Esperienza e rappresentazione
INSTAGRAM, LA COMMUNITY E IL PIACERE CONDIVISO: UNA LETTURA BENJAMINIANA
OTTIMISTA[1]
Massimiliano Di
Leva
Tutto il mondo è un palcoscenico,
e uomini e donne son solo degli attori
che hanno le loro uscite e le loro
entrate;
e una stessa persona, nella sua vita,
recita diverse parti
e gli atti sono le sette età.
(Shakespeare, Come vi piace
[Atto 2, scena 7, 139-143])
Nel suo Sociologia, pubblicato
nel 1908, Georg Simmel sposta il paradigma essenziale di qualunque
ricerca sociologica sulla società dalla essenza di questa ai suoi
principi. Il centro delle sue analisi sulle moderne associazioni urbane
non è più “cosa è una società?” bensì, più efficientemente, “cosa rende
possibile una società?”. La sua risposta a tale domanda è che l’impulso
germinale di ogni forma di conglomerazione sociale sta nella pura
presenza del Tu, nel chiaro apparire dell’Altro.
Un’associazione (Vergesellschaftung),
citando le parole dello stesso Simmel, è un gioco di reciproche
rappresentazioni nella socievolezza (Geselligkeit als die Spielform
der Vergesellschaftung). L’immagine che mi creo dell’Altro
interagisce con l’immagine che l’Altro si crea di me. È molto
interessante sottolineare questa dimensione rappresentativo-immaginativa
delle relazioni umane. L’instaurarsi di qualsiasi interazione reciproca
è resa possibile dall’abilità degli esseri umani di creare immagini
mentali. È proprio questa basilare facoltà umana dell’immaginare
(intesa appunto come dare forma ad immagini) che cercheremo di
analizzare in questo breve lavoro.
Secondo la teoria freudiana[2], nei
primissimi stadi della sua vita il bambino galleggia in un mondo
indifferenziato di bisogni ed istinti. Il pianto è l’unica maniera che
egli conosce per esprimere il conflitto tra quei bisogni e l’incapacità
di soddisfarli. Comincia così a piangere, la madre immediatamente arriva
e il bisogno è soddisfatto. La risposta esterna rappresenta una prima
connessione tra lui e il “mondo”, che egli non riconosce in quanto tale.
Qualora questa risposta esterna dovesse non arrivare, l’unica
possibilità per lui di sfuggire all’aumento della tensione generato dal
suo bisogno è un processo allucinatorio. Il bambino associa la
soddisfazione del bisogno ad una immagine mnestica. Ogni qual volta
tornerà a sperimentare la crescita del proprio eccitamento, dovuta al
sopraggiungere di un bisogno, egli cercherà subito di richiamare quelle
percezioni soddisfacenti proiettando il proprio bisogno dentro
un’immagine sullo “schermo” della propria mente[3]. Questo è ciò
che Freud chiama Wunsch (aspirazione, tensione), e che è stato
erroneamente tradotto con il termine “desiderio”. Il processo psichico
che soprintende questa risposta è da lui chiamato Principio di Piacere.
La sola strada che il bambino conosce per tenere il proprio bisogno
sotto controllo è il “piacere” che egli è in grado di soddisfare
utilizzando questa soddisfazione proiettiva.
Il fenomeno della proiezione sembra
essere una delle prime modalità attive di usare il materiale psichico.
Per la prima volta, questa massa indifferenziata di voleri cerca di
tirare le proprie fila e di edificare una rappresentazione “oggettiva”
di sé. Questo è, secondo me, il più fondamentale – quasi primordiale –
processo nella formazione dell’Io. Freud, invece, individuerà tale
processo formativo nella successiva evoluzione del Sé, con lo stabilirsi
del Principio di Realtà[4].
