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11
Ottobre 2013

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Esperienza e rappresentazione

INSTAGRAM, LA COMMUNITY E IL PIACERE CONDIVISO: UNA LETTURA BENJAMINIANA OTTIMISTA[1]

Massimiliano Di Leva

Tutto il mondo è un palcoscenico,

e uomini e donne son solo degli attori

che hanno le loro uscite e le loro entrate;

e una stessa persona, nella sua vita, recita diverse parti

e gli atti sono le sette età.

(Shakespeare, Come vi piace

[Atto 2, scena 7, 139-143])

 

Nel suo Sociologia, pubblicato nel 1908, Georg Simmel sposta il paradigma essenziale di qualunque ricerca sociologica sulla società dalla essenza di questa ai suoi principi. Il centro delle sue analisi sulle moderne associazioni urbane non è più “cosa è una società?” bensì, più efficientemente, “cosa rende possibile una società?”. La sua risposta a tale domanda è che l’impulso germinale di ogni forma di conglomerazione sociale sta nella pura presenza del Tu, nel chiaro apparire dell’Altro.

Un’associazione (Vergesellschaftung), citando le parole dello stesso Simmel, è un gioco di reciproche rappresentazioni nella socievolezza (Geselligkeit als die Spielform der Vergesellschaftung). L’immagine che mi creo dell’Altro interagisce con l’immagine che l’Altro si crea di me. È molto interessante sottolineare questa dimensione rappresentativo-immaginativa delle relazioni umane. L’instaurarsi di qualsiasi interazione reciproca è resa possibile dall’abilità degli esseri umani di creare immagini mentali. È proprio questa basilare facoltà umana dell’immaginare (intesa appunto come dare forma ad immagini) che cercheremo di analizzare in questo breve lavoro.

Secondo la teoria freudiana[2], nei primissimi stadi della sua vita il bambino galleggia in un mondo indifferenziato di bisogni ed istinti. Il pianto è l’unica maniera che egli conosce per esprimere il conflitto tra quei bisogni e l’incapacità di soddisfarli. Comincia così a piangere, la madre immediatamente arriva e il bisogno è soddisfatto. La risposta esterna rappresenta una prima connessione tra lui e il “mondo”, che egli non riconosce in quanto tale. Qualora questa risposta esterna dovesse non arrivare, l’unica possibilità per lui di sfuggire all’aumento della tensione generato dal suo bisogno è un processo allucinatorio. Il bambino associa la soddisfazione del bisogno ad una immagine mnestica. Ogni qual volta tornerà a sperimentare la crescita del proprio eccitamento, dovuta al sopraggiungere di un bisogno, egli cercherà subito di richiamare quelle percezioni soddisfacenti proiettando il proprio bisogno dentro un’immagine sullo “schermo” della propria mente[3]. Questo è ciò che Freud chiama Wunsch (aspirazione, tensione), e che è stato erroneamente tradotto con il termine “desiderio”. Il processo psichico che soprintende questa risposta è da lui chiamato Principio di Piacere. La sola strada che il bambino conosce per tenere il proprio bisogno sotto controllo è il “piacere” che egli è in grado di soddisfare utilizzando questa soddisfazione proiettiva.

 

Il fenomeno della proiezione sembra essere una delle prime modalità attive di usare il materiale psichico. Per la prima volta, questa massa indifferenziata di voleri cerca di tirare le proprie fila e di edificare una rappresentazione “oggettiva” di sé. Questo è, secondo me, il più fondamentale – quasi primordiale – processo nella formazione dell’Io. Freud, invece, individuerà tale processo formativo nella successiva evoluzione del Sé, con lo stabilirsi del Principio di Realtà[4].

