13
Maggio 2014

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MNEMOTECNICA DEL TERZO MILLENNIO

Giuseppe Genovese

 

Tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono fra loro in società

e lavorano e lottano e migliorano se stessi, non può non piacerti più di ogni altra cosa. Ma è così?

(A. Gramsci, al figlio Delio)[1]

 

In principio era probabilmente solo comunicazione. Poi l’uomo ha avuto il bisogno di fissare le cose. In senso lato, molto lato, questa è la memoria.

Il tema del numero è internet, la virtualità. Ma è chiaro che la virtualità è un concetto preesistente ad internet. È vero, come scrive M. Mazzullo su questa stessa rivista[2], che il reale oggi deve convertirsi in virtuale al fine di funzionalizzare il messaggio. Ma è questo un processo che non è proprio della civiltà informatizzata, ma, come si cercherà di argomentare nel seguito, è una prassi che anzi risponde a precise esigenze della mente umana. La memoria, ad esempio, è pura virtualità.

L’informatica in fondo non è che un mezzo per connettere gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo. Tale connessione non può evidentemente essere fisica. La virtualità pare dunque una necessità per soddisfare tale bisogno.

La vera domanda è: qual è l’origine di tale bisogno?

Questa è chiaramente una domanda difficile, e non troverà alcuna risposta. Quel che si proverà a fare è dare un quadro di come la virtualità possa aiutare a unire, irrimediabilmente cambiando la natura di chi ne usufruisce.

 

Memoria artificiale

Non è questa la sede, e non è chi scrive il più adatto, per fare un acconto dell’arte della memoria se non in forma di breve introduzione[3].

L’esercizio della memoria è stato studiato in forma sistematica da lungo tempo, sin dall’epoca classica. L’utilità di una buona memoria nella retorica e oratoria è evidente, e pertanto è proprio nello sviluppo di queste arti che lo studio della memoria artificiale ha trovato posto nella storia giungendo fino a noi.

Ma pare utile iniziare con alcune definizioni. Usualmente si distingue tra memoria naturale e memoria artificiale: la prima è una qualità innata, differente da individuo a individuo; la seconda va invece coltivata ed esercitata, come una prassi fine sempre più definita attraverso secoli di studio. Questa è la definizione a livello tecnico che si trova in ogni trattato di memoria. Ma, a mio avviso, è ancora poco specifica, e necessita di un ulteriore grado di precisione. L’ambiguità nasce dal fatto che il termine memoria, largamente usato e abusato nella lingua, indica una pletora di concetti legati, ma in definitiva diversi tra loro, a secondo del punto di vista che si adotta: storico, politico, filosofico, scientifico, et cetera.

L’arte della memoria si concentra sulla capacità dell’individuo di ricordare, ovvero di imprimere dei concetti, dei luoghi, delle immagini nella mente ed essere capaci di richiamarle quando necessario. Altri concetti articolati e complessi come ad esempio memoria storica o memoria collettiva, seppur evidentemente legati, sono decisamente fuori soggetto in questa trattazione, almeno dalla prospettiva che si vuole adottare.

Ciò detto, bisogna stare attenti a non confondere già a questo livello l’arte della memoria con la mnemotecnica: la seconda è la tecnica che discende dallo studio della prima. Trovo già esaustivo partire dalla distinzione tra memoria e reminiscenza attribuita ad Aristotele (De Memoria et Reminiscentia). La differenza fine tra il ricordo e la suggestione che questo chiama a sé è di fatto quella tra memoria e reminiscenza, che ci permette di trascurare da qui in avanti completamente la seconda nel momento in cui siamo interessati ad una memoria artificiale. Quest’ultima infatti agisce secondo una teoria effettiva della mente umana, che, sebbene profonda ed approfondita durante i secoli, non richiede alcun presupposto filosofico alla base sulla natura stessa dell’uomo e dell’universo, ovvero di chi percepisce le cose, e di ciò che percepisce. Se la memoria e la reminiscenza dunque sono due aspetti dello stesso processo, l’uno ha in questa accezione una natura decisamente definita: è il processo della memoria; l’altro più indefinita: è il modo in cui esso si forma in relazione con il mondo.

