IL LAVORO, LA
GRATUITÀ, IL CONTROLLO: SGUARDI SUL MONDO ATTUALE
Redazione
Cassandra cercò di avvertire i troiani del pericolo che la città correva; ma non fu creduta.
Allora come oggi,
preferiamo le bugie rassicuranti alle verità scomode[1].
Ideologia del
free
Internet sta
diventando la metafora del mondo e il suo modello di sviluppo. Una delle
caratteristiche dirompenti del web è la gratuità, apparente e tanto più
concretissima, della maggioranza dei suoi contenuti. Il capitalismo
attuale è in grado, come non mai, di ammantare di generosità la propria
natura predatoria.
Offrire ai consumatori prodotti
gratuiti. Cosa che in effetti sta già avvenendo da tempo, se ci pensiamo
bene: dagli smartphone, regalati ai clienti se si impegnano in contratti
con le aziende delle telefonia, alla gratuità delle applicazioni per
comunicare come Skype, agli stessi social come facebook e
twitter, a piattaforme di condivisione di video e foto come
Youtube e Instagram, all’enciclopedia fai-da-te Wikipedia,
o anche la rivista che state leggendo, distribuita gratuitamente online.
I giornali cartacei si vendono sempre meno, le notizie sono disponibili
gratuitamente in rete.
Jimmy Wales, il fondatore di Wikipedia,
ha stilato una lista ancor più visionaria delle Dieci cose che saranno
gratuite, ispirata al discorso di David Hilpbert al Congresso
internazionale di matematica tenutosi a Parigi nel 1900, che proponeva
ventitré importanti problemi matematici irrisolti. Oltre agli ovvi
Dizionario ed Enciclopedia free, nella lista ci sono anche libri
scolastici di base, mappe, comunità, editoria scientifica, musica e arte
ma anche programmazione televisiva, motori di ricerca e formati di file.
Per Geert Lovink, “critico” della rete,
però, non c’è alcun collegamento immediato tra gratuità e libertà.
L’ideologia del free (nel senso di
free beer, birra gratis) attrae e accontenta milioni di persone
mistificando e nascondendo il fatto che i suoi promotori, e in genere la
classe virtuale, in qualche punto della catena intascano i soldi.
L’ideologia del free, nonostante le buone intenzioni, sta aggirando il
problema dell’economia della cosiddetta “società della conoscenza”,
mentre i crociati del free evitano sistematicamente di discutere il loro
modello economico, e parlano dell’altro – l’utente, il programmatore, il
cittadino, il blogger ecc. – che deve essere liberato.
Sebbene la
gratuità sembri essere una manna dal cielo, la ricaduta positiva del
capitalismo informatizzato, è bene cercare di capire a quali
contraddizioni ci conduce questa magnifica, e senza precedenti,
disponibilità di merce a buon mercato.
Intanto molte delle cose sopraelencate,
specie siti e applicazioni che troviamo in rete e sui telefoni, non sono
davvero gratuite. Ci illudiamo che lo siano.
Potremmo parlare di “illusione della
gratuità”. Siamo in pratica noi ad offrire qualcosa alle major: il web
2.0 è l’esempio per eccellenza. Basti pensare ai principali social
network, che oltre a ciò che guadagnano con la pubblicità, ricevono
gratuitamente i nostri dati personali: in pratica abbiamo permesso loro
un’autoschedatura, gratuita e approfondita sui nostri gusti, opinioni,
pensieri ed emozioni.
Un informatico,
tale Uriel Fanelli, partendo dalla sua esperienza lavorativa, ha
raccontato recentemente della strada che, a suo avviso, starebbe
prendendo l’economia mondiale, nell’epoca dello scandalo
nsa/Datagate e
dell’imminente accordo transatlantico
usa/ue:
l’articolo che ha scritto si intitola, non a caso,
Il gratis che uccide[1].
Ed infatti, il
fenomeno dei prodotti offerti ai consumatori gratuitamente, come accade
per il web, o quasi “regalati” a poco prezzo, sta allargandosi a vista
d’occhio, fino a prendere una piega generalizzante. Esempio: le
stampanti non costano quasi nulla, ma il salasso arriva quando devi
acquistare una cartuccia. E questa prassi si sta estendendo a molti
altri campi.