La proiezione di immagini diventa, quindi, il processo essenziale attraverso il quale piacere e desiderio sono esperiti, ovvero i domini psichici in cui siamo veramente noi stessi. I primi passi che il bambino compie nella realtà saranno ancora parte di un processo proiezionale, anche se in questo periodo si tratta di una proiezione “alienata”: questo è quanto afferma Lacan nella sua teoria dello specchio di cui parleremo più avanti. Solo creando una distanza tra il proprio desiderio proiettato e la rappresentazione che egli ha di sé stesso, il bambino apre lo spazio di cui ha bisogno per erigere la “realtà” esterna. Da questo punto di vista, il suo Sé profondo sperimenta se stesso come entità riflessa, forzata nella “illusione”, per così dire, del reale. Freud afferma che una volta che questa “illusione” è stabilita, agli esseri umani restano pochi esempi di processi allucinatori quali sogni, fantasie, sintomi, repressione e Arte.

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Il processo di immaginazione è senza dubbio alla base del fenomeno artistico. L’invenzione di nuove tecnologie quali fotografia e cinema ha realizzato tale fondamentale processo molto più di quanto avesse fatto ogni altra forma artistica precedente. La pittura è, infatti, una ripresentazione del mondo reale, mentre la fotografia è una eccezionale pura presentazione di esso, alla quale il cinema aggiunge financo il movimento: la realtà in quanto tale. È probabilmente così che, con l’invenzione della fotografia e del cinema, l’arte perde il suo originale orientamento classico. Per esempio, nuovi movimenti artistici come Surrealismo e Dadaismo hanno completamente modificato le intenzioni profonde dell’Arte, spostando l’attenzione sull'attività fantasmagorica del Sé. Il sopraggiungere delle nuove tecnologie ha rivelato il gioco di rappresentazioni in cui viviamo come la mise en scène di noi stessi, ma ha anche posto gli spettatori drammaticamente dinanzi al loro stesso spettacolo.

 

Le intricate dinamiche della rappresentazione del Sé – che è enfatizzata da fotografia e cinema – sono specificamente affrontate da Benjamin ne’ L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Nei capitoli ix e x, egli si concentra su questa specifica forma di auto-rappresentazione a partire da una citazione di Luigi Pirandello: «L’attore […] si sente in esilio – esilio non solo dal palcoscenico, ma anche da sé stesso. Con un vago senso di sconforto, egli vive un’inesplicabile vuoto: il suo corpo perde la sua corporeità, evapora, è privato della propria realtà, vita, voce, del rumore causato dal suo movimento, per trasformarsi in un’immagine muta, che trema un istante sullo schermo per poi svanire nel silenzio»[5].

Consideriamo l’espressione «il suo corpo perde la sua corporeità», che è la traduzione della frase in francese «leur corps est presque subtilisé». Sebbene sia solo concentrandoci sulla traduzione tedesca che si scopre un’interessante invenzione terminologica. Nella versione tedesca, Benjamin usa un particolare vocabolo per esprimere l’idea del corpo che perde la propria corporeità. Egli scrive, infatti: «sein Körper [wird] zur Ausfallserscheinung». Il termine Ausfallserscheinung risulta dalla combinazione della parola Ausfall, che significa “mancanza, perdita”, e della parola Erscheinung, che deriva dal verbo erscheinen, che significa “apparire”.

Possiamo, dunque, affermare che Ausfallserscheinung è da considerarsi come una perdita di apparenza, la disintegrazione dell’immagine in cui l’attore rappresenta se stesso. La perdita di apparenza corporea corrisponde alla perdita di realtà. Sebbene ciò che l’attore perde sia piuttosto la connessione tra la propria immagine e la realtà fisica della stessa immagine. Si ritrova dinanzi a se stesso osservando la propria realtà “privata di realtà”, senza voce, rumore o vita. L’immagine dinanzi alla quale si trova non è la “sua” immagine. Non gli appartiene. È soltanto un’immagine che

sta al suo posto. Immagine (Bild) e apparenza[6] (Erscheinung) sono in questo caso disconnesse. Non

ci riconosciamo nell’immagine, perché tra di noi e il riflesso di noi stessi riposa l’illusione del reale,

come se vivessimo dall’altro lato dello specchio.

