e il
poi”. Dunque è sul tempo che si regge il principio. La sostanza si
trasforma in base alla sua natura, senza mai entrare in contraddizione
con se stessa. Il divenire è compimento – e non annichilimento – che
proprio il tempo rende possibile. Nulla più e meglio della teoria della
relatività speciale einsteiniana riesce a illustrare. A differenza di
quanto postulato dalla fisica newtoniana, non esistono riferimenti
spazio-temporali assoluti: la nozione di simultaneità universale è
falsa. La traiettoria di un oggetto, quindi il punto in cui lo si può
osservare in un dato momento t,
non è unico per tutti coloro che lo osservano; ma dipende dai punti in
cui si trovano. Vi è una interdipendenza molto stretta tra lo spazio ed
il tempo, che non possono mai essere scissi e pensati dunque come
separati. Dimostrandolo, Einstein chiariva che non è l’universo ad
essere immerso nello spazio-tempo, ma, al contrario, è quest’ultimo ad
esservi compreso all’interno[38].
Gli studi sulla relatività hanno letteralmente cambiato il corso della
storia, suscitando una profondissima eco sia nelle scienze che nella
cultura dello scorso secolo. Ancora una volta, il modo in cui l’uomo
affronta, studia e si rappresenta il tempo, esprime una certa visione
del mondo e di sé. Più una società è complessa, più i suoi processi di
“tempificazione” risulteranno stratificati e frazionati. La progressione
con cui, dalla metà del secolo scorso ad oggi, si è riusciti ad isolare
porzioni di secondo sempre più piccole si ripercuote nella
frammentazione dell’esistenza umana, oramai completamente aggiogate agli
strumenti di misura – calendari e orologi – veri e propri feticci del
mondo moderno, da noi vissuti come se fossero entità extra-umane e
totalmente indipendenti, secondo la felice intuizione di Norbert Elias[39].
L’inaridimento affettivo e sensibile delle nostre esistenze è un
paesaggio lunare che riporta alla mente i celebri dipinti di Salvador
Dalì. Proprio lui, nel biennio 1952-1954, sentì l’esigenza di aggiornare
il suo quadro La persistenza della
memoria[40]
del 1931 con La
disintegrazione della persistenza della memoria[41].
È forse un caso che lo scenario si faceva ancor più scarno e
rarefatto, oltre ad apparire inerme rispetto ad una forza nascosta che,
irresistibilmente, lo stava smaterializzando? In quella testa di pesce
esanime è racchiusa la carcassa di quella
Lebenswelt cui l’uomo dimentica sempre più spesso di appartenere e
di dover custodire. Ferita da troppi lutti, la natura se ne resta muta:
il suo lutto non celebra il fatto di essere muta, «perché da sempre, ciò
che la rende triste, e una volta rattristata la priva delle parole, ciò
che le impedisce la parola, non è un mutismo né l’esperienza di una
impotenza, un non-saper-dare-il-nome, ma è innanzitutto il fatto di
ricevere il nome”[42].
In un
mondo che non riserva più sorprese, perché è già stato tutto mappato,
rilevato e fotografato, l’auspicio che potrebbe salvarci è quello di
smarrirci, smarrire la strada, di perderci nel «cammin di nostra vita”,
per fare anche noi questa meravigliosa scoperta: «Strada facendo, i
sogni di speranza e liberà che credevo sepolti tornano a vivere.
Possibilità che consideravo chimeriche sono di nuovo possibili, alla
portata di tutti gli uomini di cuore. […] La strada autentica ci
modifica”[43].
Di questo pellegrinaggio che non accenna mai a finire, un naufragio che
non approda a nessun lembo di terra mai, la filosofia è maestra
indiscussa. Raggiungere la sua Itaca è, come dice il poeta, l’ultimo
degli scopi.
GIUGNO 2014
Bibliografia
- De
Kerckhove (a cura di) La conquista
del tempo, Editori Riuniti, Roma 2003.
- N.
Elias,
Saggio sul tempo, Il Mulino,
Bologna 1986.
- L.
Gallino, Finanzcapitalismo,
Einaudi, Torino 2013.
- L.
Geymonat, Storia del pensiero
filosofico e scientifico, Garzanti, Milano 1971.
