Annelise D’Egidio
Questa corsa del tempo
a sparigliare Destini e Fortuna
(Disamistade – F. De André)
Dalle più violente esagerazioni,
se lasciate a se stesse,
nasce
col tempo una nuova mediocrità
(L’uomo senza qualità – R. Musil)
Commentando la riforma del calendario promulgata nel
1. Tempo sacro e profezie: dagli almanacchi alle agende
Sarà
bene incominciare da un episodio tanto singolare quanto eloquente.
Gorizia, vigilia di San Giovanni, anno di grazia 1583. Tra il gastaldo
della città, il cattolico Mattia Serrar, ed alcuni mercanti austriaci di
credo protestante scoppia una veemente polemica circa la legittimità
della riforma del calendario giuliano, voluta da Gregorio
xiii. La disputa tra le due
diverse fedi assume ben presto una chiara matrice politica: i
protestanti non accettavano l’ingerenza papale nell’organizzazione del
calendario; mentre i cattolici la ritenevano essenziale al fine di
pareggiare la sfasatura tra tempo umano e tempo astronomico. Le due
parti scelsero di aspettare l’indomani: se la fioritura miracolosa del
famoso noce di Codroipo – sempre spoglio in primavera – fosse avvenuta,
puntuale come ogni anno, il 24 Giugno, e ciò nonostante la cancellazione
di 10 giorni dall’anno precedente, sarebbe stato il segno inequivocabile
del benestare divino al provvedimento. Al di là dell’aneddoto, cotanto
zelo è chiaramente imputabile a questioni di ordine politico. In gioco
vi erano i delicati equilibri tra le principali potenze europee, nelle
cui strategie l’appartenenza religiosa giocava un peso enorme e la pace
di Augusta stava lì ad attestarlo. Ecco una prima, importante
indicazione: la misura del tempo ha avuto in principio una forte
connotazione religiosa. Ma, ritornando brevemente alla disputa tra il
gastaldo e i mercanti, le fonti dicono che la fioritura avvenne,
l’autorità del Papa ne risultava perciò confermata e che il Serrar, in
segno di gratitudine e rispetto, inviò a Roma un ramo del noce[2].
La cancellazione dei dieci giorni, con cui l’anno prima era stato
corretto il ritardo accumulato nei secoli dal vecchio calendario
giuliano, si imponeva per «decreto divino» alla cancellerie europee, che
fossero o meno cattoliche! I secoli seguenti vedranno il magistero della
Chiesa Cattolica impegnato ancora in prima linea nelle questioni che
riguardavano gli strumenti
per orientarsi nel tempo: è forse un caso che i più diffusi resteranno,
a tutto il xviii secolo, i
Libri delle Ore? È così emersa un’altra conferma alla indicazione
raccolta poc’anzi, che adesso può essere formulata più precisamente. La
misura del tempo ha rappresentato un campo di interesse privilegiato per
la religione – e non solo quella cattolica – che, tentando di preservare
un potere esclusivo d’indirizzo, ha tentato altresì di difendere e
conservare il suo ruolo di guida politica e culturale. Tant’è che per
vedere pubblicati dei Libri d’Ore, in cui i riferimenti ai passi di
Vangelo previsti dalle celebrazioni eucaristiche erano abbinati ai
giorni, ma senza effigi di santi, bisognerà attendere la fine del
xvi secolo. La scelta di
rinunciare a stampare immagini della devozione popolare dimostra che il
tempo iniziava il suo cammino verso la secolarizzazione.
Tuttavia, l’importanza dei giorni continuava a
dipendere dal colore attribuitogli dal calendario liturgico: bianco per
il tempo solenne di Natale, viola per i morti, rosso nelle celebrazioni
della Pentecoste, verde il tempo ordinario e così via, anno dopo anno,
tutti gli anni. Ma i veri “eroi” dei breviari continuavano ad essere la
Madonna – a cui la Chiesa da sempre riconosce un grande potere di
mediazione tra la Terra e i Cieli – e i santi, cui si affidava la
protezione del raccolto, la prosperità della semina ed il buon esito
della vendemmia, insieme alla salute dell’organismo e degli animali[3].
È in questa prospettiva che, a metà del
xvi secolo, il vescovo di
Auxerre proponeva di anticipare all’inverno le celebrazioni in onore di
san Giorgio, san Filippo e san Marco, dimostratisi poco affidabili nel
proteggere i raccolti dalle gelate delle primavere precedenti[4].
Terzo rilievo, più generale: la storia della “conquista del tempo”[5]
è densa, ricca e spesso controversa. Parallelamente, nel Basso Medioevo,
cominciarono a circolare gli almanacchi – versione “laica” dei breviari
– che attestavano la progressiva affermazione della borghesia: stava
sorgendo un tempo nuovo: il tempo lineare dell’homo
faber fortunae suae[6].