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A questo punto, l’importanza dello specchio nell’evoluzione del Sé, suggerita da Lacan, è certamente degna di essere menzionata. Nella sua famosa conferenza Lo stadio dello Specchio come formativo della funzione dell’Io, Lacan mette in evidenza come durante i primi mesi di vita il bambino non riconosca la propria immagine riflessa nello specchio. L’Io distinto è essenzialmente costruito dal bambino nel corso della successiva fase evolutiva, che Lacan chiama appunto “fase dello specchio”. Durante questa fase, il bambino non si identifica con sé stesso, ma con la propria immagine riflessa. La percezione della propria identità è possibile solo grazie all’attuazione di un processo di alienazione. L’Io entra nella sua fase “immaginaria”. Vi è, tuttavia, una consistente differenza tra l’immagine riflessa e quella proiettata, di cui si parlava prima in riferimento alla teoria freudiana del desiderio. La differenza sta nella connessione tra il volere e queste immagini. L’immagine riflessa (la Bild, per collegarci a quanto detto in riferimento a Benjamin), che è il luogo di attuazione dell’alienazione, è soggetta in ogni caso ad una qualche forma di astrazione dal momento che il bambino ha bisogno di uno sforzo razionale per identificarsi. L’immagine proiettata (diremo qui Erscheinung) è una incarnazione diretta del mondo interiore profondo in una rappresentazione che non viene riconosciuta come esterna. Queste immagini fluttuano in una non identificata essenza, percepita come un tutto. Esse diventano parte del volere dell’individuo come presentazioni interiori di tali istinti a se stesso. Questo è il motivo per cui tendiamo a collegarle molto più all’Arte che non alla Razionalità. Ciò che emerge, seguendo le successive analisi lacaniane[7], è che proprio questa evoluzione della razionalità nel linguaggio costituisce la nostra identità attraverso un nuovo processo di alienazione. Questa volta, il nostro Io “immaginario” – che è di per sé stesso già un’alienazione del nostro Sé profondo – evolve verso il suo stadio “simbolico”. Questa doppia alienazione, che parte dal Sé profondo, passa attraverso un Io immaginario e giunge ad un Io simbolico, porta l’individuo al completo stadio razionale di Individuo. Lacan identificherà successivamente la psicosi nel rifiuto dello stadio simbolico, che porta all’incapacità di discernere tra mondo immaginario e realtà. La follia è quello stato in cui una persona vive in una specie di magica esistenza a metà strada tra il mondo che essa immagina e quello che percepisce. È la stessa sorta di connessione “magica” che il bambino stabilisce con le proprie immagini interiori e che qui richiama alla nostra attenzione una delle più primordiali forme di arte che si conoscano: le figure dipinte delle cave di Lascaux. Parimenti, in queste prime rappresentazioni “artistiche” riconosciamo immagini che incarnano il mondo che sono chiamate a rappresentare. Durante la propria infanzia, l’umanità si esprime in maniera proiezionale. Non vi è alienazione in questo processo dal momento che essa si sente in un ambito totalmente familiare. L’umanità non ha ancora esperito la straziante presenza di se stessa come Altro da sé.

 

Questo è forse il sentimento che Benjamin porta dentro di sé quando scrive: «Il sentimento di estraneità che assale l’attore dinanzi alla camera [...] è essenzialmente simile allo straniamento avvertito dinanzi alla propria immagine allo specchio (seiner Erscheinung im Spiegel)». Qui l’immagine riflessa è Erscheinung (apparenza svuotata della propria apparizione). È qualcosa che non ha una essenza autonoma, ma emerge alla percezione e attraverso tale processo si fa visibile, riceve la sua apparenza/parvenza. Questa è la ragione per cui ci sentiamo estraniati da essa, perché la percepiamo come qualcosa che non ci appartiene, lo svelamento di un’alterità che ci assomiglia, ma non è immediatamente connessa con il nostro profondo. Possiamo immaginare che è da qui che proviene la percezione della finzione.

