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Ottobre 2014

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ECOLOGIA DEL TEMPO

Massimo Ammendola

 

Estratto dalla tesi di Storia contemporanea Ecologia del tempo: storia del tempo di lavoro in età contemporanea, di cui fanno parte la premessa e il primo capitolo, Un inquadramento storico ed ecologico.

 

Dopo un tempo di declino viene il punto di svolta.

La luce intensa che era stata scacciata ritorna.

C’è movimento, ma non è determinato per violenza...

il movimento è naturale, sorge spontaneamente.

Perciò la trasformazione di ciò che è invecchiato diventa facile.

Il vecchio viene rifiutato e ad esso subentra il nuovo.

Entrambe le misure sono in accordo col tempo;

perciò non me ne risulta alcun danno.

(I Ching)

 

Premessa

Questa ricerca vuole indagare un tema storico non molto battuto negli ultimi decenni in Italia, rispetto agli studi esteri invece esistenti: il tempo di lavoro.

Un’indagine su un argomento del genere presenta subito alcuni problemi, poiché il tempo non è uguale per tutte le tipologie di lavoro, variandone la durata, ieri come oggi, in base al comparto produttivo, in base alla stagione lavorativa, in base ai cicli economici. Il pericolo di dispersione in mille rivoli, tanti quanti i tipi di lavoro e le relative tempistiche, obbligano chi fa ricerca a osservare e riflettere sullo schema generale che segue il lavoro, seguendo anche i provvedimenti adottati anche dal punto di vista legislativo (qualora vengano rispettati, ovviamente), al fine di comprendere il fenomeno.

Dal punto di vista metodologico, dopo un inquadramento generale che illustri da quale percorso storico proviene il tempo di lavoro e da quali poteri è stato controllato e con quali conseguenze sull’uomo e sulla natura, mi soffermerò successivamente ad approfondire il tema in età contemporanea, facendo luce sui contesti economici e sulle conseguenze sociali del tempo di lavoro che hanno portato alla odierna concezione del lavoro, plasmata da secoli e secoli di indottrinamento e violenza, in una battaglia per ora vinta dal potere industriale: «In tutti questi modi – con la divisione del lavoro, la sorveglianza della manodopera, le multe, le campane e gli orologi, gli incentivi in denaro, le prediche e l’istruzione, la soppressione delle feste e degli svaghi – furono plasmate le nuovi abitudini di lavoro e fu imposta la nuova disciplina del tempo. Talora ciò richiese parecchie generazioni e possiamo dubitare che sia mai completamente realizzato»[1].

Il sistema industriale di fabbrica organizzato dal capitalismo per produrre merci su una scala incomparabilmente più vasta rispetto al passato ha inaugurato un mutamento epocale nella appropriazione del tempo di vita degli uomini. Ciò costituisce una gigantesca forma di privatizzazione della vita umana da parte di una minoranza dominante. Viviamo in un duplice asservimento della natura al sistema economico: quella del corpo vivente degli operai e quello dell’ambiente.

A noi spetta quindi il compito di interpretare e rileggere con un diverso orizzonte culturale, e con nuove domande storiografiche, il gigantesco processo di appropriazione del tempo, umano e naturale, che le èlite industriali hanno avviato durante la rivoluzione industriale e stanno perseguendo in maniera sempre più capillare e oppressiva oggi.

 

Un inquadramento storico ed ecologico

Il tempo di lavoro nella storia dell’uomo è stato sempre legato al potere: chi lo esercita decide quanto gli uomini e le donne a lui sottoposti devono lavorare durante una giornata. In verità, il governo dei ritmi temporali di tutte le attività umana, non solo quelle lavorative, è stato in mano a chi deteneva il potere, attraverso innumerevoli cambiamenti e disciplinamenti.

Quello che è certo, è che la modifica dei ritmi vitali umani non è mai stata, e si spera mai sarà, senza contrasti e resistenze. L’arrivo al tempo di lavoro della fabbrica in età industriale è stato preceduto da un lungo processo culturale, politico ed economico di trasformazione antropologica dell’uomo e del suo tempo. Potere politico, potere religioso, potere economico, già da secoli si impadronivano del tempo umano, plasmavano e regolavano le vite umane.

