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Gennaio 2014

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Esperienza e rappresentazione

GUIDA ALLE LETTURE DI GUY DEBORD

Vittorio Lubrano

 

1. Dimenticare Guy Debord

La Société du spectacle (1967) ed i Commentaires sur la société du spectacle (1988) sono testi rivolti a «coloro che sono nemici dell’ordine sociale esistente, e che agiscono effettivamente a partire da questa situazione». In essi, il lettore trova utili strumenti di decifrazione dello sviluppo che le società del dopoguerra hanno avuto sino ad oggi. Una chiave interpretativa innovativa che scolora quelle differenze scontate negli anni sessanta – tra Est e Ovest del mondo, tra economia pianificata e libero scambio, tra apparato burocratico e democrazia rappresentativa. Al loro posto emerge un cuore comune, inesplorato, in cui vanno a confluire diversi processi della contemporaneità; è questo il bersaglio inevitabile di ogni critica che voglia dirsi rivoluzionaria.

Cardine di questa svolta prospettica è la categoria di “spettacolo”. In essa convergono quella serie di fenomeni particolari dinanzi ai quali restiamo abitualmente perplessi – l’estetizzazione della politica, le forme di intrattenimento e di informazione, l’abbondanza di consumi inutili e le nuove forme di interazione sociale. Solo allungando lo sguardo oltre quelle che paiono le contraddizioni del presente, l’intero globo si dimostra caratterizzato da uno sviluppo complessivo – universale – delle forze economiche e politiche. È il tratto determinante di una nuova fase, un’epoca storica in cui tutto ciò che si considerava reale e oggettivo de-significa, lasciando il posto al prolificare di immagini e simulacri.

Una profezia lucida e amara sul mondo che viene, in cui nulla sembra potersi sottrarre a questa forza trasformatrice. Non l’economia, non più paga della produzione materiale con cui soddisfa i nostri bisogni, bensì produttrice essa stessa di nuovi impulsi e desideri. Un’economia del simbolico che lascia intatta la miseria di un’esistenza scandita dai ritmi di lavoro. Non la politica, in simbiosi oramai con forme di intrattenimento e di fascinazione tese a tratteggiare l’immagine vincente del leader di turno. Tutto a discapito di una coscienza politica che dal basso sappia decidere e agire collettivamente. Non la società, rarefatta in monadi di lavoratori-consumatori, condannati all’alternativa di lavorare per poi potersi svagare o di svagarsi per poi tornare a lavorare. Il contrappasso di una vita quotidiana presunta libera e sociale, ma invero isolata e aggregata artificiosamente (e pensare che Facebook non esisteva ancora). Non infine l’informazione, distorta da dispositivi logico-argomentativi che prediligono la sensazionalizzazione dell’effimero e la critica laterale all’emergere della verità, ridotta a «momento del falso». La comunicazione non alimenta più il dibattito nell’opinione pubblica, ma ne diviene l’arma più forte di disciplinamento.

Sono questi solo alcuni dei temi delle analisi debordiane, che suonano di stringente attualità in Italia, già indicata dall’autore stesso, nel 1979, come terreno di sperimentazione prediletto delle tecniche spettacolari. Chiunque abbia sbirciato tra i libri di Debord comprende come le sue argomentazioni colgano nel segno in nazioni come la nostra, e come il suo pensiero sembra poterci aiutare a orientarci nel presente. È una constatazione che tuttavia cozza con un’altra.

Debord è un nome poco noto sia dentro che fuori l’università. Le sue opere giacciono abbandonate sul binario morto della dimenticanza o su quello ancor più ingrato della libera reinterpretazione. Un esito paradossale per un intellettuale che pare tanto utile ad una critica dell’esistente, ma che pochi ancora studiano.