- C.
Hammond, Il mistero della
percezione del tempo, Einaudi, Torino 2013.
- M.
Hardt, A. Negri, Impero,
BUR,
Milano 2007.
- J.
Le Goff, La nascita del Purgatorio,
Einaudi, Torino 1982.
- J.
Le Goff, La borsa e la vita:
dall’usuraio al banchiere,
Laterza, Bari 1987.
- P.
Redondi, Storie del tempo,
Einaudi, Torino 2007.
- L.
Ruggiu, (a cura di) Filosofia del
tempo, Mondadori, Milano 1998.
- P.
Virilio, L’orizzonte negativo.
Saggio di dromoscopia, Costa & Nolan, Genova 1986.
- P.
Virilio, L’incidente del futuro,
Raffaello Cortina editore, Milano 2002.
- P.
Virilio, Città panico,
Raffaello Cortina editore, Milano 2004.
[1]
Recentemente il pattugliamento e la sorveglianza hanno
massicciamente interessato anche i mari: il nome
Frontex dovrebbe dire
qualcosa soprattutto a noi italiani-europei. La breve citazione
seguente mi sembra esprimere e condensare perfettamente la
logica che anima la straordinaria sollecitudine con cui gli
Stati guardano (a)i loro confini. «L’Impero non può far altro
che isolare, dividere e segregare. Il capitale imperiale deve
comunque attaccare i movimenti della moltitudine con implacabile
determinazione: pattuglia i mari e le frontiere; segrega e
divide all’interno di ogni paese; nel mondo del lavoro, aggrava
le fratture e rafforza le linee di divisione tra le razze, i
sessi, le lingue, le culture ecc. E, tuttavia, deve fare
attenzione che queste misure non limitino eccessivamente la
produttività della moltitudine, poiché l’Impero dipende dalla
sua potenza».
M. Hardt, A. Negri, Impero,
Bur, Milano 2007, p. 369.
[2]
Vedi nota 13.
[3]
In Contro l’usura che come la poesia successiva traggo dall’appendice
del testo del medievista Jacques Le Goff,
La borsa e la vita:
dall’usuraio al banchiere,
Laterza, Bari 1987.
[4]
I concili Lateranensi i,
iii e
iv rispettivamente
celebrati nel 1139, 1179 e 1215 ed il secondo concilio di Lione
del 1274, oltre al concilio di Vienna del 1311.
[5]
Dal capitolo di Elviria (300 d.C.), a Nicea (325 d.C.) fino a
Clichy (626 d.C.). Nei primi due casi la proibizione dell’usura
riguardava i chierici, nel terzo invece fu estesa anche ai
laici.
[6]
Dal vescovo di Parigi Pietro Lombardo a Guglielmo di Auxerre,
peraltro anche lui vescovo di Parigi; da San Bonventura a San
Tommaso d’Aquino.
[7]
L’eccezionalità e la portata di questa innovazione vengono
analizzate nelle più diverse implicazioni teologiche e
culturali, nonché chiaramente storico-politiche, da Le Goff ne
La nascita del Purgatorio.
Einaudi, Torino 1982.
Ai fini del discorso che si sta qui conducendo, basteranno solo
pochi rilievi. L’introduzione di un luogo intermedio tra la
beatitudine del Paradiso e le fiamme dell’Inferno, oltre a
stravolgere nettamente, ridefinendoli, i rapporti tra la
comunità dei fedeli e i defunti, attesta il farsi strada di una
logica più complessa, di una mentalità, cioè, capace di mediare.
Legando sempre più i destini dei vivi e dei morti, il Purgatorio
assegna alla Chiesa un importantissimo ruolo di mediazione, nel
determinare – qualitativamente e quantitativamente – i suffragi
da destinare alle anime ancora non ammesse a godere della
presenza divina. Per di più, la “terzietà” del Purgatorio pone
non pochi problemi all’organizzazione dei quadri
spazio-temporali dell’immaginario medioevale giacché: «Quando la
società è tutta impregnata di religione […] mutare la geografia
dell’aldilà […], modificare il tempo di ciò che viene dopo la
vita, e quindi la sintonia tra il tempo terrestre, storico, e
quello escatologico […] significa operare una lenta ma
sostanziale rivoluzione mentale. Significa, letteralmente,
cambiare la vita».
