banner n 12
12
Gennaio 2014

home - indice


 

IL LAVORO, LA GRATUITÀ, IL CONTROLLO: SGUARDI SUL MONDO ATTUALE

Redazione

 

Cassandra cercò di avvertire i troiani del pericolo che la città correva; ma non fu creduta.

Allora come oggi, preferiamo le bugie rassicuranti alle verità scomode[1].

 

Ideologia del free

Internet sta diventando la metafora del mondo e il suo modello di sviluppo. Una delle caratteristiche dirompenti del web è la gratuità, apparente e tanto più concretissima, della maggioranza dei suoi contenuti. Il capitalismo attuale è in grado, come non mai, di ammantare di generosità la propria natura predatoria.

Offrire ai consumatori prodotti gratuiti. Cosa che in effetti sta già avvenendo da tempo, se ci pensiamo bene: dagli smartphone, regalati ai clienti se si impegnano in contratti con le aziende delle telefonia, alla gratuità delle applicazioni per comunicare come Skype, agli stessi social come facebook e twitter, a piattaforme di condivisione di video e foto come Youtube e Instagram, all’enciclopedia fai-da-te Wikipedia, o anche la rivista che state leggendo, distribuita gratuitamente online. I giornali cartacei si vendono sempre meno, le notizie sono disponibili gratuitamente in rete.

Jimmy Wales, il fondatore di Wikipedia, ha stilato una lista ancor più visionaria delle Dieci cose che saranno gratuite, ispirata al discorso di David Hilpbert al Congresso internazionale di matematica tenutosi a Parigi nel 1900, che proponeva ventitré importanti problemi matematici irrisolti. Oltre agli ovvi Dizionario ed Enciclopedia free, nella lista ci sono anche libri scolastici di base, mappe, comunità, editoria scientifica, musica e arte ma anche programmazione televisiva, motori di ricerca e formati di file.

Per Geert Lovink, “critico” della rete, però, non c’è alcun collegamento immediato tra gratuità e libertà. L’ideologia del free (nel senso di free beer, birra gratis) attrae e accontenta milioni di persone mistificando e nascondendo il fatto che i suoi promotori, e in genere la classe virtuale, in qualche punto della catena intascano i soldi. L’ideologia del free, nonostante le buone intenzioni, sta aggirando il problema dell’economia della cosiddetta “società della conoscenza”, mentre i crociati del free evitano sistematicamente di discutere il loro modello economico, e parlano dell’altro – l’utente, il programmatore, il cittadino, il blogger ecc. – che deve essere liberato.

Sebbene la gratuità sembri essere una manna dal cielo, la ricaduta positiva del capitalismo informatizzato, è bene cercare di capire a quali contraddizioni ci conduce questa magnifica, e senza precedenti, disponibilità di merce a buon mercato.

Intanto molte delle cose sopraelencate, specie siti e applicazioni che troviamo in rete e sui telefoni, non sono davvero gratuite. Ci illudiamo che lo siano.

Potremmo parlare di “illusione della gratuità”. Siamo in pratica noi ad offrire qualcosa alle major: il web 2.0 è l’esempio per eccellenza. Basti pensare ai principali social network, che oltre a ciò che guadagnano con la pubblicità, ricevono gratuitamente i nostri dati personali: in pratica abbiamo permesso loro un’autoschedatura, gratuita e approfondita sui nostri gusti, opinioni, pensieri ed emozioni.

Un informatico, tale Uriel Fanelli, partendo dalla sua esperienza lavorativa, ha raccontato recentemente della strada che, a suo avviso, starebbe prendendo l’economia mondiale, nell’epoca dello scandalo nsa/Datagate e dell’imminente accordo transatlantico usa/ue: l’articolo che ha scritto si intitola, non a caso, Il gratis che uccide[1].

Ed infatti, il fenomeno dei prodotti offerti ai consumatori gratuitamente, come accade per il web, o quasi “regalati” a poco prezzo, sta allargandosi a vista d’occhio, fino a prendere una piega generalizzante. Esempio: le stampanti non costano quasi nulla, ma il salasso arriva quando devi acquistare una cartuccia. E questa prassi si sta estendendo a molti altri campi.

