ECOLOGIA DEL TEMPO
Massimo Ammendola
Estratto dalla tesi di Storia contemporanea Ecologia del tempo: storia
del tempo di lavoro in età contemporanea, di cui fanno parte la premessa
e il primo capitolo, Un inquadramento storico ed ecologico.
Dopo un tempo di declino viene il punto di svolta.
La luce intensa che era stata scacciata ritorna.
C’è movimento, ma non è determinato per violenza...
il movimento è naturale, sorge spontaneamente.
Perciò la trasformazione di ciò che è invecchiato diventa facile.
Il vecchio viene rifiutato e ad esso subentra il nuovo.
Entrambe le misure sono in accordo col tempo;
perciò non me ne risulta alcun danno.
(I Ching)
Premessa
Questa ricerca vuole indagare un tema storico non molto battuto negli
ultimi decenni in Italia, rispetto agli studi esteri invece esistenti:
il tempo di lavoro.
Un’indagine su un argomento del genere presenta subito alcuni problemi,
poiché il tempo non è uguale per tutte le tipologie di lavoro,
variandone la durata, ieri come oggi, in base al comparto produttivo, in
base alla stagione lavorativa, in base ai cicli economici. Il pericolo
di dispersione in mille rivoli, tanti quanti i tipi di lavoro e le
relative tempistiche, obbligano chi fa ricerca a osservare e riflettere
sullo schema generale che segue il lavoro, seguendo anche i
provvedimenti adottati anche dal punto di vista legislativo (qualora
vengano rispettati, ovviamente), al fine di comprendere il fenomeno.
Dal
punto di vista metodologico, dopo un inquadramento generale che illustri
da quale percorso storico proviene il tempo di lavoro e da quali poteri
è stato controllato e con quali conseguenze sull’uomo e sulla natura, mi
soffermerò successivamente ad approfondire il tema in età contemporanea,
facendo luce sui contesti economici e sulle conseguenze sociali del
tempo di lavoro che hanno portato alla odierna concezione del lavoro,
plasmata da secoli e secoli di indottrinamento e violenza, in una
battaglia per ora vinta dal potere industriale: «In tutti questi modi –
con la divisione del lavoro, la sorveglianza della manodopera, le multe,
le campane e gli orologi, gli incentivi in denaro, le prediche e
l’istruzione, la soppressione delle feste e degli svaghi – furono
plasmate le nuovi abitudini di lavoro e fu imposta la nuova disciplina
del tempo. Talora ciò richiese parecchie generazioni e possiamo dubitare
che sia mai completamente realizzato»[1].
Il
sistema industriale di fabbrica organizzato dal capitalismo per produrre
merci su una scala incomparabilmente più vasta rispetto al passato ha
inaugurato un mutamento epocale nella appropriazione del tempo di vita
degli uomini. Ciò costituisce una gigantesca forma di privatizzazione
della vita umana da parte di una minoranza dominante. Viviamo in un
duplice asservimento della natura al sistema economico: quella del corpo
vivente degli operai e quello dell’ambiente.
A noi
spetta quindi il compito di interpretare e rileggere con un diverso
orizzonte culturale, e con nuove domande storiografiche, il gigantesco
processo di appropriazione del tempo, umano e naturale, che le
èlite industriali hanno avviato durante la rivoluzione industriale e
stanno perseguendo in maniera sempre più capillare e oppressiva oggi.
Un
inquadramento storico ed ecologico
Il
tempo di lavoro nella storia dell’uomo è stato sempre legato al potere:
chi lo esercita decide quanto gli uomini e le donne a lui sottoposti
devono lavorare durante una giornata. In verità, il governo dei ritmi
temporali di tutte le attività umana, non solo quelle lavorative, è
stato in mano a chi deteneva il potere, attraverso innumerevoli
cambiamenti e disciplinamenti.
Quello che è certo, è che la modifica dei ritmi vitali umani non è mai
stata, e si spera mai sarà, senza contrasti e resistenze. L’arrivo al
tempo di lavoro della fabbrica in età industriale è stato preceduto da
un lungo processo culturale, politico ed economico di trasformazione
antropologica dell’uomo e del suo tempo. Potere politico, potere
religioso, potere economico, già da secoli si impadronivano del tempo
umano, plasmavano e regolavano le vite umane.