[8]
È sempre Le Goff che dice: «Ho anche avanzato l’ipotesi
provocatoria che il Purgatorio, permettendo la salvezza
dell’usuraio, abbia contribuito alla nascita del capitalismo.
[…] Una delle funzioni del Purgatorio è stata in effetti quella
di sottrarre all’Inferno categorie di peccatori che, per la
natura e la gravità della loro colpa o per la tradizionale
ostilità alla loro professione, non avevano in precedenza alcuna
possibilità di sfuggirvi».
Ibidem, p. 347.
[9]
In essa Marx scorgeva la logica ultima della produzione
capitalistica: sul lungo periodo i profitti decrescono e i
ricavi complessivi, a fronte degli investimenti globalmente
realizzati, sono tutt’altro che incoraggianti ed accettabili.
[10]
Il fatto che allo scadere del loro mandato alcuni politici –
anche di fama, Tony Blair per esempio – diventino consulenti di
grandi agenzie finanziarie o colossi dell’energia, e, viceversa,
che banchieri di peso assumano ruoli politici – in Italia, solo
recentemente Corrado Passera e Alessandro Profumo hanno spiccato
il salto della barricata – è emblema quanto meno di un rapporto
“privilegiato” tra i due mondi, giornalisticamente noto come
“sistema delle porte girevoli”.
[11]
Scrive Giorgio Agamben in un articolo apparso su «La Repubblica»
di due anni fa: «Il denaro non è che un credito e su molte
banconote (sulla sterlina, sul dollaro, anche se non - chissà
perché, forse questo avrebbe dovuto insospettirci- sull’euro),
c’è ancora scritto che la banca centrale promette di garantire
in qualche modo quel credito. […] In questo modo, governando il
credito, governa non solo il mondo, ma anche il futuro degli
uomini, un futuro che la crisi fa sempre più corto e a
scadenza». L’articolo è reperibile all’indirizzo:
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2012/02/16/se-la-feroce-religione-del-denaro-divora.html.
[12]
Il riferimento è all’omonimo saggio di Luciano Gallino, molto
utile per comprendere le leggi vigenti nella finanza, pubblicato
da Einaudi lo scorso anno.
[13]
E non a caso l’economista Keynes parlava di capitalismo-casinò.
[14]
Film del 2010 diretto da Oliver Stone, continuazione di
Wall Street (1987) con
cui il regista aveva voluto avanzare una forte critica al mondo
della finanza, di cui il protagonista, impersonato da Douglas è
un abile neofita. Nel sequel il racconto riprende dopo la sua
uscita di prigione in seguito all’incriminazione per bancarotta.
[15]
In fondo si concentra tutta qui la differenza sostanziale tra
economia del dono ed economia di mercato. Prestito e fiducia nel
secondo caso sono meri eufemismi, parole snaturate del loro
significato originario – soprattutto la seconda.
[16]
M. Kundera, La lentezza, Adelphi, Milano 1995, pp. 136-137.
[17]
All’interno dell’ampia e prolifica bibliografia di Ricœur
possiamo qui citare La
memoria, la storia e l’oblio del 2000 e il volume postumo
Ricordare, dimenticare,
perdonare in cui sono raccolti i testi di due conferenze
tenute dall’autore tra il 1996 ed il 1997.
[18]
I risultati degli studi sono presentati analiticamente in un
articolo del 1987 apparso sulla rivista specializzata «Applied
Cognitive Psychology», dal titolo
Time went by so slowly:
Overestimation of event duration by males and females. Ne dà
conto, commentandoli, C. Hammond nel suo
Il mistero della percezione del tempo, Einaudi, Torino 2013, pp.
218-220.
[19]
Gli animali ricordano? Se si scoprisse che possono ricordare
allora ci sarebbero buone possibilità di rintracciare
parallelamente in essi una progettualità del futuro. Studi
recenti hanno mostrato che alcuni animali presentano memoria: il
delfino ha una buona memoria di lavoro ed è per questo che è
capace di riprodurre gli esercizi appresi dagli ammaestratori.