Uriel Fanelli presenta vari esempi, raccontati da manager di grosse aziende, che ha incontrato sul lavoro:

 

È addirittura possibile che certe aziende costruiranno auto elettriche gratis, rifacendosi sulle batterie, la manutenzione e tutto il resto. […] Non solo: l’elettronica è la componente decisiva di ogni innovazione dei nostri tempi, e l’elettronica fa sì che tutto ricada sotto il dominio cibernetico/militare statunitense: «Sarete felicissimi di avere il vostro cellulare gratis, e di avere anche l’abbonamento gratis. Meno felici sarete perché ad offrirvelo saranno Google e Facebook, che si rifinanzieranno vendendo i vostri dati ad nsa. E sarete ancora meno felici quando, siccome tutte le telco chiuderanno, rimarrete disoccupati. Sarete dei disoccupati col telefono gratis in tasca». […] Qualsiasi cosa facciate, finché la fed stampa soldi, potranno darvela gratis[2] [3].

 (torna su)

Le tesi di Fanelli, non costituiscono certo un saggio di logica strutturata, tuttavia possono servire a condividere alcune impressioni che circolano negli ambienti dell’innovazione spinta, in cui internet diventa modello di marketing anche per la produzione di merce più tradizionale, e soprattutto ad osservare come, anche a livello intuitivo, sia abbastanza chiara l’esistenza di una relazione tra gratuità e disoccupazione.

Ma al di là di quello che può pensare un Fanelli, lo scandalo del Datagate ci ha confermato ciò che già alcune “Cassandre” ipotizzavano da tempo, ovvero che tutte le nostre informazioni private su mail e social network sono state liberamente accessibili agli Usa, che possono controllare chiunque in ogni momento; e non solo le informazioni sensibili della gente comune, ma anche quelle di politici e diplomatici, a cui uno Snowden qualunque (non solo quindi alti dirigenti dell’nsa), è potuto accedere. In altre parole che la gratuità di internet è l’epifenomeno del commercio di dati personali, una nuova merce che si scambia alle spalle di chiunque fruisca dei servizi della rete.

Questo scambio, che assume in prospettiva, un interesse strategico che coinvolge grandi attori, da un lato le multinazionali dell’informatizzazione e della comunicazione, dall’altro direttamente gli Stati, non è qualcosa di passeggero, al di là delle posizioni anche contraddittorie espresse, dalla diplomazia internazionale e dai capi di Stato.

Il Datagate ha addirittura fatto storcere il naso all’ex presidente Carter, il quale parla di non funzionamento della democrazia, di metodi antidemocratici dell’intelligence Usa: «Le rivelazioni di Edward Snowden sono benefiche». Mentre Obama, da grande equilibrista della parole, butta acqua sul fuoco, elogiando lo straordinario lavoro svolto dall’intelligence e affermando che si deve solo assicurare un maggiore “equilibrio” «tra la necessità di proteggere la sicurezza nazionale e le esigenze di difesa della privacy»[4]. Cameron invece minaccia censure alla stampa che gestisce «senza senso di “responsabilità” informazioni delicate, come le rivelazioni di Edward Snowden sullo spionaggio di Usa e Gb»[5]. Una situazione paradossale. Il problema sarebbe ora la democrazia, ora la mancanza di equilibrio tra istanze inconciliabili, ora la stampa e mai l’architettura di internet, funzionale alla valorizzazione privata del flusso pubblico di informazioni che esso veicola. In sostanza nessuno sembra voler dire l’ovvio e cioè che se fosse davvero la tutela dei diritti degli utenti di internet a stare a cuore ai politici, i dati dovrebbero viaggiare già criptati, nel senso che la loro codifica dovrebbe avvenire dal momento che vengono immessi nella rete e non solo dopo che sono stati trattati da Google o gli altri motori di ricerca e le varie piattaforme. I problema è però che i servizi che le piattaforme web mettono a disposizione esistono proprio per avere dati sugli utenti e se così non fosse nessuno avrebbe interesse a gestire informazioni che non potrebbe rivendersi in qualche modo, per cui addio gratuità.

Nonostante tutti gli aspetti positivi che ci offre la rete, molti dei problemi di Internet sono rimasti invariati negli anni: il controllo da parte delle corporations, la sorveglianza e la censura, i “diritti di proprietà intellettuale”, i filtri, la sostenibilità economica, la “governance”[6]. Problemi ignorati, specialmente le questioni relative al controllo interno dei social network, in particolare dai tantissimi giovani che usano meccanicamente questi strumenti, senza chiedersi quali siano le conseguenze del loro utilizzo.

