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Maggio 2014

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«Contemplando le finestre del buon Dio»[1]: il tempo tra calendari, orologi e accelerazione informatica

Annelise D’Egidio

 

Questa corsa del tempo

a sparigliare Destini e Fortuna

(Disamistade – F. De André)

 

Dalle più violente esagerazioni,

se lasciate a se stesse,

 nasce col tempo una nuova mediocrità

(L’uomo senza qualità – R. Musil)

 

Commentando la riforma del calendario promulgata nel 46 a.C. da Giulio Cesare nella sua veste di pontifex maximus, Cicerone scriveva, non senza preoccupazione: «Ora le stelle si muoveranno per decreto». È forse la prima attestazione di un tema che sarà in seguito ampiamente dibattuto: è opportuno (ed auspicabile) che le autorità intervengano sul calendario? La questione non è da poco come la Storia ci ha mostrato: la misura del tempo ha rappresentato un campo d’intervento privilegiato sia per l’azione auto-riformatrice dell’ordine costituito che per la veemenza rifondatrice dei rivoluzionari. Ogni assalto alla stanza dei bottoni si è concluso con un nuovo calendario. Ogni Rivoluzione se n’è dato uno tutto suo: da quella francese a quella d’Ottobre, passando per la marcia su Roma. In definitiva, è più probabile che nasca un nuovo calendario e non una costituzione nuova!

 

1. Tempo sacro e profezie: dagli almanacchi alle agende

Sarà bene incominciare da un episodio tanto singolare quanto eloquente. Gorizia, vigilia di San Giovanni, anno di grazia 1583. Tra il gastaldo della città, il cattolico Mattia Serrar, ed alcuni mercanti austriaci di credo protestante scoppia una veemente polemica circa la legittimità della riforma del calendario giuliano, voluta da Gregorio xiii. La disputa tra le due diverse fedi assume ben presto una chiara matrice politica: i protestanti non accettavano l’ingerenza papale nell’organizzazione del calendario; mentre i cattolici la ritenevano essenziale al fine di pareggiare la sfasatura tra tempo umano e tempo astronomico. Le due parti scelsero di aspettare l’indomani: se la fioritura miracolosa del famoso noce di Codroipo – sempre spoglio in primavera – fosse avvenuta, puntuale come ogni anno, il 24 Giugno, e ciò nonostante la cancellazione di 10 giorni dall’anno precedente, sarebbe stato il segno inequivocabile del benestare divino al provvedimento. Al di là dell’aneddoto, cotanto zelo è chiaramente imputabile a questioni di ordine politico. In gioco vi erano i delicati equilibri tra le principali potenze europee, nelle cui strategie l’appartenenza religiosa giocava un peso enorme e la pace di Augusta stava lì ad attestarlo. Ecco una prima, importante indicazione: la misura del tempo ha avuto in principio una forte connotazione religiosa. Ma, ritornando brevemente alla disputa tra il gastaldo e i mercanti, le fonti dicono che la fioritura avvenne, l’autorità del Papa ne risultava perciò confermata e che il Serrar, in segno di gratitudine e rispetto, inviò a Roma un ramo del noce[2]. La cancellazione dei dieci giorni, con cui l’anno prima era stato corretto il ritardo accumulato nei secoli dal vecchio calendario giuliano, si imponeva per «decreto divino» alla cancellerie europee, che fossero o meno cattoliche! I secoli seguenti vedranno il magistero della Chiesa Cattolica impegnato ancora in prima linea nelle questioni che riguardavano gli strumenti  per orientarsi nel tempo: è forse un caso che i più diffusi resteranno, a tutto il xviii secolo, i Libri delle Ore? È così emersa un’altra conferma alla indicazione raccolta poc’anzi, che adesso può essere formulata più precisamente. La misura del tempo ha rappresentato un campo di interesse privilegiato per la religione – e non solo quella cattolica – che, tentando di preservare un potere esclusivo