AUTOMAZIONE.
Perché la tecnologia non ci libera, ancora
Alessandro D'Aloia
Ma nella misura in cui si sviluppa la grande industria,
la creazione della ricchezza reale viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità del lavoro impiegato
che dalla potenza degli agenti che vengono messi in moto durante il
tempo di lavoro.
(K. Marx, Grundrisse)
Umane
obsolescenze
Nel
2013 al Festival del cinema di Cannes è stato presentato il film
intitolato The congress, che
narra la vicenda di un’attrice costretta ad accettare di cedere alla
produzione la propria immagine in modo da non dover più recitare nei
film che saranno, da quel momento, prodotti. Il pubblico continuerà ad
apprezzare una delle sue dive preferite, congelata nello splendore dei
suoi anni, mentre la persona in carne ed ossa, separata ormai dal
proprio simulacro digitale, sarà affrancata dalla necessità di dover
cercare sempre nuovi ingaggi nonostante l’avanzamento dell’età. Tutto
ciò è reso possibile da una tecnologia all’avanguardia che, sulla base
di una scansione 3D del corpo, permette la sua replica perfetta in una
realtà virtuale utilizzata nella produzione dei film. Il contratto tra
la produzione e l’attrice è tale da offrire a quest’ultima, ormai
disoccupata, una rendita a vita come corrispettivo per i diritti di
sfruttamento della sua immagine a fini cinematografici.
Il
film viene considerato, negli ambienti cinefili, un riferimento quale
denuncia esplicita del problema, già attuale, della progressiva
estromissione dell’attore in carne ed ossa dalle produzioni filmiche e
della contestuale deriva digitale del cinema di intrattenimento di
stampo hollywoodiano.
Al di
là però delle implicazioni strettamente correlate al mondo del cinema,
la vicenda getta spunti di riflessione di ben più ampia portata, su temi
che attengono molto da vicino i più generali rapporti di produzione del
capitalismo contemporaneo. La parte più inquietante del groppo di
pensieri che il film genera è senz’altro legata a quel sottile senso,
andersiano, di obsolescenza dell’umano che si manifesta sempre più
evidentemente man mano che la tecnologia di cui disponiamo avanza,
conquistando sempre maggiori ambiti di applicazione concreta.
Quest’esempio tratto dal mondo cinematografico serve a rilevare come
ormai cominci ad essere evidente che il problema della progressiva
sostituzione delle facoltà umane con quelle meccaniche non ha come
proprio ambito esclusivo quello della produzione materiale di beni e che
perciò non attiene solo le categorie di lavori “manuali” o il destino
professionale degli operai, ma
travalica ampiamente i limiti tra categorie di lavoro e, ad un altro
livello, le distinzioni di classe.
Sin
da quando si sviluppò in Inghilterra il movimento dei luddisti, cioè
all’inizio del xix secolo,
agli operai impiegati nelle grandi manifatture fu chiaro di trovarsi in
una posizione di aperto antagonismo con le macchine nella produzione
industriale e di conseguenza di essere l’unico polo della dialettica
uomo/macchina ad avere problemi di sopravvivenza materiale. Sin da
subito, nel ciclo di spettacolare sviluppo capitalistico, il capitale
più che presentarsi di fronte agli operai in forma di capitalista, lo ha
fatto in forma di capitale fisso, vale a dire in forma meccanizzata.
L’operaio nel capitalismo è posto di fronte al capitale stesso e ad esso
subordinato[1].
Oggi si osserva in che misura il destino degli operai preconizza quello
del lavoro umano inteso complessivamente.
Divergenti progressi
La
più evidente contraddizione dei tempi moderni è rappresentata dalla
difficoltà crescente, e sempre meno dissimulabile da parte del
capitalismo, di garantire accanto al progresso tecnologico anche quello
civile[2].
Siamo di fronte ad un
inarrestabile processo di raffinamento tecnologico, disponiamo di
strumenti sempre più sofisticati ed intelligenti, ma le persone
arrancano sempre di più nel raggiungimento di una posizione sociale
stabile e in grado di assicurare prospettive di vita serene e questo
anche nei paesi a cosiddetto “capitalismo avanzato” ed anche al di là
dell’attuale contesto di crisi economica. Insomma il confronto con gli
anni sessanta e settanta del secolo scorso offre questo doppio risvolto:
da un lato disponiamo di tecnologie neanche paragonabili sul piano
tecnico, dall’altro nessuno si sente di poter mettere in discussione il
fatto che la condizione di benessere esistente nei paesi occidentali sia
regredita a vista d’occhio[3].
D’altra parte non mancano opere di ricerca ed approfondimento a cura di
economisti che tentano di mettere a fuoco, disponendo di dati storici
circa l’andamento economico degli ultimi tre decenni, la tendenza
complessiva del capitalismo attuale[4].
Se
questo arretramento, si potrebbe definirlo di civiltà, è il dato di
fondo, qualcuno dovrà pur cominciare a mettere in relazione inversa, su
un piano più ampio, il progresso tecnologico e quello sociale e cercare
di spiegare perché ciò accade.