Uriel Fanelli
presenta vari esempi, raccontati da manager di grosse aziende, che ha
incontrato sul lavoro:
È addirittura possibile che certe aziende costruiranno
auto
elettriche gratis, rifacendosi sulle batterie, la
manutenzione e tutto il resto. […] Non solo: l’elettronica è la
componente decisiva di ogni innovazione dei nostri tempi, e
l’elettronica fa sì che tutto ricada sotto il dominio
cibernetico/militare statunitense:
«Sarete felicissimi di
avere il vostro cellulare gratis, e di avere anche l’abbonamento gratis.
Meno felici sarete perché ad offrirvelo saranno Google e Facebook, che
si rifinanzieranno vendendo i vostri dati ad
nsa. E sarete ancora meno
felici quando, siccome tutte le telco chiuderanno, rimarrete
disoccupati. Sarete dei disoccupati col telefono gratis in tasca». […]
Qualsiasi cosa facciate, finché la
fed stampa soldi, potranno darvela
gratis[2]
[3].
Le tesi di
Fanelli, non costituiscono certo un saggio di logica strutturata,
tuttavia possono servire a condividere alcune impressioni che circolano
negli ambienti dell’innovazione spinta, in cui internet diventa modello
di marketing anche per la produzione di merce più tradizionale, e
soprattutto ad osservare come, anche a livello intuitivo, sia abbastanza
chiara l’esistenza di una relazione tra gratuità e disoccupazione.
Ma al di là di
quello che può pensare un Fanelli, lo scandalo del Datagate ci ha
confermato ciò che già alcune “Cassandre” ipotizzavano da tempo, ovvero
che tutte le nostre informazioni private su mail e social network sono
state liberamente accessibili agli Usa, che possono controllare chiunque
in ogni momento; e non solo le informazioni sensibili della gente
comune, ma anche quelle di politici e diplomatici, a cui uno Snowden
qualunque (non solo quindi alti dirigenti dell’nsa),
è potuto accedere. In altre parole che la gratuità di internet è
l’epifenomeno del commercio di dati personali, una nuova merce che si
scambia alle spalle di chiunque fruisca dei servizi della rete.
Questo scambio,
che assume in prospettiva, un interesse strategico che coinvolge grandi
attori, da un lato le multinazionali dell’informatizzazione e della
comunicazione, dall’altro direttamente gli Stati, non è qualcosa di
passeggero, al di là delle posizioni anche contraddittorie espresse,
dalla diplomazia internazionale e dai capi di Stato.
Il Datagate ha
addirittura fatto storcere il naso all’ex presidente Carter, il quale
parla di non funzionamento della democrazia, di metodi antidemocratici
dell’intelligence Usa: «Le rivelazioni di Edward Snowden sono
benefiche». Mentre Obama, da grande equilibrista della parole, butta
acqua sul fuoco, elogiando lo straordinario lavoro svolto
dall’intelligence e affermando che si deve solo assicurare un maggiore
“equilibrio” «tra la necessità di proteggere la sicurezza nazionale e le
esigenze di difesa della privacy»[4]. Cameron
invece minaccia censure alla stampa che gestisce «senza senso di
“responsabilità” informazioni delicate, come le rivelazioni di Edward
Snowden sullo spionaggio di Usa e Gb»[5]. Una
situazione paradossale. Il problema sarebbe ora la democrazia, ora la
mancanza di equilibrio tra istanze inconciliabili, ora la stampa e mai
l’architettura di internet, funzionale alla valorizzazione privata del
flusso pubblico di informazioni che esso veicola. In sostanza nessuno
sembra voler dire l’ovvio e cioè che se fosse davvero la tutela dei
diritti degli utenti di internet a stare a cuore ai politici, i dati
dovrebbero viaggiare già criptati, nel senso che la loro codifica
dovrebbe avvenire dal momento che vengono immessi nella rete e non solo
dopo che sono stati trattati da Google o gli altri motori di ricerca e
le varie piattaforme. I problema è però che i servizi che le piattaforme
web mettono a disposizione esistono proprio per avere dati sugli utenti
e se così non fosse nessuno avrebbe interesse a gestire informazioni che
non potrebbe rivendersi in qualche modo, per cui addio gratuità.
Nonostante tutti gli aspetti positivi
che ci offre la rete, molti dei problemi di Internet sono rimasti
invariati negli anni: il controllo da parte delle corporations, la
sorveglianza e la censura, i “diritti di proprietà intellettuale”, i
filtri, la sostenibilità economica, la “governance”[6]. Problemi
ignorati, specialmente le questioni relative al controllo interno dei
social network, in particolare dai tantissimi giovani che usano
meccanicamente questi strumenti, senza chiedersi quali siano le
conseguenze del loro utilizzo.