 

È molto interessante sottolineare l’ambito in cui tale analisi si svolge: il teatro, spazio dell’illusione per eccellenza, un luogo nella realtà in cui la realtà è simulata. Questa condizione di costante rappresentazione del Sé richiama l’immagine della maschera. A questo punto, siamo doppiamente autorizzati ad evocare la maschera proprio a causa di Pirandello, che ha basato la sua analisi teatrale della società proprio su tale concetto. Tutti noi indossiamo una maschera, ci ricorda Pirandello. Siamo tutti spezzati in una fondamentale duplicità che è lo scarto tra la nostra realtà oggettiva, dovuta alla nostra esistenza fisica, e la nostra consistenza soggettiva, che è collegata al nostro sviluppo psicologico. Tuttavia, anche la nostra soggettività si divide e sbriciola. La nostra natura si traveste continuamente sotto la maschera che collochiamo sulla nostra faccia e le maschere attraverso le quali l’intera società ci percepisce. Il soggetto pirandelliano si infrange in centomila pezzi. Pirandello sostiene che il soggetto è allo stesso tempo una singola unità, dovuta alla rappresentazione che egli ha di se stesso, e quei centomila pezzi, dovuti alle innumerevoli rappresentazioni che gli altri hanno di noi e che a loro volta sono usate dallo stesso individuo per presentarsi dinanzi all'assemblea sociale. Il risultato finale è che l’individuo finisce col non essere nessuno, completamente disintegrato in quel gioco eterno che è l’essere con gli altri e per gli altri. Una delle massime preoccupazioni dei critici moderni dei mass media è l’emergente introiezione della contingenza nelle nostre esistenze che autori quali Benjamin e Kracauer hanno evidenziato, analizzando l’impatto della fotografia e delle nuove tecnologie sulle nostre società. Ma non è forse questa celebrazione rituale del condiviso mascheramento sociale un primo riconoscimento di questo evento? Cos’è l’Ulisse di Joyce se non una suprema asettica elegia di tale riconosciuta contingenza?

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Il concetto di maschera ci riporta al tema discusso all’inizio del presente lavoro: l’identificazione simmeliana della società come costante gioco di reciproche rappresentazioni. L’intera conglomerazione sociale diventa un pubblico dinanzi al quale ogni singolo individuo si mette in scena. L’Io appare così come una rappresentazione inevitabile per essere insieme, non solo come rappresentazione dell’Altro rispetto al singolo, ma anche dello stesso singolo verso se stesso.

Nel romanzo di Pirandello Uno, Nessuno e Centomila, il protagonista Vitangelo Moscarda prende coscienza della propria maschera solo nel momento in cui questa entra in conflitto con quella che sua moglie presenta di lui. Egli riconosce la propria maschera come un riflesso negativo di una immagine riflessa. Una volta che la solidità dell’individuo è riconosciuta come un’illusione, l’unità del sistema collassa, l’Io si ritrova disciolto in migliaia di frammenti, e il gioco sociale emerge in tutta la sua ordinaria evidenza.

 

La creazione di nuovi media come Internet, predispone una nuova arena in cui il gioco sociale può svolgersi. L’evoluzione dal Web 1.0 al Web 2.0[8] – dalla ricezione passiva del Net 1.0 alla comunicazione a doppio senso del Net 2.0 – ha dato ai Netizen[9] l’opportunità di interagire ampiamente con il resto del mondo digitale. La creazione di comunità digitali ha aperto nuovi punti di incontro. Il quadro dell’associazione si è fatto improvvisamente globale e l’Io disintegrato è caduto in un ambiente spaesante. Il Web 2.0 incarna la deflagrazione della realtà, la polverizzazione del mondo concreto. In tale scenario privo di riferimenti certi, in questa sorta di giurassica, primordiale terra impalpabile, nuove comunità si sono costituite. La costruzione di social network rappresenta la “reificazione” della sottigliezza del moderno, che equivale a quella stessa Ausfallserscheinung che Benjamin riconosce come un elemento essenziale del Cinema. Lo schermo del computer e il grande schermo costituiscono lo stesso ambito fenomenico. Tuttavia, mentre nella sala di proiezione gli individui sono solo osservatori, sul palcoscenico del web sono anche attori.