Ed in
effetti a voler leggere tra le righe dei documenti ufficiali, tale
relazione comincia a fare capolino, ma solo timidamente e senza
approfondimenti ulteriori sulle implicazioni di affermazioni quali: «Le
indicazioni del rapporto confermano che la crisi e ancor prima le
trasformazioni indotte dalla globalizzazione e dalle innovazioni
tecnologiche e produttive hanno avuto un impatto drammatico sui sistemi
economici e sociali, in particolare sull’occupazione»[5].
Oppure può capitare di leggere, tra i mille articoli sulla crisi
economica, qualche osservazione isolata sulla connessione tra sviluppo
tecnologico e stagflazione[6].
Gli
analisti economici sono più o meno concordi, anche se non lo sventolano
ai quattro venti, sul fatto che non si tornerà mai più alle condizioni
pre-crisi[7],
ma quello che bisognerebbe dire è che le condizioni pre-crisi non erano
per niente una bengodi, nel senso che la drastica riduzione
dell’occupazione è una tendenza che non sconta solamente il dato della
crisi, ma assume caratteri sempre più spiccatamente strutturali. In fin
dei conti non si tratta neanche qui di un dato puramente quantitativo.
La crisi ha aumentato in modo abnorme la disoccupazione, ma l’essenziale
è che dall’inizio degli anni novanta la massiccia introduzione di forme
di precarizzazione dei rapporti di lavoro ha innescato un evidente
cambio qualitativo nello spirito con il quale si concepisce l’esistenza
nelle società dei paesi a capitalismo avanzato[8].
Non si tratta ovviamente solo di posti di lavoro, dal momento che anche
laddove buona parte degli occupati riesca a mantenere l’occupazione, ci
riesce tendenzialmente solo a scapito delle proprie condizioni
materiali. È difficile negare un dato elementare: è da almeno un paio di
decenni che chi lavora è costretto a farlo di più pur ottenendo di meno
in cambio. In sostanza mentre la tecnologia avanza inequivocabilmente le
condizioni lavorative arretrano altrettanto inequivocabilmente.
È
questo il dato su cui è necessario porre l’accento per una critica
sensata del mondo che viviamo. Come il fatto che il generale regresso
delle condizioni di vita non riguarda per niente solo gli operai, ma il
lavoro nella sua globalità.
L’enorme automa
Bisognerebbe leggere e rileggere più volte quanto scritto da Marx ne I lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, anche noti come Grundrisse, o più nello specifico nel cosiddetto “frammento sulle macchine”, per cogliere ap-pieno la vicenda in cui ci dibattiamo, certamente, già da quando ne parlava Marx, ma in modo molto più empirico da almeno un paio di decenni, ovvero da quando l’accelerazione dello sviluppo tecnolo-gico e il, non casualmente contestuale, scardina-mento definitivo dell’idea dell’occupazione fissa hanno prodotto un effetto combinato in grado di mutare sensibilmente la percezione del mondo da parte dell’uomo.
Basti
cercare di seguire anche solo le evocazioni di passi come il seguente:
«Fabbrica significa la cooperazione di più classi di operai, adulti e
non adulti, che curano con accortezza e assiduità un sistema di
meccanismi produttivi messi continuamente in azione da un potere
centrale [...]. Questo termine, nella sua accezione più rigorosa,
implica l’idea di un enorme automa, composto di numerosi organi
meccanici e intellettuali che operano in maniera concertata e senza
interruzione per produrre un medesimo oggetto, tutti essi essendo
subordinati a una forza motrice che si muove spontaneamente»; che Marx
elaborava a partire da testi precedenti come quello di
A. Ure sulla Filosofia delle
manifatture[9].
L’idea di una società che cura con accortezza un sistema di meccanismi
produttivi in ossequio ad un potere centrale, non meglio definito, fino
a dare vita ad un enorme automa,
cioè un’entità dalla doppia natura, meccanica ed organica, sembra
davvero fotografare il formicaio di uomini e mezzi che ogni giorno si
attiva, spontaneamente, per mandare avanti una produzione di cui non si
vede necessariamente il fine.
Se l’ingrediente principale di quanto evocato già da Marx ai suoi tempi
era rappresentato sostanzialmente dall’irruzione delle macchine nel
processo produttivo, oggi disponiamo di ulteriori elementi che raffinano
evidentemente l’abbozzo marxiano dell’enorme
automa. Il nostro sistema produttivo è un
unicum che ormai straborda dai
limiti della fabbrica per coinvolgere le città, le regioni e tutti i
luoghi necessari, così come l’intero arco delle competenze che entrano
in gioco in un dato processo produttivo, organizzato a rete e capace di
attivare di volta in volta i nodi necessari. Si tratta evidentemente di
un vero e proprio automa, o corpo
senz’organi[10],
in cui alle macchine, che rappresentano gli organi “muscolari”, si
aggiunge oggi, grazie alla tecnologia informatica e ad internet, un
organo fondamentale come il cervello, capace di introdurre un cambio
qualitativo notevolissimo nel sistema, in cui gli uomini rappresentano
semplicemente la residua parte cosciente di un complesso altrimenti
privo di consapevolezza.