d’indirizzo, ha tentato altresì di difendere e conservare il suo ruolo di guida politica e culturale. Tant’è che per vedere pubblicati dei Libri d’Ore, in cui i riferimenti ai passi di Vangelo previsti dalle celebrazioni eucaristiche erano abbinati ai giorni, ma senza effigi di santi, bisognerà attendere la fine del xvi secolo. La scelta di rinunciare a stampare immagini della devozione popolare dimostra che il tempo iniziava il suo cammino verso la secolarizzazione. Tuttavia, l’importanza dei giorni continuava a dipendere dal colore attribuitogli dal calendario liturgico: bianco per il tempo solenne di Natale, viola per i morti, rosso nelle celebrazioni della Pentecoste, verde il tempo ordinario e così via, anno dopo anno, tutti gli anni. Ma i veri “eroi” dei breviari continuavano ad essere la Madonna – a cui la Chiesa da sempre riconosce un grande potere di mediazione tra la Terra e i Cieli – e i santi, cui si affidava la protezione del raccolto, la prosperità della semina ed il buon esito della vendemmia, insieme alla salute dell’organismo e degli animali[3]. È in questa prospettiva che, a metà del xvi secolo, il vescovo di Auxerre proponeva di anticipare all’inverno le celebrazioni in onore di san Giorgio, san Filippo e san Marco, dimostratisi poco affidabili nel proteggere i raccolti dalle gelate delle primavere precedenti[4]. Terzo rilievo, più generale: la storia della “conquista del tempo”[5] è densa, ricca e spesso controversa. Parallelamente, nel Basso Medioevo, cominciarono a circolare gli almanacchi – versione “laica” dei breviari – che attestavano la progressiva affermazione della borghesia: stava sorgendo un tempo nuovo: il tempo lineare dell’homo faber fortunae suae[6]. La storia avrebbe ricevuto un ritmo nuovo e gli uomini avrebbero incominciato a pensare al tempo come ad un loro dominio specifico, sebbene permanessero ancora i rigidi dettami ecclesiastici; che però non dovettero spaventare più di tanto i mercanti italiani dato l’impegno profuso – ed il successo raggiunto – nelle loro attività terrene. Progressivamente, si fece strada una distinzione netta tra commercio ed usura. Scommettere sul tempo, come faceva il mercante, rischiando il suo patrimonio personale, non era più visto come un furto ai danni di Dio, cui si era sempre creduto appartenesse. Si trattava di due tempi diversi e la diffusione di orologi pubblici in età comunale, spesso – e non a caso – posti di fronte ai campanili delle chiese, stava lì a dimostrarlo: mentre il tempo di Dio era scandito dai rintocchi delle campane, il tempo delle redivive città seguiva l’incessante, perpetuo giro delle lancette. «Tutta la vita economica all’alba del capitalismo commerciale è, qui, messa in questione»[7] – sintetizza sagacemente Le Goff. La mentalità contadina, il cui bisogno di rassicurazioni era pienamente soddisfatto dai calendari, non avrebbe tardato a cedere il passo all’intraprendenza borghese, il cui pragmatismo, il cui tempo, imponeva di concentrare l’attenzione sul presente. Ecco perché ai proverbi della saggezza popolare, si associano sempre più spesso notizie di pubblica utilità, quali indirizzi di avvocati e sedi vescovili, oltre alle scadenze d’imposte; e soprattutto, dettaglio nient’affatto trascurabile, sul retro aggiungono dei fogli bianchi per le annotazioni. Questa “zona franca” è già un passo ulteriore verso l’agenda così come noi la conosciamo. Il primo esemplare di cui si ha traccia è del 1780: un anonimo vi annotava degli appuntamenti per i mesi a venire. Com’erano lontani la cosmologia tolemaica e le riserve di Zenone sul divenire! Tra la definizione platonica del tempo «immagine mobile dell’eternità» e la distinzione aristotelica in sfera lunare e sublunare, il vero vincitore era Eraclito. Non ci bagniamo mai due volte nello stesso fiume.

