Il Commento
IL COMMENTO II
Guido Cosenza
Sulla sinistra e sulla destra
È difficile formulare in modo
preciso, univoco e logicamente consistente i termini “destra” e
“sinistra”, spesso in tale contesto vengono presentate
proposizioni a cui è problematico dare un senso compiuto.
Tuttavia in un testo in cui
s’intenda approfondite un argomento è d’obbligo precisare i
termini del discorso, cioè l’oggetto della discussione. Nel caso
specifico il significato che si dà alle espressioni destra e
sinistra.
Bisogna imparare a essere
precisi, peraltro la scuola e la pratica corrente hanno svolto
un’azione dissuasiva a questa prassi.
Dopo la redazione di un articolo
non sarebbe inopportuno analizzare proposizione dopo
proposizione e chiedersi se questa o quella frase esprimono
compiutamente un qualche concetto.
Riguardo alla definizione del
termine “sinistra” nell’articolo
Tecno-purgatorio sussistono due riferimenti, nessuno per il termine
“destra”, comunque quest’ultimo lo si potrebbe intendere per
opposizione al primo.
Iniziamo dal prendere in
considerazione la prima indicazione esplicativa dovuta a un
autore che non mi è noto, A. Badiou, e che è condivisa dagli
autori dell’articolo:
Chiamiamo
“sinistra” l’insieme del personale politico parlamentare che si
dichiara il solo capace di assumere le conseguenze generali di
un movimento politico popolare singolare. O, in un lessico più
contemporaneo, il solo capace di fornire un “esito politico” ai
“movimenti sociali”.
In altri termini la proposizione
dichiara che con l’espressione “sinistra” vada inteso l’insieme
costituito dai parlamentari che autocertifichino di essere gli
unici in grado di assumere le conseguenze generali di un
movimento politico popolare singolare. In definitiva la
composizione dell’insieme sarebbe legata all’esito di un
sondaggio fra i parlamentari.
A parte che non è chiaro il
significato dell’espressione “assumere le conseguenze generali
di un movimento politico” e inoltre del termine “singolare”, ciò
nonostante è ovvio che tale autocertificazione sia suscettibile
d’essere sottoscritta da qualsiasi parlamentare in riferimento
al proprio movimento politico. Quindi la proposizione è vuota,
salvo che non si voglia intendere che per essere incluso in un
insieme denominato sinistra occorra essere eletto al parlamento.
Suona bizzarro che la sinistra sia circoscritta alla categoria
dei parlamentari.
Anche l’affermazione «capace di
fornire un “esito politico” ai “movimenti sociali» non precisa
meglio il concetto che si intende esprimere.
Analizziamo la seconda
formulazione:
«la sinistra prima ancora di
essere organizzazione politica è un sentimento, prima ancora di
essere un’appartenenza di classe, è un’empatia con una parte
della società».
Questa proposizione appare
ancora più emblematica e priva di connotazione univoca. Il
termine sinistra sarebbe equivalente alla disposizione a
compatire i meno privilegiati, ad augurarsi che settori
svantaggiati della società possano migliorare la propria
condizione, allora la verifica dell’appartenenza alla sinistra
sarebbe di competenza dello psicologo, magari dello
psicanalista.
Per affrontare la problematica
della sinistra e della destra a me sembra che bisogna procedere
oltre la confusa analisi cui spesso siamo stati esposti e
partire dalla considerazione che nella dinamica sociale che si è
sviluppata all’interno della società capitalista matura si
delineò sempre più marcatamente una contrapposizione di classe
fra i detentori del capitale e la forza lavoro che entrava nel
processo produttivo. Ambedue le classi avevano una
rappresentanza politica, spesso sgranata in vari raggruppamenti
più o meno validi e coscienti degli interessi di classe da
difendere. Un elemento risultava decisivo: la linea di
demarcazione che separava chi intendeva preservare la condizione
presente di privilegio di un settore della società da chi
concepiva un cambiamento radicale di modello produttivo per
abolire lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. Le due
rappresentanze politiche si fronteggiavano in un arco di
posizioni che sfumavano dal radicalismo al compromesso.
Radicalismo da una parte
significava dittatura, repressione spietata, dall’altra
rivoluzione, presa del potere a seguito di uno scontro armato.
