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Ottobre 2013

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Esperienza e rappresentazione

IL LESSICO DELLA CRISI E LA CRISI DELLE PASSIONI

Annelise D'Egidio

 

Dopo il Secolo Breve, capace di scatenare la rabbia cieca, un grande desiderio di rivalsa, una furia omicida incontrollabile, l’Europa sembra aver imparato la lezione, divenendo immune da passioni tanto violente. Tuttavia, considerando l’enorme quantità di spazio occupata dalle notizie sulla crisi economica negli ultimi anni e come lo spauracchio della crisi abbia influenzato le scelte e gli umori degli europei, senza contare il gergo adoperato da politici, giornalisti ed esperti – un gergo che spesso insisteva con paragoni bellici, fino poi a stabilire l’identità tra gli effetti della crisi e gli effetti della guerra – vale la pena di investigare meglio cosa la crisi abbia scatenato a livello passionale.

Quest’ultimo termine, per la verità, si adopera spesso e il più delle volte impropriamente: ad esempio, si attribuisce al carattere di una persona come sinonimo di veemente, irruento. Ma cos’è passione? L’etimologia latina indica una passività, cioè un subire: patisce dunque chi è il termine di un’azione compiuta dall’agente. Generalizzando, si patisce tutto ciò che non si fa e l’etica antica – in piena coerenza con l’etimo – giudicava le affezioni come passività e, di qui, il termine passioni. Platone, Aristotele, Seneca, Cicerone, Marco Aurelio, Epitteto, Epicuro (e l’elenco potrebbe continuare ancora per parecchie righe) si sono occupati delle passioni, assumendo posizioni diverse ma, nel complesso, sono stati concordi nel rilevare la pericolosità delle passioni per l’equilibrio dell’animo umano. Minaccia che la Modernità declina, fin dal dramma di Amleto ed il suo celebre monologo, in impossibilità tragica di risolversi ad agire, in stridente contrasto con l’allora predominante modello antropologico dell’homo faber fortunae suae[1].

Gli stoici hanno maggiormente insistito sulla contrapposizione tra passione e ragione, producendo tutto un sistema di regole e pratiche per la medicina dell’anima “impossessata”; ma – e la cosa si fa ancor più interessante dal momento che la morale stoica è per intero confluita nel cristianesimo – le terapie dell’anima o, come le ribattezza Foucault, le tecnologie dell’anima, avevano principalmente una funzione di prevenzione, dunque erano pedagogicamente destinate all’autogoverno dei neofiti.