 

2. Società e macchine: l’accelerazione del tempo

Nell’Europa del xvi secolo i campanili incarnavano agli occhi dei primi operai del tessile lo spauracchio del padronato: anticipando al mattino e posticipando alla sera lo scampanio convenuto, erano ingannati sul numero effettivo di ore di lavoro e, quindi, sulla paga percepita. Ad Amiens ci si batté a lungo per l’installazione di un quadrante sulla torre campanaria; quando ciò avvenne, l’abuso ebbe fine. Il tempo era ora sotto gli occhi di tutti e i lavoratori potevano autopticamente controllarne lo scorrere. I rintocchi delle campane avevano un senso ben preciso anche per altre orecchie: la vita dei monasteri cluniacensi e cistercensi ne era interamente regolata. I frati non conoscevano che il tempo di Dio, per la cui gloria non bisognava indugiare nell’ozio, ma occupare, fin quasi a spremerla, ogni ora della giornata con le mansioni previste, secondo il motto omnia horis competentibus compleantur. Sono questi due esempi che lasciano intendere quanto la disciplina del tempo, con cui il Vecchio Continente aveva già una certa familiarità – la Regola benedettina risaliva al 530 d. C. – iniziasse a radicarsi nella mentalità occidentale. E ciò va tenuto presente considerando anche che i primi esemplari di orologi in Cina erano apparsi fin dal ii secolo a.C., senza però innescare alcun cambiamento nei costumi e nelle abitudini sociali. Con delle rudimentali sveglie note come horologia nocturna o excitatoria e molto simili ai nostri timer da cucina, centinaia e centinaia di frati in tutta Europa venivano destati nel cuore della notte e all’unisono – è il caso di dirlo – per prender parte alle veglia collettiva[8]. Che si trattasse del giorno o della notte, in contesto laico o religioso, all’alba della Modernità, in Europa, le coscienze erano state educate dalla ripetizione quotidiana a certi ritmi di vita, che la reiterazione rendeva vere e proprie abitudini. Era certamente nel giusto, allora, il sociologo Norbert Elias[9] quando affermava che il tempo è una istituzione sociale, il cui grado e tipo di sviluppo dipendono dal grado e dal tipo di sviluppo della società che se ne serve. È inoltre evidente la correttezza di un altro suo rilievo: al tempo si legano le pratiche di disciplinamento ed assoggettamento con cui le società – passate e presenti – si assicura(va)no continuità e sopravvivenza. Nonostante il Saggio sul tempo contenga degli spunti di riflessione validi ancora oggi, i suoi argomenti non reggono più all’urto del tempo breve[10]. In sostanza, se quotidianamente l’esperienza che ciascuno di noi fa ed ha del tempo, è mediata da strumenti la cui velocità supera la velocità del nostro pensiero; e ancora, se l’uomo ha costruito strumenti capaci di processare informazioni e svolgere compiti in autonomia – il tutto, e non è da poco, in frazioni sempre più piccole – non sarebbe più appropriato dire che il nostro tempo è oggi un tempo che subiamo, un tempo che scandiscono per noi (e ahinoi) le macchine? Una obiezione che facilmente si potrebbe rivolgere al ragionamento è la seguente: Perché tanto stupore? Lo aveva già capito Marx più di un secolo fa. Per di più, in seguito, la scuola di Francoforte avrebbe approfondito il legame tra fordismo e sublimazione degli istinti nella società della produzione industriale massificata. L’obiezione coglie nel segno ma, invece di chiudere il ragionamento, lo rilancia, evocando un nome – che non solo è scelto, ma si impone a noi – per l’attinenza che ha col nostro tema di fondo. Il nome è quello di Guy Debord. La società dello spettacolo che ci ha descritto non ha tempo, è estatica – nel senso che la sua vera natura è collocata fuori da se stessa, nella produzione inarrestabile di immagini, di simulacri a buon mercato. Il suo tempo può essere definito un’eternità cibernetica[11]. Con ciò siamo ritornati di nuovo al punto di partenza: il nostro tempo è il tempo che scandiscono apparecchi, macchinari, dispositivi. La domanda non è più chi si nasconde dietro di essi, ma cosa (di noi) essi nascondono, serbano, rubano. A questo punto, allora, solo la memoria può venirci in soccorso. Il Tempo Atomico Internazionale è solo l’ultima svolta di una rincorsa lunghissima, che ha come protagonista un oggetto a cui oggi siamo talmente abituati da viverlo come una seconda pelle, l’orologio. Che sia al quarzo o nucleare, digitale o analogico, a pendolo o a cucù, un cronografo o un esemplare da polso, in ogni caso l’affidabilità e la precisione sono assicurate. Da Galileo e Huygens alla grande tradizione artigiana del Giura svizzero, i progressi dell’orologeria hanno significato per l’uomo una vera e propria cronodipendenza[12]. Precedentemente, c’è stata in Europa una lunga fase in cui gli orologi erano trattati come beni di lusso ed erano acquistati in quanto simboli di un certo status