Esperienza e rappresentazione
COSA SIGNIFICA SENTIRE?
Giulio Trapanese
Trascrizione
della prima parte del seminario tenuto l’11 Giugno 2013 all’Istituto
Italiano per gli Studi Filosofici.
Anzitutto non posso esimermi dal
ringraziare il prof. Gargano che ha voluto quest’iniziativa ed ha messo
su questo calendario di appuntamenti dal titolo
La forza dell’età.
Per quanto mi riguarda, intendo dare
valore a quest’occasione che mi è stata concessa presentandovi il
discorso della filosofia come un modo per pensare il nostro presente,
anche se questo può voler dire perdere una precisione filologica
assoluta.
Dopo il prof. Gargano, sento di dover
ringraziare sinceramente chi è venuto oggi qui, dovendo prendere anche
dei treni. Infine un ringraziamento importante va a chi con me condivide
il progetto della rivista «Città future», su tutti, coloro che lavorano
al tema di Esperienza e
rappresentazione.
Come si dice in questi casi, il merito
di molte cose che dirò è da condividere con loro, ma la responsabilità
delle imprecisioni e delle avventatezze del mio discorso dovranno essere
addebitate a me e alla mia fretta argomentativa.
Vorrei fare, adesso, una breve premessa.
È chiaro a molti di noi come ci troviamo
a vivere le nostre esperienze culturali in un modo a dir poco
frammentario, e, per questa ragione, le nostre riflessioni acquisiscono
una forma rapsodica, molto accidentale.
Personalmente ho cominciato a dedicarmi
a questi studi da almeno due anni, ma sono costretto ad interromperli
continuamente. Credo che uno studio e un confronto più continui
potrebbero generare risultati molti più fruttuosi di quanto si riesca a
fare in questa dimensione che definirei, con un termine molto in voga,
assolutamente precaria.
Qualche giorno fa, discutendo con Dario
della connessione che esiste fra la precarietà che interessa tanti
aspetti della nostra esistenza e il quadro strutturale costituito dalla
terza rivoluzione industriale basata sull’informatica, condividevamo il
fatto che siano veramente pochi coloro che intuiscono tale connessione.
In un certo senso, è questo ciò di cui
oggi vi vorrei parlare, attraverso alcune chiavi di lettura di stampo
filosofico. Il tema di cui vorrei parlarvi, infatti, non è un tema di
storia della filosofia. Come dicevo, si tratta di discutere
filosoficamente una delle più grandi trasformazioni che riguardano noi e
il nostro presente.
Negli ultimi decenni è cambiato,
infatti, qualcosa di essenziale nella sfera della nostra esperienza con
il mondo. Se ne possono avere le più svariate opinioni, ma è innegabile
che viviamo una trasformazione radicale. Ho provato in passato, ed
insisto, a circoscrivere tale trasformazione in modo particolare alla
sfera della temporalità del nostro esperire il mondo e noi stessi.
Dico questo perché pur non essendo
sicuro dell’adeguatezza di ciascuna delle riflessioni che vi proporrò,
sono tuttavia convinto del fatto che l’oggetto che propongo alla vostra
riflessione sia un oggetto importante, forse l’unico autentico oggetto
degno di riflessione al giorno d’oggi.
Due anni fa ho tenuto un seminario
presso
In buona sostanza, l’idea era che in
conseguenza di una radicale trasformazione del nostro rapporto con il
tempo e lo spazio del nostro esistere quotidiano, venivano a
trasformarsi anche i connotati dei concetti del nostro esperire e del
nostro rappresentare il mondo, con una netta sopravvalutazione di
quest’ultima dimensione rispetto alla prima.
Se, da un piano superficiale, la
moltiplicazione degli stimoli procurata dai nuovi mezzi di comunicazione
aumentava la nostra ricettività sensibile, d’altro canto essa finiva con
immobilizzare il piano concreto della temporalità soggettiva. Diciamo
che quel seminario si reggeva fondamentalmente sulla contrapposizione
imposta ai due termini di esperienza e rappresentazione. Nell’evoluzione
di questa ricerca si sono ovviamente presentati dei problemi e delle
nuove riflessioni. Proverò così adesso a presentarvene alcune, cercando
di rendere quest’appuntamento una sorta di laboratorio aperto alla
discussione di chi sia interessato a dare un contributo a tale ricerca.
Il punto da cui parte questo seminario è
il seguente: che cosa significa fare un’esperienza?