I vizi dell’architettura di Internet dovrebbero essere discussi, di modo che le sue virtù possano avere la meglio. L’ideologia del free come componente chiave della rete, infatti, fa parte del viscido linguaggio del business. Nel saggio The destruction of the Public Sphere, Ross McKibben afferma che l’arma più potente del managerismo di mercato è stata il suo vocabolario, concepito nelle business school, che è poi penetrato nello stato e ora infesta tutte le istituzioni e, per quanto possa sembrare ridicolo, determina il modo in cui le nostre élite politiche ed economiche pensano il mondo. «Cederai tutto gratuitamente (accesso libero, no copyright); ti farai pagare solo per i servizi supplementari, che ti renderanno ricco». Ecco il primo dei “Dieci comandamenti liberali comunisti” pubblicati da Oliver Malnuit sulla rivista francese “Technikart”. Slavoj Zizek ha citato i comandamenti di Malnuit e ha classificato Bill Gates e George Soros come comunisti liberali.

Internet, ad onta delle apparenze, è una macchina per fare soldi, non certo per gli utenti, ma per chi la controlla. Ha bisogno di flussi ininterrotti e liberi di dati ed informazioni, che hanno un valore economico al di là del loro apparente disinteresse quando considerati singolarmente. La valorizzazione economica, accessibile solo ai gestori della rete, del libero scambio di dati prodotti dagli utenti, è la condizione sulla quale si basa l’attuale struttura del web ed è facile capire che la soluzione tecnica della codifica a monte dei dati è impraticabile dal punto di vista della valorizzazione economica che tutto muove. Questa natura del capitalismo informatizzato sta diventando un vero e proprio modo di vita.

Oramai ci si “incontra” online. I ragazzini chattano con l’Instant messaging (Im) per ore, tenendosi compagnia e scambiandosi notiziole divertenti prese dalla rete, oltre ai propri pensieri del giorno. Questi strumenti sono diventati importanti per mantenere comunità intime full-time, sempre attive, per stare vicino agli amici anche quando sono fisicamente distanti; così tutto ciò permette ai giovani di consolidare i gruppi sociali. Il paradosso con il quale dobbiamo fare i conti è che l’apertissima e pubblica Internet viene usata per scambi intimi tra amici e pari e che tutte queste conversazioni possono, e lo saranno, essere conservate e indicizzate per i decenni a venire.

E quasi nessuno si rende conto che i social network o le chat sono luoghi privati di vita pubblica. Non ci si rende conto che le proprie conversazioni private sono sotto controllo. Si crea un minaccioso panopticon personale e privato, dovuto alla sorveglianza tentata dagli adulti, i quali influenzano direttamente le vite dei giovani, e che li spinge alla fuga online, senza preoccuparsi dei governi e delle corporations che li controllano.

Gli attivisti non hanno ancora affrontato questa realtà complessa, e come prima risposta potrebbero condannare l’attitudine pro-corporation dei più giovani in quanto ingenua, immatura e consumistica. Il problema sta nel sistema di proprietà dei media e nel ruolo ambiguo dei venture capitalist e di chi investe nelle start-up di Internet. I social network vanno visti non solo come spazi sociali, ma come veri e propri media, che formano opinione, idee, consenso. Concentrando nelle mani delle multinazionali dati, profili di personalità, conoscenze e saperi.

 (torna su)

Dal virtuale al reale

È risaputo che i vincoli di qualsiasi genere sono mal digeriti dal commercio, legale o illegale che sia. La stessa operazione di “liberalizzazione” generalizzata e gestita rigorosamente dietro le quinte, si sta imponendo anche al di fuori del commercio di dati, nel mondo reale, il quale ormai prende a modello quello “virtuale”.