sociale, il che oggi accade per altri oggetti, Baudrillard docet[13]! La tecnologia di cui disponiamo rende le nostre vite più comode, al punto che, come recitava lo slogan di una nota casa di elettrodomestici[14], loro – la schiera silenziosa di lavatrici, asciugatrici, lavasciugatrici, lavastoviglie – lavorano e noi – utenti distratti ed indaffarati, frenetici – viviamo, lavoriamo, usciamo, consumiamo. E non è finita, perché, alla potenza motrice dell’elettricità, che da circa cinquant’anni esime madri di famiglia, colf, personale di servizio e uomini soli dall’onere di lavare a mano panni e piatti, si è aggiunta l’intelligenza del computer: così ogni dispositivo elettronico presente nelle nostre case pensa per noi, si cura, al posto nostro, della casa e, in fondo, di noi[15]. Appare tutto rassicurante e semplice: they work, we play! Ogni elettrodomestico sa cosa deve fare e lo fa senza esitare né distrarsi, perché quando c’è di mezzo la domotica è impossibile che il pollo bruci nel forno o che i panni si restringano durante il lavaggio. Ma cos’ha a che fare questo col tempo? Due considerazioni: la prima è che l’elettronica applicata alla vita di tutti i giorni ci fa risparmiare tempo e la seconda che l’elettronica, pur non avendo direttamente a che fare con la misura del tempo, lo ridefinisce. In un bel saggio del 1950, parzialmente tradotto in italiano col titolo Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione[16], Alexandre Koyré pone in essere la differenza tra strumento ed utensile, mentre cerca di stabilire come mai la scienza antica non abbia dato origine ad una vera e propria tecnologia. Tra le macchine e il tempo vi è un legame molto stretto, che il capitalismo rende paradossale. Nel tredicesimo capitolo del primo libro de Il Capitale si afferma che il risparmio di tempo ottenuto con l’automazione non avvantaggia l’uomo, ma il capitale. In che modo? L’esposizione di Marx fuga ogni dubbio e ci serve per introdurre un nuovo elemento nel ragionamento. Le macchine servono (al)l’uomo, svolgendo incombenze estremamente faticose. Quando, dalla Prima rivoluzione industriale in poi, gli è stata applicata l’energia meccanica ottenuta dai combustibili fossili, il volume di merci si è accresciuto, a fronte di una diminuzione del tempo impiegato per la produzione. Se i Greci e i Romani non ebbero mai necessità di mettere a punto macchinari che lavorassero al posto loro, ciò è accaduto perché la loro economia era un’economia schiavista: la disponibilità di manodopera non rappresentò mai un problema. Per di più, presso di loro, il lavoro fisico non godeva di buona reputazione, anzi, al contrario, era ritenuto disonorevole[17], qualcosa da riservare appunto agli schiavi. Con un simile retroterra pensare di applicare la teoria alla pratica era, è stato, impossibile. Sarebbe occorso un radicale cambio di paradigma perché ciò avvenisse: in estrema sintesi, l’affermazione della Ragione soggettiva sulla Ragione oggettiva[18]. Uno strumento, ci dice Koyré, è una estensione del corpo, qualcosa a cui ci affidiamo, qualcosa da cui ci facciamo sostituire; un utensile invece favorisce un certo lavoro ed ha ragion d’essere solo in funzione di esso, non rimanda ad altro che alla funzione cui è preposto[19]. Il vero discrimine tra l’uno e l’altro non è interno, cioè non dipende dalle loro caratteristiche tecniche, ma dallo scenario che hanno attorno. Se agli strumenti domandiamo alte prestazioni e, in primo luogo, pretendiamo siano affidabili, gli strumenti da noi non pretendono nulla, ma lavorano e basta, fino a rendere del tutto superflua la presenza umana stessa. L’alienazione di cui Marx ha parlato, oggi, è più che mai diffusa: il lavoratore è in affanno rispetto alla competitività della macchina, non solo per velocità di esecuzione, ma anche di pensiero. Il complesso della strumentazione tecnologica, che il mercato ha generosamente cura di diffondere in ogni angolo del Pianeta, rende addirittura superflua la presenza umana, se non in quanto compratori-utenti. Viene da chiedersi se non saranno i robot a decretare la fine della poesia, che Montale credeva agonizzante fin dall’emergere della società di massa[20]. Lo scenario che si profila all’orizzonte della storia umana è assolutamente fantascientifico: lo Human Engeneering sta riuscendo nell’impresa di celare la vergogna prometeica[21] che affligge la stirpe adamitica. A seguito della cacciata dal Paradiso terrestre, è sorto un vero e proprio Paradiso artificiale. Dietro la foglia di fico virtuale dell’Intelligenza Artificiale, armato di una tavola dei comandamenti nuova di zecca, il cui verbo risponde al nome di Qualità Totale[22], l’umanità (si) cela l’atavico malaise dell’unicità, croce e delizia della soggettività. Cosicché, mentre noi subiamo il fascino macchinico, le macchine sognano corpi umani[23].