Un primo disciplinamento del tempo è quello degli ordini monastici, che imponevano ai propri monaci rigidi obblighi, come nella regola di San Benedetto, con giornate scandite dal suono delle campane, con una precisa successione degli impegni, che di certo non favoriva la spontaneità della vita: «L’ambiente monastico soprattutto […] è stato il grande maestro dell’impiego del tempo»[2].

Jacques Le Goff ci ha anche raccontato ciò che accadde nel Medioevo, quando l’etica del lavoro prodotta dall’espansione del commercio iniziava a considerare il tempo come denaro, gettando le basi dell’elaborazione moderna astratta e meccanica del tempo: con l’invenzione e la diffusione sociale dell’orologio, il tempo diventa invisibile ed esterno all’esperienza umana, strumento di ordine e di controllo sociale da parte delle classi dominanti e del potere politico comunale[3]. Si costruisce un tempo irrigidito, meccanico, strumento di dominio sui corpi, una nuova fisica del dominio: negli ospedali, negli eserciti, nelle istituzioni formative, si diffondeva un ordine disciplinante che plasmava spazio e tempo degli individui[4].

Questa visione del tempo, astratto e misurabile, è in linea con le teorie scientifiche e filosofiche degli anni successivi, da Galileo a Cartesio, che vedranno uomo e natura come un insieme di parti, scisse dualisticamente, e che in un lungo percorso hanno portato a compimento la separazione dell’uomo dal mondo esterno, e quindi dalla natura, allontanando dall’interconnessione con tutte le forme vitali, dall’unità col tutto che è stata riportata negli ultimi decenni in auge dalla cultura ecologica ed olistica[5].

Dal Medioevo due diversi poteri iniziarono a combattere per controllare il tempo degli uomini, quello dei mercanti e quello della Chiesa: i mercanti prestavano soldi a usura speculando sul tempo, facendone una fonte di guadagno, mentre la Chiesa si opponeva, contraria a questa prassi che prevedeva un’appropriazione, per fini privati, di un bene come il tempo, che era di tutti, poiché proveniente da Dio. Questo grande conflitto, che segna un’intera epoca, si concluderà con un compromesso che accontenta entrambe: la Chiesa attenuò le condanne religiose ai mercanti, e nel contempo si adattò alle regole di mercato, da cui ebbe immediati e duraturi benefici.

Lo scontro sul tempo degli uomini, tra Chiesa e Capitale, tornò ad accentuarsi con l’Illuminismo e la Rivoluzione industriale: la battaglia per la laicizzazione del calendario, con l’eliminazione di molte feste religiose al fine di recuperare giorni lavorativi e quindi produttivi, arriva al suo apice nel Settecento, con gli Stati europei che reclamano e ottengono una drastica riduzione, poiché vedono come uno spreco i giorni di festa (e quindi di riposo) di fronte ai miglioramenti tecnologici dei mezzi di produzione e con il crescente allargamento dei mercati, scatenando così una delle condizioni per il decollo delle economie industriali. E, come accennato nella premessa, questa sottrazione di giornate di festa ai lavoratori non fu un evento pacifico e “naturale”, ma andò avanti tra mille ostacoli e ribellioni[6]: un lento, disumano e violento processo di assoggettamento dei bioritmi umani con cui uomini, donne e bambini sono stati soggiogati a regole e ritmi di fabbrica, con punizioni anche corporali per piegare fisico e mente, per costringerli negli spazi chiusi della fabbrica, in interminabili giornate di lavoro scandite da ritmi di lavoro non più autodecisi, ma indotti dalle macchine. «In effetti, in tutte le epoche passate, per quanto asservito, reso intenso e penoso dal controllo diretto di un qualche padrone, il lavoro di uomini e donne si era sempre servito di strumenti, ma mai aveva dovuto servire delle macchine dotate di un proprio ritmo, di una proprio temporalità»[7]. In età preindustriale, quindi, erano comunque gli uomini a determinare la lunghezza della propria giornata di lavoro, alternando intensi periodi di attività a periodi di riposo ed ozio, seguendo i ritmi e i tempi della natura, seguendo anche una lentezza che oggi è totalmente estranea, nell’epoca dell’ipervelocità.