Il fatto che i pezzi dell’automa non siano più solo le fabbriche lascia
già ben intravedere come il discorso suoi ruoli e dell’uomo e delle
macchine nel processo di produzione, considerato complessivamente, vada
oggi acquistando una valenza generale, al di là anche delle categorie di
lavoro (materiale e immateriale) e quasi al di là di quelle di classe.
Di fronte al capitale in sé, e alla sua logica automatica (di cui ormai
quasi tutto è pervaso), anche il capitalista, ad esempio, assume un
ruolo marginale, di semplice agente funzionale. Persino la sua ideologia
di classe, ormai introiettata nel “pensiero automatico” trasversale,
rende superflua la figura del capitalista quale predicatore della morale
di vita immolata alla produzione.
Ciò che infatti rileva oggi è la sempre maggiore capacità del capitale
di organizzare la vita umana in sua funzione, maggiore capacità legata
ovviamente allo sviluppo dell’informatica e della sua applicazione
“sociale” più vistosa, vale a dire internet.
La rete informatica, non è solo un’applicazione immateriale della
tecnologia attuale, ma un aspetto sempre più centrale nella moderna
organizzazione della produzione su scala globale. Essa rappresenta
un’esplosione della produttività capitalistica, una sorta di epifania
dell’automa collettivo. Il
fatto è che questo dato, per alcuni versi sbalorditivo, non resta
assolutamente senza conseguenze sociali.
E le conseguenze sono esattamente queste: «il
valore oggettivato nelle macchine si presenta inoltre come una premessa
rispetto alla quale la forza valorizzante della singola forza-lavoro
scompare come qualcosa di infinitamente piccolo»[11].
In
sostanza, com’è ormai evidentissimo, già Marx rifletteva sul fatto che
crescendo la capacità produttiva del sistema industriale in sé,
diminuiva necessariamente, in proporzione, la parte umana della “forza
valorizzante”, e in ultima analisi, il valore del lavoro umano, nei
rapporti di produzione capitalistici. In sostanza con la meccanizzazione
del lavoro si viene a creare necessariamente un rapporto, storicamente
determinato, tra la parte umana e quella meccanica nella produzione e va
da sé che mentre la parte umana di produzione è sempre e solo, al
massimo, la quantità di lavoro che l’individuo, funestato dai sui ritmi
biologici, può umanamente trasferire nel prodotto, la parte meccanica
cresce invece storicamente sempre di più, essendo limitata solamente
dallo stato evolutivo della tecnologia di una data epoca. È chiaro che
su scala globale non è più solo l’apporto del singolo individuo a
rappresentare una parte infinitamente piccola del tutto, ma è l’apporto
umano preso complessivamente a rappresentare una parte tendenzialmente
decrescente, in rapporto alla capacità produttiva potenzialmente
illimitata dell’enorme automa
contemporaneo.
Il
conflitto del valori
C’è
però un altro aspetto fondamentale implicito nella situazione descritta.
Questo aspetto è individuato nel fatto che essendo, questa capacità
produttiva dell’automa, sproporzionata rispetto ai normali bisogni
umani, cioè rispetto al fine originario della produzione stessa, essa
deve necessariamente trovare un senso al di là dell’uso e vale a dire al
di là del valore d’uso: «con la produzione in masse enormi, che è posta
con le macchine, scompare altresì, nel prodotto, ogni rapporto al
bisogno immediato del produttore e quindi al valore d’uso immediato;
nella forma in cui il prodotto viene prodotto, e nei rapporti in cui
viene prodotto, è già posto che esso viene prodotto solo come portatore
di valore e che il suo valore d’uso è solo una condizione ad esso
relativa»[12].
Da
qui, l’altrimenti assurda, supremazia del valore di scambio su quello
d’uso e la produzione di beni che non conservano più relazione alcuna
con il concetto di utilità. L’esuberanza produttiva del sistema rispetto
alle immediate necessità dell’uomo è costretta a valorizzarsi
indipendentemente dal mondo circostante e a scapito di questo, se
necessario.
Accade allora, molto semplicemente, che il capitale fisso, in cui sono
stratificati secoli di sviluppo tecnologico e di scienza applicata, chiede a quello variabile di riconoscere i fatti e di sistemare
conseguentemente le gerarchie tra lavoro morto e lavoro vivo. La
precarizzazione dei rapporti di lavoro è esattamente la
contrattualizzazione di questa subordinazione dell’umano al meccanico.
Se si
considera il capitale fisso come la condensazione di secoli di sapere
tecnico, appare chiaro come sia impossibile pensare alla produzione
capitalistica, come a qualcosa di privato. Di privato c’è solo la natura
giuridica del capitale stesso, ma la produzione è, non certo da oggi,
intimamente sociale, collettiva.
«Quando la divisione del lavoro è sviluppata, quasi ogni lavoro di un
singolo individuo è una parte del tutto, la quale, da se stessa non ha
alcun valore o utilità. Non c’è nulla di cui il lavoratore possa
impadronirsi, e dire: questo è il mio prodotto, questo lo terrò per me»
(T. Hodgskin, Labour Defended against the Claims of Capital.