La storia avrebbe ricevuto un ritmo nuovo e gli uomini avrebbero
incominciato a pensare al tempo come ad un loro dominio specifico,
sebbene permanessero ancora i rigidi dettami ecclesiastici; che però non
dovettero spaventare più di tanto i mercanti italiani dato l’impegno
profuso – ed il successo raggiunto – nelle loro attività terrene.
Progressivamente, si fece strada una distinzione netta tra commercio ed
usura. Scommettere sul tempo, come faceva il mercante, rischiando il suo
patrimonio personale, non era più visto come un furto ai danni di Dio,
cui si era sempre creduto appartenesse. Si trattava di due tempi diversi
e la diffusione di orologi pubblici in età comunale, spesso – e
non a caso – posti di fronte ai campanili delle chiese, stava lì a
dimostrarlo: mentre il tempo di Dio era scandito dai rintocchi delle
campane, il tempo delle redivive città seguiva l’incessante, perpetuo
giro delle lancette. «Tutta la vita economica all’alba del capitalismo
commerciale è, qui, messa in questione»[7]
– sintetizza sagacemente Le Goff. La mentalità contadina, il cui bisogno
di rassicurazioni era pienamente soddisfatto dai calendari, non avrebbe
tardato a cedere il passo all’intraprendenza borghese, il cui
pragmatismo, il cui tempo,
imponeva di concentrare l’attenzione sul presente. Ecco perché ai
proverbi della saggezza popolare, si associano sempre più spesso notizie
di pubblica utilità, quali indirizzi di avvocati e sedi vescovili, oltre
alle scadenze d’imposte; e soprattutto, dettaglio nient’affatto
trascurabile, sul retro aggiungono dei fogli bianchi per le annotazioni.
Questa “zona franca” è già un passo ulteriore verso l’agenda così come
noi la conosciamo. Il primo esemplare di cui si ha traccia è del 1780:
un anonimo vi annotava degli appuntamenti per i mesi a venire. Com’erano
lontani la cosmologia tolemaica e le riserve di Zenone sul divenire! Tra
la definizione platonica del tempo «immagine mobile dell’eternità» e la
distinzione aristotelica in sfera lunare e sublunare, il vero vincitore
era Eraclito. Non ci bagniamo mai due volte nello stesso fiume.
2. Società e macchine: l’accelerazione del tempo
Nell’Europa del xvi secolo
i campanili incarnavano agli occhi dei primi operai del tessile lo
spauracchio del padronato: anticipando al mattino e posticipando alla
sera lo scampanio convenuto, erano ingannati sul numero effettivo di ore
di lavoro e, quindi, sulla paga percepita. Ad Amiens ci si batté a lungo
per l’installazione di un quadrante sulla torre campanaria; quando ciò
avvenne, l’abuso ebbe fine. Il tempo era ora sotto gli occhi di tutti e
i lavoratori potevano autopticamente controllarne lo scorrere. I
rintocchi delle campane avevano un senso ben preciso anche per altre
orecchie: la vita dei monasteri cluniacensi e cistercensi ne era
interamente regolata. I frati non conoscevano che il tempo di Dio, per
la cui gloria non bisognava indugiare nell’ozio, ma occupare, fin quasi
a spremerla, ogni ora della giornata con le mansioni previste, secondo
il motto omnia horis competentibus
compleantur. Sono questi due esempi che lasciano intendere quanto la
disciplina del tempo, con cui il Vecchio Continente aveva già una certa
familiarità – la Regola benedettina risaliva al 530 d. C. – iniziasse a
radicarsi nella mentalità occidentale. E ciò va tenuto presente
considerando anche che i primi esemplari di orologi in Cina erano
apparsi fin dal ii secolo
a.C., senza però innescare alcun cambiamento nei costumi e nelle
abitudini sociali. Con delle rudimentali sveglie note come
horologia nocturna o excitatoria
e molto simili ai nostri timer da cucina, centinaia e centinaia di frati
in tutta Europa venivano destati nel cuore della notte e all’unisono – è
il caso di dirlo – per prender parte alle veglia collettiva[8].
Che si trattasse del giorno o della notte, in contesto laico o
religioso, all’alba della Modernità, in Europa, le coscienze erano state
educate dalla ripetizione quotidiana a certi ritmi di vita, che la
reiterazione rendeva vere e proprie abitudini. Era certamente nel
giusto, allora, il sociologo Norbert Elias[9]
quando affermava che il tempo è una istituzione sociale, il cui grado e
tipo di sviluppo dipendono dal grado e dal tipo di sviluppo della
società che se ne serve. È inoltre evidente la correttezza di un altro
suo rilievo: al tempo si legano le pratiche di disciplinamento ed
assoggettamento con cui le società – passate e presenti – si
assicura(va)no continuità e sopravvivenza. Nonostante il
Saggio sul tempo contenga
degli spunti di riflessione validi ancora oggi, i suoi argomenti non
reggono più all’urto del tempo
breve[10].