L’attenzione e la dedizione con cui l’Occidente greco-romano si è dedicato al controllo delle passioni non verrà meno neppure successivamente, nell’Europa cristiana. Ciò che noi siamo oggi, altro non è che il risultato della sedimentazione di pratiche di autogoverno, correzione e costrizione. Lo aveva detto già Freud, sanzionando il disagio della civiltà come il più consistente tributo pagato dal genere umano alla civilizzazione. E, prima di Freud, anche Nietzsche, secondo cui la morale è un colpo al cuore alla ferinità dell’uomo, alla sua spontaneità vitale. Inibire la passioni, soffocandole o dirigendole verso obiettivi leciti, è ciò che assicura la stabilità di una certa comunità o la fa nascere e qui non si può non pensare ad Hobbes: la paura reciproca degli uomini li spinge a consorziarsi. Se la paura fonda la socialità umana e si placa attraverso leggi e contratti, non è affatto detto che sparisca all’atto di nascita della nazione. Anzi, la Storia mostra il contrario: la paura ha sempre giocato un ruolo di primo piano nell’indirizzare le scelte degli uomini e, con esse, la loro stessa storia. Esistono degli istinti primari che nessun dispositivo di controllo e disciplinamento può rimuovere. Sono le nevrosi a dimostrarlo: la psicanalisi ha fatto ampia luce sulla diffusione delle patologie psichiche dovute all’interdizione del desiderio[2], componente grezza, cioè inconsapevole e irragionevole, che il soggetto patisce. Il complesso edipico è solo la prima delle interdizioni a cui il soggetto deve sottostare; in altri termini, la fonte primaria del disagio della civiltà, una civiltà in cui le passioni sono avvertite come minacce all’equilibrio soggettivo e all’ordine sociale. In un certo senso, è vero che le passioni possono turbare gli animi fino allo sconvolgimento dell’ordine costituito. La Rivoluzione Francese ne offre una riprova. Quando il disagio ed il malcontento popolare si catalizzano verso un punto di non ritorno, allora accade qualcosa di inimmaginabile. Ogni rivoluzione dal basso si produce sull’onda di forti emozioni che producono uno spazio di rivendicazione da cui si ricava altro spazio, quello dell’alternativa allo status quo. Alternativa non solo più immaginata, dunque, ma anche concretamente progettabile. Nello iato tra la realtà e l’utopia, le emozioni scoprono il possibile, come possibilità dell’altrimenti. La progressiva separazione dell’uomo dalle sue passioni, l’incivilimento del desiderio, ha operato per la soppressione dell’alternativa all’esistente. Se la fantasia non è al potere, ma perennemente in esilio, chiaramente a tenere banco nel discorso pubblico è il vocabolario grigio e apatico dei tecnici e dei burocrati. Come sempre avviene, una certa supremazia culturale, un pensiero dominante, vive solo se elabora un suo specifico linguaggio e lo impone all’altra parte, affinché la sudditanza sia anzitutto espropriazione linguistica, desiderio irrappresentabile, e su questo punto Orwell ha dato un contributo impagabile. Un esempio pratico: prima della crisi, erano davvero in pochi – studenti, addetti ai lavori e cultori della materia – a conoscere il significato dello spread e dei meccanismi finanziari che lo regolano. Allo stato attuale, dopo cinque anni di bombardamento mediatico, lo spread è diventato un termine molto frequentato, attorno al quale si è addensata la paura collettiva. Responsabile del suo aumento, e quindi di un quasi certo fallimento italiano, la speculazione condotta da non si sa bene quali pescecani della finanza internazionale. Il timore dello spread – come paura dello spread e paura per lo spread – misurato in apertura e chiusura dei mercati, come si fa con l’influenza al capezzale del malato, è diventato lo spettro che aleggia sulle nostre teste. A causa della crisi si licenzia, aumenta la cassa integrazione, i consumi si contraggono. Ora, sebbene tutto ciò sia incontestabilmente e tristemente vero, non è possibile limitarsi a questo superficiale livello d’analisi. Scavando più a fondo, si può osservare che, come capita nelle più grandi catastrofi – che si tratti della ricostruzione postbellica o di uno sconvolgente terremoto poco importa – per molti la crisi è stata un’opportunità ghiotta. Più o meno quel che succede quando i proprietari di una bella e immensa villa danno un rinfresco con centinaia di invitati. I ladri, approfittando della distrazione, si intrufolano in casa e ne escono con un bottino sostanzioso. In altri termini, agitando la paura, si catalizza l’attenzione dell’opinione pubblica su un solo aspetto della questione. Si finisce così per (far) credere che non c’è alternativa al rigore, all’austerità, ai tagli alla spesa pubblica. E se invece fossero proprio i tagli, l’austerità e il rigore ad aggravare e prolungare la crisi? Se, in altri termini, vi fosse la volontà politica di lasciare immutata la situazione, così da poter continuare ad insistere con questo lessico del sacrificio?