I vizi dell’architettura di Internet
dovrebbero essere discussi, di modo che le sue virtù possano avere la
meglio. L’ideologia del free come componente chiave della rete, infatti,
fa parte del viscido linguaggio del business. Nel saggio The
destruction of the Public Sphere, Ross McKibben afferma che l’arma
più potente del managerismo di mercato è stata il suo vocabolario,
concepito nelle business school,
che è poi penetrato nello stato e ora infesta tutte le istituzioni e,
per quanto possa sembrare ridicolo, determina il modo in cui le nostre
élite politiche ed economiche pensano il mondo. «Cederai tutto
gratuitamente (accesso libero, no copyright); ti farai pagare solo per i
servizi supplementari, che ti renderanno ricco». Ecco il primo dei
“Dieci comandamenti liberali comunisti” pubblicati da Oliver Malnuit
sulla rivista francese “Technikart”. Slavoj Zizek ha citato i
comandamenti di Malnuit e ha classificato Bill Gates e George Soros come
comunisti liberali.
Internet, ad
onta delle apparenze, è una macchina per fare soldi, non certo per gli
utenti, ma per chi la controlla. Ha bisogno di flussi ininterrotti e
liberi di dati ed informazioni, che hanno un valore economico al di là
del loro apparente disinteresse quando considerati singolarmente. La
valorizzazione economica, accessibile solo ai gestori della rete, del
libero scambio di dati prodotti dagli utenti, è la condizione sulla
quale si basa l’attuale struttura del web ed è facile capire che la
soluzione tecnica della codifica a monte dei dati è impraticabile dal
punto di vista della valorizzazione economica che tutto muove. Questa
natura del capitalismo informatizzato sta diventando un vero e proprio
modo di vita.
Oramai ci si “incontra” online. I
ragazzini chattano con l’Instant messaging (Im) per ore, tenendosi
compagnia e scambiandosi notiziole divertenti prese dalla rete, oltre ai
propri pensieri del giorno. Questi strumenti sono diventati importanti
per mantenere comunità intime full-time, sempre attive, per stare vicino
agli amici anche quando sono fisicamente distanti; così tutto ciò
permette ai giovani di consolidare i gruppi sociali. Il paradosso con il
quale dobbiamo fare i conti è che l’apertissima e pubblica Internet
viene usata per scambi intimi tra amici e pari e che tutte queste
conversazioni possono, e lo saranno, essere conservate e indicizzate per
i decenni a venire.
E quasi nessuno si rende conto che i
social network o le chat sono luoghi privati di vita pubblica. Non ci si
rende conto che le proprie conversazioni private sono sotto controllo.
Si crea un minaccioso panopticon personale e privato, dovuto alla
sorveglianza tentata dagli adulti, i quali influenzano direttamente le
vite dei giovani, e che li spinge alla fuga online, senza preoccuparsi
dei governi e delle corporations che li controllano.
Gli attivisti non hanno ancora
affrontato questa realtà complessa, e come prima risposta potrebbero
condannare l’attitudine pro-corporation dei più giovani in quanto
ingenua, immatura e consumistica. Il problema sta nel sistema di
proprietà dei media e nel ruolo ambiguo dei
venture capitalist e di chi
investe nelle start-up di Internet. I social network vanno visti non
solo come spazi sociali, ma come veri e propri media, che formano
opinione, idee, consenso. Concentrando nelle mani delle multinazionali
dati, profili di personalità, conoscenze e saperi.
Dal virtuale al reale
È risaputo che i
vincoli di qualsiasi genere sono mal digeriti dal commercio, legale o
illegale che sia. La stessa operazione di “liberalizzazione”
generalizzata e gestita rigorosamente dietro le quinte, si sta imponendo
anche al di fuori del commercio di dati, nel mondo reale, il quale ormai
prende a modello quello “virtuale”.