In sostanza, se quotidianamente l’esperienza che ciascuno di noi fa ed
ha del tempo, è mediata da strumenti la cui velocità supera la velocità
del nostro pensiero; e ancora, se l’uomo ha costruito strumenti capaci
di processare informazioni e svolgere compiti in autonomia – il tutto, e
non è da poco, in frazioni sempre più piccole – non sarebbe più
appropriato dire che il nostro tempo è oggi un tempo che subiamo, un
tempo che scandiscono per noi (e ahinoi) le macchine? Una obiezione che
facilmente si potrebbe rivolgere al ragionamento è la seguente: Perché
tanto stupore? Lo aveva già capito Marx più di un secolo fa. Per di più,
in seguito, la scuola di Francoforte avrebbe approfondito il legame tra
fordismo e sublimazione degli istinti nella società della produzione
industriale massificata. L’obiezione coglie nel segno ma, invece di
chiudere il ragionamento, lo rilancia, evocando un nome – che non solo è
scelto, ma si impone a noi – per l’attinenza che ha col nostro tema di
fondo. Il nome è quello di Guy Debord. La
società dello spettacolo che
ci ha descritto non ha tempo, è estatica – nel senso che la sua vera
natura è collocata fuori da se stessa, nella produzione inarrestabile di
immagini, di simulacri a buon mercato. Il suo tempo può essere definito
un’eternità cibernetica[11].
Con ciò siamo ritornati di nuovo al punto di partenza: il nostro tempo è
il tempo che scandiscono apparecchi, macchinari, dispositivi. La domanda
non è più chi si nasconde dietro di essi, ma cosa (di noi) essi
nascondono, serbano, rubano. A questo punto, allora, solo la memoria può
venirci in soccorso. Il Tempo Atomico Internazionale è solo l’ultima
svolta di una rincorsa lunghissima, che ha come protagonista un oggetto
a cui oggi siamo talmente abituati da viverlo come una seconda pelle,
l’orologio. Che sia al quarzo o nucleare, digitale o analogico, a
pendolo o a cucù, un cronografo o un esemplare da polso, in ogni caso
l’affidabilità e la precisione sono assicurate. Da Galileo e Huygens
alla grande tradizione artigiana del Giura svizzero, i progressi
dell’orologeria hanno significato per l’uomo una vera e propria
cronodipendenza[12].
Precedentemente, c’è stata in Europa una lunga fase in cui gli orologi
erano trattati come beni di lusso ed erano acquistati in quanto simboli
di un certo status sociale, il che oggi accade per altri oggetti,
Baudrillard docet[13]!
La tecnologia di cui disponiamo rende le nostre vite più comode, al
punto che, come recitava lo slogan di una nota casa di elettrodomestici[14],
loro – la schiera silenziosa di lavatrici, asciugatrici,
lavasciugatrici, lavastoviglie – lavorano e noi – utenti distratti ed
indaffarati, frenetici – viviamo, lavoriamo, usciamo, consumiamo. E non
è finita, perché, alla potenza motrice dell’elettricità, che da circa
cinquant’anni esime madri di famiglia, colf, personale di servizio e
uomini soli dall’onere di lavare a mano panni e piatti, si è aggiunta
l’intelligenza del computer: così ogni dispositivo elettronico presente
nelle nostre case pensa per noi, si cura, al posto nostro, della casa e,
in fondo, di noi[15].
Appare tutto rassicurante e semplice:
they work, we play! Ogni
elettrodomestico sa cosa deve fare e lo fa senza esitare né distrarsi,
perché quando c’è di mezzo la domotica è impossibile che il pollo bruci
nel forno o che i panni si restringano durante il lavaggio. Ma cos’ha a
che fare questo col tempo? Due considerazioni: la prima è che
l’elettronica applicata alla vita di tutti i giorni ci fa risparmiare
tempo e la seconda che l’elettronica, pur non avendo direttamente a che
fare con la misura del tempo, lo ridefinisce. In un bel saggio del 1950,
parzialmente tradotto in italiano col titolo
Dal mondo del pressappoco
all’universo della precisione[16],
Alexandre Koyré pone in essere la differenza tra strumento ed utensile,
mentre cerca di stabilire come mai la scienza antica non abbia dato
origine ad una vera e propria tecnologia. Tra le macchine e il tempo vi
è un legame molto stretto, che il capitalismo rende paradossale. Nel
tredicesimo capitolo del primo libro de
Il Capitale si afferma che il
risparmio di tempo ottenuto con l’automazione non avvantaggia l’uomo, ma
il capitale. In che modo? L’esposizione di Marx fuga ogni dubbio e ci
serve per introdurre un nuovo elemento nel ragionamento. Le macchine
servono (al)l’uomo, svolgendo incombenze estremamente faticose. Quando,
dalla Prima rivoluzione industriale in poi, gli è stata applicata
l’energia meccanica ottenuta dai combustibili fossili, il volume di
merci si è accresciuto, a fronte di una diminuzione del tempo impiegato
per la produzione. Se i Greci e i Romani non ebbero mai necessità di
mettere a punto macchinari che lavorassero al posto loro, ciò è accaduto
perché la loro economia era un’economia schiavista: la disponibilità di
manodopera non rappresentò mai un problema. Per di più, presso di loro,
il lavoro fisico non godeva di buona reputazione, anzi, al contrario,
era ritenuto disonorevole[17],
qualcosa da riservare appunto agli schiavi. Con un simile retroterra
pensare di applicare la teoria alla pratica era, è stato, impossibile.