 

Marx e il tempo di lavoro: la fonte del plusvalore

È Marx a dedicare al tempo di lavoro un intero capitolo (l’ottavo) del libro I de Il Capitale: «La giornata di lavoro si divide in tempo di lavoro necessario e tempo di pluslavoro e il saggio di plusvalore è dato dal rapporto tra queste due grandezze. La sua lunghezza complessiva, tuttavia, non è mai definita una volta per tutte»[8]. E il plusvalore diventa centrale in un’economia industriale in cui il valore di scambio delle merci prevale sul loro valore d’uso, definitivamente: così il prolungamento della giornata di lavoro, in alcuni casi sfiorando anche le 18 ore al giorno, facendo coincidere il riposo con il sonno notturno, placa solo in parte la brama del capitalista che sfrutta il lavoratore, con quest’ultimo che, per la prima volta nella storia, non è di proprietà del padrone (come gli schiavi), né è proprietario dei mezzi di produzione o delle materie prime (come gli artigiani), ma è proprietario solo della sua forza lavoro e del tempo di utilizzo della stessa; con il capitalista che vorrà aumentare il tempo di lavoro a dismisura anche per recuperare gli investimenti fatti nelle nuove macchine nel periodo più breve possibile.

Per fortuna, la società reagisce a questo attacco alla vita da parte dei capitalisti emanando leggi che limitano la giornata di lavoro di donne e bambini, ma c’è anche la controreazione degli industriali, che tenteranno, dove non potranno più aumentare il tempo di lavoro, di aumentare l’intensità, condensando nello stesso tempo ritmi di lavoro più elevati. Nella Gran Bretagna dell’Ottocento, nel pieno della rivoluzione industriale, dunque, il tempo di lavoro è evidentemente l’unica leva del plusvalore, e quindi la fonte dell’accumulazione capitalistica.

Ma Marx aggiunge anche un’altra considerazione fondamentale: «Quanto più cresce la forza produttiva tanto più può essere abbreviata la giornata lavorativa, e quanto più viene abbreviata la giornata lavorativa tanto più potrà crescere l’intensità del lavoro […] Date l’intensità della forza produttiva del lavoro, a parte della giornata sociale lavorativa necessaria per la produzione materiale sarà tanto più breve, e la parte di tempo della libera attività mentale e sociale degli individui sarà quindi tanto maggiore quanto più il lavoro sarà distribuito proporzionalmente su tutti i membri della società capaci di lavorare»[9].

Ciò riporta la nostra attenzione al tema della riduzione del tempo di lavoro grazie al miglioramento tecnologico che il capitalismo ha continuato ad apportare al sistema economico e produttivo, ma che non ha prodotto la liberazione dal lavoro che molti avevano ipotizzato: la battaglia è ancora aperta.

 

Il tempo di lavoro della natura

Marx evidenzia poi che è Adam Smith a inaugurare la scienza economica moderna, l’Economia politica, proprio mettendo il lavoro umano alla base della misurazione della ricchezza: «Il lavoro è dunque la misura reale del valore di scambio di tutte le merci […]. Il lavoro è il primo prezzo, l’originaria moneta d’acquisto con cui si pagano tutte le cose»[10].

Così facendo si attua «la più grande rimozione del ruolo della natura nel processo di funzione delle merci»[11]. Si esclude in sostanza ogni ruolo e funzione della natura nel processo di creazione dei beni, instaurando un dogma che ancora oggi tiene, nonostante l’evoluzione del pensiero ecologico: tutto ciò che fa parte del mondo fisico, e non è riducibile in forma di merci, o fa parte della giornata di lavoro degli uomini, non ha valore. Il lavoro viene messo al centro dell’economia, nascondendo il ruolo fondamentale con cui la natura coopera con gli uomini in ogni attività produttiva, attraverso l’energia del sole, l’acqua, gli alberi, le piante, ecc., tutti quei beni naturali che potremmo sintetizzare sotto il concetto di “beni comuni”, dal carattere pubblico, disponibili direttamente e gratuitamente.

