UNA TEORIA CRITICA DI INTERNET
Massimo Ammendola
Considero l’analisi critica non come un programma ideologico
bensì come un’arte manuale necessaria a creare gli stili letterari
e come un invito a impegnarsi in riflessioni radicali,
lontano dai frivoli commentari e dal chiacchiericcio sull’ultimo tweet.[1]
La
rete Internet è nata per scopi bellici, ci ricorda Geert Lovink, critico
della rete. «E cambiare gli scopi del calcolatore digitale per farlo
diventare uno strumento umano universale al servizio del nostro ricco e
variegato bisogno di informazione e comunicazione sarà un percorso lungo
e difficile». In un momento storico in cui per il capitalismo è fin
troppo semplice assorbire i suoi avversari, rendendo quasi impossibile
evidenziare le sue storture, abbiamo ancora più bisogno di pensiero
critico, specialmente quando si tratta di Internet, da molti ritenuto
uno degli ultimi luoghi “liberi”. Specialmente «per il fatto che tutte
le nostre conversazioni telefoniche private e il nostro traffico
internet diventa disponibile pubblicamente»: Google e gli altri cinici
colossi della rete (corporations come facebook, Windows,
Apple, Amazon, eBay...) hanno come primo obiettivo
di monitorare il comportamento dei consumatori per vendere dati di
traffico e profili a terze parti interessate. «Benvenuti alla
Gerarchizzazione del Reale»[2].
Il Web 2.0: controllo e profitti
Il
Web 2.0 va giudicato per quello che è: dopo la recessione americana,
dopo l’11 settembre e il crollo delle Dot-com della new economy, in
linea con l’economia globale, le imprese della rete erano alla ricerca
di nuovi profitti.
L’idea allora fu semplice, trarre guadagno dal contenuto generato dagli
utenti, dopo il tonfo dell’e-commerce: non guadagnare più dalla
produzione, ma dal controllo dei canali. E delle masse.
E
così i media diventano social: si produce profitto sfruttando il
volontariato e la socializzazione degli utenti, senza che questi se ne
rendano neanche conto, anzi spingendoli ad autoschedarsi e ad osannare
il culto del libero e gratuito.
Una
“rivoluzione” semplice da usare, che facilita la socialità, ed offre
piattaforme gratuite per pubblicare i propri contenuti.
Si
centralizzano i servizi internet gratuiti, per ricavare così senza
fatica un’infinita raccolta di dati, profili, gusti musicali, abitudini
e opinioni personali.
I cosiddetti “contenuti
generati dagli utenti” portano all’aggregazione di profili personali che
possono essere rivenduti agli inserzionisti per il marketing diretto, e
presto Google si rese conto di poter trarre profitto dalla gran
mole di dati che circolava liberamente nell’internet aperta, dai video
amatoriali ai siti d’informazione[3].
Miliardi di utenti che come tante api volano da un sito all’altro solo
per accrescere il valore degli sconosciuti proprietari dell’alveare: e
siamo sempre connessi, sempre presenti online, ogni istante di vita
viene convertito in «lavoro». Si estende il tempo di lavoro, si estende
il tempo libero produttivo, ed il controllo si fa più sottile e pervade
totalmente e inconsapevolmente la sfera individuale. Marcuse era
ottimista quando diceva che le telecamere sarebbero entrate in camera da
letto.
Nel 2008 Google ha
brevettato una nuova tecnologia che ne accresce la capacità di “leggere
l’utente”. L’intenzione è decifrare a quali pagine, aree e argomenti si
interessa il visitatore, in base al suo comportamento una volta giunto
sulla pagina[4]:
solo un esempio delle molteplici tecniche analitiche che l’azienda sta
sviluppando per studiare il comportamento dell’utente e sfruttarlo a
livello commerciale[5].
Ma
oltre a monitorare i siti e le app che utilizziamo, e a vendere le
informazioni ricavate, le giganti multinazionali del web sono state e
sono tuttora complici della National Security Agency (nsa)
per la realizzazione del suo programma illegale di spionaggio massivo
delle comunicazioni e dell’utilizzo dei social network, come spiegato
dalle rivelazioni di Edward Snowden e Glenn Greenwald, pubblicate dal
quotidiano britannico «The Guardian»:
Non siamo innocenti.
Schiavi volontari, e pur sapendo di essere osservati, continuiamo ad
alterarci con la droga digitale. Senza preoccuparci di quanto cresce la
nostra dipendenza, consegniamo sempre più la sorveglianza delle nostre
vite ai nuovi padroni della comunicazione. Continueremo così? Possiamo
consentire di essere tutti sotto controllo?[6].