Se infatti, negli ultimi anni, nel
gruppo di ricerca, ci siamo abbastanza chiariti su cosa intendere per
rappresentazione, molta meno strada siamo riusciti a fare rispetto al
tema dell’esperienza e delle sue trasformazioni nel mondo di oggi. E non
credo che sia un caso.
Ciò che allora proverò a discutere oggi,
riguarda essenzialmente un’interpretazione di questo concetto attraverso
la categoria del sentire.
Vi indico come intendo procedere. Il
seminario si fonderà principalmente su tre riflessioni filosofiche e
avrà come base un testo di letteratura. Le tre questioni sono: il
concetto di simulazione, il rapporto fra le categorie di sentire, essere
ed appartenere, la rappresentazione come traccia d’assenza dell’essere.
D’altro canto, invece, il testo da cui partiremo e che potrà offrirci
non pochi spunti sarà Ma gli
androidi sognano pecore elettriche? di P. Dick, edito nel 1968.
Per presentarvi brevemente questo grande
romanzo di Dick, posso dirvi che in esso ci troviamo proiettati in una
società del futuro (futuro rispetto all’anno in cui fu scritto).
È il 1992,
infatti, e ci troviamo a San Francisco. Si tratta d’un romanzo edito
alla fine degli anni sessanta, ed è stato scritto, per chi non lo
conoscesse o non avesse mai letto Dick, da un autore statunitense che ha
saputo, tra gli altri suoi meriti, descrivere in modo acuto la
trasformazione dell’esperienza umana in rapporto al fenomeno crescente
della robotizzazione e della meccanizzazione della stessa.
Il motivo principe per cui assumeremo un
testo di Dick come riferimento è che attraverso il suo scritto potremo
spostare l’angolo della nostra visuale in un luogo e in un tempo dove il
nostro presente ha cominciato ad esistere prima di quando non sia
divenuto attuale anche per noi. Molte cose, in questa maniera, ci
potranno essere più visibili e potremo discuterle più agevolmente.
Una volta ricostruita la trama e il
contesto del romanzo, introdurrò la prima delle tre riflessioni che vi
ho anticipato.
Nel romanzo di Dick la terra, dopo una
guerra mondiale, si presenta spopolata di uomini e di animali, dei quali
la maggior parte delle specie si sono estinte. Al contempo molti esseri
umani sono emigrati su altri pianeti sotto l’invito dell’onu,
che ha promosso diverse campagne di colonizzazione. La dimensione è
quella di una profonda desolazione, materiale e psicologica, che
interessa più o meno tutti: sia chi è rimasto sulla terra, perché non ha
potuto fare altrimenti, sia chi è andato via, ma si è condannato ad una
vita apparentemente più sana ma, al contempo, più fredda e desolata.
L’umanità dispersa mantiene un tratto in comune, la nostalgia. In forme
diverse, e più o meno coscienti, ciascuno avverte che una certa stagione
dell’umano è tramontata, non se ne sanno dare una vera spiegazione e,
tutto sommato, accettano passivamente il nuovo stato di cose.
Lo stesso sentimento della nostalgia non
è sentito in modo chiaro. Appare solo in alcuni momenti, e in forme
camuffate. Nelle parole di Dick, la nostalgia stessa è qualcosa che può
essere intuita, pensata, ma non sentita sinceramente.
Di tale nostalgia si danno evidentemente
una serie di tentativi di compensazione. Della vita e delle relazioni,
che non ci sono più, si cercano forme di sostituzione nelle forme
artificiali di vita, che siano umane o animali. La società del futuro è
giunta infatti, grazie alle sue conoscenze tecnologiche, a costruire, da
un lato, androidi, dall’altro, animali artificiali.
Gli androidi, in particolare, sono
oggetti artificiali costruiti dagli uomini, secondo il principio di
somiglianza. Tuttavia, ciò che ad essi manca per costituzione (ovvero
per fabbricazione) è la capacità di provare empatia, ovvero la capacità
di sentire l’altro.
P. Dick ci presenta così, nel suo
romanzo, due tipi di esperienze che coesistono nello stesso scenario
spazio-temporale: quella degli uomini e quella degli androidi. Il tratto
autenticamente originale del romanzo è tuttavia la dimensione di
confusione che si viene a creare tra le due, dove agli androidi che
vorrebbero essere come gli uomini si affiancano gli uomini che finiscono
con l’accettare un’esistenza sempre più simile a quella dei nuovi
soggetti androidi.