Ma i suoi ricordi si limitano al passato prossimo. Scimpanzé e
scoiattoli sono in grado di trovare il posto esatto in cui
avevano nascosto il cibo e addirittura un tipo particolare di
uccello californiano,
l’Aphelocoma californica, sarebbe capace di ricordare sia
cosa ha nascosto, ovviamente dove e poi anche se e quali animali
l’hanno vista mentre lo faceva. Ma non è ancora abbastanza per
credere ad una vera e propria capacità di ricordo e con essa di
progettualità futura, come ha mostrato la storia dell’uomo senza
ippocampo.
[20]
In proposito, merita di essere segnalato il piccolo racconto di
Borges intitolato Funes el memorioso e dedicato ad un uomo che aveva il problema
opposto rispetto alla persona di cui s’è detto prima; Funes cioè
ricordava ogni cosa.
[21]
Lo studio, condotta da A. D’Argembeau, O. Renaud, M. Van der
Linden, è stato pubblicato nel volume n. 25 di
Applied Cognitive
Psycholgy edito nel 2011. Lo menziona C. Hammond,
cit., p. 205.
[22]
L’articolo è di E. Holmes ed è stato pubblicato nel 2007 sulla
rivista specializzata «Journal of Behaviour Therapy and
Experimental Psychiatry». Ne dà conto C. Hammond, cit., pp. 226-231.
[23]
Grazie alla cooperazione di biologi, neurologi, psicologi,
fisiologi ecc.. siamo oggi in grado di individuare il contributo
specifico di alcune aree celebrali nella nostra percezione del
tempo: al cervelletto compete la percezione delle frazioni
temporali minori; la memoria breve o di lavoro è localizzata
nell’area attorno al lobo frontale; la corteccia insulare
anteriore legge instante i nostri stati emotivi e ciò
spiegherebbe perché le emozioni influenzino il modo di vivere lo
scorrere del tempo; infine: i gangli basali – che sono due, uno
per emisfero – cooperano a tempificare gli eventi che durano più
di due secondi. Operando attraverso la dopamina controllano i
movimenti e permettono per esempio di mantenere la posizione
seduta. La dopamina è proprio ciò che viene meno nel morbo di
Parkinson, che distrugge le cellule che la producono. È forse un
caso che i malati di Parkinson abbiano difficoltà a stimare il
tempo?
[24]
Sotto l’influenza della filosofia bergsoniana, Piaget
(1896-1980) abbandona la biologia per dedicarsi agli studi sulla
psicologia dell’infanzia. Dedicherà tutta la sua vita a studiare
la formazione dei concetti di spazio, causalità e tempo nei
bambini. È unanimemente ritenuto il padre dell’epistemologia
genetica. Tra i suoi testi più importanti merita di essere
citato Lo sviluppo della
nozione di tempo nel bambino (trad. it. 1979), che è
oltretutto quello al quale qui ci si riferisce.
[25]
È il sottotitolo che Virilio ha scelto per il suo testo del 2004
Città panico, che in
Italia è uscito nello stesso anno presso l’editore Cortina.
[26]
Da qualche tempo una nota casa automobilistica tedesca
reclamizza uno dei suoi modelli sportivi con lo slogan
«Benvenuto domani», presentandolo inoltre come una “estensione
dei sensi” del guidatore grazie ad una ricca strumentazione
tecnica, capace di adattarsi alle condizioni stradali, offrendo
prestazioni di alta qualità a basso consumo, e di assicurare una
connessione Internet veloce del veicolo e di tutti i dispositivi
presenti a bordo.
[27]
P. Virilio, L’orizzonte negativo. Saggio di dromoscopia, Costa & Nolan, Genova
1986, p. 140.
[28]
Il boom della chirurgia plastica e l’accessibilità della
pornografia sono le filiere della rimodulazione normalizzante
dei corpi. Mostrando corpi e atti perfetti, la pornografia
svende ai fruitori il loro stesso godimento, ma glielo
restituisce privato di quell’anima che lo fa vivere, il
desiderio. La coazione a ripetere che ne deriva è l’unico
approdo possibile per quella che è a tutti gli effetti una
rimodulazione paranoica della libido. Invece che aprire al
mondo, schiudendo altri mondi, la facoltà del desiderio è
alterata, fino a diventare strumento profondamente
disumanizzante. Il corpo perde così ogni interesse per il fuori
e si richiude in se stesso. Ciò lo fa sordo agli stimoli che
riceve, i quali lo attraversano senza sortire effetti perché
manca la chiave per interpretarli, l’esperienza del mondo, di
cui proprio il corpo rappresenta il più autentico teatro.