Il
tafta, l’Accordo transatlantico per il libero commercio,
detto anche Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership),
ribattezzato «la Nato del commercio», che stanno discutendo Usa ed
Europa nella più completa segretezza, senza che i cittadini (e neppure
gli europarlamentari) siano informati, pone numerose e gravi minacce per
l’ambiente, i servizi pubblici (come la sanità) e l’economia, mirando a
concentrare ancor di più il potere economico nelle mani delle grandi
aziende multinazionali:
Si va ben oltre il classico approccio che consiste nella sola
rimozione dei dazi e nell’apertura dei mercati agli investitori esteri;
i negoziati commerciali si stanno concentrando sulla rimozione delle
regolamentazioni sociali e ambientali che proteggono i consumatori, i
lavoratori e l’ambiente, e che attualmente sono d’intralcio ai profitti
delle grandi imprese. Come spiega la Commissione Europea: «La più grossa
barriera al commercio non è il dazio pagato alle frontiere, ma sono le
cosiddette “barriere non tariffarie”, quali, per fare un esempio, i
differenti standard di sicurezza o sull’ambiente per le automobili. […]
L’obiettivo di questo patto commerciale è quello di ridurre i costi
inutili ed i ritardi per le compagnie…». […] A tale scopo, l’ue
e gli usa mirano ad
«armonizzare» e «riconoscere reciprocamente» i loro rispettivi approcci
normativi al fine di creare la più grande zona di libero commercio del
mondo. In pratica, però, «l’armonizzazione normativa» e il «reciproco
riconoscimento» degli standard dev’essere inteso come un eufemismo, che
in realtà significa un grave indietreggiamento delle norme sociali e
ambientali in favore dell’interesse delle grandi imprese di poter
muovere liberamente capitali, merci e lavoro in giro per il globo. Per
esempio, le aziende statunitensi vorrebbero vedere l’Europa abbassare i
suoi standard sul lavoro, più obblighi e meno diritti per i lavoratori,
indifesi e col divieto di sciopero e farla finita col suo «principio di
precauzione» – il cardine delle politiche di tutela dei consumatori e
dell’ambiente su cui è basato il Regolamento
reach sulle sostanze
chimiche e le sue severe norme sulla sicurezza alimentare e sulle
etichette degli alimenti. […] Le aziende europee, invece, puntano contro
le più severe norme degli usa
sui medicinali, i dispositivi medici e i test, così come contro il loro
più stretto regime di regolamentazione finanziaria[7].
Quindi, senza
impedimenti legislativi e doganali, i costi per far circolare le merci
saranno molto bassi e ciò consentirà, a parità di offerta, profitti
molto maggiori per i produttori.
Ma la corsa all’abbassamento dei costi
di produzione non è automaticamente relazionata alla diminuzione dei
prezzi e quand’anche lo fosse bisognerebbe capire che essa porta con sé
una serie di contraddizioni sociali difficilmente conciliabili. Intanto
gli accordi usa-ue mirano a
creare condizioni di scambio che in prima istanza vanno a scapito delle
altre zone di commercio internazionale, aumentando le differenze già
esistenti tra paesi ricchi e paesi poveri, con tutte le conseguenze del
caso, e in seconda istanza la deregolamentazione generalizzata, da un
lato genera un aumento puramente quantitativo e non anche qualitativo
delle merci scambiate, dall'altro introduce, un po’ dappertutto,
condizioni di scambio tali da avere ricadute negative sul valore del
lavoro. L'effetto generale sarà magari anche una presenza maggiore di
prodotti a buon mercato ma a fronte di una capacità sociale di consumo
ulteriormente e forzosamente ridotta.
Nel frattempo, infatti la crisi ha già
mostrato i suoi effetti negativi sul lavoro che sparisce. Spariscono i
posti. Calano vertiginosamente gli stipendi. Addio al posto fisso. Ora
bisogna adattarsi. Accontentarsi delle briciole. E non si sa per quanto
tempo.
Prima sognavamo il Superenalotto per
scappare su qualche spiaggia caraibica, adesso la speranza è vincere il
Win for life, per avere 1.000 euro al mese, per non dover più
lavorare: pure i sogni si sono ridimensionati. Tuttavia, la vera e
propria proliferazione di lotterie permanenti, sintomo del sogno di una
vita retribuita anche senza occupazione, assume emblematicamente il
carattere di una speranza di fuga dalle condizioni inumane di un mondo
che sembra non aver più bisogno del lavoro.
Il dato centrale dell’epoca improntata
all’ideologia del free è, infatti, che il sistema non può più poggiare
sul fondamento di una buona occupazione per tutti.