La vita
googlizzata
Uno
dei problemi che pone Lovink, è che i motori di ricerca indicizzano le
fonti in base alla popolarità, non alla Verità. E non solo: secondo una
ricerca sulle dimensioni della rete condotta nel 2000 da Bright
Planet, il Web è costituito da oltre 550 miliardi di documenti
(sconosciuti ai più e di certo al sottoscritto fino a poco tempo fa),
mentre Google ne indicizza solo 2 miliardi, ossia meno dell’uno
per cento[7].
E
invece ci stiamo affidando totalmente a Google, non impariamo più
le cose a memoria, preferiamo cercarle online, diventando dipendenti
dagli strumenti di ricerca sul web. Un web iper-sovraccarico
d’informazioni. Con conseguenze preoccupanti:
Il
dibattito su sovraccarico e selezione si riduce a questo: la perdita di
se stessi. L’individuo occidentale autonomo preferisce delegare
competenze e conoscenze a quel che Clay Shirky definisce “l’autorità
algoritmica”, Google, facebook o un blog, e anziché
acquisire potere, questa delega esterna non fa che indebolire
ulteriormente il soggetto[8].
Ma
questa è solo la punta dell’iceberg:
Fin
dall’arrivo dei motori di ricerca negli anni Novanta, viviamo ormai
nella “società del quesito” che non è poi così lontana da La Société
du spectacle di Guy Debord. Scritta nella seconda metà degli anni
Sessanta, quell’analisi situazionista era basata sull’avvento delle
industrie cinematografica, televisiva e pubblicitaria. Oggi la
differenza sostanziale è che ci viene esplicitamente richiesto di
interagire. Anziché una massa anonima di consumatori passivi, siamo
diventati “attori distribuiti” presenti su una moltitudine di canali. La
critica di Debord sul processo di mercificazione in atto non riveste più
un carattere rivoluzionario. I piaceri consumisti sono talmente diffusi
da aver raggiunto la condizione di diritto umano universale. Siamo tutti
innamorati del feticismo dei beni di consumo e delle marche famose, e ci
crogioliamo nel luccichio incarnato dalle celebrità per conto nostro.
Nessun movimento sociale o pratica culturale, non importa quanto
radicale, può sfuggire alla logica di questo processo di mercificazione.
Non esiste una strategia per far fronte alla società del dopo-spettacolo[9].
Il
problema sta quindi nell’uso che si fa della rete non come mezzo
tecnologico in generale, ma all’interno di un sistema capitalistico, che
vuole solo profitto e controllo, ma non solo: in questa fase consumista
e sovra-produttiva, con la tecnologizzazione in atto il capitalismo sta
togliendo all’uomo sempre più capacità manuali, poiché ci vuole tutti
consumatori passivi e incapaci di fare da soli qualsiasi cosa, uomini
senza competenze, in modo da costringerci più facilmente a recarci al
centro commerciale a comprare, dipendendo dalla grande distribuzione. E
l’informatica è solo uno degli strumenti, che pur migliorandoci la vita,
ci sta rendendo più stupidi: tutti a fissare i telefonini smart, non
abbiamo più bisogno di leggere, fare una ricerca in biblioteca, né di
consultare una carta geografica, chiedere una strada a un passante, fare
un calcolo, imparare a memoria un numero. La tecnologia ci sta cambiando
il cervello.
Non
compriamo più i grandi giornali e va bene; ma i più di noi leggono le
pagine online di questi stessi giornali, che sono le più sciocche e
fatue e superficiali; gli articoli di approfondimento, nemmeno vengono
offerti. Siamo informati in tempo reale di vacuità a catena, di notizie
e pubblicità, che ci rinchiudono ancor più ermeticamente nel Grande
Adesso Cretino in cui ci siamo lasciati occludere, separati dalla storia
e dal passato, anche il nostro. Il potere di reagire immediatamente ci
abbassa il livello di riflessione, ci rende sempre più adescabili dai
primi impulsi. […] tutta questa intelligenza elettronica rende noi più
idioti. Meno capaci di acquisire competenze, di imparare, di
concentrarci duramente nello studio, nel lavoro, sempre meno adatti ad
usare le mani e le gambe[10].
Secondo Joseph Weizenbaum, docente del
mit e critico informatico,
internet è un grande ammasso di rifiuti, un mezzo di comunicazione di
massa che per il 95 per cento ha poco senso, come la televisione. Ed è
questa la direzione verso cui va inevitabilmente il Web,
la
cosiddetta rivoluzione dell’informazione si è disintegrata in
un’inondazione di disinformazione. Una delle ragioni primarie è
l’assenza di un redattore capo o di un principio editoriale. […] “La
possibilità per tutti di pubblicare qualsiasi cosa, online, in sé
significa ben poco. Gettarvi dentro cose a caso è inutile tanto quanto
pescare a caso” […]. Il problema di internet, secondo Weizenbaum, sta
nel fatto che siamo portati a credere che sia l’oracolo di Delfi.