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2. I campi di reimpiego

Il lettore che voglia approfondire lo sguardo debordiano sui processi socio-economici incontra non poche difficoltà. I suoi testi principali sono stati tradotti da tempo, ma il suo stile risulta complesso: elitario ed essenziale. Non è incredibile allontanarsene scoraggiati dopo un primo assaggio. Le due opere principali, come la filmografia tutta, sono una serie concettosa di tesi in cui occorre rielaborare di continuo il senso ultimo delle parole, con letture e riletture che cuciano i nessi invisibili del discorso. Una prosa diversa può essere rinvenuta negli articoli che scrisse per alcune riviste, dove il tono irriverente o apertamente polemico lascia spiazzati circa la serietà delle proposte[1].

Se si cercasse supporto nella letteratura secondaria, si resterebbe tuttavia colpiti da quanto l’autore sia sì considerato, ma raramente in quanto filosofo politico. Esiste una selva confusa di libri che prendono a matrice Debord per confezionare prodotti editoriali diversificati. È un campo vasto e poliedrico, riconducibile a tre principali modi di reimpiego dell’autore: il biografico, lo stilistico e l’estetico.

Il primo di questi può definirsi il campo della medializzazione biografica dell’autore[2]. Da questo fuoriescono ricostruzioni della sua vita, girovago sregolato e intellettuale non convenzionale. Una vita passata tra alcune delle avanguardie artistiche del tempo – l’Internazionale Lettrista e l’Internazionale Situazionista – l’amore per la festa, l’alcool e i suoi eccessi, l’esperienza di regista e i viaggi internazionali sono fonti di prim’ordine per il ritratto di un intellettuale bohemien. Alternativo tanto in teoria quanto in pratica.

Se a ciò si aggiunge il suicidio finale e le rare pubblicazioni dedicate ai cenni autobiografici – fa eccezione il Panégyrique – si intuisce come il mercato di pubblicazioni abbia potuto prendere questa piega. Un triste epilogo per chi lungo l’intera esistenza s’era opposto alla propria elevazione a icona dell’intelligenza antagonista.

Un secondo insieme di scritti è invece quello che riprende il modo di scrivere debordiano per emularne la sfacciata attitudine libertina[3]. Si tratta di autori che si vogliono seguaci del defunto situazionismo[4], anime ribelli che condividono il disgusto per la società dello spettacolo. Sono scritti che si concentrano prevalentemente sulla ripresa delle tecniche linguistiche; più sul momento performativo che sui fondamenti teorici. Sembra venir meno quella fatica concettuale che ogni pensiero rivoluzionario richiede. Non si discutono nodi problematici irrisolti in Debord, né si aggiorna la prospettiva critica rispetto ai più recenti avvenimenti storici. I testi oscillano tra opere d’intrattenimento e esercizi di fantasia, combinazioni libere che solo superficialmente collimano col messaggio debordiano. Sono presenti sì l’impulso alla ribellione mediante la creatività ed il richiamo al gioco, condivisi dal comune maestro. Manca tuttavia qualcosa. Sembra di leggere Debord, ma senza Debord.

Quest’ultimo predilige l’opzione per il ludico, per la sperimentazione linguistica come conseguenza di un preciso programma di retorica politica. La sua è una vera e propria battaglia per il recupero delle parole, consunte nei discorsi che la politica, l’economia o la pubblicità riversano quotidianamente sui canali comunicativi. Dopo averle sottratte alla loro abituale semantica, esse vengono proposte in nuove aggregazioni di senso al fine di rifluidificare una comunicazione democratica altrimenti rattrappita.

«La teoria critica deve comunicarsi nel proprio linguaggio» è il monito con cui si inaugura la ricerca di uno stile della rivoluzione che ha tra i suoi risultati più pregevoli, le tecniche del détournement[5]. Se viene meno lo sfondo teorico che alimenta tali linguaggi, il recupero di Debord devia verso l’encomio alla stravaganza, alla bizzarria senza pretese. Per quanto molte delle produzioni in quest’ambito siano piacevoli da leggere, poco hanno da dirci sullo stato attuale della società dello spettacolo.