Sarebbe occorso un radicale cambio di paradigma perché ciò avvenisse: in
estrema sintesi, l’affermazione della Ragione soggettiva sulla Ragione
oggettiva[18].
Uno strumento, ci dice Koyré, è una estensione del corpo, qualcosa a cui
ci affidiamo, qualcosa da cui ci facciamo sostituire; un utensile invece
favorisce un certo lavoro ed ha ragion d’essere solo in funzione di
esso, non rimanda ad altro che alla funzione cui è preposto[19].
Il vero discrimine tra l’uno e l’altro non è interno, cioè non dipende
dalle loro caratteristiche tecniche, ma dallo scenario che hanno
attorno. Se agli strumenti domandiamo alte prestazioni e, in primo
luogo, pretendiamo siano affidabili, gli strumenti da noi non pretendono
nulla, ma lavorano e basta, fino a rendere del tutto superflua la
presenza umana stessa. L’alienazione di cui Marx ha parlato, oggi, è più
che mai diffusa: il lavoratore è in affanno rispetto alla competitività
della macchina, non solo per velocità di esecuzione, ma anche di
pensiero. Il complesso della strumentazione tecnologica, che il mercato
ha generosamente cura di diffondere in ogni angolo del Pianeta, rende
addirittura superflua la presenza umana, se non in quanto
compratori-utenti. Viene da chiedersi se non saranno i robot a decretare
la fine della poesia, che Montale credeva agonizzante fin dall’emergere
della società di massa[20].
Lo scenario che si profila all’orizzonte della storia umana è
assolutamente fantascientifico: lo
Human Engeneering sta riuscendo nell’impresa di celare la
vergogna prometeica[21]
che affligge la stirpe adamitica. A seguito della cacciata dal Paradiso
terrestre, è sorto un vero e proprio Paradiso artificiale. Dietro la
foglia di fico virtuale dell’Intelligenza Artificiale, armato di una
tavola dei comandamenti nuova di zecca, il cui verbo risponde al nome di
Qualità Totale[22],
l’umanità (si) cela l’atavico
malaise dell’unicità, croce e delizia della soggettività. Cosicché,
mentre noi subiamo il fascino macchinico, le macchine sognano corpi
umani[23].
3. Rischio, mutui e finanza: il tempo al tempo della crisi
Settembre 2008: la Lehman Brothers dichiara la bancarotta, i mercati
mondiali tremano e i telegiornali trasmettono le scene drammatiche dei
dipendenti della banca d’affari mentre lasciano gli uffici, portando con
sé scatoloni di effetti personali, probabilmente serviti a rendere
familiare il luogo di lavoro. La peggiore crisi economica dal Secondo
Dopoguerra era appena cominciata, i suoi strascichi non avrebbero
tardato a farsi sentire anche in Europa. Della plurisecolare saga della
“conquista del tempo” la vicenda dei mutui
subprime costituisce l’ultimo tassello ed ha tanto da raccontare.
Peccato però che analisi e commenti si siano focalizzati prevalentemente
sulle statistiche ed abbiano cercato di inferirne “ricette miracolose”
per l’occupazione e la crescita. La lezione che dovremmo aver appreso
dagli Stati Uniti, epicentro del terremoto finanziario, mostra la
ferocia di cui è capace il tempo quando è iper-stimolato, fino al punto
di tradursi in accelerazione pura. La possibilità di prevedere e quindi
ridurre ogni ritardo negli spostamenti, la capienza onnivora dello
schermo e l’assottigliamento della differenza tra un’azione ed un
touch fino al punto in cui «un
semplice sfiorare una tastiera può diventare un comportamento a rischio»[24]:
è questa la fenomenologia della
società del rischio di cui, in tempi non sospetti, parlava Ulrich
Beck[25].