Il titolo del romanzo,
Ma gli androidi sognano pecore
elettriche?, che corrisponde così a “Ma gli androidi, che non sono
vivi, sognano qualcosa di vivo o di non vivo?”, al termine della lettura
del romanzo può essere tradotto in “Ma gli uomini sognano ancora altri
uomini, o sognano anche loro qualcosa di elettrico, ovvero di
artificiale?”.
Ho selezionato per voi alcune brevi
parti del romanzo. La prima che vi sottopongo presenta il protagonista,
il cacciatore di androidi Rick Deckard, nel proprio appartamento in
compagnia della moglie Iran. Al centro è chiaramente il tema del
rapporto con il sé e con la manipolazione delle proprie emozioni e del
proprio sentire.
Nella prima pagina del testo che vi ho
dato, subito dopo leggiamo:
«Me ne stavo seduta qui
in un pomeriggio, disse Iran, come al solito ero sintonizzata su
Buster Friendly e i suoi simpatici amichetti e lui stava parlando di
una grande notizia che era sul punto di dare, quando si è inserita
quell’orribile pubblicità, quella che odio, quella della braguette
in piomb Montiblanc. Così per un minuto ho tolto l’audio, e ho
sentito il palazzo, ho sentito gli…», fece un gesto per indicare tutto
intorno a sé. «appartamenti vuoti», completò la frase Rickard. A volte
anche lui li sentiva di notte, quando avrebbe dovuto essere già
addormentato, eppure a quell’epoca un condapp (cioè un
appartamento condominiale) abitato a metà, si collocava nella parte alta
della classifica della densità abitativa. Fuori, in ciò che prima della
guerra era stata la fascia suburbana si potevano trovare edifici
completamente vuoti, almeno, così aveva sentito dire. Aveva lasciato che
quell’informazione rimanesse di seconda mano, come la maggior parte
della gente, non ci teneva a farne esperienza diretta[1].
Qui comincia la scena su cui, in
particolare, intendo soffermarmi:
«In quell’istante»,
continuò Iran, «quando ho tolto l’audio, ero di umore 182. Avevo appena
composto il numero. Benché percepissi intellettualmente quel vuoto, non
lo sentivo».
L’umore, in questo caso, può essere
prodotto attraverso ciò che noi oggi chiameremmo un software.
Questi programmi infatti, collegandosi all’organismo umano, ne
riconoscono l’umore in una scala decodificata e sono in grado di
trasformarlo, attraverso l’inserimento di appositi codici.
La scena che segue è di una sottile
drammaticità:
«La prima reazione è
stata ringraziare il cielo che ci potevamo permettere un modulatore
d’umore Penfield. Poi mi sono resa conto di quanto fosse malsano
percepire l’assenza di vita, non solo in questo palazzo, ma ovunque, e
non reagire, capisci? Credo di no. Questo una volta veniva considerato
segno di malattia mentale».
In passato dunque, era considerata una
malattia mentale il percepire intellettualmente qualcosa, senza che esso
venisse in qualche modo sentito. Quindi aspirare a sentire, voler
sentire, ma non propriamente sentire.
«… segno di malattia mentale. La
chiamavano assenza di affetto adeguato…».
In alcuni saggi, trascrizione di alcune
conferenze di quegli anni settanta, Dick scriverà che considera questa
una malattia mentale di forma schizoide; con tale categoria, egli
precisa, intende la tendenza ad intellettualizzare il mondo, senza la
capacità di farne effettivamente un’esperienza sensibile.
Vi invito a tenere presente quest’ultima
frase perché costituirà la base per la prima delle nostre riflessioni:
«Così ho lasciato l’audio a zero, e mi sono messa alla tastiera del
modulatore per fare qualche esperimento».
La sottile drammaticità di questa parte
continua anche nelle righe seguenti: «alla fine ho trovato la
combinazione della disperazione».
La peculiarità della personalità di Iran
è che intuisce il vuoto, molto più, ad esempio, di Rick, ma la sua
esperienza rimane, in ogni caso, un’esperienza fondamentalmente
intellettuale. Intuendo il vuoto presente alla base della propria
condizione, pur non riuscendo a sentire la disperazione, Iran
mentalmente vuole essere disperata. In questo modo, grazie all’aiuto
della macchina, programma la disperazione come proprio stato emotivo.