C’è infine un ultimo terreno in cui l’interesse per Debord ha messo radici. Si tratta degli studi di storia e critica artistica che lo hanno giustamente fatto oggetto di analisi, sia in quanto membro di due avanguardie di metà Novecento, sia per le osservazioni sul ruolo dell’arte, della cultura e dell’urbanistica nella società contemporanea[6]. L’autore ha cercato tutta la vita di combattere il «pensiero specializzato del sistema spettacolare», la settorializzazione delle discipline che, indagando su porzioni ridotte del reale, con linguaggi specifici e circoscritti, non colgono quelle contraddizioni che appartengono ad ogni ambito e qualificano un’epoca storica. Ma la sua appartenenza ai situazionisti e il suo distinguersi quale teorico di spicco, lo hanno reso – suo malgrado – preda appetibile per gli studiosi nel campo dell’arte.

Questi ultimi approfondiscono le intuizioni debordiane e offrono pregevoli contributi scientifici sia agli epigoni che ai delatori. Resta il pericolo che uno studio mirato al Debord artista, offra poco sul Debord politico.

Il quadro orientativo che, insomma, si è brevemente delineato, non dà che un magro contributo al lettore affascinato da quelle parole tanto aderenti alla nostra quotidianità quanto perspicaci nella critica. Dinanzi a lui solo tre sentieri, ma nessuno che introduca al terreno della filosofia politica.

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3. Debord in filosofia

Per descrivere l’interessamento che i filosofi hanno riposto su Debord, si potrebbe opportunamente parlare di “rimozione”. Nei manuali universitari, nelle “garzantine”, il suo nome compare raramente o frettolosamente, qualora non sia palesemente omesso. Come racconta Burgio nel suo saggio dedicato a Debord, persino un testo degli anni Settanta dedicato alla filosofia francese di orientamento marxista non ne parla[7]. Ricercare le ragioni della sua eliminazione dagli intellettuali di riferimento con cui valga la pena confrontarsi, potrebbe sviare il discorso sulle sabbie mobili delle infinite supposizioni – ambito di ricerca inesplorato ma decisamente fuorviante rispetto alla mappatura delle sue letture che si sta qui conducendo. Occorre piuttosto interrogarsi su quei pochi che ne hanno parlato e vagliare sommariamente il modo in cui lo hanno fatto.

In Italia è ormai universalmente riconosciuto il merito di Anselm Jappe che, nel suo Guy Debord[8], ha intrecciato sapientemente cenni biografici e retroterra culturale, il periodo nelle avanguardie e gli scritti postumi, l’analisi delle proposte teoriche ed il confronto con le fonti. In particolare quest’ultimo spunto rende pregevole il libro, che non si limita a rintracciare le radici delle proposte debordiane in autori come Lukàcs o Lefebvre, a loro volta autori ormai sempre meno considerati, ma ne evidenzia le differenze che rendono la Società dello Spettacolo un’opera unica. Non manca anche un bilancio critico che sobriamente prova a fare il punto su un testo rivoluzionario quaranta anni fa.

Un contributo meno conosciuto è invece il saggio Lo scandaloso «pensiero della storia». Guy Debord e la dialettica di Alberto Burgio, rarissimo esempio di universitario italiano che ha tentato di sottrarre dall’oblio la figura di Debord. Nel breve saggio, questi viene riabilitato nel pantheon dei marxisti novecenteschi, ma soprattutto presentato secondo un aspetto sì centrale ma oggi raramente considerato. Debord è esplicitamente riconosciuto quale talentuoso continuatore del pensiero dialettico, erede dello specifico modo di decifrazione della storia che appartenne a Hegel prima e a Marx poi. Un metodo che, partendo da una ricognizione dei fenomeni immediati, li riconduce a determinazioni essenziali seguendo una narrazione di fondo. Un caso recente ed isolato di riabilitare l’autore, ripensandolo a fondo nonostante la generale noncuranza.