Il tafta, l’Accordo transatlantico per il libero commercio, detto anche Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership), ribattezzato «la Nato del commercio», che stanno discutendo Usa ed Europa nella più completa segretezza, senza che i cittadini (e neppure gli europarlamentari) siano informati, pone numerose e gravi minacce per l’ambiente, i servizi pubblici (come la sanità) e l’economia, mirando a concentrare ancor di più il potere economico nelle mani delle grandi aziende multinazionali:

 

Si va ben oltre il classico approccio che consiste nella sola rimozione dei dazi e nell’apertura dei mercati agli investitori esteri; i negoziati commerciali si stanno concentrando sulla rimozione delle regolamentazioni sociali e ambientali che proteggono i consumatori, i lavoratori e l’ambiente, e che attualmente sono d’intralcio ai profitti delle grandi imprese. Come spiega la Commissione Europea: «La più grossa barriera al commercio non è il dazio pagato alle frontiere, ma sono le cosiddette “barriere non tariffarie”, quali, per fare un esempio, i differenti standard di sicurezza o sull’ambiente per le automobili. […] L’obiettivo di questo patto commerciale è quello di ridurre i costi inutili ed i ritardi per le compagnie…». […] A tale scopo, l’ue e gli usa mirano ad «armonizzare» e «riconoscere reciprocamente» i loro rispettivi approcci normativi al fine di creare la più grande zona di libero commercio del mondo. In pratica, però, «l’armonizzazione normativa» e il «reciproco riconoscimento» degli standard dev’essere inteso come un eufemismo, che in realtà significa un grave indietreggiamento delle norme sociali e ambientali in favore dell’interesse delle grandi imprese di poter muovere liberamente capitali, merci e lavoro in giro per il globo. Per esempio, le aziende statunitensi vorrebbero vedere l’Europa abbassare i suoi standard sul lavoro, più obblighi e meno diritti per i lavoratori, indifesi e col divieto di sciopero e farla finita col suo «principio di precauzione» – il cardine delle politiche di tutela dei consumatori e dell’ambiente su cui è basato il Regolamento reach sulle sostanze chimiche e le sue severe norme sulla sicurezza alimentare e sulle etichette degli alimenti. […] Le aziende europee, invece, puntano contro le più severe norme degli usa sui medicinali, i dispositivi medici e i test, così come contro il loro più stretto regime di regolamentazione finanziaria[7].

 (torna su)

Quindi, senza impedimenti legislativi e doganali, i costi per far circolare le merci saranno molto bassi e ciò consentirà, a parità di offerta, profitti molto maggiori per i produttori.

Ma la corsa all’abbassamento dei costi di produzione non è automaticamente relazionata alla diminuzione dei prezzi e quand’anche lo fosse bisognerebbe capire che essa porta con sé una serie di contraddizioni sociali difficilmente conciliabili. Intanto gli accordi usa-ue mirano a creare condizioni di scambio che in prima istanza vanno a scapito delle altre zone di commercio internazionale, aumentando le differenze già esistenti tra paesi ricchi e paesi poveri, con tutte le conseguenze del caso, e in seconda istanza la deregolamentazione generalizzata, da un lato genera un aumento puramente quantitativo e non anche qualitativo delle merci scambiate, dall'altro introduce, un po’ dappertutto, condizioni di scambio tali da avere ricadute negative sul valore del lavoro. L'effetto generale sarà magari anche una presenza maggiore di prodotti a buon mercato ma a fronte di una capacità sociale di consumo ulteriormente e forzosamente ridotta.

Nel frattempo, infatti la crisi ha già mostrato i suoi effetti negativi sul lavoro che sparisce. Spariscono i posti. Calano vertiginosamente gli stipendi. Addio al posto fisso. Ora bisogna adattarsi. Accontentarsi delle briciole. E non si sa per quanto tempo.

Prima sognavamo il Superenalotto per scappare su qualche spiaggia caraibica, adesso la speranza è vincere il Win for life, per avere 1.000 euro al mese, per non dover più lavorare: pure i sogni si sono ridimensionati. Tuttavia, la vera e propria proliferazione di lotterie permanenti, sintomo del sogno di una vita retribuita anche senza occupazione, assume emblematicamente il carattere di una speranza di fuga dalle condizioni inumane di un mondo che sembra non aver più bisogno del lavoro.

Il dato centrale dell’epoca improntata all’ideologia del free è, infatti, che il sistema non può più poggiare sul fondamento di una buona occupazione per tutti.