 

3. Rischio, mutui e finanza: il tempo al tempo della crisi

Settembre 2008: la Lehman Brothers dichiara la bancarotta, i mercati mondiali tremano e i telegiornali trasmettono le scene drammatiche dei dipendenti della banca d’affari mentre lasciano gli uffici, portando con sé scatoloni di effetti personali, probabilmente serviti a rendere familiare il luogo di lavoro. La peggiore crisi economica dal Secondo Dopoguerra era appena cominciata, i suoi strascichi non avrebbero tardato a farsi sentire anche in Europa. Della plurisecolare saga della “conquista del tempo” la vicenda dei mutui subprime costituisce l’ultimo tassello ed ha tanto da raccontare. Peccato però che analisi e commenti si siano focalizzati prevalentemente sulle statistiche ed abbiano cercato di inferirne “ricette miracolose” per l’occupazione e la crescita. La lezione che dovremmo aver appreso dagli Stati Uniti, epicentro del terremoto finanziario, mostra la ferocia di cui è capace il tempo quando è iper-stimolato, fino al punto di tradursi in accelerazione pura. La possibilità di prevedere e quindi ridurre ogni ritardo negli spostamenti, la capienza onnivora dello schermo e l’assottigliamento della differenza tra un’azione ed un touch fino al punto in cui «un semplice sfiorare una tastiera può diventare un comportamento a rischio»[24]: è questa la fenomenologia della società del rischio di cui, in tempi non sospetti, parlava Ulrich Beck[25]. Se, da un lato, la velocità genera possibilità, moltiplica le opportunità, dall’altro suscita mostruosità. Il capitale vive dei paradossi che produce e più ne produce più ha speranza di protrarre il suo dominio, come già era stato notato con Marx sulle macchine. È il micidiale cocktail di capitale, mass media, velocità e tecnica la vera origine della crisi. Per anni, in America, banche ed agenzie immobiliari hanno cooperato al sogno di quanti desideravano una casa di proprietà senza potersela permettere, nella più completa indifferenza. Nessuno ne era scandalizzato: e perché mai? L’America, terra promessa del capitalismo, la frontiera in cui rischio e opportunità diventano un tutt’uno, magnanimamente e democraticamente concedeva una pioggia di chances – tradotto: accesso al credito illimitato e senza richiedere delle garanzie sufficienti. Dopo l’operaio della Ford negli anni centrali del secolo scorso, il target del capitalismo 2.0, l’Impero, è politically correct, non fa discriminazioni di colore o razza: afroamericano o ispanico, musulmano o scintoista, immigrato di prima, di seconda o terza generazione non importa. Sono, siamo, tutti busy, occupati, indaffarati, oberati di lavoro, perché pensiamo al business, gli affari e non potrebbe non essere così dato che “il tempo è denaro”. Questo mantra è l’ossessione che permea ciascuno degli abitanti di quello che una volta era noto come villaggio globale e che oggi è ridotto ad un gigantesco cumulo di hedge found e derivati finanziari. La storia di Jordan Belfort – il lupo di Wall Street cui si ispira l’ultimo film di Martin Scorsese – è la parabola discendente di un uomo a cui il tempo è scoppiato tra le mani. La sua storia insegna: sovraccaricando il futuro, si ipoteca pesantemente il presente, sotto il cui peso il passato si sbriciola. Sono gli effetti della nuova bomba atomica, nella sua più temibile declinazione informatica[26].

 