Un
primo disciplinamento del tempo è quello degli ordini monastici, che
imponevano ai propri monaci rigidi obblighi, come nella regola di San
Benedetto, con giornate scandite dal suono delle campane, con una
precisa successione degli impegni, che di certo non favoriva la
spontaneità della vita: «L’ambiente monastico soprattutto […] è stato il
grande maestro dell’impiego del tempo»[2].
Jacques Le Goff ci ha anche raccontato ciò che accadde nel Medioevo,
quando l’etica del lavoro prodotta dall’espansione del commercio
iniziava a considerare il tempo come denaro, gettando le basi
dell’elaborazione moderna astratta e meccanica del tempo: con
l’invenzione e la diffusione sociale dell’orologio, il tempo diventa
invisibile ed esterno all’esperienza umana, strumento di ordine e di
controllo sociale da parte delle classi dominanti e del potere politico
comunale[3].
Si costruisce un tempo irrigidito, meccanico, strumento di dominio sui
corpi, una nuova fisica del dominio: negli ospedali, negli eserciti,
nelle istituzioni formative, si diffondeva un ordine disciplinante che
plasmava spazio e tempo degli individui[4].
Questa visione del tempo, astratto e misurabile, è in linea con le
teorie scientifiche e filosofiche degli anni successivi, da Galileo a
Cartesio, che vedranno uomo e natura come un insieme di parti, scisse
dualisticamente, e che in un lungo percorso hanno portato a compimento
la separazione dell’uomo dal mondo esterno, e quindi dalla natura,
allontanando dall’interconnessione con tutte le forme vitali, dall’unità
col tutto che è stata riportata negli ultimi decenni in auge dalla
cultura ecologica ed olistica[5].
Dal
Medioevo due diversi poteri iniziarono a combattere per controllare il
tempo degli uomini, quello dei mercanti e quello della Chiesa: i
mercanti prestavano soldi a usura speculando sul tempo, facendone una
fonte di guadagno, mentre la Chiesa si opponeva, contraria a questa
prassi che prevedeva un’appropriazione, per fini privati, di un bene
come il tempo, che era di tutti, poiché proveniente da Dio. Questo
grande conflitto, che segna un’intera epoca, si concluderà con un
compromesso che accontenta entrambe: la Chiesa attenuò le condanne
religiose ai mercanti, e nel contempo si adattò alle regole di mercato,
da cui ebbe immediati e duraturi benefici.
Lo
scontro sul tempo degli uomini, tra Chiesa e Capitale, tornò ad
accentuarsi con l’Illuminismo e la Rivoluzione industriale: la battaglia
per la laicizzazione del calendario, con l’eliminazione di molte feste
religiose al fine di recuperare giorni lavorativi e quindi produttivi,
arriva al suo apice nel Settecento, con gli Stati europei che reclamano
e ottengono una drastica riduzione, poiché vedono come uno spreco i
giorni di festa (e quindi di riposo) di fronte ai miglioramenti
tecnologici dei mezzi di produzione e con il crescente allargamento dei
mercati, scatenando così una delle condizioni per il decollo delle
economie industriali. E, come accennato nella premessa, questa
sottrazione di giornate di festa ai lavoratori non fu un evento pacifico
e “naturale”, ma andò avanti tra mille ostacoli e ribellioni[6]:
un lento, disumano e violento processo di assoggettamento dei bioritmi
umani con cui uomini, donne e bambini sono stati soggiogati a regole e
ritmi di fabbrica, con punizioni anche corporali per piegare fisico e
mente, per costringerli negli spazi chiusi della fabbrica, in
interminabili giornate di lavoro scandite da ritmi di lavoro non più
autodecisi, ma indotti dalle macchine. «In effetti, in tutte le epoche
passate, per quanto asservito, reso intenso e penoso dal controllo
diretto di un qualche padrone, il lavoro di uomini e donne si era sempre
servito di strumenti, ma mai aveva dovuto servire delle macchine dotate
di un proprio ritmo, di una proprio temporalità»[7].