Il volto scuro,
spavaldo mostrava soddisfazione come se avesse conseguito un grande
risultato. «E così l’ho messa in agenda due volte al mese. […] Ritengo
sia un lasso di tempo ragionevole per disperarsi di tutto, di essere
rimasti qui, sulla terra, dopo che chiunque fosse sufficientemente
sveglio è emigrato. Non credi?».
E il marito le risponde: «ma in uno
stato d’animo così finisci che ci rimani dentro, non digiti più un
codice per uscirne. Una disperazione del genere sulla realtà globale si
auto-perpetua».
Ma lei dice: «io programmo un codice
automatico per tre ore dopo [...]. Consapevolezza delle molteplici
possibilità che mi si aprono davanti per il futuro; nuova speranza
che…».
La situazione in cui ci troviamo è,
dunque, quella per cui ad ogni stato d’umore può poi seguirne un altro
solo, a patto che venga programmato in anticipo perché, d’altro canto,
dal di dentro diventa quasi impossibile cambiare la situazione.
In questo modo si prova ad operare una
programmazione di ciò che, nel rapporto tradizionale dell’uomo con sé,
era considerato non preventivabile a priori, ovvero la propria relazione
con il mondo circostante[2].
La scena termina poi con Rick che
accende la televisione e con lei che gli dice: «non sopporto la
televisione prima di colazione»; e lui le risponde: «fai l’888,
desiderio di guardare
Introdotto così il romanzo di Dick,
credo si possa passare alla seconda parte del seminario, una parte più
densa e in cui vi proporrò alcune tesi filosofiche.
La prima si riferisce al tema della
simulazione. Il romanzo di Dick è stato scritto nella seconda metà degli
anni sessanta, ed in esso si presenta in forma chiara il problema
relativo alla scissione fra sentire e agire. In particolare, nel quinto
capitolo del romanzo, Rick Deckard compie un test volto a diagnosticare
di una persona se si tratta di un essere umano o di un androide. Nel
romanzo questo test è indicato con il nome dei suoi artefici
Voigt-Kampff (si tratta, infatti, di un test d’origine russa legato alla
psicologia pavloviana).
Dal momento in cui l’androide del
modello Nexus 6 è stato progettato per conoscere perfettamente
quali siano le risposte che dà un umano (anche meglio di un umano), la
questione per chi compie il test, più che segnare la risposta data, è
valutare altri elementi di tipo psicometrico, relativi al tempo di
risposta e alle variazioni fisiologiche[3].
Aggiungo, per inciso, che risulta
interessante come nel romanzo (un romanzo, in questo senso, molto
americano), il discrimine fra verità e finzione possa essere individuato
solo in chiave psicometrica e fisiologica[4].
In questo modo, se il soggetto ci
impiega troppo tempo a rispondere, o se la sua risposta è troppo
impersonale, oppure alla risposta non corrisponde un’adeguata
dilatazione o contrazione della pupilla, ciò sta a significare che al di
là della rappresentazione verbale di ciò che dice, quanto è espresso dal
soggetto non gli appartiene effettivamente. Questo perché, non essendo
umano, non avverte dal punto di vista sensibile ciò che dice, ma lo
esprime in modo astratto, solo attraverso delle parole che
intellettualmente si confanno alla domanda fatta.
Ora vi leggo velocemente questa parte,
prima di proporvi la prima riflessione: cosa significa simulare?
Rick, scelta la domanda
numero 3 disse all’androide (a quella che poi si rivelerà un androide):
«Per il suo compleanno le regalano un portafoglio di cuoio [il cuoio
dovrebbe generare ribrezzo in quanto pelle di animali]». Entrambi i
quadranti registrarono una risposta che superava il settore verde e
arrivarono nel rosso. Gli aghi sventagliavano con violenza e poi si
fermarono.
Dunque, sembra esserci una risposta
emotiva.
Rachael, l’androide,
risponde: «non l’accetterei, e poi denuncerei alla polizia, la persona
che me lo ho dato». Dopo aver buttato un appunto, Rick continuò passando
all’ottava domanda del questionario di Voigt-Kampff. «Suo figlio le
mostra una collezione di farfalle ed anche il barattolo che usa per
ucciderle». Lei risponde: «Lo porterei dal dottore».
Uccidere degli animali, dunque, secondo
un ragionamento un po’ semplicistico, è considerato tout court
segno di inumanità[5].