È chiaro che tali distinzioni non hanno l’aspirazione di esser sistematiche, ed al di fuori di questo scritto possono rivelarsi incomplete. Come di solito avviene su campi in cui la conoscenza è ancora ad uno stadio primitivo, i confini sono labili, e saper leggere le sfumature che li separano è fondamentale. Segue che è in fondo insensato chiedere ad uno studio della memoria di non avere presupposti filosofici. Trovo però molto fuorviante focalizzarsi su entrambi gli aspetti se si parla di memoria artificiale, qualcosa che presuppone già un ordine dato del mondo in senso metafisico, e che si focalizza solo sul soggetto che impara e deve ricordare[4].

Per riassumere, la memoria artificiale è utile ad ogni attività umana, è un’arte e non una tecnica nel senso che presuppone una profonda conoscenza dei meccanismi interni alla mente. La mnemotecnica è la tecnica di memoria artificiale. Come una tecnica essa va imparata, affinata, esercitata continuamente, come una tecnica ha i suoi schemi, i suoi trucchi. E proprio di questo che ci andremo a occupare nel seguito, in connessione con il concetto di rete.

 

Rete

La rete è il concetto rivoluzionario dell’era contemporanea: essa si trova al centro del nostro modo di vedere le cose e di vivere, dalle teorie scientifiche, a quelle sociali e politiche, alle relazioni interpersonale che ciascuno di noi coltiva ogni giorno.

È difficile provare a prendere le distanze, al fine di analizzarlo, da un modo di intendere il mondo così connaturato alla nostra cultura.

Una rete è dopotutto un oggetto assai semplice: possiamo definirlo come un insieme di punti con delle relazioni tra loro. La natura di tali relazioni specificano di fatto il tipo di rete, ovvero ne definiscono la topologia. Alcuni esempi presi da ambiti vari: i neuroni del sisma nervoso uniti da impulsi elettrici, le formiche di un formicaio unite da segali di tipo chimico, personal computer con accesso internet uniti dal World Wide Web, gli abitanti di una città uniti dalle relazioni interpersonali.

Nella sua semplicità il concetto di rete è di una versatilità notevole: disegna su carta un insieme di punti e uniscili in modo arbitrario. Tali punti, i nodi della rete, devono essere considerati uguali, almeno a sottogruppi. Possiamo quindi immaginare schematicamente una rete con punti blu e rossi, oppure aumentare il numero di colori, ma la filosofia è che non ha senso distinguere in modo fine i nodi: ciò che conta davvero e che caratterizza il tutto di fatto sono le connessioni.

Bisogna fare attenzione a non cadere nella tentazione di tacciare frettolosamente questa struttura di essere semplicistica, se non è in grado di attribuire al soggetto alcuna qualità se isolato dal contesto. Questa posizione è ingenua, perché la rete è un concetto versatile. Tutti i nodi sono uguali per quella che è la loro funzione all’interno di essa. Ma osserviamo da vicino un nodo: così come un punto lontano avvicinandoci ci rivela la sua struttura, così è anche in questo caso. E qual è questa struttura? Una rete: con nuovi nodi e nuove connessioni tra loro. E così via.

La rete è l’ultima frontiera dell’atomismo, della reductio ad unum. Ma non ha le stesse pretese metafisiche, non si erige a vera e propria teoria, restando piuttosto sempre e comunque sul piano effettivo. Chi studia una rete rinuncia da principio a seguire in modo meccanicistico i movimenti di ciascuna componente; piuttosto è interessato ai comportamenti collettivi. Sono molti gli etologi a sostenere che per alcune specie l’attributo di essere vivente non è da associare al singolo individuo, ma piuttosto alla rete: non alla formica quanto al formicaio. È chiaro che le variazioni su questo tema sono tantissime.