La produzione capitalistica è ormai ad un livello tecnologico avanzatissimo, migliora la tecnologia e quindi la qualità del lavoro, ma diminuendo il perso del lavoro umano, vale di meno il lavoro stesso. Il progresso tecnologico finisce per ritorcersi contro il capitalista, poiché il profitto, a un certo punto dello sviluppo produttivo, non aumenta più come dovrebbe, ma anzi inizia a ridursi. Crescendo il capitale costante (macchine e materie prime), diminuisce il peso del capitale variabile (i salari), poiché grazie alla meccanizzazione servirà un numero sempre minore di operai e quindi c’è meno plusvalore, grazie al contributo della macchina: è la caduta tendenziale del saggio di profitto, teorizzata da Marx quale punto debole del capitalismo.

In più la crescente disoccupazione, che è l’inevitabile conseguenza del processo appena descritto, significa anche maggiore povertà dei consumatori che vedono diminuire il loro stipendio (potere d’acquisto): quindi lo sviluppo tecnologico crea da una parte la possibilità di aumentare la produzione di merci, ma dall’altra il rischio sempre più concreto che le merci restino invendute a causa della mancanza di soldi nelle tasche delle persone. Risultato di tutto ciò è una forbice enorme che si allarga tra i super ricchi e una base crescente di proletariato sfruttato ed impoverito.

Ma un sistema economico dove robotica e intelligenza artificiale crescono in modo esponenziale è insostenibile, anche perché siamo pur sempre sopra un pianeta finito, non infinito. In sostanza non ha senso continuare ad aumentare indefinitamente la "potenza produttiva", fine a se stessa, senza la possibilità di poterla sfruttare davvero.

Nel frattempo, infatti, la tecnologia avanza autoreferenzialmente, senza freni: si meccanizzano lavori che prima davano impiego a parecchi esseri umani. Dai casellanti sostituiti dalle macchine, ai cassieri licenziati per far posto alle casse automatiche nei grandi supermercati. O un qualsiasi ufficio, che con pc e annessi software ha semplificato e migliorato molte attività, potendo tagliare sempre più sul personale. Per non parlare delle stampanti 3D, in arrivo a breve, che pare potranno costruire in 24 ore una casa...

Incredibile, ma vero: si potrà “stampare” a livello molecolare, usando pochissima energia, materiali decomposti dai rifiuti, ed energia solare ad altissima efficienza[8].

I robot ci ruberanno il lavoro? Secondo il prof. Behrokh Khoshnevis, dell’Università della California del Sud, che ha realizzato questa megastampante 3D per costruire abitazioni in un giorno (Contour Crafting), non accadrà, non si ridurranno i posti di lavoro, ma piuttosto se ne creeranno di nuovi. Eppure, agli operai basterà posare due binari su cui si muove questa megastampante sputacemento, ed il gioco è fatto. Senza necessità di ponteggi, operai, camion, e con un consistente risparmio di materiale.

I costi verrebbero abbattuti, portati quasi a zero. Ma tutto questo sarà sempre e solo nelle mani di qualcuno. Fin quando avremo proprietà privata e sistema di brevetti e copyright non avremo certo libero accesso a ciò che ci potrebbe servire per vivere davvero gratuitamente e liberamente, avendo accesso alle risorse necessarie per una vita dignitosa.

Ma allora il lavoro sarà sempre meno? Le macchine stanno liberando l’uomo? Potrebbero. Ma ora come ora non sembra proprio che stia andando così: le macchine stanno sostituendo lentamente gli uomini sul lavoro, riducendo man mano gli orari di lavoro e quindi le paghe, e pare proprio che ce ne sarà sempre meno. Si è sottovalutato l’avanzamento tecnologico, che adesso sta letteralmente mangiando posti ed ore di lavoro. E allora il capitalismo ci sta liberando dalla fatica? Ci sta portando verso una nuova società in cui vivere dignitosamente senza vendere se stessi e il proprio tempo? O sta costruendo una massa infinita di disoccupati che saranno costretti ad elemosinare per avere un po’ di cibo?

Pare chiaro che il funzionamento del capitalismo, cioè dei rapporti di produzione attuali, abbia come effetto non quello di ridurre il tempo di lavoro, liberando quindi tempo personale e aumentando i posti di lavoro, ma quello di introdurre sempre più povertà nel mondo, livellare verso il basso il costo del lavoro e tutte le spese per recuperare plusvalore: deprezzare, de-valorizzare il lavoro.