Or the Unproductiveness of Capital proved with
Reference to the Present Combinations amongst Journeymen,
1825).
[...]. Nel processo di produzione della grande industria, al contrario,
come da una parte la subordinazione delle forze della natura
all’intelletto sociale è il presupposto della produttività del mezzo di
lavoro sviluppato a processo automatico, così d’altra parte il lavoro
del singolo, nella sua esistenza immediata, è posto come lavoro singolo
soppresso, ossia come lavoro sociale»[13].
Ogni
membro della società, partecipa in un modo o nell’altro, al processo
produttivo dal momento che questo processo, si giova di qualsiasi
contributo, presente o passato che sia. Anche ciò che sembra non entrare
nel processo, anche ciò che sembra essere del tutto inutile, finisce per
avere una sua funzione. Quando non si analizzino più le relazioni
dirette nell’ambito limitato di una sola fabbrica, o unità produttiva,
ma si consideri il mondo intero come fabbrica, allora è più semplice
capire come mai tutto torni, in ultima analisi, utile. Siamo tutti, in
un modo o nell’altro, organi dell’enorme automa.
Capitalismo frattale
Una
domanda, a questo punto, è d’obbligo: come mai proprio oggi, le
“visioni” di Marx risalenti ad un secolo e mezzo fa tornano più attuali
che mai?
Bisogna allora cercare di rispondere dicendo che dai tempi di Marx sono
intervenute non delle modificazioni, ma degli approfondimenti notevoli,
i quali implicano una serie di passaggi qualitativi nel modo di
concepire le relazioni umane (rete), il tempo e il lavoro. Marx nei
Grundrisse diceva che «Le
macchine stesse, per il loro impiego, presuppongono, storicamente […]
braccia in sovrabbondanza. Solo dove è presente una sovrabbondanza di
forze di lavoro, intervengono le macchine a sostituire lavoro».
È noto come l’industria sin dall’inizio sia stata sinonimo di
concentrazione operaia e, di conseguenza, come fosse naturale concepire
come strettamente legate le macchine e la presenza di notevoli masse di
forza lavoro. Proprio rispetto a questo singolo dato è possibile
misurare oggi la distanza che ci separa dai tempi di Marx e dal
Novecento. L’irruzione sulla scena di una macchina “personale” come il
pc ha infatti scardinato
dalle fondamenta il tradizionale rapporto tra individuo e strumento
meccanizzato di lavoro, ha trasformato il mondo in una fabbrica. Si dirà
che un pc non è esattamente
equiparabile ad una pressa, ad esempio, ma si riconoscerà senz’altro che
con l’arrivo dei pc non
esiste praticamente più ambito di lavoro, concentrato o isolato che sia,
concepito al di fuori della mediazione di una macchina e, per proprietà
transitiva, delle tecnologia informatizzata. In sostanza oggi, grazie
all’informatica articolata nella sua doppia dimensione di “individuale”
(personal computer) e “sociale” (Internet) e alla miriade di
applicazioni strumentali (hardware e software) che ruotano attorno a
queste due dimensioni, cambia totalmente il modo con il quale il singolo
entra in rapporto con l’enorme
automa. Questo automa non ha più bisogno di concentrare forza di
lavoro in luoghi dedicati, essendo ormai presente ovunque grazie ad una
tecnologia capillare e, di conseguenza, ogni ambito di attività
produttiva è sottoposto, più o meno direttamente, alle medesime modalità
dei rapporti di lavoro mediati dalla macchina. La fabbrica ha abbattuto
le mura degli opifici esondando dappertutto. Oggi, con il
pc tutto il lavoro è
“meccanizzato” e con ciò ogni tipo di apporto umano al lavoro si riduce
alla capacità di utilizzare una macchina ai propri fini lavorativi, e
vale a dire, si riduce ad un’applicazione individuale di un sapere
tecnico-sociale condensato nella macchina (o meglio nella capacità
sociale di costruire macchine sofisticatissime), nei programmi
automatici che essa utilizza e nella rete informatizzata che tutto
connette. Oggi ogni tipo di lavoro si trova, di fatto e in linea di
principio, nelle medesime condizioni dell’operaio di fronte alle linee
automatizzate delle fabbriche, pur non volendo con questo equiparare in
nessun modo le diverse condizioni lavorative ancora esistenti.
Ecco perché il capitalismo nella fase della “totalizzazione”[14]
piuttosto che relegare le visioni di Marx ad un passato ormai lontano e
sepolto, le chiama in causa come analisi di un’attualità universale non
più interpretabile, neanche lontanamente, come tematica di una classe.
Il
tempo del lavoro
La
tecnologia è allora un male?