La proiezione di immagini diventa,
quindi, il processo essenziale attraverso il quale piacere e desiderio
sono esperiti, ovvero i domini psichici in cui siamo veramente noi
stessi. I primi passi che il bambino compie nella realtà saranno ancora
parte di un processo proiezionale, anche se in questo periodo si tratta
di una proiezione “alienata”: questo è quanto afferma Lacan nella sua
teoria dello specchio di cui parleremo più avanti. Solo creando una
distanza tra il proprio desiderio proiettato e la rappresentazione che
egli ha di sé stesso, il bambino apre lo spazio di cui ha bisogno per
erigere la “realtà” esterna. Da questo punto di vista, il suo Sé
profondo sperimenta se stesso come entità riflessa, forzata nella
“illusione”, per così dire, del reale. Freud afferma che una volta che
questa “illusione” è stabilita, agli esseri umani restano pochi esempi
di processi allucinatori quali sogni, fantasie, sintomi, repressione e
Arte.
Il processo di immaginazione è senza
dubbio alla base del fenomeno artistico. L’invenzione di nuove
tecnologie quali fotografia e cinema ha realizzato tale fondamentale
processo molto più di quanto avesse fatto ogni altra forma artistica
precedente. La pittura è, infatti, una ripresentazione del mondo reale,
mentre la fotografia è una eccezionale pura presentazione di esso, alla
quale il cinema aggiunge financo il movimento: la realtà in quanto tale.
È probabilmente così che, con l’invenzione della fotografia e del
cinema, l’arte perde il suo originale orientamento classico. Per
esempio, nuovi movimenti artistici come Surrealismo e Dadaismo hanno
completamente modificato le intenzioni profonde dell’Arte, spostando
l’attenzione sull'attività fantasmagorica del Sé. Il sopraggiungere
delle nuove tecnologie ha rivelato il gioco di rappresentazioni in cui
viviamo come la mise en scène di noi stessi, ma ha anche posto
gli spettatori drammaticamente dinanzi al loro stesso spettacolo.
Le intricate dinamiche della
rappresentazione del Sé – che è enfatizzata da fotografia e cinema –
sono specificamente affrontate da Benjamin ne’ L’opera d’arte
nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Nei capitoli
ix e
x, egli si concentra su
questa specifica forma di auto-rappresentazione a partire da una
citazione di Luigi Pirandello: «L’attore […] si sente in esilio – esilio
non solo dal palcoscenico, ma anche da sé stesso. Con un vago senso di
sconforto, egli vive un’inesplicabile vuoto: il suo corpo perde la sua
corporeità, evapora, è privato della propria realtà, vita, voce, del
rumore causato dal suo movimento, per trasformarsi in un’immagine muta,
che trema un istante sullo schermo per poi svanire nel silenzio»[5].
Consideriamo l’espressione «il suo corpo
perde la sua corporeità», che è la traduzione della frase in francese «leur
corps est presque subtilisé». Sebbene sia solo concentrandoci sulla
traduzione tedesca che si scopre un’interessante invenzione
terminologica. Nella versione tedesca, Benjamin usa un particolare
vocabolo per esprimere l’idea del corpo che perde la propria corporeità.
Egli scrive, infatti: «sein Körper [wird] zur Ausfallserscheinung».
Il termine Ausfallserscheinung risulta dalla combinazione della
parola Ausfall, che significa “mancanza, perdita”, e della parola
Erscheinung, che deriva dal verbo erscheinen, che
significa “apparire”.
Possiamo, dunque, affermare che
Ausfallserscheinung è da considerarsi come una perdita di apparenza,
la disintegrazione dell’immagine in cui l’attore rappresenta se stesso.
La perdita di apparenza corporea corrisponde alla perdita di realtà.