Compromesso per un verso si esprimeva nella concessione di
accesso più o meno limitato alle risorse prodotte, per un altro
in accordi di rinuncia almeno temporanea a obiettivi
rivoluzionari.
Di volta in volta si è assistito
al prevalere dell’uno o dell’altro aspetto della lotta di
classe.
In tale contesto è chiara la
distinzione fra destra e sinistra.
Con la vittoria del capitale e
sua diffusione a livello planetario la classe operaia è stata
sussunta a comprimaria nel modello capitalista, con potere
pressoché nullo. La sua rappresentanza politica si distingue ben
poco nella partecipazione all’espansione del modello capitalista
dagli altri soggetti politici.
Se per sinistra intendiamo, come
ai primordi, la rappresentanza politica di una classe che
propugna il superamento del sistema capitalista allora, a parte
sparuti gruppi d’opinione, la sinistra non esiste più. Esistono
solo varie sfumature di destra a partire da i comunisti
italiani, rifondazione comunista e via procedendo.
Il cambiamento se avverrà si
svolgerà secondo una dinamica diversa da quella congetturata dai
primi fondatori della teoria marxista.
Se viceversa per sinistra si
vuol intendere una formazione politica che orienta la propria
azione per ridurre le immani disparità di accesso alle risorse,
allora c’è un’ampia scelta di formazioni e si può discutere per
i distinti soggetti politici di una loro più o meno impegnativa
propensione ad accordi che sanzionino la salvaguardia dei
privilegi inerenti al presente modello di sviluppo in nome di
entità apparentemente neutrali come le banche, il
pil, lo spread e via cantando.
I grillini possono facilmente
essere sistemati nell’arco delle destre secondo il mio primo
schema, che poi è quello che propugno, anche se è apprezzabile e
condivisibile la loro lotta contro il degrado raggiunto nel
nostro paese dal complesso delle forze politiche. Di loro è
facile delineare il comportamento. Si sono autoesclusi dalla
lotta politica parlamentare pur avendo scelto come strategia la
partecipazione alle competizioni elettorali. In definitiva hanno
dimostrato loro malgrado l’equivalenza fra votarli e disertare
la frequentazione dei seggi elettorali. Allora gli elettori
disponibili al voto per quel movimento hanno convenuto per le
successive consultazioni elettorali che tanto valga restare a
casa e navigare in rete.
Il capitalismo contro il diritto alla
città
Non mi è noto alcun dato da cui
si possa evincere che il processo produttivo nel settore
edilizio abbia connotati che lo differenzino in modo rilevante
dagli altri settori produttivi. La circostanza che si generi un
ritardo fra l’operazione di investimento del capitale e la
collocazione a destinazione della merce prodotta è comune un po’
a tutti i rami produttivi. L’edificazione di un fabbricato e la
messa a punto tecnologica di una struttura manifatturiera hanno
tempi paragonabili di ultimazione, col vantaggio per l’impresa
edilizia di poter spesso porre il prodotto sul mercato prima
ancora di averne terminato la lavorazione.
L’intero articolato produttivo
segue la logica ciclica della crisi che riassumerei come segue:
La produzione in espansione in
regime capitalista va incontro a crisi di sovrapproduzione. La
produzione si esplica nel campo manifatturiero, ma anche in
quello edilizio, in quest’ultimo l’eccesso produttivo si
presenta nella forma di fabbricati invenduti o sfitti, per
coloro che li hanno acquistati e intendono utilizzarli per
ricavarne profitti. I prodotti nel campo dell’edilizia fanno
parte delle merci immobilizzate. Nel contempo esiste anche una
massa di capitale che non riesce a essere valorizzato
produttivamente a causa della crisi di sovrapproduzione.
I due aspetti della crisi si
sposano perfettamente, per un verso, il capitale produttivo si
trasforma in capitale finanziario e va ad alimentare il credito,
per un altro, buona parte del flusso creditizio consente lo
smaltimento delle merci invendute. In tale operazione nascono
investimenti spericolati che alimentano la crisi, il ciclo si
chiude riversando le perdite sulle spalle dei cittadini, come si
è visto anche nella presente congiuntura.
La caduta del saggio di profitto
è legata al processo produttivo e non all’impiego del capitale
in forma finanziaria. Al declino del saggio di profitto
contribuiscono in maniera molto più rilevante i settori in cui
di continuo aumenta la composizione organica del capitale
piuttosto che quello edilizio per il quale l’aumento di valore
del capitale fisso è meno accentuato.