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A prima vista, sembrerebbe che il disciplinamento delle passioni abbia ben poco a che fare con la più grande crisi economica dell’Occidente dal 1929. E invece le due cose sono strettamente concatenate. Se, come ha ampiamente dimostrato Foucault[3], la civiltà occidentale ha proceduto nella strutturazione del soggetto tralasciando uno dei due principi cardine dell’antichità classica – la cura di sé – e dando ampio spazio all’altro – il conosci te stesso – non è azzardato sostenere che con la Modernità, inaugurata da Cartesio e dal suo Cogito, una importante componente della vita dell’individuo – cioè le passioni, il mondo degli affetti – è forclusa, rimossa, per dirla con Freud. Dato che le passioni sconvolgono l’equilibrio interiore di ognuno, è necessario riportarle al controllo razionale (Cartesio) o addirittura estirparle (stoicismo). Ma cos’è un uomo senza i suoi sentimenti, le sue emozioni, la sua immaginazione? Nulla, o meglio, un automa pronto ad essere indottrinato, sfruttato, piegato ad orari di lavoro massacranti. Vi è della schizofrenia nel controllo delle passioni: una parte dell’individuo, la ragione, è aizzata contro un'altra parte di sé, i sentimenti. Il lutto derivante dalla perdita di una parte del Sé si perpetua con l’interiorizzazione del divieto che concede praterie al senso di colpa e stimola l’attaccamento alla Legge. La schizofrenia melanconica del soggetto si approfondisce e si divarica in una frattura tutt’ora irrisolta dall’Occidente. È per questo che si finisce per sopravvivere nonostante la mutilazione della propria identità, cui colpevolmente si collabora, e a non poter più fare a meno dei vincoli e delle prescrizioni della Legge. Il prezzo da pagare è la “criminalizzazione” del corpo, la sua continua mortificazione, che porta presto al disprezzo della carne e dei suoi appetiti. Ciò che il corpo reclama è fonte di pericolo per l’anima, perché induce alla tentazione: di qui la castità, i digiuni, le penitenze corporali che rendono, per citare Foucault, il corpo prigioniero dell’anima. L’ascesi dei gesuiti si serve dell’immaginazione per costruire nel soggetto la ferma volontà di non peccare. Prefigurandosi le fiamme dell’Inferno e le punizioni tremende che toccano ai peccatori nell’altra vita, si “solletica” dall’interno la paura, per ottenere la cieca obbedienza al magistero. L’uso dei sensi negli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola evidenziano quanto e come il corpo venga investito dal potere in età moderna. Il processo di soggettivazione, inaugurato dal Cogito cartesiano e paradigmaticamente assunto come inizio della modernità filosofica, finisce col coincidere sempre più con un assoggettamento dei corpi, ottenuto dall’insinuarsi del potere nelle menti. Celebri sono le analisi di Marcuse a riguardo e non è certo per un caso che all’origine della psichiatria vi sia stata la diagnosi della follia come un disordine delle passioni[4]. Il pregiudizio plurisecolare, millenario, contro le passioni – per Aristotele, la tragedia doveva produrre la catarsi delle passioni nello spettatore, dapprima mettendolo a conoscenza delle vicende tragiche dell’eroe, col quale finiva per identificarsi, e poi, a conclusione dello spettacolo, quando tutto aveva trovato una spiegazione razionale, sollevandolo dalla tensione, allontanando la paura – le ha relegate in uno spazio marginale, poco frequentato dalla filosofia, molto più praticato dalla letteratura. Eppure, la storia, quella passata e quella più recente, dimostrano quanto ne abbia abusato la politica. Sotto questo aspetto, la Rivoluzione Francese è illuminante: l’uso della violenza dal basso al fine di realizzare la Grande Nation, il cui modello è la Roma repubblicana, non si limita solo alla lotta, ma prova a costruire un orizzonte, attraverso dei veri e propri shocks emotivi che risveglino quella parte di popolo abituata alla prostrazione e alla sudditanza. Ma esercizi spirituali collettivi, rappresentazioni teatrali di opere che promuovano le virtù civiche, esecuzioni pubbliche dei nemici del popolo, l’annuncio quasi profetico di un futuro di libertà, eguaglianza e fraternità naufragheranno prima nel Termidoro e poi nella repressione che affilerà le armi dei reazionari. Eppure quell’afflato universalistico, che aveva animato la Francia fino al 18 brumaio 1799, lungi dall’essersi esaurito, continuerà ad animare le rivolte delle “passioni rosse”[5] che verranno. Perché se la politica è passione per la cosa pubblica e le passioni sono le sfumature di senso con cui ciascuno colora a modo suo la realtà, allora ogni passione ha una insostituibile funzione positiva.

Ricercando lo shock emotivo e con esso la contaminazione – il contagio della virtù repubblicana – i giacobini furono capaci di disegnare e dare inizio ad un progetto politico che è tutt’oggi vivo, come loro lascito alle generazioni future. Con parole di Robespierre: «Questa gloriosa rivoluzione dovrà far tremare il mondo per rigenerarlo»[6].