Sebbene ciò che l’attore perde sia piuttosto la connessione tra la
propria immagine e la realtà fisica della stessa immagine. Si ritrova
dinanzi a se stesso osservando la propria realtà “privata di realtà”,
senza voce, rumore o vita. L’immagine dinanzi alla quale si trova non è
la “sua” immagine. Non gli appartiene. È soltanto un’immagine che
sta al suo posto. Immagine (Bild)
e apparenza[6] (Erscheinung)
sono in questo caso disconnesse. Non
ci riconosciamo nell’immagine, perché
tra di noi e il riflesso di noi stessi riposa l’illusione del reale,
come se vivessimo dall’altro lato dello
specchio.
A questo punto, l’importanza dello
specchio nell’evoluzione del Sé, suggerita da Lacan, è certamente degna
di essere menzionata. Nella sua famosa conferenza Lo stadio dello
Specchio come formativo della funzione dell’Io, Lacan mette
in evidenza come durante i primi mesi di vita il bambino non riconosca
la propria immagine riflessa nello specchio. L’Io distinto è
essenzialmente costruito dal bambino nel corso della successiva fase
evolutiva, che Lacan chiama appunto “fase dello specchio”. Durante
questa fase, il bambino non si identifica con sé stesso, ma con la
propria immagine riflessa. La percezione della propria identità è
possibile solo grazie all’attuazione di un processo di alienazione. L’Io
entra nella sua fase “immaginaria”. Vi è, tuttavia, una consistente
differenza tra l’immagine riflessa e quella proiettata, di cui si
parlava prima in riferimento alla teoria freudiana del desiderio. La
differenza sta nella connessione tra il volere e queste immagini.
L’immagine riflessa (
Questo è forse il sentimento che
Benjamin porta dentro di sé quando scrive: «Il sentimento di estraneità
che assale l’attore dinanzi alla camera [...] è essenzialmente simile
allo straniamento avvertito dinanzi alla propria immagine allo specchio
(seiner Erscheinung im Spiegel)». Qui l’immagine riflessa
è Erscheinung (apparenza svuotata della propria apparizione). È
qualcosa che non ha una essenza autonoma, ma emerge alla
percezione e attraverso tale processo si fa visibile, riceve la
sua apparenza/parvenza. Questa è la ragione per cui ci sentiamo
estraniati da essa, perché la percepiamo come qualcosa che non ci
appartiene, lo svelamento di un’alterità che ci assomiglia, ma
non è immediatamente connessa con il nostro profondo. Possiamo
immaginare che è da qui che proviene la percezione della
finzione.
È molto interessante sottolineare
l’ambito in cui tale analisi si svolge: il teatro, spazio
dell’illusione per eccellenza, un luogo nella realtà in cui la realtà è
simulata. Questa condizione di costante rappresentazione del Sé richiama
l’immagine della maschera. A questo punto, siamo doppiamente
autorizzati ad evocare la maschera proprio a causa di Pirandello, che ha
basato la sua analisi teatrale della società proprio su tale concetto.
Tutti noi indossiamo una maschera, ci ricorda Pirandello. Siamo tutti
spezzati in una fondamentale duplicità che è lo scarto tra la nostra
realtà oggettiva, dovuta alla nostra esistenza fisica, e la nostra
consistenza soggettiva, che è collegata al nostro sviluppo psicologico.
Tuttavia, anche la nostra soggettività si divide e sbriciola. La nostra
natura si traveste continuamente sotto la maschera che collochiamo sulla
nostra faccia e le maschere attraverso le quali l’intera società ci
percepisce. Il soggetto pirandelliano si infrange in centomila pezzi.
Pirandello sostiene che il soggetto è allo stesso tempo una singola
unità, dovuta alla rappresentazione che egli ha di se stesso, e quei
centomila pezzi, dovuti alle innumerevoli rappresentazioni che gli altri
hanno di noi e che a loro volta sono usate dallo stesso individuo per
presentarsi dinanzi all'assemblea sociale. Il risultato finale è che
l’individuo finisce col non essere nessuno, completamente disintegrato
in quel gioco eterno che è l’essere con gli altri e per gli altri. Una
delle massime preoccupazioni dei critici moderni dei mass media è
l’emergente introiezione della contingenza nelle nostre esistenze che
autori quali Benjamin e Kracauer hanno evidenziato, analizzando
l’impatto della fotografia e delle nuove tecnologie sulle nostre
società. Ma non è forse questa celebrazione rituale del condiviso
mascheramento sociale un primo riconoscimento di questo evento? Cos’è l’Ulisse
di Joyce se non una suprema asettica elegia di tale riconosciuta
contingenza?