Un’ultima considerazione, cruciale: la rete non è, come già detto, un modo per spiegare ontologicamente la realtà; piuttosto vuole essere un potente mezzo per approssimarla, così come una trama a maglie sempre più fini si stringe su un oggetto: punti e connessioni, ma i punti non sono punti, ma sono fatti di punti e connessioni, e così via. Una struttura infinita che non ha, per sua stessa concezione, né capo né coda. Questa potente struttura concettuale agisce nella nostra vita in modo ingombrante, a volte dannoso nella misura in cui la nostra visione del mondo finisce per influenzare noi stessi, a causa di quel legame doppio tra soggetto e oggetto al vaglio della filosofia più o meno da quando essa esiste.

 

Memoria artificiale come rete, rete come memoria artificiale

In effetti il concetto di rete è già presente, sebbene in una delle sue forme certamente più primitive, nei metodi fondamentali della memoria artificiale. Questo è di fatto il punto cardine dell’intera nostra trattazione: lo sviluppo di una tecnica di memoria piuttosto che un’altra rivela una precisa immagine teorica della mente, basata a ben vedere sul concetto di rete. Non mi riferisco qui però alla teoria fisiologica con neuroni e assoni. Piuttosto ad un livello superiore d’astrazione, al richiamo di un concetto alla memoria: non d’origine psicologica, come la madeleinette di Proust o le epifanie di Joyce, laddove un’esperienza sensibile ci riporta alla mente una catena di ricordi e sensazioni passate (questa è la reminiscenza), ma di fattura artificiale, studiata, come il sistema dei loci e delle immagini della mnemotecnica classica. Nell’antico trattato di retorica Rethorica ad Herennium, di epoca romana ed autore ignoto, erroneamente attribuito per secoli a Cicerone, è spiegato il metodo dei “luoghi di memoria”: in breve il retore crea un struttura mentale fisica, come ad esempio un palazzo, una casa, dove lui abbia la libertà di camminare, di percorrere e ripercorre le varie stanze, di vivere e conoscere quel luogo come se fosse reale. Allora egli posiziona ciò che deve ricordare nel luogo che gli pare più proprio. Passeggiando poi nel suo luogo della memoria egli vedrà di fatto le varie cose da ricordare. Ciascuna immagine deve avere un potere evocativo immediato, in modo da impressionarsi più profondamente nella mente. È forse importante sottolineare che questa non è mera teoria, ma era usata comunemente dai grandi oratori attraverso le epoche, ed è arrivata fino ad oggi, seppur oramai ridotta a poco più che un passatempo di pochi[5]. Ad esempio i luoghi della memoria sono quelli che vediamo rappresentati in alcuni dei quadri di Giorgio De Chirico.

L’idea stessa di creare una struttura mentale concreta in cui porre le immagini che avrebbero dovuto poi richiamare le cose da ricordare è altamente tecnologica. È chiaro che la parola tecnologico deve assumere un significato adeguato al contesto che stiamo trattando: già la nascita della stampa, come mezzo di produzione industriale di informazione fissata una volta per tutte, in quanto scritta, ha fornito un supporto tecnologico che ha irrimediabilmente cambiato le priorità e la forma della mnemotecnica rispetto a quelle della tradizione classica. E non tanto in quanto non v’è necessità di ricordare ciò che è scritto, ma piuttosto in quanto una mente che è abituata a vedere immagini e scrittura ovunque impresse cambia irrimediabilmente: cambia la mente, cambia la memoria. Non è soltanto che la carta uccide la memoria, il web uccide la carta: è che una mente che vive con la carta o con il web è intrinsecamente diversa, è che la carta ed il web, non entità metafisiche ma prodotto della mente umana, espandono la mente stessa; e questa espansione è conseguenza della loro stessa esistenza, in quanto è proprio per questa tensione all’espansione tecnologica della mente che abbiamo avuto l’esigenza, in quanto genere umano, di creare tali nuovi mezzi.

Ne deduciamo che la rete oggi è usata come memoria artificiale. Ancora una volta, non ci si riferisce qui alla grande quantità di dati immagazzinati da internet, a Google, cioè all’archivio. Gli archivi sono certamente un oggetto importante di memoria storica, ma non hanno nulla a che vedere con l’arte della memoria. È interessante però notare come in fine si è riusciti a coniugare archivio e memoria in un unico supporto.