Marx prosegue su questa linea formulando il concetto di «tempo di lavoro socialmente necessario» per misurare il valore che c’è nelle merci, che diventa una sorta di moneta con cui valutare qualunque ricchezza. E con tale misurazione risulta definitiva l’eliminazione del ruolo che la natura viene a svolgere nel processo di produzione. Dimenticando il ruolo della natura nell’economia, oltre a rimuovere il disvalore dell’inquinamento che il capitalismo esternalizza nella natura senza dargli alcun peso (altra questione fondamentale), si dimentica anche il tempo di lavoro della natura, dato che quest’ultima impiega milioni di anni a produrre il petrolio, solo per fare l’esempio più lampante, risorsa che noi consumiamo senza considerazione e limitazione alcuna, bruciando irreversibilmente materia fossile creata dalla Terra migliaia di anni. Facendo un altro paragone, non si dà peso alla chimica del suolo che trasforma il seme in spiga, ma è il lavoro di mietitura di contadino che gli dà valore, si guarda solo al tempo di lavoro umano.

La Terra ci mette a disposizione un cospicuo numero di risorse che ha un lento tempo biologico di crescita, che viene ora sottratto e messo a servizio di pochi potenti gruppi multinazionali per scopi produttivi. «La scala temporale della modernità entra in collisione con la scala temporale che governa la vita e la terra. […] Il tempo industriale è apertamente in contrasto con il tempo geologico»[12].

Tutto il sistema economico, che ha come unico fine la produzione di profitto, ha la possibilità di farlo in queste modalità solo grazie al lavoro immenso e non pagato dell’ecosistema terrestre, che è finito, non infinito, così come quindi infinite non sono le risorse che esso ci offre[13]. Gli ecosistemi naturali svolgono quindi un ruolo economico che non viene valutato, ma in realtà tutte le risorse terrestri posseggono un valore economico.

«L’uso crescente delle macchine, a partire dalla rivoluzione industriale, non è che uno sforzo continuo, su una scala sempre più vasta, di superare i tempi della natura per rendere più veloce il processo di produzione di merci. […] Si è trattato di sostituire un tempo di lavoro naturale, lento, subordinato ai vincoli biologici del corpo umano o animale, con un lavoro svincolato dai limiti della natura. Le macchine non sono altro che sostituzione di tempo naturale con tempo meccanico»[14].

 

Dalla rivoluzione industriale ad oggi

A partire dalla rivoluzione industriale la lunghezza dell’orario di lavoro è stato una delle cause più importanti del conflitto sociale: oggi ci risulta difficile comprendere la forza delle passioni e della rabbia che l’abbassamento del tempo di lavoro ha suscitato nelle passate generazioni operaie, a partire da quelle 15-16 ore quotidiane contro cui è stata opposta una vera e propria resistenza, così come la definisce Polanyi, ovvero la resistenza della società contro il processo di industrializzazione: «Mentre l’organizzazione mondiale dei mercati mondiali delle merci, dei mercati mondiali del capitale e dei mercati mondiali della moneta sotto l’egida della base aurea davano un impulso senza pari al meccanismo dei mercati, un movimento dotato di profonde radici sorgeva per resistere agli effetti perniciosi di una economia controllata dal mercato. La società si proteggeva dai pericoli inerenti ad un sistema di mercato autoregolantesi, e questa è una caratteristica generale della storia dell’epoca»[15]. La resistenza si tramutò presto in una vera e propria offensiva per ottenere la riduzione dell’orario di lavoro: un lungo e aspro conflitto della ragione contro la forza, che ha scavato un solco profondo tra le classi, ma è stato decisivo per l’ottenimento di una diversa civiltà del lavoro. È stata forse per la classe operaia l’unica utopia concreta, l’unico obiettivo che sembrava impossibile raggiungere e che al contrario, di volta in volta, veniva raggiunto.