Internet fornirà la risposta a tutte le nostre domande e a tutti i
nostri problemi. Ma internet non è un distributore automatico in cui
inseriamo la monetina per avere il prodotto che ci interessa. Per
formulare la domanda giusta è fondamentale apprendere e acquisire le
competenze necessarie. Non si riesce a elevare lo standard educativo
limitandosi ad ampliare le opportunità di pubblicazione.
Anziché di Google e Wikipedia abbiamo bisogno di capacità
di indagine e pensiero critico, che Weizenbaum «paragona alla differenza
fra sentire e ascoltare. Per una comprensione critica dobbiamo prima
fermarci ad ascoltare, non limitandoci a sentire, ma imparando a
interpretare e a comprendere». Tutt’al contrario di quello che ci
spingono a fare i social network, con la miriade di istintivi e
impulsivi “mi piace” di facebook, ci lasciamo andare alla
sensazione iniziale e superficiale del mi piace o non mi
piace, e così crescono in noi le aree della nostra psiche che
rafforzano l’inconsapevolezza cieca a sfavore della crescita della
nostra coscienza[11].
Lo stesso tempo della rete è il tempo reale, che scorre continuo, non è
tempo della riflessione, dell’interiore, della coscienza. «I “figli
della rivoluzione del tempo reale” sono interessati soltanto a cosa
succederà nei prossimi cinque minuti»[12].
Per formarsi, scambiare idee, ricercare davvero ci vogliono ben altri
tempi e altri spazi.
Non
soltanto leggiamo sempre meno libri, oppure nessuno, ma adesso guardiamo
perfino pochi film e mai abbastanza
tv. Come dei bambini, non
sappiamo star fermi e prestare attenzione a Padre Cinema che ci legge
una storia. Stiamo ancora guardando il film e ne abbiamo già sparato il
giudizio via Twitter. La “nevrosi moderna” di Freud si manifesta
sotto le vesti della mancanza di attenzione nel cyberspazio.
L’osservazione e l’ascolto consapevoli cedono il passo al multitasking
diffuso. Nel momento in cui ci sediamo dietro il computer, veniamo
assaliti dalla sindrome da deficit di attenzione e iperattività. Mentre
seguiamo le video clip online, che mediamente non superano i due minuti
e mezzo, saltiamo su e giù, cantiamo e fingiamo di suonare la chitarra.
Ci comportiamo come bambini iperattivi che ricevono troppa attenzione, e
se qualcosa non ci sta bene, finiamo per lamentarci di un nonnulla,
oppure, ribadiscono gli psicologi che studiano il comportamento online,
passiamo immediatamente a qualcos’altro[13].
Dall’e-mail a facebook:
il trionfo del narcisismo
Nella
sua recensione del film The Social Network (David Fincher, 2010),
Zadie Smith disprezza la normalità di facebook per come viene
definita dai suoi fondatori, tutti un po’ autistici e computer-nerd.
“Forse è l’intera internet a diventare come facebook: gioviale e
amichevole in modo finto, teso all’auto-promozione, viscido e
insincero”. La generazione Web 2.0 merita di meglio: “Facebook è
il Far West di internet addomesticato per adattarsi alle fantasie e
all’anima di un quartiere residenziale”. Smith si chiede se non dovremmo
opporci a questa pacificazione. “Eravamo destinati a vivere online.
Doveva essere qualcosa di straordinario. Eppure, che razza di vita è mai
questa? Facciamo un passo indietro e osserviamo per un momento il nostro
“Muro” su facebook: non sembra improvvisamente ridicolo? La
nostra vita ridotta a un formato come questo?”[14].
Fino
a circa sei anni fa non usavo ancora facebook. La mia vita era
decisamente diversa. E non solo la mia. Oggi questo social network
invade la giornata di quasi tutti gli iscritti: crea dipendenza.
All’epoca, nei momenti morti della giornata, quando la noia ti
attanagliava, non avevi voglia di fare nulla, volevi perdere solo un po’
di tempo, al massimo controllavi freneticamente la casella di posta
elettronica. Era quella la nostra ossessione: la mail. Controllata molte
volte al giorno, nella speranza (più o meno) segreta che qualcuno ci
scrivesse. Giornali e siti ne parlavano in articoli ed inchieste,
citando studi di università di tutto il mondo, si parlava della
cosiddetta sindrome da burn out: l’arrivo di una mail, in
qualche modo, ci gratifica. Il bisogno che stava dietro a questo gesto
meccanico è semplice: l’essere “considerati” da qualcuno, l’essere
visti. Proviamo emozioni gratificanti quando siamo osservati, c’è la
soddisfazione di impulsi esibizionistici e narcisistici[15].