La produzione capitalistica è ormai ad
un livello tecnologico avanzatissimo, migliora la tecnologia e quindi la
qualità del lavoro, ma diminuendo il perso del lavoro umano, vale di
meno il lavoro stesso. Il progresso tecnologico finisce per ritorcersi
contro il capitalista, poiché il profitto, a un certo punto dello
sviluppo produttivo, non aumenta più come dovrebbe, ma anzi inizia a
ridursi. Crescendo il capitale costante (macchine e materie prime),
diminuisce il peso del capitale variabile (i salari), poiché grazie alla
meccanizzazione servirà un numero sempre minore di operai e quindi c’è
meno plusvalore, grazie al contributo della macchina: è la caduta
tendenziale del saggio di profitto, teorizzata da Marx quale punto
debole del capitalismo.
In più la crescente disoccupazione, che
è l’inevitabile conseguenza del processo appena descritto, significa
anche maggiore povertà dei consumatori che vedono diminuire il loro
stipendio (potere d’acquisto): quindi lo sviluppo tecnologico crea da
una parte la possibilità di aumentare la produzione di merci, ma
dall’altra il rischio sempre più concreto che le merci restino invendute
a causa della mancanza di soldi nelle tasche delle persone. Risultato di
tutto ciò è una forbice enorme che si allarga tra i super ricchi e una
base crescente di proletariato sfruttato ed impoverito.
Ma un sistema economico dove robotica e
intelligenza artificiale crescono in modo esponenziale è insostenibile,
anche perché siamo pur sempre sopra un pianeta finito, non infinito. In
sostanza non ha senso continuare ad aumentare indefinitamente la
"potenza produttiva", fine a se stessa, senza la possibilità di poterla
sfruttare davvero.
Nel frattempo, infatti, la tecnologia
avanza autoreferenzialmente, senza freni: si meccanizzano lavori che
prima davano impiego a parecchi esseri umani. Dai casellanti sostituiti
dalle macchine, ai cassieri licenziati per far posto alle casse
automatiche nei grandi supermercati. O un qualsiasi ufficio, che con pc
e annessi software ha semplificato e migliorato molte attività, potendo
tagliare sempre più sul personale. Per non parlare delle stampanti 3D,
in arrivo a breve, che pare potranno costruire in 24 ore una casa...
Incredibile, ma vero: si potrà
“stampare” a livello molecolare, usando pochissima energia, materiali
decomposti dai rifiuti, ed energia solare ad altissima efficienza[8].
I robot ci ruberanno il lavoro? Secondo
il prof. Behrokh Khoshnevis, dell’Università della California del Sud,
che ha realizzato questa megastampante 3D per costruire abitazioni in un
giorno (Contour Crafting), non accadrà, non si ridurranno i posti di
lavoro, ma piuttosto se ne creeranno di nuovi. Eppure, agli operai
basterà posare due binari su cui si muove questa megastampante
sputacemento, ed il gioco è fatto. Senza necessità di ponteggi, operai,
camion, e con un consistente risparmio di materiale.
I costi verrebbero abbattuti, portati
quasi a zero. Ma tutto questo sarà sempre e solo nelle mani di qualcuno.
Fin quando avremo proprietà privata e sistema di brevetti e copyright
non avremo certo libero accesso a ciò che ci potrebbe servire per vivere
davvero gratuitamente e liberamente, avendo accesso alle risorse
necessarie per una vita dignitosa.
Ma allora il lavoro sarà sempre meno? Le
macchine stanno liberando l’uomo? Potrebbero. Ma ora come ora non sembra
proprio che stia andando così: le macchine stanno sostituendo lentamente
gli uomini sul lavoro, riducendo man mano gli orari di lavoro e quindi
le paghe, e pare proprio che ce ne sarà sempre meno. Si è sottovalutato
l’avanzamento tecnologico, che adesso sta letteralmente mangiando posti
ed ore di lavoro. E allora il capitalismo ci sta liberando dalla fatica?
Ci sta portando verso una nuova società in cui vivere dignitosamente
senza vendere se stessi e il proprio tempo? O sta costruendo una massa
infinita di disoccupati che saranno costretti ad elemosinare per avere
un po’ di cibo?
Pare chiaro che il funzionamento del
capitalismo, cioè dei rapporti di produzione attuali, abbia come effetto
non quello di ridurre il tempo di lavoro, liberando quindi tempo
personale e aumentando i posti di lavoro, ma quello di introdurre sempre
più povertà nel mondo, livellare verso il basso il costo del lavoro e
tutte le spese per recuperare plusvalore: deprezzare, de-valorizzare il
lavoro.
Futuri paradossali
Ma verso quali scenari stiamo andando allora?