In età preindustriale, quindi, erano comunque gli uomini a determinare
la lunghezza della propria giornata di lavoro, alternando intensi
periodi di attività a periodi di riposo ed ozio, seguendo i ritmi e i
tempi della natura, seguendo anche una lentezza che oggi è totalmente
estranea, nell’epoca dell’ipervelocità.
Marx
e il tempo di lavoro: la fonte del plusvalore
È
Marx a dedicare al tempo di lavoro un intero capitolo (l’ottavo) del
libro I de Il Capitale: «La giornata di lavoro si divide in tempo
di lavoro necessario e tempo di pluslavoro e il saggio di plusvalore è
dato dal rapporto tra queste due grandezze. La sua lunghezza
complessiva, tuttavia, non è mai definita una volta per tutte»[8].
E il plusvalore diventa centrale in un’economia industriale in cui il
valore di scambio delle merci prevale sul loro valore d’uso,
definitivamente: così il prolungamento della giornata di lavoro, in
alcuni casi sfiorando anche le 18 ore al giorno, facendo coincidere il
riposo con il sonno notturno, placa solo in parte la brama del
capitalista che sfrutta il lavoratore, con quest’ultimo che, per la
prima volta nella storia, non è di proprietà del padrone (come gli
schiavi), né è proprietario dei mezzi di produzione o delle materie
prime (come gli artigiani), ma è proprietario solo della sua forza
lavoro e del tempo di utilizzo della stessa; con il capitalista che
vorrà aumentare il tempo di lavoro a dismisura anche per recuperare gli
investimenti fatti nelle nuove macchine nel periodo più breve possibile.
Per
fortuna, la società reagisce a questo attacco alla vita da parte dei
capitalisti emanando leggi che limitano la giornata di lavoro di donne e
bambini, ma c’è anche la controreazione degli industriali, che
tenteranno, dove non potranno più aumentare il tempo di lavoro, di
aumentare l’intensità, condensando nello stesso tempo ritmi di lavoro
più elevati. Nella Gran Bretagna dell’Ottocento, nel pieno della
rivoluzione industriale, dunque, il tempo di lavoro è evidentemente
l’unica leva del plusvalore, e quindi la fonte dell’accumulazione
capitalistica.
Ma
Marx aggiunge anche un’altra considerazione fondamentale: «Quanto più
cresce la forza produttiva tanto più può essere abbreviata la giornata
lavorativa, e quanto più viene abbreviata la giornata lavorativa tanto
più potrà crescere l’intensità del lavoro […] Date l’intensità della
forza produttiva del lavoro, a parte della giornata sociale lavorativa
necessaria per la produzione materiale sarà tanto più breve, e la parte
di tempo della libera attività mentale e sociale degli individui sarà
quindi tanto maggiore quanto più il lavoro sarà distribuito
proporzionalmente su tutti i membri della società capaci di lavorare»[9].
Ciò
riporta la nostra attenzione al tema della riduzione del tempo di lavoro
grazie al miglioramento tecnologico che il capitalismo ha continuato ad
apportare al sistema economico e produttivo, ma che non ha prodotto la
liberazione dal lavoro che molti avevano ipotizzato: la battaglia è
ancora aperta.
Il
tempo di lavoro della natura
Marx
evidenzia poi che è Adam Smith a inaugurare la scienza economica
moderna, l’Economia politica, proprio mettendo il lavoro umano alla base
della misurazione della ricchezza: «Il lavoro è dunque la misura reale
del valore di scambio di tutte le merci […]. Il lavoro è il primo
prezzo, l’originaria moneta d’acquisto con cui si pagano tutte le cose»[10].
Così
facendo si attua «la più grande rimozione del ruolo della natura nel
processo di funzione delle merci»[11].
Si esclude in sostanza ogni ruolo e funzione della natura nel processo
di creazione dei beni, instaurando un dogma che ancora oggi tiene,
nonostante l’evoluzione del pensiero ecologico: tutto ciò che fa parte
del mondo fisico, e non è riducibile in forma di merci, o fa parte della
giornata di lavoro degli uomini, non ha valore. Il lavoro viene messo al
centro dell’economia, nascondendo il ruolo fondamentale con cui la
natura coopera con gli uomini in ogni attività produttiva, attraverso
l’energia del sole, l’acqua, gli alberi, le piante, ecc., tutti quei
beni naturali che potremmo sintetizzare sotto il concetto di “beni
comuni”, dal carattere pubblico, disponibili direttamente e
gratuitamente.