Poiché ciò che interessa qui è quel che qualunque professore di liceo ha notato da qualche tempo, ovvero che separare i ragazzi dallo smartphone è uno sforzo di certo inutile, ma infine anche dannoso, in quanto è come denaturare la loro stessa persona. Collegandosi alla rete essi completano la loro mente che ha scaricato su di essa alcune facoltà: Wikipedia sostituisce il sapere generalista della scuola, i social network forniscono continuamente informazioni sulla vita sociale, e così via. Bisogna far attenzione, perché non è questa una mente ridotta, ma una mente espansa con una memoria artificiale gigantesca, a basso costo, accessibile a tutti e che necessita la minima cura. Non c’è più bisogno di costruire complicati palazzi, stanza dopo stanza, da percorrerli rievocando le immagini che abbiamo inserito in essi. Oggi noi come umanità abbiamo costruito il nostro luogo della memoria: si tratta di un luogo virtuale al pari di quello di Cicerone, funziona secondo gli stessi principi, ovvero è dinamico, è ordinato, ha numerose connessioni che si esplorano e si conoscono tutte percorrendolo e ripercorrendolo. Ma è unico e comune a tutti, ovvero è La Memoria dell’umanità, umanità intesa come rete.

 

L’uomo a molte dimensioni

Così il cerchio si chiude su se stesso e si è ridotta la memoria a comunicazione. Naturalmente, la comunicazione, quale rapido passaggio di informazioni tra uomini, ha un carattere estemporaneo. Così si va in contro ad un doppio processo, completamente coerente al suo interno: la comunicazione diventa un po’ più perentoria, la memoria un po’ più estemporanea.

Così come spesso accade le linee che separano il fuori e il dentro non sono impermeabili e quindi essi finiscono per influenzarsi. Così noi oggi percepiamo e concepiamo la nostra mente in modo differente da quella stessa idea che era alla base della trasformazione avvenuta. La struttura della rete, che è nata come un modello per descrivere la realtà, ha quindi acquisito a tutti i titoli carattere ontologico. Non descriviamo più il mondo con la rete, ma, nel momento in cui il mondo è diventato una rete ai nostri occhi, descriviamo la rete (con la rete!).

E quindi la mente è ridotta ad essere una rete. I momenti di meccanicismo vanno e vengono nella storia della nostra cultura, ed è chiaro che una concezione schematica dei processi mentali fosse presente già nell’humus culturale che ha favorito la creazione effettiva dello status attuale[6]. La transizione degli ultimi anni però sancisce la comparsa di una nuova compagine di uomini che incarnano tali principi, dapprima solo teorizzati.

La rete estesa, che supplisce al naturale bisogno dell’uomo di entrare in contatto con il suo simile, e lo sublima in un bisogno nevrotico di essere connesso a tanti, tantissimi uomini, quanti più uomini è possibile, si riflette nella forma della mente che l’ha generata, cambiandola e forgiandola a sua volta a sua immagine. È così che l’homo, copula mundi di Marsilio Ficino (platonico e maestro nell’arte della memoria), si è sovvertito: è il mondo, inteso come struttura artificiale creata dall’uomo stesso, ad essere il termine medio tra l’uomo e l’ordine delle cose. Seppur tale manufatto proviene di certo da un’idea, oggi vi ritroviamo noi stessi insieme ad un’idea-manufatto.

Il risultato netto è un uomo a molte dimensioni, la cui mente, impoverita e banalizzata da essa stessa, si estende però ben oltre i suoi limiti fisici, ed in modo imprevedibile ed eccitante si mescola alla mente di altri uomini multidimensionali.