Seguendo Foucault, potremmo dire che il corpo è l’esatto opposto
di qualsiasi utopia. È cioè mera
topia.
[29]
P. Virilio ne parla in una intervista reperibile al seguente
indirizzo:
http://www.filosofia.rai.it/articoli/paul-virilio-la-terza-rivoluzione-tecnologica-aforismi/5098/default.aspx.
[30]
http://it.wikipedia.org/wiki/Claytronica.
[31]
Cfr. D. De Kerckhove (a cura di),
La conquista del tempo,
Editori riuniti, Roma 2003.
[32]
L’etimologia latina della parola
obscènus indica un
duplice significato originario: brutto, informe e anche
portatore di malaugurio, infausto.
[33]
A pag. 159 del già citato
Saggio sulla dromocrazia di Virilio si legge: «Se la piazza
è dunque il luogo del
demos, la pista è quello dell’invenzione del
dromos, in cui
l’eterno ritorno delle origini trova nuova forma nella
rivoluzione di uno spettacolo “transpolitico” che porta in germe
le tirannie di un impero in cui gli ideali logistici
sostituiranno progressivamente le ideologie politiche della
democrazia ateniese».
[34]
Ambedue hanno sostenuto l’impossibilità di ammettere il divenire
per l’essere, che in quanto è – affermava Parmenide – non può
che essere necessariamente
se stesso, quindi essere. Platone, distinguendo tra idee
eterne e mondo sensibile, li concepiva rispettivamente come
modello perpetuo e copia mortale. Caratteristica
dell’Iperuranio, sede delle Idee, è quindi l’eternità, di cui il
tempo rappresenta l’immagine caduca che domina in Terra.
[35]
L’articolo Aion Chronos Kairos. L’immagine del tempo nel mondo greco e romano,
in appendice alla raccolta di saggi curata da L. Ruggiu
Filosofia del tempo, Mondadori, Milano 1998, compie una panoramica
interessante ed esaustiva sulla concezione greco-romana della
temporalità.
[36]
La posizione platonica sul tema è spiegata in maniera chiara da
G. Casertano ne L’istante: un tempo fuori del tempo, secondo Platone, un saggio
presente nella raccolta citata alla nota precedente.
[37]
La difficile questione è esaminata da E. Severino ne
Il “risultato” e il tempo
in Filosofia del
tempo, cit.
Per ulteriori e generali approfondimenti sulle connessioni tra
tempo e sostanza nell’ontologia classica, si veda anche
Tempo ed eternità di
E. Berti.
[38]
Cfr. il capitolo che L. Geymonat dedica interamente ad Albert
Einstein nel volume quinto della sua
Storia del pensiero
filosofico e scientifico, Garzanti, Milano
1971.
[39]
«In particolare, nelle società urbane, gli orologi vengono
costruiti e usati in un modo che ricorda da vicino la
costruzione e l’uso delle maschere in molte società pre-urbane:
si sa che sono state fatte dagli uomini, ma vengono vissute come
se rappresentassero una esistenza extra-umana. Le maschere
sembrano essere le incarnazioni degli spiriti. Gli orologi
appaiono come l’incarnazione del “tempo”; la frase convenzionale
che si usa nei loro confronti è: indicano il tempo? La domanda
è: cosa indicano esattamente gli orologi?».
N. Elias, Saggio sul
tempo, Il Mulino, Bologna 1984, p.141.
[40]http://www.moma.org/collection/browse_results.php?criteria=O%3AAD%3AE%3A1364%7CA%3AAR%3AE%3A1&page_number=5&template_id=1&sort_order=1.
[41]
http://thedali.org/exhibit/disintegration-persistence-memory/.
[42]
J. Derrida, L’animale che dunque sono, Jaca Book, Milano 2009, p. 57.
[43] P. Sansot, Passeggiate. Una nuova arte del vivere, Pratiche, Milano 2001, p. 9.