Fino a qualche anno fa era poi in voga Msn, che lanciò tra le
masse la chat, palcoscenico di parole ed emoticon, che già faceva
trasparire il meccanismo perverso di ricerca e collezione di indirizzi
mail a cui collegarsi e “relazionarsi”.
Altro
luogo di esibizione e gratificazione dilagato nel tempo recente, è il
blog. La rete pullulava di questi siti personali in cui ognuno scriveva
pubblicamente di tutto, anche fatti molto personali. Ma scrivere più di
140 caratteri è una forma di comunicazione non per tutti. E allora è
arrivato facebook, con a rimorchio Twitter, Whatsapp
e Instagram, le vetrine virtuali per eccellenza.
Facebook,
gli altri social network e le app di messaggistica hanno avuto un
successo e una diffusione devastanti, poiché concentrano un mix vincente
di attività, evolvendo le possibilità di utilizzo e le soddisfazioni
prodotte: rimanere in contatto con i propri amici e conoscenti,
conoscere nuove persone, chattare, pubblicare stati, foto e video,
condividere con la propria platea link e canzoni, reperire informazioni
di ogni tipo ed anche giocare. L’avvento degli smartphone ha poi
permesso a tutto questo mondo di diventare “perenne”, nel senso che la
possibilità di essere sempre connessi ad internet dai dispositivi mobili
ci permette di poter navigare e chattare continuamente: la realtà
virtuale si estende in quella reale, senza alcuna divisione. Prima
l’utilizzo della rete e dei social network era legato all’utilizzo del
pc, ed era quindi limitato
alla permanenza fisica davanti alla macchina. Ora la macchina è sempre
nelle nostre mani, e da qui l’aberrante fenomeno della trasformazione
dello smartphone e del tablet come estremità finale dei nostri arti:
diventano parte di noi, come se fossimo dei cyborg. In passato c’era
meno disponibilità di avere una distrazione a portata di mano. Oggi
invece siamo always-on, siamo senza sosta immersi nelle
tecnologie, e ciò porta inevitabilmente a dei disturbi di percezione di
sé e della realtà. Questa distrazione sempre disponibile ci porta ad
essere meno presenti e centrati, anche quando siamo in compagnia; è più
difficile concentrarsi, studiare, leggere, meditare, tutte attività che
richiedono più impegno, più profondità, più solitudine, più sicurezza.
Quest’uso della tecnologia è antispirituale: è tutto veloce, immediato,
costante, un magma di informazioni che non immagazziniamo ed elaboriamo,
ma che entrano acriticamente, troppo velocemente, e troppo
massicciamente. L’alienazione prodotta dai mezzi di comunicazione e
dalle attività digitali (non solo smartphone, ma anche
tv, computer, videogiochi) è un dato oggettivo di
quest’epoca: per fare l’esempio principe, una volta aperto, facebook
rischi di non chiuderlo più. Una ammaliante trappola, si salta da un
link all’altro, da una bacheca all’altra.
Ma
perché stiamo tutto il tempo col telefono in mano, a scorrere la home di
facebook, a chattare su Whatsapp, a inviare tweet e
pubblicare selfie?
E qui
ritorna in ballo la gratificazione di cui parlavamo quando riceviamo una
mail: queste attività aumentano la gratificazione e il piacere
all’ennesima potenza, ogni messaggio, ogni like e ogni
condivisione o commento sono carezze alle nostre personalità insicure e
disorientate. Ci fanno sentire importanti, belli, e meno soli. È questa
la grande vittoria del social: ci hanno conquistato perché ci
permettono di colmare i nostri “buchi” interiori, i nostri dolori, la
nostra paura di stare da soli, le nostre insicurezze più profonde, i
nostri bisogni di “essere visti”. Ma ci riescono davvero? Pare di no.
Valanghe di “mi piace” e persone che ci messaggiano e ci “seguono”, non
riescono a riempire davvero il vuoto. Ed infatti non ci accontentiamo
mai, è un circolo vizioso, per noi odierni e fragili Narciso.
Basterebbe partire da una semplice domanda per capire l’uso che facciamo
di questi strumenti: perché sto pubblicando questa frase? Perché sto
pubblicando questa foto? Perché sto scorrendo senza fermarmi la home di
facebook?
Altra
componente da non sottovalutare è il nostro voyeurismo, ci eccitiamo
terribilmente a spiare le vite degli altri: che sia un incidente per
strada, la finestra di fronte, la casa del Grande Fratello, o la bacheca
facebook di chicchessia. Tutti noi abbiamo la necessità dello
sguardo dell’altro, ma a volte si arriva fino alla compiacenza da Grande
Fratello: amare l’essere spiati, controllati e dominati.