Marx
prosegue su questa linea formulando il concetto di «tempo di lavoro
socialmente necessario» per misurare il valore che c’è nelle merci, che
diventa una sorta di moneta con cui valutare qualunque ricchezza. E con
tale misurazione risulta definitiva l’eliminazione del ruolo che la
natura viene a svolgere nel processo di produzione. Dimenticando il
ruolo della natura nell’economia, oltre a rimuovere il disvalore
dell’inquinamento che il capitalismo esternalizza nella natura senza
dargli alcun peso (altra questione fondamentale), si dimentica anche il
tempo di lavoro della natura, dato che quest’ultima impiega milioni di
anni a produrre il petrolio, solo per fare l’esempio più lampante,
risorsa che noi consumiamo senza considerazione e limitazione alcuna,
bruciando irreversibilmente materia fossile creata dalla Terra migliaia
di anni. Facendo un altro paragone, non si dà peso alla chimica del
suolo che trasforma il seme in spiga, ma è il lavoro di mietitura di
contadino che gli dà valore, si guarda solo al tempo di lavoro umano.
La
Terra ci mette a disposizione un cospicuo numero di risorse che ha un
lento tempo biologico di crescita, che viene ora sottratto e messo a
servizio di pochi potenti gruppi multinazionali per scopi produttivi.
«La scala temporale della modernità entra in collisione con la scala
temporale che governa la vita e la terra. […] Il tempo industriale è
apertamente in contrasto con il tempo geologico»[12].
Tutto
il sistema economico, che ha come unico fine la produzione di profitto,
ha la possibilità di farlo in queste modalità solo grazie al lavoro
immenso e non pagato dell’ecosistema terrestre, che è finito, non
infinito, così come quindi infinite non sono le risorse che esso ci
offre[13].
Gli ecosistemi naturali svolgono quindi un ruolo economico che non viene
valutato, ma in realtà tutte le risorse terrestri posseggono un valore
economico.
«L’uso crescente delle macchine, a partire dalla rivoluzione
industriale, non è che uno sforzo continuo, su una scala sempre più
vasta, di superare i tempi della natura per rendere più veloce il
processo di produzione di merci. […] Si è trattato di sostituire un
tempo di lavoro naturale, lento, subordinato ai vincoli biologici del
corpo umano o animale, con un lavoro svincolato dai limiti della natura.
Le macchine non sono altro che sostituzione di tempo naturale con tempo
meccanico»[14].
Dalla
rivoluzione industriale ad oggi
A
partire dalla rivoluzione industriale la lunghezza dell’orario di lavoro
è stato una delle cause più importanti del conflitto sociale: oggi ci
risulta difficile comprendere la forza delle passioni e della rabbia che
l’abbassamento del tempo di lavoro ha suscitato nelle passate
generazioni operaie, a partire da quelle 15-16 ore quotidiane contro cui
è stata opposta una vera e propria resistenza, così come la definisce
Polanyi, ovvero la resistenza della società contro il processo di
industrializzazione: «Mentre l’organizzazione mondiale dei mercati
mondiali delle merci, dei mercati mondiali del capitale e dei mercati
mondiali della moneta sotto l’egida della base aurea davano un impulso
senza pari al meccanismo dei mercati, un movimento dotato di profonde
radici sorgeva per resistere agli effetti perniciosi di una economia
controllata dal mercato. La società si proteggeva dai pericoli inerenti
ad un sistema di mercato autoregolantesi, e questa è una caratteristica
generale della storia dell’epoca»[15].
La resistenza si tramutò presto in una vera e propria offensiva per
ottenere la riduzione dell’orario di lavoro: un lungo e aspro conflitto
della ragione contro la forza, che ha scavato un solco profondo tra le
classi, ma è stato decisivo per l’ottenimento di una diversa civiltà del
lavoro. È stata forse per la classe operaia l’unica utopia concreta,
l’unico obiettivo che sembrava impossibile raggiungere e che al
contrario, di volta in volta, veniva raggiunto.