Anche lo spread per molto tempo ha fatto tremare le vene ai polsi di politici, banchieri e finanche quelle dell’attonito ed impreparato pubblico dei notiziari. È quindi all’orizzonte una rigenerazione del mondo? Spesso, come un mantra, ci hanno ripetuto che in greco crisi ha anche il significato di opportunità. Ricorrervi come possibile risposta per questa domanda è banale. Mentre gli esperti si affannano a ripetere che la ripresa si intravede e dobbiamo cercare in ogni modo di agganciarla, si tralasciano le devastanti ricadute sociali della crisi, fingendo di non vedere cosa e chi ha lasciato a terra. Qui non si agita più la paura, ma una flebile speranza che deve invogliare i consumi delle famiglie e la fiducia degli investitori. Per cinque anni il mondo del capitalismo avanzato è stato in guerra e quella guerra l’ha perduta: è questo quello che si vuole ignorare. Ma non possiamo permettercelo. Continuare a illudere gli elettori che esistono ricette miracolose per riportare il consumismo ai suoi anni ruggenti serve a ben poco: la coperta è corta. Ciò che occorre davvero sarebbe iniziare a dire la verità. Paradossalmente, una società così incline alla misura – nel senso greco di moderazione – delle passioni, così avvezza all’uso della ragione, vive di superstizione – nel senso originario del termine – e menzogne. La capacità di calcolare i rischi, prevedendo le perdite e ottimizzandole, non è servita a molto nel mondo dell’economia reale e non ha evitato lo sconquasso sociale. Se pure ancora vi fosse stato, fino a pochi anni fa, qualcuno disposto a sostenere che la Storia procede verso il progresso, non sarebbe più dello stesso avviso. È in atto una regressione cruenta che la maggioranza sta subendo proprio come una passione improvvisa, senza riuscire a trovare la lucidità necessaria per organizzare un’altra via, per tratteggiare un nuovo orizzonte, disegnare un’alternativa possibile. È il sonno delle passioni ad aver generato i mostri di oggi! Riprendere in mano il futuro è possibile a patto di affrontare il presente: l’immaginazione, come sosteneva Spinoza, non è solo fantasia, ma lo stadio iniziale delle conoscenza. La felicità è un diritto di tutti ed è felicità solo se sono tutti a beneficiarne: stimolare gli affetti, lasciando che arricchiscano il conatus vivendi, per transitare verso costellazioni di possibilità non preventivate né preventivabili dalla mera ratio, consente al saggio di perfezionare il proprio stato e scoprire la gioia autentica, quella che non fluttua, non passa e non si consuma. In tal modo, indica la strada alla comunità, la libera dalla tirannia di sentimenti contrapposti e oscillanti (il metus incostans e la spes incostans) che inibiscono la vis existendi collettiva. Tutto questo al costo di nessuna rinuncia, anzi, all’opposto, al prezzo di non rinunciare mai neppure ad una ed una sola passione.

 

SETTEMBRE 2013

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Bibliografia

 

- R. Bodei, Geometria delle passioni, Feltrinelli, Milano 2003.

- J. Butler, La vita psichica del potere, Meltemi, Roma 2005.

- M. Foucault, Gli anormali, Feltrinelli, Milano 2009.

- M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto, Feltrinelli, Milano 2011.

- S. Freud, Il disagio della civiltà, Bollati Boringhieri, Torino 1985.

- A. Touraine, Critica della modernità, Net, Milano 2005.

- S. Vegetti Finzi (a cura di), Storia delle passioni, Laterza, Roma-Bari 1995.

 


[1] Sono interessanti le considerazioni che sviluppa sull’Amleto shakespeariano e, in generale, sul teatro inglese, relativamente alla rappresentazione dell’eroe tragico e del suo dolore, Nadia Fusini nel saggio L’eroe tragico ovvero la passione del dolore, nella raccolta dal titolo Storia delle passioni, Laterza, Roma-Bari 1995.

[2] Vi è anche un’altra possibile sorte per il desiderio, la sua criminalizzazione. È ciò che capita al sorgere dell’istituzione giuridica moderna, quando medicina e legge si incontrano, rafforzandosi e legittimandosi a vicenda sulla pelle – letteralmente – dei soggetti anormali. Essi divengono pericolosi a partire dalla loro stessa natura di individui non normalizzabili, avulsi dalla norma, a-normali dunque. La risposta del Potere al pericolo che per la sua stessa vita essi rappresentano è non l’espulsione, ma un ancor più massiccio inglobamento degli anormali nella norma. Tale dinamica consiste nella criminalizzazione dell’individuo patologico e del suo desiderio che, in quanto desiderio del soggetto patologico, altro non può essere che desiderio patologico, desiderio a-normale per essenza. Siccome l’anormale è percepito come pericoloso per la normalità, allora il desiderio del patologico è desiderio criminale. Ma, come opportunamente sottolinea Foucault, quest’ultimo corrisponde, soddisfa per essere precisi, il desiderio del crimine che anima la solerzia dei giudici e dei medici. Cfr. M.Foucault, Gli anormaliLezioni al College de France 1974-1975, in particolare, per un inquadramento generale del problema, le prime tre lezioni.

[3] Il riferimento è alla trascrizione delle lezioni tenute al College de France tra il 1981 ed il 1982 pubblicata da Feltrinelli col titolo L’ermeneutica del soggetto.

[4] Si veda in merito R. Bodei, Geometria delle passioni, Feltrinelli, Milano 2003, pp. 211-214.

[5] L’espressione, come anche molte suggestioni presenti nell’articolo, è tratta da R. Bodei, Il rosso, il nero e il grigio: il colore delle moderne passioni politiche, in Storia delle passioni, cit.

[6] Ibidem, p. 462.