Da questo punto di vista, Instagram rappresenta una delle applicazioni più interessanti del Web 2.0[10]. Per organizzare il complesso fenomeno immaginario rappresentato da Instagram, è necessario partire da un’essenziale separazione delle modalità di approccio alla community da parte del singolo in due categorie distinte: “sharing” e “following”. La vicinanza al modello simmeliano di società come gioco di reciproche rappresentazioni diviene ad ogni passo più evidente. Seguendo la teoria di Simmel, lo sharing è la categoria con la quale l’individuo presenta se stesso agli altri users, il teatro sociale in cui indossa la propria maschera e l’attività di interpretazione, che gli altri inevitabilmente finiranno con l’applicare in maniere molto differenti. La categoria del following è più legata alla maniera in cui il singolo utente rappresenta gli altri, partendo dalle rappresentazioni che essi danno di se stessi. Grazie al fatto che tale gioco è svolto nel dominio del puro immaginario, è sicuramente un’eccezionale opportunità per approfondire il gioco di rappresentazioni e quale ruolo giochi il principio di piacere in esso. Le nuove tecnologie stanno contribuendo in maniera eccezionale a rendere il processo sociale perfettamente “visibile”. Le immagini sono diventate “trasportabili”. Dove? «Davanti al pubblico! (Vor das Publikum). Dinanzi alla camera egli sa che si trova in ultima analisi dinanzi al pubblico»[11], che è esattamente quanto accade utilizzando Instagram, laddove coloro che stanno scattando una foto la stanno scattando per un pubblico. “Sharing the imaginary” diviene così la linea guida di un incredibile ed intricato fenomeno “sociale”.

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schema Instagram

 

Tentando di leggere tale fenomeno attraverso gli strumenti linguistici che abbiamo sviluppato nella tabella, possiamo affermare quanto segue: lo sharing, il condividere, è legato a due processi differenti di elaborazione dell’immagine, ovvero espressione di “Identità” o “Personalità”. Il termine “Identità” si riferisce al mondo delle immagini riflesse. Quelle postate dagli utenti sono la traccia della loro presenza fisica nel mondo e possono includere rappresentazioni di se stessi (Corpo), o dell’ambiente circostante che è parte della loro rappresentazione, come ad esempio il cibo che si mangia, gli abiti che si indossano, i luoghi che si visitano (Mondo). La categoria “Personalità” riguarda, invece, il dominio delle immagini proiettate. L’utente proietta “Pensieri” (come, ad esempio, brevi frasi e poesie di autori famosi o anonimi) o “Emozioni” (come, ad esempio, immagini che non presentano semplicemente il mondo così com’è, ma in una personale rappresentazione artistica). Nella categoria dei “Pensieri”, lo stesso linguaggio si fa immagine. La struttura mentale profonda dell’utente è proiettata nell’immagine/parola di qualcun altro. I brevi versi e frasi hanno, in questo contesto, lo stesso senso visivo di un’istantanea che viene riempita con i propri pensieri e desideri. L’immagine dell’utente non è riflessa in quella di un altro. L’utente si appropria della citazione di qualcun altro “come un’immagine”.

Nella categoria delle “Emozioni”, tutto questo fenomeno si intensifica, approfondisce e complica. Siamo probabilmente dinanzi al puro processo proiezionale, come bambini abbandonati al centro del proprio desiderio. Quando Instagram fu inventato, una nuova categoria fotografica fu creata, la cosiddetta iPhoneography.

Il Bello non è più il risultato di un processo volontario di ricerca, ma è supportato da un processo esterno involontario. L’uso del filtro amplifica l’oggettivazione del soggetto (come la potremmo chiamare con Adorno), sebbene in una maniera “regolamentata”, “predefinita”, “predeterminata”, nella quale l’idea stessa di creatività si trasforma.