Il concetto di maschera ci riporta al
tema discusso all’inizio del presente lavoro: l’identificazione
simmeliana della società come costante gioco di reciproche
rappresentazioni. L’intera conglomerazione sociale diventa un pubblico
dinanzi al quale ogni singolo individuo si mette in scena. L’Io appare
così come una rappresentazione inevitabile per essere insieme, non solo
come rappresentazione dell’Altro rispetto al singolo, ma anche dello
stesso singolo verso se stesso.
Nel romanzo di Pirandello Uno,
Nessuno e Centomila, il protagonista Vitangelo Moscarda prende
coscienza della propria maschera solo nel momento in cui questa entra in
conflitto con quella che sua moglie presenta di lui. Egli riconosce la
propria maschera come un riflesso negativo di una immagine riflessa. Una
volta che la solidità dell’individuo è riconosciuta come un’illusione,
l’unità del sistema collassa, l’Io si ritrova disciolto in migliaia di
frammenti, e il gioco sociale emerge in tutta la sua ordinaria evidenza.
La creazione di nuovi media come
Internet, predispone una nuova arena in cui il gioco sociale può
svolgersi. L’evoluzione dal Web 1.0 al Web 2.0[8] –
dalla ricezione passiva del Net 1.0 alla comunicazione a doppio senso
del Net 2.0 – ha dato ai Netizen[9]
l’opportunità di interagire ampiamente con il resto del mondo digitale.
La creazione di comunità digitali ha aperto nuovi punti di incontro. Il
quadro dell’associazione si è fatto improvvisamente globale e l’Io
disintegrato è caduto in un ambiente spaesante. Il Web 2.0 incarna la
deflagrazione della realtà, la polverizzazione del mondo concreto. In
tale scenario privo di riferimenti certi, in questa sorta di giurassica,
primordiale terra impalpabile, nuove comunità si sono costituite. La
costruzione di social network rappresenta la “reificazione” della
sottigliezza del moderno, che equivale a quella stessa
Ausfallserscheinung che Benjamin riconosce come un elemento
essenziale del Cinema. Lo schermo del computer e il grande schermo
costituiscono lo stesso ambito fenomenico. Tuttavia, mentre nella sala
di proiezione gli individui sono solo osservatori, sul palcoscenico del
web sono anche attori.
Da questo punto di vista, Instagram
rappresenta una delle applicazioni più interessanti del Web 2.0[10]. Per
organizzare il complesso fenomeno immaginario rappresentato da
Instagram, è necessario partire da un’essenziale separazione delle
modalità di approccio alla community da parte del singolo in due
categorie distinte: “sharing” e “following”. La vicinanza
al modello simmeliano di società come gioco di reciproche
rappresentazioni diviene ad ogni passo più evidente. Seguendo la teoria
di Simmel, lo sharing è la categoria con la quale l’individuo
presenta se stesso agli altri users, il teatro sociale in cui
indossa la propria maschera e l’attività di interpretazione, che gli
altri inevitabilmente finiranno con l’applicare in maniere molto
differenti. La categoria del following è più legata alla maniera
in cui il singolo utente rappresenta gli altri, partendo dalle
rappresentazioni che essi danno di se stessi. Grazie al fatto che tale
gioco è svolto nel dominio del puro immaginario, è sicuramente
un’eccezionale opportunità per approfondire il gioco di rappresentazioni
e quale ruolo giochi il principio di piacere in esso. Le nuove
tecnologie stanno contribuendo in maniera eccezionale a rendere il
processo sociale perfettamente “visibile”. Le immagini sono diventate “trasportabili”.