«Il
furto del tempo di lavoro altrui, su cui poggia la ricchezza odierna, si
presenta come una base miserabile rispetto a questa nuova base che si è
sviluppata nel frattempo e che è stata creata dalla grande industria
stessa. Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la
grande fonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di
essere la sua misura, e quindi il valore di scambio deve cessare di
essere la misura del valore d’uso. [...] Il
capitale è esso stesso la contraddizione in processo, per il fatto che
tende a ridurre il tempo di lavoro a un minimo, mentre, d’altro lato,
pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza. Esso
diminuisce, quindi, il tempo di lavoro nella forma del tempo di lavoro
necessario, per accrescerlo nella forma del tempo di lavoro superfluo;
facendo quindi del tempo di lavoro superfluo — in misura crescente — la
condizione (question de vie et de
mort) di quello necessario. Da un lato esso evoca, quindi, tutte le
forze della scienza e della natura, come della combinazione sociale e
delle relazioni sociali, al fine di rendere la creazione della ricchezza
(relativamente) indipendente dal tempo di lavoro impiegato in essa.
Dall’altro lato esso intende misurare le gigantesche forze sociali così
create alla stregua del tempo di lavoro, e imprigionarle nei limiti che
sono necessari per conservare come valore il valore già creato»[15].
Il
passo, stupefacente, dimostra come per Marx fosse già chiaro che, stante
così le cose, il valore del lavoro “umano” non poteva e non doveva
essere più ricercato nel tempo impiegato, dal momento che tutta la
tensione tecnico scientifica dell’umanità stessa era, ed è, rivolta, in
ultima istanza, alla diminuzione del tempo di lavoro necessario[16].
Allora diventa chiaro come mai, al di là dell’epocale crisi attuale (che
è crisi del capitalismo come sistema), sono ormai almeno tre i decenni
in cui il valore reale del lavoro continua la sua inesorabile discesa
verso l’inferno sociale del capitalismo contemporaneo. La questione del
valore reale del lavoro va però intesa nei suoi termini generali e non
nei soli termini di remunerazione diretta. Può infatti accadere che chi
conservi un’occupazione riesca anche a conservare, tutto sommato, delle
accettabili condizioni di vita o addirittura a migliorarle, ma questo
solo al prezzo di un restringimento generalizzato, in termini
quantitativi, di forza lavoro impiegata complessivamente e vale a dire
al prezzo di una tendenziale crescita della disoccupazione o del tempo
sociale di “non-lavoro”.
Dal
momento che non è realistico, né auspicabile, prevedere un arresto dello
sviluppo tecnologico, diventa altrettanto semplice prevedere la generale
inarrestabilità della discesa del valore del lavoro nelle condizioni
sociali che l’esistenza del capitalismo in quanto tale impone.
Questo chiarisce come lo sviluppo ulteriore dell’andamento descritto
renda urgente una conclusione implicita a tutto il discorso: sarà sempre
più evidente la necessità di svincolare il reddito dalla quantità di
tempo lavorato e di conseguenza ricercare una differente misura del
valore del lavoro (o dell’attività umana).
Il
paradosso del capitalismo è individuabile precisamente in questo:
disporre di una capacità produttiva più che sufficiente alle
necessità dell’umanità, ma vincolarne l’utilizzo alla realizzazione del
valore di scambio dei beni prodotti, valore che, come noto, necessita di
un mercato, il quale non ha, né potrà mai avere (a dispetto dei sogni
dei capitalisti), le dimensioni dell’umanità intera. E questo perché
l’avanzare della tecnologia, e di conseguenza della capacità produttiva,
procede molto più velocemente della formazione di un mercato che sia in
grado di tenervi testa. Perciò agli occhi del capitale non rilevano i
bisogni dell’umanità in quanto tale, ma solo la capacità economica
dell’umanità in quanto consumatrice.
A ben
guardare questo fatto condiziona le potenzialità del sistema molto di
più della semplice natura giuridica del capitale stesso. Dovendosi
realizzare i valori di scambio (l’economia di profitto) dei beni
prodotti, poco importa che il capitale investito nella loro produzione
sia privato o pubblico. Non che la cosa sia del tutto indifferente,
tuttavia non è sostanziale.
L’irruzione sulla scena, ad esempio, delle macchine a controllo
numerico, come le stampanti 3D, a costi ormai quasi universalmente
accessibili, pur offrendo a molti la possibilità di intraprendere delle
attività produttive, non garantirà loro la base economica per avere
prospettive stabili di sviluppo, dal momento che non li libererà dalla
necessità di vendere i loro prodotti su un mercato che sempre più ricco
di beni, anche innovativi, sarà, per lo stesso motivo, sempre più povero
di consumatori. È inoltre noto come la sofisticazione dei sistemi
produttivi permetta, dall’altro lato, la produzione di beni, anche ad
elevato contenuto tecnico, impiegando sempre meno mano d’opera umana. Di
conseguenza l’innovazione di cui tanto si parla oggi è essa stessa a
postulare la tendenziale autonomia meccanica della produzione, vale a
dire, la crescente inutilità di mano d’opera. La domanda che segue è:
come è possibile allora immaginare un aumento dell’occupazione in
futuro?
Di
fronte a questo stato di fatto verrebbe naturale individuare,
paradossalmente, nella tecnologia in sé un male per l’uomo, così come
accadde già all’epoca del luddismo, ma si tratterebbe di un’ingenuità
non perdonabile per la seconda volta. Se il meccanismo descritto è stato
reso efficacemente allora è chiaro come il problema alberghi nella
modalità con la quale, nel sistema capitalistico, vengono scambiati i
beni prodotti e non nel fatto che la tecnologia renda sempre più facile
produrli. Allo stesso modo non è possibile pensare che la tecnologia e
la produzione di beni siano appannaggio esclusivo del capitalismo, come
invece si tende a dare generalmente per scontato.