4. Conclusione: il tempo come unità di misura del tempo

Nella prima autobiografia che il mondo occidentale ricordi, il tempo occupa un posto di rilievo. Agostino d’Ippona[27] parla di sé, ricostruisce la sua storia ed ha bisogno di fare riferimento al tempo, che è la coordinata entro cui le sue vicende personali assumono un senso. Nel processo di formazione dell’identità, il soggetto mette in successione gli eventi della sua vicenda biografica, stabilendo tra loro dei rapporti di causalità, dei nessi che gli consentono di interpretare se stesso, gli altri ed il mondo[28]. Si tratta di un lavoro che lo impegnerà lungo tutto il corso della sua vita e che può dare origine a patologie e a disturbi del comportamento, ove venga condotto in modo erroneo. Su quale sia il ruolo ed il peso che il tempo rivesta sul piano psichico e psicologico, il dibattito è aperto. Molti specialisti concordano nel giudicare i disturbi della percezione del tempo la causa paradigmatica dei disturbi di personalità[29] in soggetti che rifiutano di accettare la realtà e, soprattutto, non riescono a reggere il peso dell’irreversibilità degli eventi[30]. Sono i tipici casi di «tempo vissuto affettivamente»[31] riscontrabili nelle personalità borderline. Noia e forte alienazione accompagnano la percezione che del tempo hanno gli schizofrenici, a cui il mondo sembra opprimente e la realtà insostenibile[32]. Una cosa è però certa: operando sulla sua esperienza interiore del tempo, che ad Agostino si era rivelata intuitivamente feconda, il soggetto assume atteggiamenti diversi rispetto al mondo reale. Evidentemente, vivere in un mondo dove il tempo è accelerato non è privo di conseguenze sugli individui che lo abitano; la principale e la più temibile è per Virilio il mutismo cui saremo costretti dalla sparizione della socialità per prossimità e contatto fisico[33]. La destrutturazione della soggettività che caratterizza la nostra epoca è dunque una condizione di patologia diffusa, generalizzata, i cui esiti sono sotto gli occhi di tutti. Quando la realtà si fa liquida, secondo la fortunata metafora di Bauman, si corre concretamente il rischio di annegare. L’uso prevalente dell’espressione Real time è improprio: nata in ambito informatico e applicata erroneamente al mondo della comunicazione, designa in senso stretto quei programmi il cui “tempo di reazione” è stabilito in anticipo. È ovvio che ciò può avvenire se ai programmi si insegna come comportarsi in ogni eventualità, di modo che sappiano sempre regolarsi. Di conseguenza, il tempo interno di questi programmi è un tempo schematicamente organizzato e riempito di tutti i contenuti possibili. Il real time è un circuito chiuso, automatico, privo di qualsiasi relazione con l’ambiente esterno; cioè, va a modificare quest’ultimo, senza venirne a sua volta modificato. È la caratteristica delle macchine, in fondo, ed è diventata anche la nostra oramai: se pure continuiamo intuitivamente a sentire il tempo scorrere, non ne siamo coscienti poiché tale esperienza ci appare indecifrabile ed inesprimibile. Ma il nostro non è lo stesso sgomento di Agostino. C’è qualcosa di più e di nuovo anche. Gli studi di Galilei sull’accelerazione della caduta dei gravi, in particolare l’esperimento del piano inclinato, ci hanno abituato a considerare il tempo indipendentemente dallo spazio; cioè come una grandezza non spazializzata da impiegare nella misura del moto. Pesando le gocce d’acqua che fuoriuscivano dalla clessidra, messa in funzione alla partenza del mobile sulla superficie inclinata, il fisico pisano era riuscito in un certo qual modo a “pesare” il tempo. È da qui che gli uomini smettono di guardare al cielo, di scrutare gli astri per trarne indicazioni sul tempo. Diversamente da come lo aveva inteso Aristotele e con lui la Scolastica, al sistema solare non si guarda più come metafora della perfezione divina. Stava succedendo l’esatto contrario: i neonati orologi erano assunti come il paradigma euristico della scienza moderna, in particolare della meccanica. Le movenze sapienti della più grande tradizione artigiana, unitamente al genio delle menti fisiche e matematiche più eccelse d’Europa, stavano per dare vita alla macchina più rivoluzionaria dell’intera storia umana. Senza l’orologio il nostro mondo, noi, la nostra storia ed il tempo stesso non sarebbero quelli che siamo abituati a conoscere. Da Huygens – il primo realizzatore dell’orologio a pendolo, che Galileo, pur avendo progettato, non riuscì a costruire perché oramai troppo anziano – fino ad Einstein l’orologio e, con esso, una certa Weltanschauung, ha fondato il nostro stesso stare al mondo. Le reti di connessioni infinite che strutturano la nostra realtà quotidiana oggi, ossia il mondo virtuale dei social riplasma continuamente la nostra esperienza, ridefinendo anche il nostro senso interiore del tempo. Non sono più gli orologi ad orientarci, il loro tempo è in affanno, rispetto alla profusione di notizie, byte e stimoli con cui gli smartphone e i tablet non smettono mai di bombardarci. Il collasso del tempo, così come la specie umana è stata abituata finora a conoscerlo, è un trapasso epocale paragonabile per forza e novità alla Rivoluzione Scientifica. Pur essendo figli di quest’ultima, non le somigliamo già più. Sembra proprio che gli orologi siano destinati a finire al modo in cui era cominciata la loro epopea – e non è la più atroce delle beffe per lo strumento che ha decretato la transizione dal tempo ciclico al tempo lineare? – cioè a fare bella mostra di sé, impreziosendo l’arredamento ricercato dei più fini salotti borghesi nell’Europa del XVII secolo. Sono questi i casi in cui la Storia si ripete come una farsa: ma siamo certi che ad essere beffati saranno solo i malcapitati orologi?

 

APRILE 2014

 

Bibliografia

- G. Anders, L’uomo è antiquato: sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 1992.

- U. Beck, Conditio humana: il rischio nell’età globale, Laterza, Roma 2008.

- D. De Kerckhove, La conquista del tempo. Società e democrazia nell’era delle rete, Editori riuniti, Roma 2003.

- N. Elias, Saggio sul tempo, Il Mulino, Bologna 1986,

- M. Horkheimer, Eclisse della ragione, Einaudi, Torino 1969.

- T. Hylland Eriksen, Tempo tiranno, Elèuthera, Milano 2003.

- A. Koyré, Dal mondo del pressappoco all’universo della percezione, Einaudi, Torino 2000.

- D. S. Landes, Storia del tempo: l’orologio e la nascita del mondo moderno, Mondadori, Milano 1984.

- F. Maiello, Storia del calendario, Einaudi, Torino 1996.

- M. Niada, Il tempo breve, Garzanti, Milano 2010.

- P. Redondi, Storie del tempo, Laterza, Roma 2007.

- A. Sabbadini, Il tempo in psicanalisi, Feltrinelli, Milano 1979.

- P. Virilio, La bomba informatica, Raffaello Cortina, Milano 2000.