«Si è
trattato di un processo avvenuto attraverso tre grandi campate: la prima
per l’ottenimento delle 10 ore quotidiane di lavoro su sei giorni alla
settimana, la seconda per le 8 ore al giorno e le 48 settimanali, la
terza per 8 ore su cinque giorni e 40 alla settimana. Il primo traguardo
fu raggiunto in tempi diversi a seconda dei paesi. Negli Stati Uniti le
10 ore al giorno furono raggiunte nel decennio Ottanta del ‘800; nel
Regno Unito già nel 1870 erano la regola più diffusa. Più tardi
seguirono la Germania (tra il 1900 e 1910), la Francia (alla fine del
primo decennio del xx
secolo) e l’Italia (tra il 1905 e il 1915). Il secondo obiettivo delle 8
ore al giorno su sei giorni invece raggiunto tra il 1918 e il 1920, in
seguito agli sconvolgimenti della prima guerra mondiale e alle
suggestioni della rivoluzione bolscevica. Le 40 ore settimanali con il
weekend libero furono infine il portato delle mobilitazioni operaie
degli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso. Ciò che vale la pena di
sottolineare è che le successive conquiste sono avvenute, salvo rare
eccezioni, senza la diminuzione corrispettiva della retribuzione, anzi
in molti casi con un suo momento (per esempio all’indomani della prima
guerra mondiale o ancora, in tempi più recenti, in Italia, con l’accordo
dei metalmeccanici del 1969)»[16].
Sotto
la spinta del taylorismo, dell’acuirsi della concorrenza e del rapido
mutamento delle mode, le imprese oggi reclamano maggiore libertà di
manovra sul tempo, maggiore flessibilità e più lunghezza. Nel
post-fordismo i compiti del mantenimento della disciplina, della
sorveglianza e del controllo sul tempo di lavoro appaiono inutili e
onerosi, mentre è preferibile che molti dipendenti negli obiettivi di
impresa, spingendoli all’identificazione con le sue strategie, e contare
sulla loro autodisciplina e il loro autocontrollo, con l’assurdo
risultato che il tempo di lavoro aumenta invece di abbassarsi![17]
In pratica il lavoro dipendente assomiglia sempre più a quello dei
liberi professionisti, ma con tutti gli oneri e senza gli onori. Oltre
all’autodisciplina, si ruba tempo di lavoro ai lavoratori con la
flessibilità dei contratti a tempo, usati ormai ovunque, segni
caratteristici del post-moderno. Altro metodo è quello della
personalizzazione del rapporto di lavoro, con cui datore e lavoratore
possono accordarsi privatamente su orario e straordinari: con questa
pratica c’è la finzione del riconoscimento della libertà individuale, ma
si distrugge quel po’ che rimane della rappresentanza sindacale e della
contrattazione collettiva.
A
chiedere orari più lunghi, nonostante l’evidente avanzamento tecnologico
che potrebbe invece liberare tempo, sono soprattutto le società
transnazionali, le protagoniste del processo di globalizzazione, pronte
a minacciare un trasferimento in paesi più poveri dove c’è manodopera a
basso costo e senza diritti.