Con certezza, non possiamo dirlo. Allora proviamo a lavorare
d'immaginazione, con una suggestione letteraria:
il romanzo di Frederik Pohl, Il morbo di Mida, edito in Italia da
Delosbooks (Milano 2007, uscì nel 1954). «La globalizzazione ha risolto
tutti i problemi dell’umanità. Ora bisogna consumare. A qualsiasi
costo», così recita una frase sulla copertina. Nel futuro immaginato da
Pohl, grande autore della Social Fiction americana di metà secolo
scorso, non ci sono più problemi di fame o scarsità di beni di consumo.
L’unico problema è l’enorme abbondanza, ovvero la sovrapproduzione di
cose, che per essere contrastata ha provocato l’inizio di un meccanismo
perverso: bisogna consumare tantissimo, pena il collasso del sistema. Di
conseguenza, i poveri sono costretti all’iperconsumo, seguendo dei
precisi e repressivi razionamenti che li costringono a mangiare e
consumare di continuo, e sono quindi obesi, non possono stare la sera a
casa, ma devono uscire, e le loro case hanno decine di stanze, e possono
lavorare solo un giorno la settimana per poter consumare abbastanza
durante il resto della settimana. Mentre i ricchi sono coloro che
possono usare un paio di pantaloni per più di 5 giorni, sono quelli che
possono vivere in case di dimensioni più contenute, permettendosi di
mangiare poco. La ricchezza dei ricchi è quindi nella libertà di poter
non consumare.
Il futuro paradossale immaginato da
Frederik Pohl, a parte l’imperativo del consumo, non si è realizzato,
tanto meno nelle sue premesse di soluzione ai problemi materiali
dell’umanità, e tuttavia il presente che abbiamo cercato di descrivere,
non sembra molto più rassicurante.
GENNAIO 2014
[1]
U. Fanelli, Il gratis che uccide, all’interno di Il
superstato-canaglia senza
freni, La
desertificazione industriale europea a opera del “tutto gratis”
imbottito di dollari. La NATO economica.
http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=89808
[2]
U. Fanelli,
cit.
[3]
M. Martinez,
cit., che inoltre approfondisce il ruolo e la funzione di
facebook: «Facebook sta saturando il mercato dei 2,4
miliardi di utenti di internet nel mondo. Certo, potrebbe
continuare a fare tanti soldi, ma senza espansione, non
crescerebbe il valore finanziario dell’azienda in borsa. Per
espandere il mercato, Facebook si è quindi alleato con i giganti
delle telecomunicazioni, per ridurre del 99% il costo
dell’accesso mobile a Internet nei prossimi dieci anni. Cioè
rendere praticamente gratuiti dispositivi e connessione per
l’intera specie umana. La quale specie, come effetto
collaterale, finirà così nel sistema di controllo totale che sta
emergendo in questi giorni, grazie alle rivelazioni di Snowden.
(Facebook, che fa somme favolose offrendo un servizio gratuito
di autoschedatura, non si fonda nemmeno su questo già
evanescente prodotto, ma sulla speculazione che gli si crea
attorno in borsa. E per muovere la borsa, sono disposti a
regalare all’umanità non solo connessioni, ma anche dispositivi
fisici, trasformando nel processo i comportamenti di tutti gli
esseri detti umani e il loro modo di relazionarsi)».
[4]
Casa Bianca, piena fiducia in vertici Nsa
(ansa) - New York,
Ottobre 2013,
http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/mondo/2013/10/28/Casa-Bianca-piena-fiducia-vertici-Nsa_9535611.html
[5]
Datagate: Cameron ammonisce stampa,
Corriere della Sera, 28 Ottobre 2013 21:08
http://www.corriere.it/notizie-ultima-ora/Esteri/Datagate-Cameron-ammonisce-stampa/28-10-2013/1-A_008720953.shtml
[6]
M. Ammendola,
Geert Lovink, Zero comments. Teoria critica di internet (Bruno
Mondadori, Milano 2008), in «Città Future» n. 05,
http://www.cittafuture.org/05/11-Geert-Lovink-Zero-comments-teoria-critica-di-Internet.html
[7]
Il “Nuovo Ardito Accordo Transatlantico”,
http://vocidallestero.blogspot.it/2013/10/il-nuovo-ardito-accordo-transatlantico.html
[8]
M. De Agostini, I robot ci ruberanno il lavoro ma ci
ridaranno la vita,
http://www.tomshw.it/cont/articolo/i-robot-ci-ruberanno-il-lavoro-ma-ci-ridaranno-la-vita-robot-e-meccanizzazione-dobbiamo-avere-paura/50391/3.html