Dove? «Davanti al pubblico! (Vor das Publikum). Dinanzi alla
camera egli sa che si trova in ultima analisi dinanzi al pubblico»[11], che è
esattamente quanto accade utilizzando Instagram, laddove coloro
che stanno scattando una foto la stanno scattando per un pubblico. “Sharing
the imaginary” diviene così la linea guida di un incredibile ed
intricato fenomeno “sociale”.
Tentando di leggere tale fenomeno
attraverso gli strumenti linguistici che abbiamo sviluppato nella
tabella, possiamo
affermare quanto segue: lo sharing, il condividere, è legato a
due processi differenti di elaborazione dell’immagine, ovvero
espressione di “Identità” o “Personalità”. Il termine “Identità” si
riferisce al mondo delle immagini riflesse. Quelle postate dagli utenti
sono la traccia della loro presenza fisica nel mondo e possono includere
rappresentazioni di se stessi (Corpo), o dell’ambiente circostante che è
parte della loro rappresentazione, come ad esempio il cibo che si
mangia, gli abiti che si indossano, i luoghi che si visitano (Mondo). La
categoria “Personalità” riguarda, invece, il dominio delle immagini
proiettate. L’utente proietta “Pensieri” (come, ad esempio, brevi frasi
e poesie di autori famosi o anonimi) o “Emozioni” (come, ad esempio,
immagini che non presentano semplicemente il mondo così com’è, ma in una
personale rappresentazione artistica). Nella categoria dei “Pensieri”,
lo stesso linguaggio si fa immagine. La struttura mentale profonda
dell’utente è proiettata nell’immagine/parola di qualcun altro. I brevi
versi e frasi hanno, in questo contesto, lo stesso senso visivo di
un’istantanea che viene riempita con i propri pensieri e desideri.
L’immagine dell’utente non è riflessa in quella di un altro. L’utente si
appropria della citazione di qualcun altro “come un’immagine”.
Nella categoria delle “Emozioni”, tutto
questo fenomeno si intensifica, approfondisce e complica. Siamo
probabilmente dinanzi al puro processo proiezionale, come bambini
abbandonati al centro del proprio desiderio. Quando Instagram fu
inventato, una nuova categoria fotografica fu creata, la cosiddetta
iPhoneography.
Il Bello non è più il risultato di un
processo volontario di ricerca, ma è supportato da un processo esterno
involontario. L’uso del filtro amplifica l’oggettivazione del soggetto
(come la potremmo chiamare con Adorno), sebbene in una maniera
“regolamentata”, “predefinita”, “predeterminata”, nella quale l’idea
stessa di creatività si trasforma.
L’automatismo dell’uso del
filtro enfatizza il valore dell’atto creativo
in sé. Vi è una volontà creativa che è indipendente da ogni
ricerca tecnologica. Scegliendo un particolare
filtro, l’utente compie una scelta estetica e in se stessa
creativa. La ricerca tecnica è standardizzata
nel filtro, che funziona come una traccia mnestica che
l’utente riempie con le proprie emozioni. Il
processo estetico-creativo cambia, si proceduralizza e
diviene un fenomeno di massa. L’uso distinto
delle due parole – identità e personalità – è stato
ovviamente intenzionale, dal momento che la
dialettica tra ciò che una persona è e quello che una
persona vuole essere
non è per nulla estinta. Il termine
personalità deriva dal latino persona, che
veniva utilizzata nel teatro antico per
riferirsi alla maschera (vale a dire, la dramatis persona). A
questo punto, è necessario compiere una
distinzione essenziale tra la nostra materialità fisica, che
sembra definirsi indipendentemente dal nostro
volere, e la nostra consistenza psicologica, che
cerchiamo di formare e presentare agli altri.