Il
tempo del non-lavoro
«Così
come l’oro non cesserebbe di avere il suo valore d’uso come oro quando
non fosse più denaro. Le macchine non perderebbero il loro valore d’uso
quando cessassero di essere capitale. Dal fatto che le macchine sono la
forma più adeguata del valore d’uso del capitale fisso, non consegue
minimamente che la sussunzione sotto il rapporto sociale del capitale
sia il rapporto sociale di produzione ultimo e più adeguato per
l’impiego delle macchine»[17].
Il
livello tecnologico raggiunto permetterebbe, in altri termini, di
realizzare una nuova classicità per il genere umano, una sostanziale
liberazione dal lavoro (oppure una generalizzazione del non-lavoro) per
tutta l’umanità e non solo per una sparuta manciata di privilegiati, ma
la condizione è liberare la capacità produttiva dall’imperativo della
realizzazione del valore di scambio, ammettere che la produzione possa
avvenire “fuori dal mercato”[18].
Quando però si dice “fuori dal mercato” si intende il mercato
capitalista nel quale i beni sono scambiati solo dietro transazione
monetaria, oggi già potenzialmente insidiato da altre forme di scambio
permesse dalle nuove tecnologie[19].
Infatti una produzione improntata al valore d’uso implica ugualmente
l’esistenza di uno scambio dei beni e servizi prodotti, semplicemente
tale scambio si svincola dal potere d’acquisto dei soggetti.
Se
s’inquadrano le cose secondo questo punto di vista, diventa semplice
capire come l’istituzione, ad esempio, di un “reddito di cittadinanza”[20]
possa risolvere l’urgenza di una disoccupazione enorme e tendenzialmente
crescente, e ovviamente innescare anche tutta una serie di miglioramenti
qualitativi individuabili nella minore subordinazione del mondo del
lavoro al ricatto della produttività ad ogni costo, ma non possa ancora
giungere a mettere in discussione l’attuale forma di scambio monetaria e
tanto meno ricondurre l’enorme
automa ad una logica produttiva non automatica o post-umana
(produrre al fine di produrre), ma rispondente a necessità concrete,
cosa che richiede un quadro totalmente differente di rapporti sociali di
produzione, in grado di dare alla produzione fini ad essa esogeni.
Mentre la questione del reddito di cittadinanza non implica
necessariamente un governo cosciente della capacità produttiva
complessiva, la rimodulazione della produzione sul valore d’uso dei beni
postula un’iniziativa finalmente sociale (in accordo alla sua essenza),
o se si preferisce “comune” (e non più pubblico/privata), della
produzione. Se non è il valore di scambio realizzabile a decidere per la
produzione di beni, la società sarà finalmente costretta ad imparare ad
indirizzare la propria capacità produttiva, la qual cosa richiede
l’emancipazione culturale della società dai dogmi del consumo e il
concepimento di forme di democrazia superiori a quelle fondate sulla
rappresentanza (per altro in avanzato stato di deterioramento). Si può
dire che la questione della natura pubblica o privata della produzione
di beni è sostanzialmente un falso problema, se non si porta il
ragionamento sulla modalità con cui i beni vengono infine scambiati,
oltre che prodotti.
Si
potrebbe anche dire che la necessaria istituzione di un reddito di
cittadinanza è una sorta di rivendicazione “sindacale” o “transitoria”
per la sopravvivenza dell’uomo nell’epoca dell’automazione
capitalistica, mentre la ancor più necessaria virata dal valore di
scambio a quello d’uso, racchiude una vera e propria dimensione
politica, una sorta di chiave di volta, capace di cambiare la qualità
dell’automazione produttiva e la posizione dell’uomo nel moderno
processo di produzione, da sussunto sotto il capitale (che si presenta
ormai compiutamente nella sua veste di apparato tecnologico fondato sul
verbo tecnocratico, il quale rimpiazza le vecchie ideologie dominanti)
ad emancipato da esso. Non è superfluo notare come la sorte dell’intera
dimensione organica del pianeta sia legata al destino dell’uomo in
questa dialettica tra lavoro vivo
e lavoro morto.
Bisogna, per il futuro, pensare alla completa riarticolazione del
concetto di “lavoro” attorno al nocciolo utilitaristico delle
produzioni, quale principale elemento di azione politica possibile in
un’epoca in cui mentre il ritiro generalizzato dello Stato post-moderno,
o se si preferisce la sua riduzione a
light governance dei flussi di
capitale, non sembra offrire per il futuro grosse prospettive a
concezioni stataliste o keynesiane (in teoria però sempre possibili), si
presentano invece oggettive opportunità di coprire, in autonomia, vuoti
produttivi localizzati sempre più vasti, generati da una ricerca del
profitto privato avvitata su se stessa e tendenzialmente astratta
persino dalla produzione materiale, nonché aggravati da una concezione
dello Stato sempre meno sociale.