 


[1] Ne La lentezza (trad. it 1995) Milan Kundera si domanda dove siano finiti i vagabondi e gli sfaccendati delle canzoni popolari e cita un proverbio ceco in cui è detto che chi ozia gode del privilegio di contemplare le finestre del buon Dio. Oggi gli improduttivi, i contemplativi, scontano la sanzione sociale introdotta dall’equiparazione capitalistico-spettacolare di ricchezza=virtù=felicità, che li colloca ai margini della società, come inutili. Per la verità, già il nazismo hitleriano e la sua eugenetica si spesero in una geografia umana di tal genere, collocando i buoni – in questo caso i sani – da un  lato e i cattivi dall’altro, nei campi di sterminio – cioè il non conforme biologicamente, quindi i malati e i disabili, oltre alle razze non ariane; ancora: ciò che faceva eccezione per ideologia e modo di vivere (dissidenti e omosessuali) ed infine la minaccia sub-umana ebraica. L’importanza che ai fini della riflessione e, quindi della critica che genera il dissenso, ha il pensiero contemplativo – cioè improduttivo, economicamente senza corrispettivo – è dimostrata da quanto scriveva Virginia Woolf sulle donne nel saggio del 1929 Una stanza tutta per sé. Essendone state private sin dagli esordi della storia umana, le donne, relegate alla cura dei figli e della famiglia, non hanno potuto quasi mai far sentire la propria voce nei salotti buoni della cultura europea e mondiale. Il che, purtroppo, continua a succedere anche oggi, se pure, bisogna ammetterlo, tanti passi in avanti siano comunque stati compiuti.

[2] L’episodio è riportato nell’agile saggio di F. Maiello, Storia del calendario, Einaudi, Torino 1994, pp. 18-19.

[3] Spesso i santi esercitavano uno specifico patrocinio, meritandosi la devozione di alcune categorie di fedeli in particolare: tra le varie professioni, gli agricoltori erano coloro che potevano annoverare più protettori. Un elenco sufficientemente dettagliato è disponibile all’indirizzo seguente:

http://it.wikipedia.org/wiki/Lista_di_santi_patroni_cattolici_(professioni).

[4] F. Maiello, cit., pp. 49-55.

[5] La conquista del tempo ha voluto dire misura del tempo fino all’infinitamente breve come lo definisce Jérome Bindé in un saggio confluito nella raccolta curata da De Kerckhove per Editori riuniti (2003). Si è passato dai decimi di secondo del xvi secolo, ai centesimi di secondo due secoli dopo. A metà del xix secolo vennero scoperti i millesecondi, un secolo dopo i microsecondi, nel 1965 i nanosecondi, nel 1970 i picosecondi, nel 1990 i femtosecondi e nel 2020 si progetta di arrivare agli atto secondi. Questa frammentazione estrema non è per nulla priva di conseguenze per noi. Più il tempo è frammentato più è occupato, controllato, maneggiato, con esiti sociali, culturali e politici non difficili da immaginare, perché quanto mai attuali ai nostri giorni.

[6] Il prototipo è l’umanista italiano di prima generazione. Intellettuale e spesso uomo d’affari o mercante, viene rappresentato come portatore della virtù della temperanza, il cui attributo iconico è l’orologio – allora solo candidato a divenire il metro di misura ufficiale d’ogni cosa nei secoli a venire.

Cfr. J. Le Goff, Dal tempo medievale al tempo moderno in Tempo della chiesa e tempo del mercante, Einaudi, Torino 2000.

[7] Ibidem, p. 4

[8] Per questa parte iniziale del secondo paragrafo si rimanda ai primi quattro capitoli di: D. S. Landes, Storia del tempo: l’orologio e la nascita del mondo moderno, Mondadori, Milano 1984.

[9] Il testo cui ci si riferisce è: N. Elias, Saggio sul tempo, Il Mulino, Bologna 1986.

[10] Il tempo breve è un saggio di Marco Niada, che viene citato in quanto ha fornito diversi spunti di approfondimento e analisi per questo articolo.

[11] P. Virilio, La bomba informatica Raffaello Cortina, Milano 2000, pag. 39.

[12] Il termine è di Pietro Redondi, autore dell’introduzione all’antologia di Laterza Storie del tempo.

[13] Per un’analisi delle conseguenze socio-politiche ed economico-culturali di ciò si rimanda in particolare a: J. Baudrillard, Per una critica dell’economia politica del segno, Mazzotta, Milano 1974; e dello stesso autore: Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 2007.

[14] «We work, you play» è stato lo slogan pubblicitario usato dalla Indesit in una campagna televisiva recente. Oggi questo stesso slogan è diventato parte del marchio ed iconograficamente è posto subito sotto al nome come si può vedere nella home page del sito:

http://www.indesit.co.uk/indesit/2/promo/nero/index.html.