Sia Burgio sia Jappe sono rare eccezioni nel mezzo di una letteratura secondaria che si disinteressa dei temi politici di Debord. Esistono tuttavia casi di anomala attenzione prestata all’autore. Filosofi – tre per la precisione – che non si sono limitati ad uno studio esegetico dei suoi testi, ma che hanno cercato di rielaborare originalmente le sue tesi, con differenti esiti.

Giorgio Agamben ne è l’esempio più lampante, vista l’affinità filosofica che lo lega al suo maître a penser. A Debord è infatti dedicato il volume Mezzi senza Fine, così come un tributo, sia pur minimo, non può essere evitato nell’introduzione alla celebre opera Homo Sacer.

«I libri di Debord costituiscono l’analisi più lucida e severa delle miserie e della servitù di una società – quella dello spettacolo, in cui noi viviamo – che ha esteso oggi il suo dominio su tutto il pianeta»[9]. Tragedie come quelle di Timişoara o di Tienanmen sono conferme tangibili di quello stravolgimento, annunciato con largo anticipo, dei rapporti tra politica e informazione. Agamben riconosce in Debord il merito di aver intuito le forme odierne che la politica assume quando si insinua invadente nella vita quotidiana. Lo spettacolo è la più elevata forma di un dominio che ha le sue radici in dinamiche interne al paradigma di sovranità dell’epoca moderna. In particolare sul piano linguistico lo spettacolo miete i suoi frutti migliori. «Ancor prima delle necessità economiche e dello sviluppo tecnologico, ciò che sospinge le nazioni della terra verso un unico destino comune è l’alienazione dell’essere linguistico»[10].

La quintessenza di quell’estraniazione che un secolo prima Marx aveva descritto, è di carattere comunicativo. Gli uomini sono spossessati dal proprio potenziale comunitario, sordi gli uni agli altri. Il momento aggregante è solo quello dello spettacolo, che ripristina tramite l’abbondanza di notizie dei media, un finto legame tra le opinioni.

L’irretimento della coscienza storica in una rete di chiacchiere[11].

Sono questi i soli accenni a un sodalizio filosofico che può vantare una conoscenza personale dei due (testimoniata dall’epistolario) e una comune irriverenza nei confronti del mainstream filosofico.

Discorso diverso va fatto per Mario Perniola, studioso e al contempo critico inflessibile dell’opera debordiana. A lui va attribuito l’indubbio merito di non ignorare Debord, ma di fissare con precisione gli aspetti problematici delle sue tesi. Grave errore dell’intero gruppo dei situazionisti è stato – secondo Perniola – quello di concepirsi sin da principio come “soggettività estetica”, un Io artistico-poetico dedito a performance sperimentali che solo secondariamente ha trasbordato nel campo dell’analisi storica e della militanza politica. È un modo di concepirsi problematico, che genera una spiacevole conseguenza: il rischio di un narcisismo autoreferenziale, di un elitarismo snob che mal si concilia con i propositi del gruppo, una rivoluzione di massa. Imbrigliato nelle contraddizioni dovute ai suoi stessi presupposti, il testo di Debord risulta pieno di “ambiguità”. Ambiguo è il punto di vista del soggetto rivoluzionario – talvolta identificato nel singolo individuo che sottrae la propria vita quotidiana ai meccanismi del consumo, talvolta descritto secondo la retorica della lotta di classe. Ambiguo è il linguaggio adoperato, lacerato tra un discorso tra esperti – soli detentori della verità – e la necessità di autocritica – che porterà a una serie di purghe all’interno dell’Internazionale situazionista. Infine l’ambiguità tra la teoria e la prassi rivoluzionaria: la tensione tra un gruppo di illuminati, possessori del sapere critico, ma impotenti ad attuare alcun cambiamento, e la massa di individui catatonici – unica possibile protagonista di un mutamento storico, ma al contempo vittima prediletta della riorganizzazione dell’esistenza ad opera dello spettacolo.