Tutto
il ragionamento sulla trasformazione delle modalità di scambio è il
presupposto per il mutamento in positivo di un’altro dato sempre più
massiccio: quello dell’aumento del non-lavoro. È necessario fare in modo
che la diminuzione progressiva del “lavoro necessario”, implicita
nell’avanzamento tecnologico, sia un bene e non un disastro sociale. Ma
questo sarà possibile solo dal momento in cui sarà accettata anche
culturalmente la rottura, che di fatto già opera, della relazione
storica tra sussistenza materiale e tempo di lavoro impiegato
individualmente in un dato processo produttivo, di beni o servizi che
sia. In altre parole se non si accetta che la sussistenza materiale
dell’umanità possa non dipendere dalla quantità di tempo lavorato, non
ha, in fin dei conti, nessun senso continuare a sviluppare la capacità
produttiva sociale[21].
La
necessità di affrontare la crisi socio-culturale, oltre che economica,
oggi, in un contesto in cui la vita quotidiana è traumatizzata
dall’eterno rivolgimento dei modi di vita, con la coscienza di dover
agire, da un lato, sulla concezione stessa della giustificazione sociale
dell’individuo al di là del lavoro e, dall’altro, sulla capacità sociale
di indirizzare la produzione e il suo scambio,
non è conclusione frutto di un ragionamento logico come quello
condotto da Marx a suo tempo, ma piuttosto questione posta dalla
concretezza dell’attualità, caratterizzata da un’impasse strutturale
senza precedenti (i beni da un lato i bisogni dall’altro), che assume i
caratteri di un paradosso storico di portata epocale per il futuro
dell’umanità e del pianeta, paradosso che è tanto più inaccettabile
quanto più grande è la capacità produttiva del sistema nel suo
complesso.
NOVEMBRE 2014
[1]
«Ma non è questa la via per cui le macchine sono sorte come
sistema, e meno ancora quella su cui esse si sviluppano in
dettaglio. Questa via è l’analisi — attraverso la divisione del
lavoro, che già trasforma sempre di più le operazioni degli
operai in operazioni meccaniche, cosicché, a un certo punto, il
meccanismo può subentrare al loro posto.
Qui il modo di lavoro determinato si presenta dunque
direttamente trasferito dall’operaio al capitale nella forma
della macchina, e la sua propria forza-lavoro, svalutata da
questa trasposizione. Donde la lotta degli operai contro le
macchine. Ciò che era attività dell’operaio vivo diventa
attività della macchina. Così l’appropriazione del lavoro da
parte del capitale, il capitale che assorbe in sé il lavoro vivo
— «come se in corpo ci avesse l’amore» — si contrappone
tangibilmente all’operaio».
K. Marx, I lineamenti
fondamentali della critica dell’economia politica (Grundrisse),
edizione digitale a cura del «Collettivo Criticamente»,
reperibile su:
http://www.criticamente.com/marxismo/grundrisse/Marx_Karl_-_GRUNDRISSE_introduzione.htm.
[2]
Basti pensare al corto circuito rappresentato dalla barbarie
dell’isis che si diffonde mediante il più avanzato strumento di
comunicazione ovvero internet. Del resto si tratta solo della
punta dell’iceberg del razzismo che monta in una società sempre
più incapace di comprendere le profonde ragioni del proprio
malessere.
[3]
Si veda a tal proposito il rapporto dell’unicef
sull’aumento della povertà nei paesi ricchi, il 12° della serie
Innocent Report Card,
intitolato Figli della
recessione: l’impatto della crisi economica sul benessere dei
bambini nei paesi ricchi, scaricabile a questo indirizzo:
http://www.unicef.it/doc/5809/rapporto-unicef-figli-della-recessione.htm.
[4]
Si potrebbero citare, ad esempio, opere con titoli abbastanza
eloquenti come Il grande
balzo all’indietro di Serge Halimi, oppure
Il Capitale del
xxi secolo, di
Thomas Piketty, oppure ancora
Chi ha cambiato il mondo?
di Ignazio Masulli, a proposito del quale Piero Bevilacqua in un
articolo su «Il Manifesto» dell’11 ottobre dice: «Ma il quadro
delineato da Masulli conferma e approfondisce, anche per altri
aspetti noti, con dati quantitativi, le linee storiche di
evoluzione delle economie nel periodo considerato. Tale quadro
mostra ad es. come l’innovazione tecnologica sia servita
prevalentemente a sostituire forza lavoro, ingigantendo
l’esercito industriale di riserva. Forse l’autore sottovaluta
l’innovazione di prodotto realizzata con la microelettronica,
soprattutto negli usa.
Ma è un fatto che essa non ha creato, come avvenuto in passato
[...], quella durevole ondata di nuovi posti di lavoro che erano
attesi».
[5]
cnel,
Presentazione Rapporto sul mercato del lavoro 2013-2014 Roma, 30
settembre 2014: considerazioni conclusive.
http://www.cnel.it/53?shadow_documenti=23514.
Il rapporto è a cura, tra gli altri di T. Treu, che dal 2013 è
componente del cnel.