Ma il
tema centrale è senza dubbio il narcisismo di massa dilagante, che anche
se presente in minima parte in tutti noi, è moltiplicato, accentuato e
stimolato all’ennesima potenza dai social: tutti quelli che li usano, lo
fanno per manovrare la percezione di loro stessi agli occhi degli altri
mediante la condivisione di stati, commenti e foto, per
auto-promuoversi, fino ad essere riconosciuti da altri, mostrando
un’immagine ed un’identità di sé univoca, anche se in verità siamo
esseri più complessi della nostra personalità “da profilo” che mostriamo
in rete.
Il
selfie, moda del momento, descrive bene l’esasperazione di
quest’epoca: l’attività di scattarsi immagini è da sempre collegata alla
dimensione narcisistica, poiché l’uomo era alla ricerca di una
gratificazione, anche quando l’autoritratto rimaneva privato; ma con
l’introduzione dei social network, l’aspetto narcisistico si è
accentuato poiché la condivisione, il farsi pubblicità, spinge l’utente
a scattarsi ossessivamente foto, da solo, finché non esce quella giusta,
quella che può finire sul web, su cui si condividono gli autoscatti
migliori di sé per la ricerca di gratificazione personale, gonfiata come
mai prima grazie all’approvazione altrui, espressa dal numero di “mi
piace”, commenti e condivisioni, tutte piccole carezze narcisistiche.
«Il
narcisismo dilagante è definito come disordine della personalità
riguardante la preoccupazione di apparire ed essere percepiti al meglio
dagli altri. I narcisisti ricevono gratificazione dalla vanità
conquistata tramite l’ammirazione altrui»[16].
Quindi, chi utilizza assiduamente i social network, lo fa per manovrare
l’impressione che ha il mondo (virtu-reale) di sé, e proprio ciò è un
sintomo dei disordini della personalità legati al narcisismo.
C’è
un sottile e inebriante piacere nella consapevolezza di essere
continuamente letto, commentato e considerato […]. La fase
immediatamente successiva alla pubblicazione di un contenuto è aspettare
la risposta di chi ti legge […] tendiamo a scrivere post e aggiornamenti
per un “pubblico ideale” […]. Sia gli utenti estremamente razionali sia
quelli irrazionali sono accomunati dal desiderio umano di piacere[17].
Il
nostro mondo è talmente basato sull’immagine che alcuni studiosi hanno
proposto di eliminare il narcisismo patologico perché ormai siamo tutti
molto “narcisi”[18]
E
livelli più elevati di narcisismo e più bassi di autostima portano ad
una maggiore attività di auto promozione sui social: avere molti
contatti, accettare amicizie da sconosciuti, cambiare spesso la propria
foto di profilo e il proprio stato.
Il
delirio di onnipotenza collettivo porta parecchi ad essere incapaci di
accettare critiche e responsabilità, superando limiti e regole, andando
su di giri fin troppo facilmente, tutti comportamenti distorti.
Facebook e compagni sono diventati ormai il lettino dello psicanalista
senza psicanalista: vi affiorano trame coscienti ed inconsce, libere da
censure e presenze inibitrici, superando i limiti, perdendo il senso di
realtà. Ragazzine e ragazzini che si affacciano appena all’adolescenza
si atteggiano a donne e uomini, in pose sexy (o presunte tali), che
scatenano ormoni, commenti e mi piace, come in un virtuale quartiere a
luci rosse, in cui ci si offre alle masse, senza alcuna educazione
sentimentale ed erotica, senza saper come gestire le situazioni che ne
scaturiscono. In fondo non c’è nulla di nuovo, è sempre accaduto, gli
adolescenti cercano attenzioni, carezze, amore, e scoprono il sesso, più
o meno confusamente, ma la novità è la violenza con cui ci si “offre”
inconsapevolmente agli altri, e l’età che scende sempre di più.
Una
erotizzazione precoce, spinta anche dalle pubblicità e dagli altri
media, che offrono stimoli erotici per vendere anche ai bambini, e che
sta convincendo gli adolescenti che il valore di una persona si riduce
esclusivamente al suo sex appeal
e al suo comportamento sessuale, ricevendo così in cambio attenzioni e
successo e diventando ricco e famoso. Si diventa, presto e velocemente,
oggetti sessuali, ripetendo precocemente comportamenti e atteggiamenti
degli adulti. La sessualità viene concepita come una merce di scambio, a
completo discapito della componente relazionale e affettiva. Una
preoccupazione costante per l’aspetto fisico che crea inadeguatezza,
tensioni, insicurezze e può portare anche a disturbi alimentari, oltre
all’ossessione della forma fisica e del giudizio altrui[19].