Se, da un lato, la velocità genera possibilità, moltiplica le
opportunità, dall’altro suscita mostruosità. Il capitale vive dei
paradossi che produce e più ne produce più ha speranza di protrarre il
suo dominio, come già era stato notato con Marx sulle macchine. È il
micidiale cocktail di capitale, mass media, velocità e tecnica la vera
origine della crisi. Per anni, in America, banche ed agenzie immobiliari
hanno cooperato al sogno di quanti desideravano una casa di proprietà
senza potersela permettere, nella più completa indifferenza. Nessuno ne
era scandalizzato: e perché mai? L’America, terra promessa del
capitalismo, la frontiera in cui rischio e opportunità diventano un
tutt’uno, magnanimamente e democraticamente concedeva una pioggia di
chances – tradotto: accesso al
credito illimitato e senza richiedere delle garanzie sufficienti. Dopo
l’operaio della Ford negli anni centrali del secolo scorso, il target
del capitalismo 2.0, l’Impero, è
politically correct, non fa discriminazioni di colore o razza:
afroamericano o ispanico, musulmano o scintoista, immigrato di prima, di
seconda o terza generazione non importa. Sono, siamo, tutti
busy, occupati, indaffarati,
oberati di lavoro, perché pensiamo al
business, gli affari e non
potrebbe non essere così dato che “il tempo è denaro”. Questo mantra è
l’ossessione che permea ciascuno degli abitanti di quello che una volta
era noto come villaggio globale
e che oggi è ridotto ad un gigantesco cumulo di
hedge found e derivati
finanziari. La storia di Jordan Belfort – il lupo di Wall Street cui si
ispira l’ultimo film di Martin Scorsese – è la parabola discendente di
un uomo a cui il tempo è scoppiato tra le mani. La sua storia insegna:
sovraccaricando il futuro, si ipoteca pesantemente il presente, sotto il
cui peso il passato si sbriciola. Sono gli effetti della nuova bomba
atomica, nella sua più temibile declinazione informatica[26].
4. Conclusione: il tempo come unità di misura del tempo
Nella
prima autobiografia che il mondo occidentale ricordi, il tempo occupa un
posto di rilievo. Agostino d’Ippona[27]
parla di sé, ricostruisce la sua storia ed ha bisogno di fare
riferimento al tempo, che è la coordinata entro cui le sue vicende
personali assumono un senso. Nel processo di formazione dell’identità,
il soggetto mette in successione gli eventi della sua vicenda
biografica, stabilendo tra loro dei rapporti di causalità, dei nessi che
gli consentono di interpretare se stesso, gli altri ed il mondo[28].
Si tratta di un lavoro che lo impegnerà lungo tutto il corso della sua
vita e che può dare origine a patologie e a disturbi del comportamento,
ove venga condotto in modo erroneo. Su quale sia il ruolo ed il peso che
il tempo rivesta sul piano psichico e psicologico, il dibattito è
aperto. Molti specialisti concordano nel giudicare i disturbi della
percezione del tempo la causa paradigmatica dei disturbi di personalità[29]
in soggetti che rifiutano di accettare la realtà e, soprattutto, non
riescono a reggere il peso dell’irreversibilità degli eventi[30].
Sono i tipici casi di «tempo vissuto affettivamente»[31]
riscontrabili nelle personalità
borderline. Noia e forte alienazione accompagnano la percezione che
del tempo hanno gli schizofrenici, a cui il mondo sembra opprimente e la
realtà insostenibile[32].
Una cosa è però certa: operando sulla sua esperienza interiore del
tempo, che ad Agostino si era rivelata intuitivamente feconda, il
soggetto assume atteggiamenti diversi rispetto al mondo reale.
Evidentemente, vivere in un mondo dove il tempo è accelerato non è privo
di conseguenze sugli individui che lo abitano; la principale e la più
temibile è per Virilio il mutismo cui saremo costretti dalla sparizione
della socialità per prossimità e contatto fisico[33].