L’automatismo dell’uso del filtro enfatizza il valore dell’atto creativo in sé. Vi è una volontà creativa che è indipendente da ogni ricerca tecnologica. Scegliendo un particolare filtro, l’utente compie una scelta estetica e in se stessa creativa. La ricerca tecnica è standardizzata nel filtro, che funziona come una traccia mnestica che l’utente riempie con le proprie emozioni. Il processo estetico-creativo cambia, si proceduralizza e diviene un fenomeno di massa. L’uso distinto delle due parole – identità e personalità – è stato ovviamente intenzionale, dal momento che la dialettica tra ciò che una persona è e quello che una persona vuole essere non è per nulla estinta. Il termine personalità deriva dal latino persona, che veniva utilizzata nel teatro antico per riferirsi alla maschera (vale a dire, la dramatis persona). A questo punto, è necessario compiere una distinzione essenziale tra la nostra materialità fisica, che sembra definirsi indipendentemente dal nostro volere, e la nostra consistenza psicologica, che cerchiamo di formare e presentare agli altri. Benjamin ha rappresentato perfettamente l’importanza di questo processo in relazione al Cinema. Ne' L'opera d’arte, egli presenta la costruzione artificiale della personalità di un individuo, «il culto della star», come il modello che il mondo cinematografico utilizza per sostituire il declino dell’aura. Da questo momento in poi, tale processo di edificazione della personalità sembra essere diventato una specie di modello per la massa alienata. Nella Dialettica dell’Illuminismo, Adorno e Horkeimer parlano di “pseudoindividualità”, che corrisponde all’idea di creare la “originalità” dell’individuo combinando elementi preconfezionati: «si riduce ai baffi, all’accento francese, alla voce rauca e profonda della donna vissuta, al ‘Lubitsch touch’: che sono come altrettante impronte digitali sulle tessere altrimenti uguali in cui si trasformano, di fronte al potere dell’universale, la vita e i lineamenti di tutti i singoli, dalla stella cinematografica all’ultimo detenuto»[12].

Nonostante ciò, la ridefinizione del concetto di realtà che stiamo cercando d’identificare cambia per noi la relazione tra queste due parole. La rappresentazione di noi stessi attraverso immagini sembra possedere un doppio livello che è opportuno considerare. Vi è, naturalmente, il livello sociale nel quale costruiamo le nostre immagini come «centri in cui si incontrano le tendenze generali»[13], ma c'è anche, attraverso il processo proiezionale, una consistenza ben più profonda. Non stiamo falsificando il nostro Io mettendo una maschera sul suo volto. Stiamo, piuttosto, incorporando il nostro profondo nella maschera in una maniera a nostra portata. Ovviamente non è sempre così, tuttavia, possiamo affermare certamente che la maschera come rappresentazione artistica delle nostre emozioni mostra una parte della nostra realtà profonda.

Anche muovendo dalla categoria dello sharing a quella del following, l’intera analisi della relazione tra immagine ed individualità mantiene la sua validità. Following, “seguendo” per utenti, ricadiamo nel dominio delle immagini riflesse. Questa volta è il mondo delle immagini che gli altri presentano di se stessi ad un altro utente, che le interpreta dal suo punto di vista personale. “Seguire” per hashtag apre, invece, un campo di estremo interesse. Un hashtag è una parola o un gruppo di parole che l’utente collega alle proprie immagini per completarne (forse aumentarne) il significato. Queste immagini sono strettamente connesse alle parole, ma in una maniera differente rispetto a quanto accadeva nella categoria “Pensieri”. È come muovere dall’immaginario al simbolico senza lasciare l’immaginario. Se nella “connessione linguistica diretta” non registriamo nulla di particolare (una parola è fortemente legata all’immagine da una referenza diretta), è probabilmente nella “connessione linguistica indiretta” che la nostra intera analisi in un certo senso quadra. Nella “connessione linguistica indiretta”, il mondo non si connette perfettamente con l’immagine, e nella maggior parte dei casi è molto difficile giustificare la scelta dell’utente considerando il problema dal punto di vista puramente razionale. La razionalità della connessione mondo/realtà è sgretolata. Parole come amore, odio e vita non hanno più riferimento universale. Cade l’autorità della Razionalità. Per esempio, è possibile trovare l’hashtag #Art sotto l’autoritratto di un ragazzo dinanzi allo specchio del suo bagno, e giustificare la scelta da un punto di vista strettamente personale. Vengono stabilite nuove connessioni: l’incontro tra parole e immagini apre a nuove possibilità creative per una evoluzione di massa del linguaggio, che viene respinto in una sorta di dimensione proiezionale. Questa è la follia, come la intende Lacan, in cui l’individuo rifiuta le convenzioni del linguaggio e crea una rappresentazione totalmente personale del mondo, dove financo la parola stessa finisce con l’essere un gruppo di immagini, riempite con bisogni personali incarnati in forme visuali. L’uso specifico del linguaggio, che si colloca fuori da qualsiasi connessione simbolica, apre il campo ad una nuova modalità di comprensione del fenomeno. Di conseguenza, la radicalità di questa nuova modalità immaginativa di usare l’immagine ne esce rinforzata. La bacheca di Instagram si trasforma in una versione moderna della parete delle caverne di Lascaux. Ciò ridefinisce l’idea stessa di Arte e la rende disponibile per tutti. Abbiamo finalmente raggiunto lo stadio in cui – come diceva il grande artista tedesco Joseph Beuys – ogni uomo è un artista, o se non altro può essere una artista.