 

Un’ultima riflessione, in conclusione, va alla reminiscenza, quell’aspetto della memoria che abbiamo scelto di trascurare sin dall’inizio. Perché sembra poco lo spazio che questa possa trovare nel quadro dipinto sinora. Riassumendo: escludiamo la reminiscenza, coltiviamo la memoria artificiale, miglioriamo la tecnologia in modo da avere supporti (sia mente, carta, o web) sempre più efficienti; poi però ci dimentichiamo da dove siamo partiti, e ci convinciamo che la memoria sia la memoria artificiale, che la mente sia una rete, che l’uomo sia un uomo artificiale. Abbiamo alla fine una rete di uomini artificiali, che è un oggetto (più che un concetto) artificiale. Non è che, dato che abbiamo scelto deliberatamente di ignorarla, possiamo eliminare la reminiscenza dalla nostra mente. E con essa il mistero che essa si porta. Ma dal Rinascimento in poi, da Ficino, Pico, e soprattutto Bruno, è qui che lo studio della memoria si è concentrato maggiormente[7]. Da Platone alla psicanalisi si è cercato di trovare nell’uomo tracce di una realtà misteriosa e inesplorata, che ci distingue dalle macchine, qualunque tipo di macchine: elettroniche, meccaniche o biologiche.

La reminiscenza è la forma di virtualità più complessa, non algoritmica. È la copula secondo Ficino. Ed è, indiscutibilmente, un processo intimo ed individuale, che si basa sulla suggestione. Poiché così come possiamo immaginare la realizzazione di una memoria artificiale attraverso la rete (che è l’aspetto di un Io globale), risulta arduo l’analogo per un inconscio collettivo. È l’individualità, la sua enorme instabilità a renderla così delicatamente impopolare. La tendenza antisociale della reminiscenza ci riporta alla domanda iniziale sul bisogno di connessione tra gli esseri umani. Non c’è spazio per la comunione nella socialità della rete.

 

APRILE 2014

 


[1] A. Gramsci, Lettere dal Carcere, Einaudi, Torino 2009, p. 294.

[2] M. Mazzullo, Materia e proprietà nella società informatizzata, «Città Future» n.12.

[3] Per un approfondimento il riferimento primo è probabilmente F. Yates, L’Arte della Memoria, Einaudi, Torino 2007.

[4] Incisivo sul tema l’intervento di Paolo Rossi disponibile online:

http://www.filosofia.rai.it/articoli/paolo-rossi-memoria-e-reminiscenza/13878/default.aspx.

[5] Ad esempio ogni anno si tengono i campionati mondiali di memoria:

http://www.worldmemorychampionships.com, http://www.world-memory-statistics.com.

I partecipanti devono cimentarsi in prove che consistono nel ricordare oggetti casuali (carte, numeri, volti…). Tra i metodi usati, quello dei loci è ancora tra i più efficaci. Vedi ad esempio: O. Uberti, Il palazzo della memoria, in «National Geographic», marzo 2012,

http://www.nationalgeographic.it/wallpaper/2012/03/31/foto/il_palazzo_della_memoria-920623/1/;

D. Shapiro, A better memory through pastries, «The Wall Street Journal», 19 Marzo 2013.

[6] Mi riferisco a quella che comunemente viene chiamata intelligenza artificiale. Per una spiegazione divulgativa di parte degli sviluppi della teoria fino alla fine degli anni ‘80 consiglio R. Penrose, La Mente Nuova dell’Imperatore, bur, Milano 1988. Tuttavia in connessione al concetto di rete, specialmente per quel che concerne la memoria, i progressi sono stati molto rapidi dal dopoguerra. Una concezione del cervello come un organismo che percepisca input esterni e li immagazzini in una memoria fisica, per poi richiamarli sotto altri input esterni (percettrone di Rosenblatt: F. Rosenblatt, The Perceptron: A Probabilistic Model for Information Storage and Organization in the Brain, «Psychological Review», 65, p. 386–408,) è una semplificazione che ha dato il via alla vasta teoria delle reti neurali. Questa, alla base di un numero di sviluppi tecnologici dell’epoca contemporanea (dai sistemi di riconoscimento vocale alle bombe intelligenti), è nata come un tentativo di modellizzare la mente dell’uomo. Chiaramente tra i due aspetti v’è una strettissima connessione.

[7] Ed è interessantissimo il legame tra l’arte della memoria nel Rinascimento e la nascita della scienza moderna. P. Rossi, Clavis universalis. Arti della memoria e logica combinatoria da Lullo a Leibniz, Il Mulino, Bologna 2000.