 (torna su)

Futuri paradossali

Ma verso quali scenari stiamo andando allora? Con certezza, non possiamo dirlo. Allora proviamo a lavorare d'immaginazione, con una suggestione letteraria: il romanzo di Frederik Pohl, Il morbo di Mida, edito in Italia da Delosbooks (Milano 2007, uscì nel 1954). «La globalizzazione ha risolto tutti i problemi dell’umanità. Ora bisogna consumare. A qualsiasi costo», così recita una frase sulla copertina. Nel futuro immaginato da Pohl, grande autore della Social Fiction americana di metà secolo scorso, non ci sono più problemi di fame o scarsità di beni di consumo. L’unico problema è l’enorme abbondanza, ovvero la sovrapproduzione di cose, che per essere contrastata ha provocato l’inizio di un meccanismo perverso: bisogna consumare tantissimo, pena il collasso del sistema. Di conseguenza, i poveri sono costretti all’iperconsumo, seguendo dei precisi e repressivi razionamenti che li costringono a mangiare e consumare di continuo, e sono quindi obesi, non possono stare la sera a casa, ma devono uscire, e le loro case hanno decine di stanze, e possono lavorare solo un giorno la settimana per poter consumare abbastanza durante il resto della settimana. Mentre i ricchi sono coloro che possono usare un paio di pantaloni per più di 5 giorni, sono quelli che possono vivere in case di dimensioni più contenute, permettendosi di mangiare poco. La ricchezza dei ricchi è quindi nella libertà di poter non consumare.

Il futuro paradossale immaginato da Frederik Pohl, a parte l’imperativo del consumo, non si è realizzato, tanto meno nelle sue premesse di soluzione ai problemi materiali dell’umanità, e tuttavia il presente che abbiamo cercato di descrivere, non sembra molto più rassicurante.

 

GENNAIO 2014

(torna su)

 


[1] U. Fanelli, Il gratis che uccide, all’interno di Il superstato-canaglia senza freni, La desertificazione industriale europea a opera del “tutto gratis” imbottito di dollari. La NATO economica.

http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=89808

[2] U. Fanelli, cit.

[3] M. Martinez, cit., che inoltre approfondisce il ruolo e la funzione di facebook: «Facebook sta saturando il mercato dei 2,4 miliardi di utenti di internet nel mondo. Certo, potrebbe continuare a fare tanti soldi, ma senza espansione, non crescerebbe il valore finanziario dell’azienda in borsa. Per espandere il mercato, Facebook si è quindi alleato con i giganti delle telecomunicazioni, per ridurre del 99% il costo dell’accesso mobile a Internet nei prossimi dieci anni. Cioè rendere praticamente gratuiti dispositivi e connessione per l’intera specie umana. La quale specie, come effetto collaterale, finirà così nel sistema di controllo totale che sta emergendo in questi giorni, grazie alle rivelazioni di Snowden. (Facebook, che fa somme favolose offrendo un servizio gratuito di autoschedatura, non si fonda nemmeno su questo già evanescente prodotto, ma sulla speculazione che gli si crea attorno in borsa. E per muovere la borsa, sono disposti a regalare all’umanità non solo connessioni, ma anche dispositivi fisici, trasformando nel processo i comportamenti di tutti gli esseri detti umani e il loro modo di relazionarsi)».

[4] Casa Bianca, piena fiducia in vertici Nsa (ansa) - New York, Ottobre 2013,

http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/mondo/2013/10/28/Casa-Bianca-piena-fiducia-vertici-Nsa_9535611.html

[5] Datagate: Cameron ammonisce stampa, Corriere della Sera, 28 Ottobre 2013 21:08 http://www.corriere.it/notizie-ultima-ora/Esteri/Datagate-Cameron-ammonisce-stampa/28-10-2013/1-A_008720953.shtml

[6] M. Ammendola, Geert Lovink, Zero comments. Teoria critica di internet (Bruno Mondadori, Milano 2008), in «Città Future» n. 05,

http://www.cittafuture.org/05/11-Geert-Lovink-Zero-comments-teoria-critica-di-Internet.html

[7] Il “Nuovo Ardito Accordo Transatlantico”,

http://vocidallestero.blogspot.it/2013/10/il-nuovo-ardito-accordo-transatlantico.html

[8] M. De Agostini, I robot ci ruberanno il lavoro ma ci ridaranno la vita,

http://www.tomshw.it/cont/articolo/i-robot-ci-ruberanno-il-lavoro-ma-ci-ridaranno-la-vita-robot-e-meccanizzazione-dobbiamo-avere-paura/50391/3.html