La
liberazione del tempo
Con
l’avvento dello Scientific Management di F. W. Taylor, con lo
sviluppo delle fabbriche di Ford e la conseguente diffusione di massa
dell’automobile e dei mezzi di comunicazione, si sono potentemente
accelerati i tempi del lavoro produttivo e della mobilità degli
individui sul territorio, facendo aumentare l’instabilità nervosa e la
disintegrazione sociale della comunità. Ma la grande novità del
ventesimo secolo è che le lotte, la lunga resistenza sociale degli
operai ai ritmi della fabbrica e della società sempre più meccanizzata,
hanno portato alla diminuzione dell’orario di lavoro e alla nascita del
tempo libero, mentre le lotte passate erano centrate sulla riduzione
della fatica industriale e al miglioramento materiale e morale della
vita della classe lavoratrice. Il tempo libero è stato una conquista
sociale dei lavoratori, ma al tempo stesso una necessità per trasformare
gli operai in consumatori di beni da essi stessi prodotti, aumentando
loro gli stipendi affinché potessero accedervi. Il tempo perduto con la
diminuzione dell’orario di lavoro viene ampiamente recuperato dagli
imprenditori con la sempre più ampia capacità produttiva delle macchine,
mentre acquista un nuovo valore strategico il tempo di vita, esterno al
lavoro, dei consumatori. Condizione fondamentale per mantenere in piedi
la poderosa macchina della produzione capitalistica è la possibilità di
una dilatazione infinita della capacità di consumo di una massa
crescente di individui, affidata non solo alla conquista spaziale di
nuovi mercati, ma anche alla rapidità temporale del consumo: alla
velocità con cui i singoli consumatori rendono obsoleti i beni
acquistati. Ma diminuire il tempo di obsolescenza è l’equivalente della
velocità di distruzione della natura, nonché condizione imperativa del
cosiddetto sviluppo. Le risorse naturali devono essere quindi distrutte
a velocità sempre crescente, mentre gli uomini sono costretti a un uso
sempre più vorace del loro tempo. Un tempo che non viene soltanto
assorbito dall’orario di lavoro, ma anche dal tempo libero, dal processo
di consumo. Gli stessi strumenti tecnologici che dovrebbero facilitarci
la vita e farci risparmiare tempo in verità ce ne divorano una quantità
enorme, basti pensare ai cellulari e ai computer ormai sempre connessi
alla rete Internet. Questo è il più grande paradosso: il capitalismo ha
realizzato un gigantesco processo di sostituzione del lavoro umano con
quello meccanico ed elettronico, ma gli uomini sono sempre privi di
tempo. Il tempo diventa quindi la chiave di volta del nostro tempo, per
cambiare la società. Riappropriarsi del tempo, ridurre la velocità,
ritornare a ritmi più naturali, e quindi più umani, equivale a salvare
noi stessi e quel che resta della nostra civiltà.
NOVEMBRE 2014
[1]
E. P. Thompson, Tempo e disciplina del lavoro, in
Società patrizia cultura plebea, Einaudi, Torino 1981, p.
37.
[2]
J. Le Goff, Tempo della Chiesa e tempo del mercante,
Einaudi, Torino 1977, p. 34.
[3]
C. Cipolla, Le macchine del tempo. L’orologio e la società
(1300-1700), Il Mulino, Bologna 1967.
[4]
M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione,
Einaudi, Torino 2005.
[5]
F. Capra, Il punto di svolta. Scienza, società e cultura
emergente, Feltrinelli, Milano 1996.
[6]
Basti ricordare il Blauer Montag o il Saint Monday,
il lunedì di festa che operai tedeschi ed inglesi si prendevano
di forza, per continuare il riposo domenicale. In Italia il
fenomeno era diffuso col nome di San Lunedì.
[7]
P. Bevilacqua, Ecologia del tempo. Note di storia ambientale,
in «Contemporanea. Rivista di storia dell’800 e del ‘900», anno
viii, numero 3,
luglio 2005, il Mulino, p. 410.
[8]
A. Marchetti, Il tempo e il denaro. Saggi sul tempo di lavoro
dall’età classica all’epoca della globalizzazione, Franco
Angeli, Milano 2010, p. 20.
[9]
K. Marx, Il capitale, Editori riuniti, Roma 1964, Vol.
i, p. 578.
[10]
A. Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza
delle nazioni, Mondadori Milano 1977, p. 32.
[11]
P. Bevilacqua, cit., p. 409.
[12]
W. Sachs, Ambiente e giustizia sociale. I limiti della
globalizzazione, Editori riuniti, Roma 2002, p. 206.
[13]
P. Bevilacqua, La Terra è finita. Breve storia dell’ambiente,
Roma 2006.
[14]
P. Bevilacqua, cit., 2005, p. 418.
[15]
K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino
1974, p. 98.
[16]
A. Marchetti, cit., p. 12.
[17] Da questo punto di vista si può considerare il caso del settore della moda che è emblematico della nuova cultura d’impresa. Vedi: A. Marchetti, Produttori di stile. Lavoro e flessibilità nelle case di moda milanesi, Osservatorio del mercato del lavoro di Milano, Provincia di Milano, Quaderno numero due, 2007.