Il carattere precipuo del
settore edilizio è semmai legato al valore d’uso del prodotto
come bene rifugio il che fa sì che pur in regime generale di
sovrapproduzione il rallentamento dei consumi si faccia sentire
con ritardo rispetto agli altri settori, ma il corso della crisi
è comune ed è dovuto alla dinamica disfunzionale del congegno
produttivo.
Ciò che complica l’analisi del
tema esposto nell’articolo deriva dall’intreccio fra il
meccanismo in atto nel ramo edilizio e i fenomeni
socio-economici generati dalle anomalie connesse con lo sviluppo
delle città. Le contraddizioni di un sistema in espansione
libera indefinita si materializzano nel fenomeno patologico
rappresentato dalla città, in tale ambito alla crisi della
struttura produttiva si sovrappone l’inadeguatezza sempre più
dirompente della architettura sociale. Concepire la confluenza
delle attività produttive urbane, a cominciare da quella
edilizia, in un corpo unitario in cui tutti i protagonisti si
presentino alla stregua degli operai della fabbrica tipica del
capitalismo primigenio non è realistico. La fabbrica col
racchiudere in uno spazio unitario i soggetti subordinati nel
processo produttivo ha rappresentato un elemento di coesione e
nel contempo un modello organizzativo in cui inquadrare le
forze.
L’ambito più ampio della città
potrà viceversa offrire lo spunto per la germinazione di areole
di tessuto sociale rigenerato. Un processo di trasformazione del
modello produttivo inizialmente circoscritto, localmente
rilevante, che s’irradi anche dai centri urbani producendo nel
propagarsi una profonda mutazione generale.
Non vale ricorrere a forme di
lotta mutuate da un passato non più riproponibile, va attuata
una strategia congrua a una trasformazione graduale e
progressiva come già verificatosi in altre condizioni storiche
che talvolta hanno impiegato secoli per giungere a compimento.
Lo scontro frontale che fu propizio, anche se non vincente, nel
passato non ha più le basi materiali per essere realizzato.
Non bisogna lasciarsi tentare ad
assumere acriticamente conclusioni tratte in un differente
contesto storico.
Va osservato che la posizione
della classe operaia, che si è accresciuta nell’ambito del
processo espansivo del sistema capitalista, ha subito un
progressivo mutamento. Essa ha ottenuto un accesso, sia pure
estremamente esiguo, al prodotto sociale. Il capitale ha
acquisito la cognizione che per stabilizzare il sistema sia
proficuo puntare sull’operazione di associazione della classe
operaia al progetto di espansione della produzione e sul
versante opposto le rivendicazioni si sono trasportate dal piano
della lotta per la modifica dei rapporti di produzione, un
obiettivo rivoluzionario, alla contrattazione per aumentare
l’accesso alle risorse prodotte, un obiettivo riformista.
Non si può allora mutuare dal
passato il progetto politico che indicò come protagonista
della transizione la classe operaia. La transizione se ci
sarà avrà una dinamica differente in cui anche la classe operaia
avrà un ruolo, ma in posizione diversa da come fu ipotizzato nel
passato. Di questa dinamica si è discusso altrove e ne vanno
approfondite le problematiche.
Migrazioni all’epoca della
totalizzazione
Reputo l’articolo interessante
anche per la sua copiosa documentazione e vorrei proporre alcune
considerazioni nel merito.
La prima riguarda la schiavitù,
in particolare l’affermazione in cui si nega che tale rapporto
di dipendenza sia inidoneo a realizzare la valorizzazione del
capitale e quella per cui si confuta che la sua abolizione sia
avvenuta in conseguenza del consolidarsi dell’economia
capitalista. Intendo contestare tali asserzioni.
Il capitale per valorizzarsi ha
bisogno del lavoro salariato. Lo schiavo se presente nel ciclo
produttivo viene assimilato alla macchina (che è molto più
efficiente di lui) e con le sole macchine non si produce valore.
Lo sviluppo della tecnologia è connesso col tramonto dello
schiavismo. C’è tutto un filone di analisi che spiega come mai
la tecnologia non si sia sviluppata nel mondo schiavista greco
che pure era enormemente avanzato nel campo scientifico.