 

Il corpo e la realtà fisica sono “private della realtà”. Tuttavia, in un mondo dove il linguaggio è una costruzione illusoria del simbolico, l’estesa riappropriazione di questo processo proiezionale sembra essere ancor più una riappropriazione del Sé profondo.

Non stiamo solo liberando il nostro principio di piacere, stiamo anche istituendo una modalità quasi meccanica per riprodurlo. I nuovi media offrono – insieme alla possibilità di numerose indagini sul Sé – anche una straordinaria opportunità di ritornare a quella specie di uso “magico” delle immagini, che Georges Bataille identificò come il centro della produzione artistica di Lascaux[14]. Seguendo l’evoluzione del segno da Lascaux (immagini proiettate) al primo passo verso l’astrazione del linguaggio, in cui questo è ancora legato all’immagine – come nel caso dei geroglifici egizi (immagini riflesse riferite all’immaginario) – ad un passo più astratto come con gli ideogrammi cinesi e giapponesi (primo passo nel simbolico), quindi alla completa astrazione come nei moderni linguaggi non ideogrammatici (immagini riflesse in puro simbolico), possiamo riconoscere che le tecnologie moderne ci stanno conducendo verso una rappresentazione più visuale del mondo. Seguendo questi pensieri fino in fondo, possiamo assumere che non useremo più lo schermo come uno spazio vuoto da riempire con le nostre rappresentazioni fittizie, come affermato da Žižek in riferimento al Cinema: «abbiamo bisogno della scusa di una finzione per mettere in scena ciò che noi siamo realmente». Al contrario, stiamo riaffermando il potere delle immagini come incarnazioni del nostro Sé, come rappresentazioni pure di ciò che siamo. Siamo alla fine dell’era della scrittura? Da quanto emerso fino ad oggi, ci stiamo preparando ad un nuovo scivolamento nell’immaginario in cui la parola non sarà più mezzo privilegiato della comunicazione, sopravanzata dalla potenza dell’immagine.

 

AGOSTO 2013

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[1] Il presente lavoro non vuole essere né una critica positiva né negativa dell’evoluzione del concetto di Arte e della soggettività stessa nell’era virtuale. È piuttosto una dichiarazione di intenti riguardo ad un percorso che va approfondito a più livelli. Nel testo, vengono prese in considerazione teorie che hanno vissuto una evoluzione che spesso ha teso a contraddirne i principi basilari, come ad esempio le recenti ricerche in ambito psicanalitico che hanno modificato la concezione freudiana ortodossa sul rapporto Io-mondo nell’infante. Ci tengo a precisare che, in questa sede, m’interessa utilizzare le teorie esposte semplicemente al fine di creare un vocabolario che aiuti l’analisi del rapporto che l’uomo digitale ha instaurato con il proprio mondo e le immagini che lo rappresentano.