La destrutturazione della soggettività che caratterizza la nostra epoca
è dunque una condizione di patologia diffusa, generalizzata, i cui esiti
sono sotto gli occhi di tutti. Quando la realtà si fa liquida, secondo
la fortunata metafora di Bauman, si corre concretamente il rischio di
annegare. L’uso prevalente dell’espressione
Real time è improprio: nata in
ambito informatico e applicata erroneamente al mondo della
comunicazione, designa in senso stretto quei programmi il cui “tempo di
reazione” è stabilito in anticipo. È ovvio che ciò può avvenire se ai
programmi si insegna come comportarsi in ogni eventualità, di modo che
sappiano sempre regolarsi. Di conseguenza, il tempo interno di questi
programmi è un tempo schematicamente organizzato e riempito di tutti i
contenuti possibili. Il real time
è un circuito chiuso, automatico, privo di qualsiasi relazione con
l’ambiente esterno; cioè, va a modificare quest’ultimo, senza venirne a
sua volta modificato. È la caratteristica delle macchine, in fondo, ed è
diventata anche la nostra oramai: se pure continuiamo intuitivamente a
sentire il tempo scorrere, non ne siamo coscienti poiché tale esperienza
ci appare indecifrabile ed inesprimibile. Ma il nostro non è lo stesso
sgomento di Agostino. C’è qualcosa di più e di nuovo anche. Gli studi di
Galilei sull’accelerazione della caduta dei gravi, in particolare
l’esperimento del piano inclinato, ci hanno abituato a considerare il
tempo indipendentemente dallo spazio; cioè come una grandezza non
spazializzata da impiegare nella misura del moto. Pesando le gocce
d’acqua che fuoriuscivano dalla clessidra, messa in funzione alla
partenza del mobile sulla superficie inclinata, il fisico pisano era
riuscito in un certo qual modo a “pesare” il tempo. È da qui che gli
uomini smettono di guardare al cielo, di scrutare gli astri per trarne
indicazioni sul tempo. Diversamente da come lo aveva inteso Aristotele e
con lui la Scolastica, al sistema solare non si guarda più come metafora
della perfezione divina. Stava succedendo l’esatto contrario: i neonati
orologi erano assunti come il paradigma euristico della scienza moderna,
in particolare della meccanica. Le movenze sapienti della più grande
tradizione artigiana, unitamente al genio delle menti fisiche e
matematiche più eccelse d’Europa, stavano per dare vita alla macchina
più rivoluzionaria dell’intera storia umana. Senza l’orologio il nostro
mondo, noi, la nostra storia ed il tempo stesso non sarebbero quelli che
siamo abituati a conoscere. Da Huygens – il primo realizzatore
dell’orologio a pendolo, che Galileo, pur avendo progettato, non riuscì
a costruire perché oramai troppo anziano – fino ad Einstein l’orologio
e, con esso, una certa Weltanschauung, ha fondato il nostro stesso stare al mondo. Le reti
di connessioni infinite che strutturano la nostra realtà quotidiana
oggi, ossia il mondo virtuale dei
social riplasma continuamente la nostra esperienza, ridefinendo
anche il nostro senso interiore del tempo. Non sono più gli orologi ad
orientarci, il loro tempo è in affanno, rispetto alla profusione di
notizie, byte e stimoli con
cui gli smartphone e i
tablet non smettono mai di
bombardarci. Il collasso del tempo, così come la specie umana è stata
abituata finora a conoscerlo, è un trapasso epocale paragonabile per
forza e novità alla Rivoluzione Scientifica. Pur essendo figli di
quest’ultima, non le somigliamo già più. Sembra proprio che gli orologi
siano destinati a finire al modo in cui era cominciata la loro epopea –
e non è la più atroce delle beffe per lo strumento che ha decretato la
transizione dal tempo ciclico al tempo lineare? – cioè a fare bella
mostra di sé, impreziosendo l’arredamento ricercato dei più fini salotti
borghesi nell’Europa del XVII secolo. Sono questi i casi in cui la
Storia si ripete come una farsa: ma siamo certi che ad essere beffati
saranno solo i malcapitati orologi?
APRILE 2014
Bibliografia
- G.
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distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale,
Bollati Boringhieri, Torino 1992.
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nell’età globale, Laterza, Roma 2008.
- D.
De Kerckhove, La conquista del
tempo. Società e democrazia nell’era delle rete, Editori riuniti,
Roma 2003.
- N.
Elias, Saggio sul tempo, Il
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- M.
Horkheimer, Eclisse della ragione,
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- T.
Hylland Eriksen, Tempo tiranno,
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- A.
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all’universo della percezione, Einaudi, Torino 2000.
- D.
S. Landes, Storia del tempo:
l’orologio e la nascita del mondo moderno, Mondadori, Milano 1984.
- F.
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- M.
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- P.
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Laterza, Roma 2007.
- A.
Sabbadini, Il tempo in
psicanalisi, Feltrinelli, Milano 1979.
- P.
Virilio, La bomba informatica,
Raffaello Cortina, Milano 2000.