E sono queste ossessioni ed insicurezze che ci portano poi a cercare
narcisisticamente le conferme e le gratificazioni sui social.
La repressione della bellezza e la morte della società
Il
narcisismo è stato descritto da Freud, nel 1922, come un’assenza o un
disturbo della “libido oggettuale”, quel desiderio che si protende verso
il mondo “là fuori”. Il desiderio fluisce invece all’interno, attivando
la nostra soggettività isolata. La bellezza del mondo non possiede alcun
fascino, nessun’eco che attiri la nostra attenzione. Siccome la bellezza
del mondo non esercita alcun richiamo, io cerco e trovo quella bellezza
nello sguardo fisso concentrato su me stesso. Questo è narcisismo e,
come rivela la parola stessa, con la sua origine, nel racconto di
Ovidio, il narcisismo è “un disturbo della bellezza”: il volto del mondo
è trascurato, la libido è priva di oggetto, rivolta verso il soggetto
narcisista, disturbando la sua personalità. Narciso era affascinato non
da sé stesso, non dal riflesso, ma dalla bellezza.
Se
vogliamo essere pratici e terapeutici riguardo a questa che forse è la
sindrome prevalente nella popolazione più giovane della società
occidentale – questo narcisismo che impedisce la relazione e il
comportamento civico, e si manifesta come un’immatura ed egocentrica
fuga nell’alcol, nel gioco, nella droga, nel consumismo e nel culto del
successo – allora è meglio che consideriamo questa sindrome come un
disturbo nell’ambito più generale della bellezza. L’anestesia dell’anima
dell’individuo non può infatti essere separata e curata
indipendentemente dall’anima del mondo e del Zeitgeist[20].
L’anima dell’individuo è quindi anestetizzata, l’inconscio colonizzato,
stordito dai flussi di immagini e notizie continue, siamo scansionati
dalle apparecchiature elettroniche ed ossessionati dai divertimenti
preconfezionati: tutto offusca la realtà dello sfruttamento quotidiano,
della scissione tra uomo e natura, dell’inumanità delle relazioni
sociali, e si sgretola la possibilità dell’impegno per una
trasformazione.
Il
modello del talk show, la distruzione del libro, l’assenza del
confronto, la paura del silenzio, la corsa metropolitana delle grandi
città alla ricerca di nuovi e infiniti appuntamenti, una vita già tutta
riempita tra impegni, relazioni, continue conversazioni virtuali, sport,
nell’asfittica forma della palestre, intrattenimento a disposizione
sempre e comunque, ed in più una accurata sapienza tecnica ed una misera
esperienza di vita, stanno rendendo loro sempre più impossibile sentire
i bisogni essenziali di pensare, di amare, di conoscere[21].
Al
centro del nostro essere c’è una soggettività distorta, che perde il
contatto con la realtà sociale dei problemi e delle contraddizioni
individuali, mentre aumenta la diffidenza fra le persone e la loro
incapacità di vivere la loro esperienza di vita in relazione. Il mondo
corre troppo velocemente, non ha più senso, e allora la nostra
attenzione si sta concentrando sulle questioni personali, abbiamo
innalzato una corazza che ci fa mettere al centro l’Io. E la comunità
non esiste più.
Nel
lungo periodo del dopoguerra che va dal 1945 al 1989, il sociale è stato
neutralizzato, per ricomparire nel
xxi secolo come effetto speciale delle procedure tecnologiche,
scritto nei protocolli e distinto dalla community. […] Possiamo
commuoverci davanti a immagini cattoliche o gramsciane di persone comuni
che si radunano nelle piazze per celebrare la loro unità, ma questo
sentimento ha breve durata e non può sostituire la sensazione di
malcontento sul fatto che la società in quanto tale, come giustamente
sosteneva Margaret Thatcher, non esiste più. Possiamo darne la colpa al
neo-liberismo, all’individualismo, al consumismo, alla globalizzazione,
o ai new media. Tutti elementi che hanno distrutto l’omogeneo sentimento
comunitario abbandonato da molti nel periodo successivo alla Seconda
guerra mondiale[22].
E con
la comunità scompare anche un certo ordine di tempo della vita, il tempo
che si misura in mesi, anni e decenni e non quello di minuti, ore e
giorni che è invece il tempo dello scorrere della coscienza comune al
giorno d’oggi[23].