Ovviamente questo è solo un esempio tra tanti. Già Baudrillard ne La società dei consumi aveva notato quanta solerzia verso il consumatore esprimessero gli slogan pubblicitari delle marche che aveva preso in considerazione. È pertanto inutile dilungarsi ulteriormente su tale punto. A proposto di lavatrici e pulizia merita di essere citato il sagace commento di Roland Barthes dal titolo Saponificanti e detersivi, scritto in occasione del primo Congresso mondiale della Detersione del 1954, poi confluito nella raccolta pubblicata da Einaudi col titolo Miti d’oggi. Nell’edizione di riferimento che risale al 2005, tale articolo è presente alle pagg. 28-30.

[16] Il testo di Koyré cui ci si riferisce si intitola Etudes sur l’histoire de la pensée philosophiques en Russie. In italiano è stato parzialmente tradotto da Paola Zambelli col titolo succitato per Einaudi nel 1967. L’edizione consultata per la stesura di quest’articolo è invece la ristampa che Einaudi ha pubblicato nel 2000.

[17] Archimede non lasciò alcun progetto o testimonianza delle macchine da guerra che costruì su richiesta del re Gerone per difendere Siracusa dall’assalto dell’esercito romano del 212 a.C. Plutarco nella Vita di Marcello afferma che il grande inventore non andasse fiero (e quindi non voleva far sapere) di aver abbandonato i suoi studi teorici per dedicarsi alla costruzione di catapulte, ottenute pur sempre dall’applicazione delle sue ricerche nel campo della fisica e della matematica.

[18] Cfr. M. Horkheimer, Eclisse della ragione, Einaudi, Torino 1969.

[19] Cfr. A. Koyré, cit., p. 101.

[20] Ricevendo il Nobel per la letteratura nel 1975, Eugenio Montale sceglie di dedicare la lectio al futuro della poesia. Il testo che pronuncia si intitola È ancora possibile la poesia ed è disponibile al seguente indirizzo: http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/literature/laureates/1975/montale-lecture-i.html.

[21] Sia quest’espressione che lo Human Engeneering adopertato al rigo di sopra sono di G. Anders e sono state tratte dal primo volume de L’uomo è antiquato.

[22] Una definizione chiara e concisa è fornita da Wikipedia alla pagina:

http://it.wikipedia.org/wiki/Qualit%C3%A0_totale.

[23] È quel che avviene ne L’uomo bicentenario, un film del 1999 diretto da Chris Columbus e tratto dall’omonimo racconto di Isaac Asimov e dal successivo Robot NDR 113, scritto a quattro mani da Asimov e Robert Silverberg. Si pensi anche al film A.I. di Spielberg del 2001.

[24] P. Virilio, cit., p. 19.

[25] Il testo di riferimento qui impiegato è: U. Beck, Conditio humana: il rischio nell’età globale, Laterza, Roma 2008.

[26] P. Virilio, cit., p. 59.

[27] Ne Le confessioni, scritte tra il 397 ed 398 d.C., scriveva di sapere cosa fosse il tempo solo fino a che nessuno gli avesse domandato di definirlo, nel qual caso, non avrebbe saputo spiegarlo. Proseguendo il ragionamento, Agostino definisce il tempo come distensio, una estensione dell’animo umano (libro xi, 14, 17).

[28] Al culmine delle sue riflessioni sul tempo, il filosofo francese Henri Bergson operò la distinzione tra tempo della scienza e tempo soggettivo o durata. Oltre ad essere carica di suggestioni poetiche e letterarie in quanto il problema del tempo come storia individuale ritorna in Proust che magistralmente lo affronta ne Alla ricerca del tempo perduto, introduce un tema di riflessione non trascurabile, cioè il peso dei ricordi nella formazione dell’identità personale e la sua irreversibilità o, in senso più cogente, la morte. L’esperienza della morte è al cuore della speculazione del primo Heidegger e, segnatamente, di Essere e tempo, uno dei testi più influenti della filosofia del Novecento (e non solo). Da ultimo, segnaliamo anche che l’esperienza del tempo come differimento, cioè contenimento degli istinti e rinvio dell’appagamento è per Freud l’inizio della civiltà, i cui disagi stigmatizza nello scritto del 1929 il cui titolo è per l’appunto Il disagio della civiltà.

[29] Cfr. P. Schilder Psicopatologia del tempo nel volume collettaneo curato da Andrea Sabbadini, Il tempo in psicanalisi, Feltrinelli, Milano 1979.

[30] Si veda A. Arlow Jacob, Disturbi del senso temporale in A. Sabbadini (a cura di), cit.

[31] Cfr. P. Hartcollis, Tempo ed affetto in psicopatologia in Sabbadini (a cura di), cit.

[32] Ibidem.

[33] «Si può ormai immaginare una vita planetaria che diventa progressivamente una storia senza parole, un film muto, un romanzo senza autore, dei comics senza fumetto...», conclude Virilio, cit., p. 68.