«Si è trattato di un processo avvenuto attraverso tre grandi campate: la prima per l’ottenimento delle 10 ore quotidiane di lavoro su sei giorni alla settimana, la seconda per le 8 ore al giorno e le 48 settimanali, la terza per 8 ore su cinque giorni e 40 alla settimana. Il primo traguardo fu raggiunto in tempi diversi a seconda dei paesi. Negli Stati Uniti le 10 ore al giorno furono raggiunte nel decennio Ottanta del ‘800; nel Regno Unito già nel 1870 erano la regola più diffusa. Più tardi seguirono la Germania (tra il 1900 e 1910), la Francia (alla fine del primo decennio del xx secolo) e l’Italia (tra il 1905 e il 1915). Il secondo obiettivo delle 8 ore al giorno su sei giorni invece raggiunto tra il 1918 e il 1920, in seguito agli sconvolgimenti della prima guerra mondiale e alle suggestioni della rivoluzione bolscevica. Le 40 ore settimanali con il weekend libero furono infine il portato delle mobilitazioni operaie degli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso. Ciò che vale la pena di sottolineare è che le successive conquiste sono avvenute, salvo rare eccezioni, senza la diminuzione corrispettiva della retribuzione, anzi in molti casi con un suo momento (per esempio all’indomani della prima guerra mondiale o ancora, in tempi più recenti, in Italia, con l’accordo dei metalmeccanici del 1969)»[16].

Sotto la spinta del taylorismo, dell’acuirsi della concorrenza e del rapido mutamento delle mode, le imprese oggi reclamano maggiore libertà di manovra sul tempo, maggiore flessibilità e più lunghezza. Nel post-fordismo i compiti del mantenimento della disciplina, della sorveglianza e del controllo sul tempo di lavoro appaiono inutili e onerosi, mentre è preferibile che molti dipendenti negli obiettivi di impresa, spingendoli all’identificazione con le sue strategie, e contare sulla loro autodisciplina e il loro autocontrollo, con l’assurdo risultato che il tempo di lavoro aumenta invece di abbassarsi![17] In pratica il lavoro dipendente assomiglia sempre più a quello dei liberi professionisti, ma con tutti gli oneri e senza gli onori. Oltre all’autodisciplina, si ruba tempo di lavoro ai lavoratori con la flessibilità dei contratti a tempo, usati ormai ovunque, segni caratteristici del post-moderno. Altro metodo è quello della personalizzazione del rapporto di lavoro, con cui datore e lavoratore possono accordarsi privatamente su orario e straordinari: con questa pratica c’è la finzione del riconoscimento della libertà individuale, ma si distrugge quel po’ che rimane della rappresentanza sindacale e della contrattazione collettiva.

A chiedere orari più lunghi, nonostante l’evidente avanzamento tecnologico che potrebbe invece liberare tempo, sono soprattutto le società transnazionali, le protagoniste del processo di globalizzazione, pronte a minacciare un trasferimento in paesi più poveri dove c’è manodopera a basso costo e senza diritti.

 