E
disinteressarsi sempre più al tempo cronologico di un’azione e agli
oggetti dell’esperienza concreta, essendo immersi nel tempo “reale”
della rete, ci aumenta la fragilità interiore: «Questa involuzione
rappresenta l’esperienza dominante nella società neo-liberista, portando
al fatto che un po’ tutti si sentono un fallimento». Il fallimento
personale diventa il fallimento di cambiare la realtà:
Berardi mi ha raccomandato un libro del 2009,
Capitalist Realism, in cui
Mark Fisher spiega cosa succede quando il postmodernismo viene
naturalizzato e definisce la sua inespressa visione del mondo come
“impotenza riflessiva”. “Si sa che le cose vanno male, eppure, quel che
è peggio, non ci si può far nulla. Ma questa ‘conoscenza’, questa
‘riflessività’, non è un’osservazione passiva di uno stato delle cose
pre-esistente. È una profezia che si autorealizza”. Un ostacolo
all’emergere di reazioni a un simile sovraccarico d’informazione è la
possibilità di ritirarsi in una posizione d’indifferenza. I giovani
sperimentano un mondo che non può essere toccato. Percepiscono che la
società sta andando in frantumi e niente potrà mai cambiare. Fisher lega
l’impotenza alla diffusa patologizzazione, precludendo l’eventualità
della politicizzazione. “Molti degli studenti adolescenti che ho
incontrato” scrive Fisher “sembravano vivere in uno stato di edonismo
depressivo, costituito dall’incapacità di impegnarsi in qualsiasi altra
cosa che non fosse la ricerca del piacere”. I giovani reagiscono alla
libertà offerta loro dai sistemi post-disciplinari “non perseguendo dei
progetti bensì cadendo nel lassismo edonista: la morbida narcosi, il
confortevole cibo dell’oblio che include Playstation,
tv e marijuana per tutta la
notte”[24].
Che fare?
Alfabetizzarci: capire come funziona il web, chi lo controlla, e come
usarlo. Ma soprattutto chiederci perché lo usiamo.
È
necessario
smontare innanzitutto lo stesso desiderio dei consumatori che traina la
macchina auto-promozionale. In quest’ambito, il marketing dell’io non
riguarda soltanto un’impresa narcisista finalizzata a soddisfare le
necessità interiori, ma è sospinta in modo primario dal rapido consumo
di oggetti esterni, dall’inarrestabile impulso ad ammassare sempre più
cose – da amici e amanti fino a prodotti griffati, servizi e altre brevi
esperienze semi-esclusive. […] Un aspetto importante
dell’alfabetizzazione è la capacità di andar via dallo schermo. Sapremo
padroneggiare gli strumenti non soltanto quando ne avremo appreso
l’utilizzo, ma anche una volta capito quando è il caso di metterli da
parte. Questo allenamento deve prendere in considerazione quale sia la
quantità vitale di email, Twitter e
sms, quale il lavoro da
rimandare a più tardi, come definire l’intrattenimento e cos’è la
distrazione pura[25].
Diventiamo consapevoli di cosa significa dipendere dai media del “tempo
reale”, della diretta continua: come segno di rispetto e di cura, magari
inizieremo a spegnere lo smartphone quando siamo in compagnia di
qualcuno!
«Dopo
lo slow food, tocca alla slow communication?»[26].
Seguiamo gli spunti del movimento Slow Media[27]
(esiste davvero), che sostiene il rifiuto delle piattaforme di social
media controllate dalle corporation. Per superare il perpetuo stato di
distrazione bisogna rendere meno attraente e universale il culto del
multitasking e dell’aggiornamento continuo. Il movimento che propone di
«andare offline» non sarebbe perciò qualcosa di anti-tecnologico, bensì
soltanto anti-tempo reale: «I media lenti non si rivolgono alla velocità
di consumo bensì alla scelta consapevole degli ingredienti e alla
preparazione in maniera concentrata»[28].
Diventare quindi più consapevoli. Solo con la consapevolezza, con
l’allargamento della coscienza interiore e spirituale possiamo rendere
anche le tecnologie di controllo del web uno strumento di crescita:
tutto va male se non ci metti la coscienza, anche la rete, quindi
dipende come la usi. Sforziamoci di usarle con Amore.
Tutto
ciò che c’è nel web può essere un validissimo strumento di crescita e di
comunicazione, ma anche un amplificatore dei nostri sentimenti più bassi
e delle nostre malattie psichiche. Queste oggi proliferano come mai
prima, e ciò è un male, ma anche un bene, una grande occasione, perché
le esperienze negative sono possibilità di crescita positiva: mai come
oggi c’è possibilità di sviluppare le nostre coscienze.
Buona
navigazione!
MAGGIO 2014
[1]
G. Lovink,
Ossessioni collettive.
Critica dei social media, Egea (Università Bocconi Editore),
Milano 2012, p. 170.
[2]
G. Lovink, The
“googlization” of our lives,
http://maurogarofalo.nova100.ilsole24ore.com/2008/11/06/geert-lovink-th/.