[1]
Ne La lentezza (trad. it 1995)
Milan Kundera si
domanda dove siano finiti i vagabondi e gli sfaccendati delle
canzoni popolari e cita un proverbio ceco in cui è detto che chi
ozia gode del privilegio di contemplare le finestre del buon
Dio. Oggi gli improduttivi, i contemplativi, scontano la
sanzione sociale introdotta dall’equiparazione
capitalistico-spettacolare di ricchezza=virtù=felicità, che li
colloca ai margini della società, come inutili. Per la verità,
già il nazismo hitleriano e la sua eugenetica si spesero in una
geografia umana di tal genere, collocando i buoni – in questo
caso i sani – da un
lato e i cattivi dall’altro, nei campi di sterminio – cioè il
non conforme biologicamente, quindi i malati e i disabili, oltre
alle razze non ariane; ancora: ciò che faceva eccezione per
ideologia e modo di vivere (dissidenti e omosessuali) ed infine
la minaccia sub-umana ebraica. L’importanza che ai fini della
riflessione e, quindi della critica che genera il dissenso, ha
il pensiero contemplativo – cioè improduttivo, economicamente
senza corrispettivo – è dimostrata da quanto scriveva Virginia
Woolf sulle donne nel saggio del 1929
Una stanza tutta per sé.
Essendone state private sin dagli esordi della storia umana, le
donne, relegate alla cura dei figli e della famiglia, non hanno
potuto quasi mai far sentire la propria voce nei salotti buoni
della cultura europea e mondiale. Il che, purtroppo, continua a
succedere anche oggi, se pure, bisogna ammetterlo, tanti passi
in avanti siano comunque stati compiuti.
[2]
L’episodio è riportato nell’agile saggio di F. Maiello,
Storia del calendario,
Einaudi, Torino 1994, pp. 18-19.
[3]
Spesso i santi esercitavano uno specifico patrocinio,
meritandosi la devozione di alcune categorie di fedeli in
particolare: tra le varie professioni, gli agricoltori erano
coloro che potevano annoverare più protettori. Un elenco
sufficientemente dettagliato è disponibile all’indirizzo
seguente:
http://it.wikipedia.org/wiki/Lista_di_santi_patroni_cattolici_(professioni).
[4]
F. Maiello, cit., pp. 49-55.
[5]
La conquista del tempo ha voluto dire misura del tempo fino all’infinitamente
breve come lo definisce Jérome Bindé in un saggio confluito
nella raccolta curata da De Kerckhove per Editori riuniti
(2003). Si è passato dai decimi di secondo del
xvi secolo, ai
centesimi di secondo due secoli dopo. A metà del
xix secolo vennero scoperti i millesecondi, un secolo dopo i
microsecondi, nel 1965 i nanosecondi, nel 1970 i picosecondi,
nel 1990 i femtosecondi e nel 2020 si progetta di arrivare agli
atto secondi. Questa frammentazione estrema non è per nulla
priva di conseguenze per noi. Più il tempo è frammentato più è
occupato, controllato, maneggiato, con esiti sociali, culturali
e politici non difficili da immaginare, perché quanto mai
attuali ai nostri giorni.
[6]
Il prototipo è l’umanista italiano di prima generazione.
Intellettuale e spesso uomo d’affari o mercante, viene
rappresentato come portatore della virtù della temperanza, il
cui attributo iconico è l’orologio – allora solo candidato a
divenire il metro di misura ufficiale d’ogni cosa nei secoli a
venire.
Cfr. J. Le Goff, Dal tempo
medievale al tempo moderno in
Tempo della chiesa e tempo
del mercante, Einaudi, Torino 2000.
[7]
Ibidem, p. 4
[8]
Per questa parte iniziale del secondo paragrafo si rimanda ai
primi quattro capitoli di: D. S. Landes,
Storia del tempo:
l’orologio e la nascita del mondo moderno, Mondadori, Milano
1984.
[9]
Il testo cui ci si riferisce è: N. Elias,
Saggio sul tempo, Il
Mulino, Bologna 1986.
[10]
Il tempo breve è un
saggio di Marco Niada, che viene citato in quanto ha fornito
diversi spunti di approfondimento e analisi per questo articolo.
[11]
P. Virilio, La bomba informatica Raffaello Cortina, Milano 2000, pag. 39.
[12]
Il termine è di Pietro Redondi, autore dell’introduzione
all’antologia di Laterza Storie del tempo.
[13]
Per un’analisi delle conseguenze socio-politiche ed
economico-culturali di ciò si rimanda in particolare a: J.
Baudrillard, Per una
critica dell’economia politica del segno, Mazzotta, Milano
1974; e dello stesso
autore: Lo scambio
simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 2007.
[14]
«We work, you play» è stato lo slogan pubblicitario usato dalla
Indesit in una campagna televisiva recente. Oggi questo stesso
slogan è diventato parte del marchio ed iconograficamente è
posto subito sotto al nome come si può vedere nella home page
del sito:
http://www.indesit.co.uk/indesit/2/promo/nero/index.html.