È un verdetto severo nei confronti di Debord – non approfondibile in questa sede – che si spinge in uno scritto recentissimo a considerarlo tra gli ideologi di riferimento di quella deriva della politica italiana conosciuta come “berlusconismo”[12].

Una rielaborazione critica, ma complice in molti punti, è infine quella svolta da Jean-Luc Nancy nel suo Être singulier pluriel[13]. Debord e i situazionisti hanno avuto l’indubbio merito di intuire con largo anticipo ed in controtendenza ai marxismi novecenteschi l’ultima fase delle logiche espropriative del capitalismo. L’alienazione lavorativa – descritta a suo tempo dal Marx dei Manoscritti – oggi si completa mediante l’appropriazione dell’immaginario operata dallo spettacolo. Questo sottrae all’uomo quel microcosmo finora intonso di desideri, speranze, emozioni, ma anche cultura, inventiva e capacità comunicativa. A ciò sostituisce un immaginario pre-configurato, un serbatoio già pronto di bisogni-consumi, di vogliuzze ed appaganti simulacri, mercificazione ultima di ciò che restava dello spirito. La critica anti-capitalista ha spesso sottovalutato le implicazioni dell’economico nell’ambito del simbolico. Lo spettacolo – e qui è la sua somma pericolosità – si appropria dell’intero essere sociale proprio falsando il rapporto che gli uomini hanno da sempre avuto coi simboli – testimonianze visibili della loro aggregazione. Lo spettacolo al contrario realizza una «simbolizzazione della produzione stessa». Lavoratori-consumatori vengono coordinati tecnicamente secondo i comandi della ragione mercantile. Spariscono frattanto i simboli comunitari, sostituiti da prodotti industriali senza scopo, il cui presunto senso è appioppato loro ex post.

Nonostante il riconosciuto valore di Debord, il suo pensiero è tuttavia prigioniero a sua volta delle logiche interne alla tradizione dialettica. Questa, secondo Nancy, non pensa ontologicamente il “con-essere” degli uomini – e su questo tema che insiste l’autore nel corso del libro. La soluzione politica di Debord allo stallo contemporaneo – l’ipotesi della rivoluzione – risulta dunque dalle aporie della dialettica e si rivela infruttuosa.

Si tratta di una posizione intermedia che, per quanto rivaluti la categoria di “spettacolo” nell’analisi politica, cerca di indicarne i limiti e di smarcarsene.

Agamben, Perniola e Nancy sono tre riletture filosofiche di Debord, ma finora le uniche. La forte diversità che esiste tra le posizioni rivela l’assenza di un dibattito intento a farle convergere, a confrontarle o smentirle. È un vuoto di pensiero che oggi andrebbe colmato.

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4. Appunti di viaggio

I seppur brevi accenni alle riletture di Debord consentono di trarre un bilancio provvisorio. Emerge nel generale disinteresse che la filosofia ha dedicato all’autore solo qualche eccezione alla regola. Debord, ignorato dai settori della ricerca specialistica, è stato facile preda di libere rielaborazioni che lo fanno oggetto di svariate proposte editoriali. Nessuna che però ne valorizzi i contributi politici.

Gli esempi dell’ultimo paragrafo sono le uniche riflessioni, svolte da filosofi sui testi debordiani, che esplicitamente riconsiderano l’autore. Ma al di fuori di queste non c’è che il deserto.

Il fascino che le tesi della Société ancora oggi esercitano sui lettori trovano dinanzi a sé una serie di pericoli. C’è il rischio di sviare il pensiero debordiano su binari morbidi che lo presentano quale intellettuale apocalittico, da leggiucchiare con moderazione, senza esagerare. Un pensiero intransigente il suo, lamentoso, da non prendere sul serio.

Alla neutralizzazione banalizzante si aggiunge talvolta la confusione. La sua analisi è spesso rimescolata grossolanamente a cupi ritratti della contemporaneità, su tutti quello baudrillardiano, con cui pur esistono elementi in comune, ma anche divergenze radicali[14].