Notevole come a trarre alcune conclusioni sull’andamento del
mercato del lavoro sia proprio colui che nel 1993 introdusse in
Italia le prime forme di precarizzazione dei contratti
lavorativi e che oggi ha buon gioco ad additare la
globalizzazione e la tecnologia, quasi come se queste fossero in
grado persino di scrivere le leggi.
[6]
O ancora di ascoltare Stefano Fassina alla trasmissione «Piazza
pulita» del 27 ottobre 2014, su La7, affermare che in Europa, riferendosi
ai processi decisionali in ambito di politiche monetarie
comunitarie, è ormai esplicito che non potendosi svalutare più
la moneta, si deve svalutare il lavoro.
[7]
Cfr. Crisi, Cnel: bruciati
un milione di posti di lavoro. Impossibile tornare ai livelli
pre-crisi.
http://economia.leonardo.it/crisi-cnel-bruciati-un-milione-di-posti-di-lavoro-impossibile-ritornare-ai-livelli-pre-crisi/;
oppure dello stesso tenore ma con riferimento a dati Istat: Crollano gli occupati under 35: persi 2 milioni dal 2008.
[8]
Potrebbe sembrare un dato soggettivo, ma sta di fatto che il
Gallup Word Poll, ogni anno stila una classifica, intervistando
un campione di 1.000 persone in ogni paese, con domande utili a
capire come cambia la percezione delle proprie condizioni di
vita nel tempo.
[9]
Cfr. A. Ure, Philosophie
des manufactures, Bruxelles 1836, t. I, pp. 18-19 [Filosofia
delle manifatture, in Bib. Dell’Economista, Serie II voI 3°,
p. 23].
[10]
Sul tema è molto illuminante il contributo di G. Deleuze e F.
Guattari, che nell’Anti-Edipo,
ispirandosi al romanzo
Erewhon di S. Butler, hanno diffusamente tratteggiato i
contorni di questa entità para-umana, capace di assoggettare il
nostro inconscio e di utilizzarci come pezzi di un automa, potremmo
dire, fatto di
uomini e macchine. I due autori suggeriscono anche l’insidiosa
idea secondo la quale l’umanità altro non è che l’apparato
riproduttivo del genere macchinico.
[11]
K. Marx, cit., p. 33.
[12]
K. Marx, cit., p. 33.
[13]
K. Marx, cit., p. 41.
[14]
Si vedano a tal proposito gli articoli di V. Fiano pubblicati su
«Città Future» e più nello specifico la straordinaria opera in
tre volumi di R. Malinconico,
Teoria della
totalizzazione, Edizioni Melagrana, Caserta 2012.
[15] K. Marx, cit., p.
39.
[16]
Cos’è la tecnologia se non il tentativo umano di dominare la
natura con sempre minore sforzo? Come può la tecnica umana,
volta a diminuire sempre più lo sforzo umano, essere inquadrata
in un sistema di valorizzazione fondato proprio sulla
misurazione quantitativa dello sforzo?
[17] K. Marx, cit., p.
35
[18]
Cfr. G. Cosenza, Per
un’analisi della rivoluzione digitale, in «Città Future» n.
13,
http://www.cittafuture.org/13/04-Per-un'analisi-della-rivoluzione-digitale.html.
[19]
Il riferimento non è a e-bay o all’e-commerce che rappresentano
solo una modalità ulteriore di concepire il mercato inteso
tradizionalmente, ma ad internet in sé, inteso come strumento di
scambio, sostanzialmente di informazioni e prodotti immateriali
(per ora), che avviene a prescindere da transazioni monetarie e
che rappresenta un flusso enorme di valore d’uso capace di
circolare senza il presupposto della monetizzazione.
[20]
A tal proposito si vedano almeno le
Dieci tesi sul reddito di
cittadinanza di A. Fumagalli, che poco o niente hanno a che
vedere con le proposte del M5S, ad esempio.
[21]
Qui la questione ricalca su un differente piano i caratteri che
ebbe nel xvi secolo lo scontro teologico tra protestanti e cattolici
sulla contrapposizione tra teoria della
Giustificazione per sola
fede, sostenuta dai luterani
e quella della
Salvezza attraverso le opere sostenuta da Roma. Si riporta di
seguito un passo esemplificativo:
«Come
Non è necessario ricordare quanto questa dottrina sia pericolosa
per il buon ordine cristiano, che invece deve affermarsi proprio
sulla base della libera scelta della fede o del rifiuto di
quest'ultima da parte degli uomini. Del resto, non esito ad
affermare che proprio la dottrina conosciuta come
giustificazione per sola fede è il pilastro portante di tutte le
nefandezze compiute dai luterani in venticinque anni. Essa è
l'architrave della loro teologia rovesciata, nonché ciò che dà
loro la forza di scagliarsi contro
Per approfondire si legga: L. Blisset, Q, Einauidi, Torino 1998 (scaricabile anche
direttamente dal sito degli autori:
http://www.wumingfoundation.com/giap/?page_id=6338). Qui basti osservare come, riportato il
dibattito su questioni più terrene, esso assomigli molto al
problema se l’esistenza umana debba essere giustificata dal
lavoro (le opere) o dal suo semplice darsi in quanto tale.