[3]
G. Lovink, Ossessioni collettive..., cit., pp. 41-42.
[4]
Un esilarante esempio:
L'autogol di Vittorio Zucconi su Twitter, 12 maggio 2014,
http://www.lantidiplomatico.it/dettnews.php?idx=82&pg=7821
[5]
G. Lovink, Ossessioni collettive...,
cit., p. 331.
[6]
I. Ramonet, Tutti sotto controllo, 06 aprile 2014, «Le Monde
Diplomatique»,
http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=48062
[7]
http://it.wikipedia.org/wiki/Web_invisibile; nello
sbalorditivo Deep web si svolgono tantissime attività,
anche molte illegali (si vende davvero qualsiasi cosa), poiché
ci sono solo siti “nascosti”, che non si trovano facendo delle
normali ricerche nei motori di ricerca e che possono essere
visitati solo attraverso la rete di anonimizzazione
tor (The Onion
Router), che nasconde l'indirizzo
ip e quindi la
propria identità in rete. Pare sia l'unico (enorme) luogo in cui
si può essere anonimi. Uno degli ideatori, Jacob Appelbaum,
attivista dei diritti umani ed hacker, nonché collaboratore di
WikiLeaks, descrive così il mondo googlizzato: «Mi piace
Google e mi piace chi ci lavora. Sergey Brin e Larry Page
sono tipi in gamba. Ma mi terrorizza pensare alla prossima
generazione che ne prenderà il posto. Per quanto benevolente,
una dittatura è pur sempre una dittatura. A un certo punto la
gente si renderà conto che Google sa tutto di tutti. E
quel che più conta, sa i quesiti che poniamo, e lo sa in tempo
reale. Può letteralmente leggerci nel pensiero», in Lovink,
cit., pag. 332-333.
[8]
G. Lovink, Ossessioni collettive...,
cit., p. 99.
[9]
Ibidem,
pp. 321-322.
[10]
M. Blondet, Le tecnologie intelligenti ci fanno idioti,
http://www.effedieffe.com/index.php?option=com_jcs&view=jcs&layout=form&Itemid=146&aid=296017,
leggibile interamente su
https://www.facebook.com/notes/751395291572523/.
[11]
F. Carotenuto, Facebook e l'Anima: mi piace o non mi piace?, 10 novembre 2012,
http://coscienzeinrete.net/spiritualita/item/944-facebook-e-l-anima-mi-piace-o-non-mi-piace.
[12]
G. Lovink, Ossessioni collettive...,
cit., p. 121.
[13]
Ibidem, pp. 300-301.
[14]
Ibidem, p. 113.
[15]
«Il
narcisismo è sia un tratto della personalità caratterizzato da
un’ammirazione eccessiva di se stessi, delle proprie azioni, ma
anche un disturbo della personalità che consiste nell’incapacità
di provare empatia verso altri individui e un esagerata
percezione della propria importanza e idealizzazione del proprio
sé», tratto da #Selfie:
l’emblema del narcisismo sui social network, L. Beatrice
Moccia,
http://compassunibo.wordpress.com/2014/02/03/selfie-narcisismo-sui-social-network-2/.
[16]
A. Giannini, Mi scatto una selfie: la mania del momento, 21 gennaio 2014,
http://www.globalist.it/Detail_News_Display?ID=53627&typeb=0,
citando lo studio del prof. Larry Rosen; altro studio
interessante quello della prof. Tracii Ryan, anch'essa autrice
di studi sul fenomeno del narcisismo da social network, maggiori
info qui:
[17]
Confessione di un like
dipendente, 20 marzo 2014,
http://www.linkiesta.it/confessione-di-un-dipendente.
[18]
R. Lippi aka Koshiro,
Sindrome da selfie, il narcisismo nell’era dei social media,
11 gennaio 2014,
http://www.ninjamarketing.it/2014/01/11/il-narcisismo-e-social/.
[19]
A. Oliviero Ferraris,
Erotizzazione delle bambine,
http://www.annaoliverioferraris.it/infanzia-e-adolescenza/erotizzazione-delle-bambine.html.
[20]
J. Hillman, Politica della bellezza, Moretti & Vitali, Bergamo 2002.
[21]
G. Trapanese, I nuovi giovani e il narcisismo di massa, «Città Future» n.0,
http://www.cittafuture.org/00/06-I-nuovi-giovani-e-il-narcisismo-di-massa.html.
[22]
G. Lovink, Ossessioni collettive...,
cit., p. 44.
[23]
G. Trapanese, cit.
[24] G. Lovink, Ossessioni collettive..., cit., p. 86.
[25]
Ibidem, p. 88.
[26]
Ibidem, p. 90.
[28] G. Lovink, Ossessioni collettive..., cit., p. 103.