La liberazione del tempo

Con l’avvento dello Scientific Management di F. W. Taylor, con lo sviluppo delle fabbriche di Ford e la conseguente diffusione di massa dell’automobile e dei mezzi di comunicazione, si sono potentemente accelerati i tempi del lavoro produttivo e della mobilità degli individui sul territorio, facendo aumentare l’instabilità nervosa e la disintegrazione sociale della comunità. Ma la grande novità del ventesimo secolo è che le lotte, la lunga resistenza sociale degli operai ai ritmi della fabbrica e della società sempre più meccanizzata, hanno portato alla diminuzione dell’orario di lavoro e alla nascita del tempo libero, mentre le lotte passate erano centrate sulla riduzione della fatica industriale e al miglioramento materiale e morale della vita della classe lavoratrice. Il tempo libero è stato una conquista sociale dei lavoratori, ma al tempo stesso una necessità per trasformare gli operai in consumatori di beni da essi stessi prodotti, aumentando loro gli stipendi affinché potessero accedervi. Il tempo perduto con la diminuzione dell’orario di lavoro viene ampiamente recuperato dagli imprenditori con la sempre più ampia capacità produttiva delle macchine, mentre acquista un nuovo valore strategico il tempo di vita, esterno al lavoro, dei consumatori. Condizione fondamentale per mantenere in piedi la poderosa macchina della produzione capitalistica è la possibilità di una dilatazione infinita della capacità di consumo di una massa crescente di individui, affidata non solo alla conquista spaziale di nuovi mercati, ma anche alla rapidità temporale del consumo: alla velocità con cui i singoli consumatori rendono obsoleti i beni acquistati. Ma diminuire il tempo di obsolescenza è l’equivalente della velocità di distruzione della natura, nonché condizione imperativa del cosiddetto sviluppo. Le risorse naturali devono essere quindi distrutte a velocità sempre crescente, mentre gli uomini sono costretti a un uso sempre più vorace del loro tempo. Un tempo che non viene soltanto assorbito dall’orario di lavoro, ma anche dal tempo libero, dal processo di consumo. Gli stessi strumenti tecnologici che dovrebbero facilitarci la vita e farci risparmiare tempo in verità ce ne divorano una quantità enorme, basti pensare ai cellulari e ai computer ormai sempre connessi alla rete Internet. Questo è il più grande paradosso: il capitalismo ha realizzato un gigantesco processo di sostituzione del lavoro umano con quello meccanico ed elettronico, ma gli uomini sono sempre privi di tempo. Il tempo diventa quindi la chiave di volta del nostro tempo, per cambiare la società. Riappropriarsi del tempo, ridurre la velocità, ritornare a ritmi più naturali, e quindi più umani, equivale a salvare noi stessi e quel che resta della nostra civiltà.

 

NOVEMBRE 2014



[1] E. P. Thompson, Tempo e disciplina del lavoro, in Società patrizia cultura plebea, Einaudi, Torino 1981, p. 37.

[2] J. Le Goff, Tempo della Chiesa e tempo del mercante, Einaudi, Torino 1977, p. 34.

[3] C. Cipolla, Le macchine del tempo. L’orologio e la società (1300-1700), Il Mulino, Bologna 1967.

[4] M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 2005.

[5] F. Capra, Il punto di svolta. Scienza, società e cultura emergente, Feltrinelli, Milano 1996.

[6] Basti ricordare il Blauer Montag o il Saint Monday, il lunedì di festa che operai tedeschi ed inglesi si prendevano di forza, per continuare il riposo domenicale. In Italia il fenomeno era diffuso col nome di San Lunedì.

[7] P. Bevilacqua, Ecologia del tempo. Note di storia ambientale, in «Contemporanea. Rivista di storia dell’800 e del ‘900», anno viii, numero 3, luglio 2005, il Mulino, p. 410.

[8] A. Marchetti, Il tempo e il denaro. Saggi sul tempo di lavoro dall’età classica all’epoca della globalizzazione, Franco Angeli, Milano 2010, p. 20.

[9] K. Marx, Il capitale, Editori riuniti, Roma 1964, Vol. i, p. 578.

[10] A. Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Mondadori Milano 1977, p. 32.

[11] P. Bevilacqua, cit., p. 409.

[12] W. Sachs, Ambiente e giustizia sociale. I limiti della globalizzazione, Editori riuniti, Roma 2002, p. 206.

[13] P. Bevilacqua, La Terra è finita. Breve storia dell’ambiente, Roma 2006.

[14] P. Bevilacqua, cit., 2005, p. 418.

[15] K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974, p. 98.

[16] A. Marchetti, cit., p. 12.

[17] Da questo punto di vista si può considerare il caso del settore della moda che è emblematico della nuova cultura d’impresa. Vedi: A. Marchetti, Produttori di stile. Lavoro e flessibilità nelle case di moda milanesi, Osservatorio del mercato del lavoro di Milano, Provincia di Milano, Quaderno numero due, 2007.