[2] S. Freud, Ad di là del Principio di Piacere, Bollati Boringhieri, Torino 1986.

[3] «Freud usa i sogni per ricavare sia la sua prima topografia che un modello dell’apparato psichico che definiva il desiderio come 'cathexis' (in tedesco Besetzung = occupazione, riempimento) di una immagine mnemica collegata alla soddisfazione di un bisogno» (Patrick Delaroche, Subject's Desire in International Dictionary of Psychoanalysis, 2005).

[4] Cfr. S.Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale, BUR, Milano 2010 (in particolare il secondo saggio sull’evoluzione della sessualità infantile); ma anche S.Freud, L' io e l'Es, Bollati Boringhieri, Torino 1986.

[5] «Les acteurs de cinéma [...] se sentent comme en exil. En exil non seulement de la scène, mais encore d'eux-mêmes. Ils remarquent confusément, avec une sensation de dépit, d'indéfinissable vide et même de faillite, que leur corps est presque subtilisé, supprimé, privé de sa realité, de sa vie, de sa voix, du bruit qu'il produit en se remuant, pour devenir une image muette qui tremble un instant sur l'écran et disparaît en silence» [Luigl Pirandello, On tourne, cité par Léon Pierre-Quint, Signification du cinéma (L'art cinématographique, 11, Paris 1927, pp.14-15)]. La citazione e il suo riferimento bibliografico sono presi dalla seconda versione de’ L’opera d’arte pubblicata nel n.5 della rivista «Zeitschrift für Sozialforschung» (1936) nella traduzione in francese di Pierre Klossowski, supervisionata dallo stesso Benjamin.

[6] Apparenza come apparire e non come simulazione. Apparenza qui è il rivelarsi nel presentarsi. Si potrebbe quasi tradurre il termine Erscheinung con “apparizione”.

[7] Lacan tratta estesamente dell’evoluzione dall’Io immaginario al Soggetto simbolico nei primi due Seminari: Seminario 1 (Gli scritti tecnici di Freud, 1953-1954) e Seminario 2 (L'Io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi, 1954-1955).

[8] La differenza principale tra Web 1.0 e Web 2.0 risiede nella possibilità per gli utenti di interagire, che nel Web 1.0 era una prerogativa molto limitata. Il Web 1.0 è stato uno stadio primordiale nell’evoluzione concettuale del World Wide Web, centrato su un approccio dall’alto dell’uso del web e dell’interfaccia con l’utente. Gli utenti potevano unicamente visionare pagine web, ma non contribuire ad esse. Al contrario, un sito Web 2.0 può dare ai propri utenti la possibilità di interagire e collaborare con tutti gli altri in un dialogo “sociale”, come creatori di contenuti generati dall’utente in una comunità virtuale. Esempi di Web 2.0 includono i social networks, blogs, wikis, siti di condivisione di video, hosted services, applicazioni per il web, mashups and folksonomies.

[9] M. Hauben; R. Hauben; T. Truscott, (27-04-1997), Netizens: On the History and Impact of Usenet and the Internet (Perspectives), Wiley-IEEE Computer Society P.

[10] Creato da Kevin Systrom e Mike Krieger, Instagram è un servizio di condivisione online di immagini e un social network che permette all’utente di fare una foto, applicarvi un filtro digitale (se vuole) e condividerla su vari social networks come Facebook o Twitter. È stato lanciato nell’ottobre 2010 ed ha immediatamente conquistato grande popolarità con più di 100 milioni di utenti in tutto il mondo. La componente ‘social’ di questa applicazione è fondamentale. Instagram è stato capace di vincere sui propri competitori perché ha creato prima un social network e poi una community.

[11] Cfr. W.Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1991, cap. x.

[12] M. Horkheimer, T. W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino 2010, p.166.

[13] Ibidem, p.167.

[14] Cfr. G.Bataille, Lascaux. La naissance de l'art, Mimesis, Milano 2007.