Benjamin ha rappresentato perfettamente l’importanza
di questo processo in relazione al Cinema. Ne'
L'opera d’arte, egli presenta la costruzione artificiale
della personalità di un individuo, «il culto
della star», come il modello che il mondo
cinematografico utilizza per sostituire il
declino dell’aura. Da questo momento in poi, tale processo
di edificazione della personalità sembra
essere diventato una specie di modello per la massa
alienata. Nella Dialettica dell’Illuminismo,
Adorno e Horkeimer parlano di “pseudoindividualità”,
che corrisponde all’idea di creare la
“originalità” dell’individuo combinando elementi
preconfezionati:
«si
riduce ai baffi, all’accento francese, alla voce rauca e profonda della
donna vissuta, al ‘Lubitsch touch’: che
sono come altrettante impronte digitali sulle tessere altrimenti
uguali in cui si trasformano, di fronte al
potere dell’universale, la vita e i lineamenti di tutti i
singoli, dalla stella cinematografica
all’ultimo detenuto»[12].
Nonostante ciò, la ridefinizione del
concetto di realtà che stiamo cercando d’identificare cambia per noi la
relazione tra queste due parole. La rappresentazione di noi stessi
attraverso immagini sembra possedere un doppio livello che è opportuno
considerare. Vi è, naturalmente, il livello sociale nel quale costruiamo
le nostre immagini come «centri in cui si incontrano le tendenze
generali»[13], ma c'è
anche, attraverso il processo proiezionale, una consistenza ben più
profonda. Non stiamo falsificando il nostro Io mettendo una maschera sul
suo volto. Stiamo, piuttosto, incorporando il nostro profondo nella
maschera in una maniera a nostra portata. Ovviamente non è sempre così,
tuttavia, possiamo affermare certamente che la maschera come
rappresentazione artistica delle nostre emozioni mostra una parte della
nostra realtà profonda.
Anche muovendo dalla categoria dello
sharing a quella del following, l’intera analisi della
relazione tra immagine ed individualità mantiene la sua validità.
Following, “seguendo” per utenti, ricadiamo nel dominio delle
immagini riflesse. Questa volta è il mondo delle immagini che gli altri
presentano di se stessi ad un altro utente, che le interpreta dal suo
punto di vista personale. “Seguire” per hashtag apre, invece, un
campo di estremo interesse. Un hashtag è una parola o un gruppo
di parole che l’utente collega alle proprie immagini per completarne
(forse aumentarne) il significato. Queste immagini sono strettamente
connesse alle parole, ma in una maniera differente rispetto a quanto
accadeva nella categoria “Pensieri”. È come muovere dall’immaginario al
simbolico senza lasciare l’immaginario. Se nella “connessione
linguistica diretta” non registriamo nulla di particolare (una parola è
fortemente legata all’immagine da una referenza diretta), è
probabilmente nella “connessione linguistica indiretta” che la nostra
intera analisi in un certo senso quadra. Nella “connessione linguistica
indiretta”, il mondo non si connette perfettamente con l’immagine, e
nella maggior parte dei casi è molto difficile giustificare la scelta
dell’utente considerando il problema dal punto di vista puramente
razionale. La razionalità della connessione mondo/realtà è sgretolata.
Parole come amore, odio e vita non hanno più
riferimento universale. Cade l’autorità della Razionalità. Per esempio,
è possibile trovare l’hashtag #Art sotto l’autoritratto di
un ragazzo dinanzi allo specchio del suo bagno, e giustificare la scelta
da un punto di vista strettamente personale. Vengono stabilite nuove
connessioni: l’incontro tra parole e immagini apre a nuove possibilità
creative per una evoluzione di massa del linguaggio, che viene respinto
in una sorta di dimensione proiezionale. Questa è la follia, come la
intende Lacan, in cui l’individuo rifiuta le convenzioni del linguaggio
e crea una rappresentazione totalmente personale del mondo, dove financo
la parola stessa finisce con l’essere un gruppo di immagini, riempite
con bisogni personali incarnati in forme visuali. L’uso specifico del
linguaggio, che si colloca fuori da qualsiasi connessione simbolica,
apre il campo ad una nuova modalità di comprensione del fenomeno. Di
conseguenza, la radicalità di questa nuova modalità immaginativa di
usare l’immagine ne esce rinforzata. La bacheca di Instagram si
trasforma in una versione moderna della parete delle caverne di Lascaux.