In conclusione il capitalismo
non contempla lo schiavismo, non c’è compatibilità fra i due
sistemi produttivi. Di più, è il modo di produzione capitalista
che ha portato all’eliminazione pressoché totale della schiavitù
dal mondo industrializzato e certamente non per ragioni morali
ma puramente economiche, sia pure mascherate da intenti etici.
È vero che il capitalismo ha
convissuto e magari attualmente in qualche parte del globo
convive, con lo schiavismo ma ciò è fenomeno transitorio dovuto
alla non completa assimilazione produttiva del territorio in
questione. Tipico esempio sono gli Stati Uniti dell’ottocento in
cui l’economia agricola del sud impiegava schiavi, ma quando il
nord capitalista sconfisse la coalizione ad economia arretrata
ecco che immediatamente lo schiavismo fu soppresso.
Il caso del nazismo non fa
testo, gioca anzi nella direzione opposta, proprio il tema dello
schiavismo fu uno degli argomenti per cui la coalizione
capitalista dichiarò di voler combattere quel regime.
Non c’è costituzione di stato
capitalista che non classifichi per crimine e persegua lo
schiavismo.
In secondo luogo devo contestare
la seguente affermazione:
la massa e
l’efficienza del capitale costante rendono il valore dell’ora di
lavoro potenzialmente enorme, ma la concretizzazione nelle merci
di questa energia è sempre inferiore alle aspettative, sempre
minore dell’estrazione potenziale di valore dal lavoro.
Il concetto di valore in Marx
rappresenta una qualità di origine sociale che inerisce alle
merci, la misura della grandezza del valore di una merce è data
dal (è proporzione al) tempo medio socialmente impiegato a
produrla, per cui non riesco a dare un senso alla frase
virgolettata.
L’ora di lavoro rappresenta
prima e dopo l’incremento tecnologico del processo produttivo il
valore delle merci prodotte in quell’intervallo temporale.
Formulerei come segue il
concetto che intuisco si volesse esprimere con quella
proposizione:
con l’aumento della composizione
tecnica (altre volte indicata nel testo
Il Capitale come
organica) del capitale, cioè con l’incremento dell’incidenza
delle macchine nel processo produttivo, diminuisce il tempo di
lavoro per la manifattura della singola merce e quindi cala il
valore dell’unità di merce e di conseguenza per sostenere il
volume dei profitti occorre produrre sempre più merci, il tasso
di profitto poi cade in conseguenza dell’aumento della rilevanza
delle macchine, con tutte le conseguenze che sappiamo.
Anche sul concetto di lavoro
nero occorre fare chiarezza.
Intanto è opportuno stabilire
cosa si intenda con questo termine.
Dopo gli anni del capitalismo
selvaggio i principali settori industriali hanno valutato che
occorresse devolvere una quota parte dei profitti alla
realizzazione di un’azione di stabilizzazione dell’assetto
socio-economico.
Le turbolenze sociali oltre a
mettere in forse la sopravvivenza del sistema comportavano
un’elevata dissipazione di risorse. Conveniva allora destinare
parte – ovviamente esigua – dei ricavi per ridurre le tensioni
rendendo meno acute e intollerabili le condizioni di indigenza
della classe operaia.
Da queste esigenze sono nate le
operazioni legislative che hanno regolamentato le retribuzioni,
che hanno istituito gli ammortizzatori sociali, che hanno
introdotto il regime pensionistico.
Per realizzare tali adempimenti
è occorso provvedere alla copertura finanziaria dei
provvedimenti posti in atto operando un prelievo fiscale a
carico dei datori di lavoro proporzionato al lavoro erogato.
Sottrarsi al prelievo, cioè
ricorrere al lavoro nero, conduce a una riduzione dei costi di
produzione ed è pertanto considerato un metodo di competizione
commerciale sleale, ossia illegale. Tale pratica è nociva al
modello di sviluppo vigente, non solo non viene favorita ma è
perseguita col pieno consenso della classe imprenditoriale.
La tendenza del capitale è
certamente quella di diminuire la quota parte di risorse
destinate al lavoro, non più però nell’attuale congiuntura
esacerbando le condizioni della classe operaia al limite della
sopravvivenza o perfino al di sotto, come ai tempi
dell’accumulazione primitiva, ma piuttosto operando sul versante
della flessibilità, dell’aumento delle ore lavorative ecc.
LUGLIO 2013