Un ulteriore pericolo è infine che quanto predetto più di quaranta anni fa sia stato sì un’accurata previsione, ma che sia oggi un’inutile predica ridondante, poiché le dinamiche sociali che vennero colte sul nascere sono ormai affermate ed evidenti a tutti. Si coglie in questo modo solo un lato di Debord – l’incredibile lungimiranza – ma si ignorano in blocco le indicazioni su una via altra possibile per la nostra società, alternativa all’«ideologia materializzata» dello spettacolo. Una via di emancipazione, consapevolezza e ludica socialità che per noi, lettori postumi, resta una sfida ancora aperta.

 

DICEMBRE 2013

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[1] M. Lippolis (a cura di), Potlach, Nautilus, Torino 1999.

[2] Cfr. A. Merrifield, Guy Debord, Reaktion Books, London, 2011; V. Kaufmann, Guy Debord: Revolution in the Service of Poetry, University of Minnesota Press, Minneapolis, 2006; C. Bourseiller, Vie et mort de Guy Debord, Pascal Galodé Editions, Saint-Malo 2002.

[3] Cfr. C. Guilbert, Pour Guy Debord, Gallimard, Paris, 1996; Toulouse-la-Rose, Debord contre Debord, Nautilus, Paris, 2010; ma anche alcuni dei lavori di P. Bertelli, Apologia del plagio o Elogio dell’imbecille che si fece primo ministro, da http://www.pinobertelli.it/index.php?pb=situazionismo.

[4] Ultimo, F. Abate col suo movimento politico “Situazionismo e Libertà”. Lo stesso Gabriele Paolini si è definito talvolta un situazionista.

[5] Cfr. G. Debord, Istruzioni per l’uso del détournement in Potlach, cit., oltre a A. Burgio, Lo scandaloso «pensiero della storia». Guy Debord e la dialettica in M. L. Lanzillo e S. Rodeschini, Percorsi della dialettica nel Novecento, Carocci Editore, Roma 2011, cap.6.2.

[6] Cfr. M. Perniola, I situazionisti, cit.; M. Bandini, L’estetico, il politico. Da Cobra all’Internazionale situazionista, Costa & Nolan, Ancona 1999; F. Careri, Walkscapes. Camminare come pratica estetica, Einaudi, Torino 2006.

[7] O. Pompeo Faracovi, Il marxismo francese contemporaneo fra dialettica e struttura, Feltrinelli, Milano 1972.

[8] A. Jappe, Guy Debord, Manifestolibri, Roma 1999, anche nuova ed. 2013.

[9] G. Agamben, Mezzi senza fine. Note sulla politica, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p.60.

[10] Ibidem, p.69.

[11] A queste considerazioni va aggiunto anche il prezioso confronto con il Debord artista politico, camuffatore di una poetica d’assalto non assimilabile alla banale sperimentazione. Cfr. G. Agamben, Difference and Repetition: on Guy Debord’s films trad. ing. di B. Holmes in T. McDonough, Guy Debord and the situationist International, The MIT Press, Cambridge 2004.

[12] M. Perniola, Berlusconi o il ‘68 realizzato, Mimesis, Milano, 2011. Per una critica al tardo Debord, noioso narcisista, si veda anche:

http://www.lutherblissett.net/archive/052_it.html.

[13] J. L. Nancy, Être singulier pluriel, Galilée, Paris 1996, anche in trad. it di Davide Tarizzo, Essere singolare plurale, Einaudi, Torino 2001.

[14] Cfr. R. Gilman-Opalsky, Spectacular Capitalism, Minor Compositions, London, 2011, oltre a R. Gilman-Opalsky, Guy Debord and ideology materialized: reconsidering situationist praxis, in Theory in Action, vol.1, Ottobre 2008. Pur dando un taglio a volte troppo analitico alle tesi della Société, Gilman-Opalsky è una perla rara nel disinteresse statunitense per Debord.