Ciò ridefinisce l’idea stessa di Arte e la rende disponibile per tutti.
Abbiamo finalmente raggiunto lo stadio in cui – come diceva il grande
artista tedesco Joseph Beuys – ogni uomo è un artista, o se non altro
può essere una artista.
Il corpo e la realtà fisica sono “private
della realtà”. Tuttavia, in un mondo dove il linguaggio è una
costruzione illusoria del simbolico, l’estesa riappropriazione di questo
processo proiezionale sembra essere ancor più una riappropriazione del
Sé profondo.
Non stiamo solo liberando il nostro
principio di piacere, stiamo anche istituendo una modalità quasi
meccanica per riprodurlo. I nuovi media offrono – insieme alla
possibilità di numerose indagini sul Sé – anche una straordinaria
opportunità di ritornare a quella specie di uso “magico” delle immagini,
che Georges Bataille identificò come il centro della produzione
artistica di Lascaux[14]. Seguendo
l’evoluzione del segno da Lascaux (immagini proiettate) al primo passo
verso l’astrazione del linguaggio, in cui questo è ancora legato
all’immagine – come nel caso dei geroglifici egizi (immagini riflesse
riferite all’immaginario) – ad un passo più astratto come con gli
ideogrammi cinesi e giapponesi (primo passo nel simbolico), quindi alla
completa astrazione come nei moderni linguaggi non ideogrammatici
(immagini riflesse in puro simbolico), possiamo riconoscere che le
tecnologie moderne ci stanno conducendo verso una rappresentazione più
visuale del mondo. Seguendo questi pensieri fino in fondo, possiamo
assumere che non useremo più lo schermo come uno spazio vuoto da
riempire con le nostre rappresentazioni fittizie, come affermato da
Žižek in riferimento al Cinema: «abbiamo bisogno della scusa di una
finzione per mettere in scena ciò che noi siamo realmente». Al
contrario, stiamo riaffermando il potere delle immagini come
incarnazioni del nostro Sé, come rappresentazioni pure di ciò che siamo.
Siamo alla fine dell’era della scrittura? Da quanto emerso fino ad oggi,
ci stiamo preparando ad un nuovo scivolamento nell’immaginario in cui la
parola non sarà più mezzo privilegiato della comunicazione, sopravanzata
dalla potenza dell’immagine.
AGOSTO 2013
[1]
Il presente lavoro non vuole essere né una critica positiva né
negativa dell’evoluzione del concetto di Arte e della
soggettività stessa nell’era virtuale. È piuttosto una
dichiarazione di intenti riguardo ad un percorso che va
approfondito a più livelli. Nel testo, vengono prese in
considerazione teorie che hanno vissuto una evoluzione che
spesso ha teso a contraddirne i principi basilari, come ad
esempio le recenti ricerche in ambito psicanalitico che hanno
modificato la concezione freudiana ortodossa sul rapporto
Io-mondo nell’infante. Ci tengo a precisare che, in questa sede,
m’interessa utilizzare le teorie esposte semplicemente al fine
di creare un vocabolario che aiuti l’analisi del rapporto che
l’uomo digitale ha instaurato con il proprio mondo e le immagini
che lo rappresentano.
[2]
S. Freud, Ad di là del Principio di Piacere, Bollati
Boringhieri, Torino 1986.