Ovviamente questo è solo un esempio tra tanti. Già Baudrillard
ne La società dei consumi aveva notato quanta solerzia verso il
consumatore esprimessero gli slogan pubblicitari delle marche
che aveva preso in considerazione. È pertanto inutile dilungarsi
ulteriormente su tale punto. A proposto di lavatrici e pulizia
merita di essere citato il sagace commento di Roland Barthes dal
titolo Saponificanti e
detersivi, scritto in occasione del primo Congresso mondiale
della Detersione del 1954, poi confluito nella raccolta
pubblicata da Einaudi col titolo
Miti d’oggi.
Nell’edizione di riferimento che risale al 2005, tale articolo è
presente alle pagg. 28-30.
[15]http://www.repubblica.it/tecnologia/2013/11/11/news/presto_auto_frigo_e_lavapiatti_dialogheranno_tra_loro_accordo_tra_abb_bosch_cisco_ed_lg_per_le_case_intelligenti-70744333/?ref=search;
oppure il più recente:
[16]
Il testo di Koyré cui ci si riferisce si intitola
Etudes sur l’histoire de
la pensée philosophiques en Russie. In italiano è stato
parzialmente tradotto da Paola Zambelli col titolo succitato per
Einaudi nel 1967. L’edizione consultata per la stesura di
quest’articolo è invece la ristampa che Einaudi ha pubblicato
nel 2000.
[17]
Archimede non lasciò alcun progetto o testimonianza delle
macchine da guerra che costruì su richiesta del re Gerone per
difendere Siracusa dall’assalto dell’esercito romano del
[18]
Cfr. M. Horkheimer,
Eclisse della ragione, Einaudi, Torino 1969.
[19]
Cfr. A. Koyré, cit., p. 101.
[20]
Ricevendo il Nobel per la letteratura nel 1975, Eugenio Montale
sceglie di dedicare la lectio al futuro della poesia. Il testo che pronuncia si intitola
È ancora possibile la
poesia ed è disponibile al seguente indirizzo:
http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/literature/laureates/1975/montale-lecture-i.html.
[21]
Sia quest’espressione che lo
Human Engeneering
adopertato al rigo di sopra sono di G. Anders e sono state
tratte dal primo volume de
L’uomo è antiquato.
[22]
Una definizione chiara e concisa è fornita da Wikipedia alla
pagina:
[23]
È quel che avviene ne
L’uomo bicentenario, un film del 1999 diretto da Chris
Columbus e tratto dall’omonimo racconto di Isaac Asimov e dal
successivo Robot NDR 113,
scritto a quattro mani da Asimov e Robert Silverberg. Si pensi
anche al film A.I. di
Spielberg del 2001.
[24]
P. Virilio, cit., p. 19.
[25]
Il testo di riferimento qui impiegato è: U. Beck,
Conditio humana: il
rischio nell’età globale, Laterza, Roma 2008.
[26]
P. Virilio, cit., p. 59.
[27]
Ne Le confessioni, scritte tra il 397 ed 398 d.C., scriveva di sapere
cosa fosse il tempo solo fino a che nessuno gli avesse domandato
di definirlo, nel qual caso, non avrebbe saputo spiegarlo.
Proseguendo il ragionamento, Agostino definisce il tempo come
distensio, una
estensione dell’animo umano (libro
xi, 14, 17).
[28]
Al culmine delle sue riflessioni sul tempo, il filosofo francese
Henri Bergson operò la distinzione tra tempo della scienza e
tempo soggettivo o durata.
Oltre ad essere carica di suggestioni poetiche e letterarie in
quanto il problema del tempo come storia individuale ritorna in
Proust che magistralmente lo affronta ne
Alla ricerca del tempo
perduto, introduce un tema di riflessione non trascurabile,
cioè il peso dei ricordi nella formazione dell’identità
personale e la sua irreversibilità o, in senso più cogente, la
morte. L’esperienza della morte è al cuore della speculazione
del primo Heidegger e, segnatamente, di
Essere e tempo, uno dei testi più influenti della filosofia del
Novecento (e non solo). Da ultimo, segnaliamo anche che
l’esperienza del tempo come differimento, cioè contenimento
degli istinti e rinvio dell’appagamento è per Freud l’inizio
della civiltà, i cui disagi stigmatizza nello scritto del 1929
il cui titolo è per l’appunto
Il disagio della civiltà.
[29]
Cfr. P. Schilder Psicopatologia del tempo nel volume collettaneo curato da Andrea
Sabbadini, Il tempo in
psicanalisi, Feltrinelli, Milano 1979.
[30]
Si veda A. Arlow Jacob,
Disturbi del senso temporale in A. Sabbadini (a cura di),
cit.
[31]
Cfr. P. Hartcollis, Tempo
ed affetto in psicopatologia in Sabbadini (a cura di),
cit.
[32]
Ibidem.
[33] «Si può ormai immaginare una vita planetaria che diventa progressivamente una storia senza parole, un film muto, un romanzo senza autore, dei comics senza fumetto...», conclude Virilio, cit., p. 68.