[3]
«Freud usa i sogni per ricavare sia la sua prima topografia che
un modello dell’apparato psichico che definiva il desiderio come
'cathexis' (in tedesco Besetzung = occupazione,
riempimento) di una immagine mnemica collegata alla
soddisfazione di un bisogno» (Patrick Delaroche, Subject's
Desire in International Dictionary of Psychoanalysis,
2005).
[4]
Cfr. S.Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale, BUR,
Milano 2010 (in particolare il secondo saggio sull’evoluzione
della sessualità infantile); ma anche S.Freud, L' io e l'Es,
Bollati Boringhieri, Torino 1986.
[5]
«Les acteurs de cinéma [...] se sentent comme en exil.
En exil non
seulement de la scène, mais encore d'eux-mêmes. Ils remarquent
confusément, avec une sensation de dépit, d'indéfinissable vide
et même de faillite, que leur corps est presque subtilisé,
supprimé, privé de sa realité, de sa vie, de sa voix, du bruit
qu'il produit en se remuant, pour devenir une image muette qui
tremble un instant sur l'écran et disparaît en silence» [Luigl
Pirandello, On tourne, cité par Léon Pierre-Quint,
Signification du cinéma (L'art cinématographique, 11,
Paris 1927, pp.14-15)]. La citazione e il suo riferimento
bibliografico sono presi dalla seconda versione de’ L’opera
d’arte pubblicata nel n.5 della rivista «Zeitschrift für
Sozialforschung» (1936) nella traduzione in francese di
Pierre Klossowski, supervisionata dallo stesso Benjamin.
[6]
Apparenza come apparire e non come simulazione. Apparenza qui è
il rivelarsi nel presentarsi. Si potrebbe quasi tradurre il
termine Erscheinung con “apparizione”.
[7]
Lacan tratta estesamente dell’evoluzione dall’Io immaginario al
Soggetto simbolico nei primi due Seminari: Seminario 1 (Gli
scritti tecnici di Freud, 1953-1954) e Seminario 2 (L'Io
nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi,
1954-1955).
[8]
La differenza principale tra Web 1.0 e Web 2.0 risiede nella
possibilità per gli utenti di interagire, che nel Web 1.0 era
una prerogativa molto limitata. Il Web 1.0 è stato uno stadio
primordiale nell’evoluzione concettuale del World Wide Web,
centrato su un approccio dall’alto dell’uso del web e
dell’interfaccia con l’utente. Gli utenti potevano unicamente
visionare pagine web, ma non contribuire ad esse. Al contrario,
un sito Web 2.0 può dare ai propri utenti la possibilità di
interagire e collaborare con tutti gli altri in un dialogo
“sociale”, come creatori di contenuti generati dall’utente in
una comunità virtuale. Esempi di Web 2.0 includono i social
networks, blogs, wikis, siti di condivisione
di video, hosted services, applicazioni per il web,
mashups and folksonomies.
[9]
M. Hauben; R. Hauben; T. Truscott, (27-04-1997),
Netizens:
On the History and Impact of Usenet and the Internet
(Perspectives),
Wiley-IEEE
Computer Society P.
[10]
Creato da Kevin Systrom e Mike Krieger, Instagram è un
servizio di condivisione online di immagini e un
social network che permette all’utente di fare una foto,
applicarvi un filtro digitale (se vuole) e condividerla su vari
social networks come Facebook o Twitter. È
stato lanciato nell’ottobre 2010 ed ha immediatamente
conquistato grande popolarità con più di 100 milioni di utenti
in tutto il mondo. La componente ‘social’ di questa
applicazione è fondamentale. Instagram è stato capace di
vincere sui propri competitori perché ha creato prima un
social network e poi una community.
[11]
Cfr. W.Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua
riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1991, cap.
x.
[12]
M. Horkheimer, T. W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo,
Einaudi, Torino 2010, p.166.
[13]
Ibidem, p.167.
[14]
Cfr. G.Bataille, Lascaux. La naissance de l'art,
Mimesis, Milano 2007.