La voce di Rachael era
bassa, ma ferma. Di nuovo le due lancette registrarono una risposta, ma
stavolta non andarono altrettanto lontano. E annotò anche questo. «Ok»,
disse lui annuendo. «Vediamo quest’altra. Sta leggendo un romanzo
scritto ai vecchi tempi prima della guerra. I personaggi sono al
Ficherman‘s market di San Francisco. Hanno fame, e così entrano in
un ristorante famoso per il pesce. Uno di loro ordina un’aragosta e lo
chef tuffa il crostaceo in una pentola bollente sotto gli occhi di
tutti». «Oddio!», esclamò Rachael. «Facevano davvero così? Che orrore,
che perversi. Ma davvero un’aragosta viva?», le lancette, però, non
reagirono. Dal punto di vista formale, una risposta esatta, ma simulata.
Un’aragosta, ovvero un animale cotto
vivo, suscita una certa sensazione. La risposta, dunque, può essere
annoverata fra quelle giuste, tuttavia, secondo lo strumento, non
presenta una corrispondenza con il sentire.
L’ultima domanda di questo test, in
realtà la più interessante, è divisa in due parti:
«Sta guardando un
vecchio film alla televisione, un film prima della guerra. Siamo nel
pieno del banchetto, e gli ospiti degustano delle ostriche crude». «Che
schifo!», esclamò Rachael, e gli aghi scattarono veloci. «Il piatto
principale», continuò Rick, «era cane bollito con ripieno di riso» e gli
aghi si mossero poco stavolta, meno che per le ostriche crude. E lui le
dice allora: «per lei le ostriche crude sono più accettabili di un
piatto di cane bollito? Evidentemente no».
Il punto, dunque, è che qualcosa di
crudo, soltanto dal punto di vista del suo concetto, richiama l’inumano.
Cuocere un animale crudo è un fatto così da considerare scabroso, ma è
evidente come si tratti di un discorso astratto, dal momento che nella
consuetudine l’ostrica è mangiata anche cruda, mentre il cane, per
quanto possa essere bollito, non è considerato dalla maggior parte della
popolazione mondiale un animale da servire a tavola.
Questo scollamento dalla convenzione
sociale e questo mancato riconoscimento di una certa convenzionalità dei
costumi umani, interpretato quale segno di automatismo, fa decidere Rick
per la classificazione di Rachael come un androide. La sua rigidità è
considerata così un segno di inumanità.
Detto questo, la prima riflessione che
vi propongo, suggeritaci da Dick, riguarda la differenza qualitativa
essenziale tra ciò che si dice sentendolo e ciò che, invece, viene
espresso o rappresentato, ma in modo astratto ed esteriore. Con le
categorie del vecchio seminario, possiamo dire che l’androide, pur non
avendo un’esperienza propriamente umana, sa e può rappresentarsela e,
dunque, simulare di averla. L’androide, quindi, può imitare l’uomo.
P. Dick ha posto così, a modo suo, e
attraverso una grande vena narrativa e un estro immaginativo, alcune
questioni poste anche da filosofi della nostra contemporaneità.
Dicevo l’altro giorno con Dario
Malinconico, Sartre stesso in Essere e nulla affronta questo tema; si tratta del celebre passo in
cui ci descrive l’atteggiamento d’un cameriere che gioca a fare il
cameriere. La descrizione che ci offre Sartre è quella di un individuo
che si muove in modo pronto ed agile, che sembra avere un’immagine di sé
definita e netta.
È fin troppo cameriere e sa, perfettamente, come agisce e
come dovrebbe agire un cameriere.
Tuttavia non è un cameriere, nel senso
che non è naturalmente un cameriere. Piuttosto gioca a farlo, imita un
cameriere. In questo caso, pur essendo di fatto un cameriere, il suo
ruolo nel mondo non corrisponde all’interiorità. La sua immedesimazione
è con qualcosa d’altro: egli è talmente immedesimato con quello che fa,
che la sua immedesimazione risulta forzosa, ostentata.
Dunque, la domanda che pongo è: cosa
significa simulare di essere? Cosa significa agire ma senza sentire ciò
che si fa?
Se il cameriere di Sartre gioca a fare
il cameriere, c’è evidentemente qualcosa in lui che manca rispetto a chi
è cameriere senza giocare a farlo.
L’interesse di questo discorso credo
risieda nel fatto che la nostra condizione odierna ci porta ad essere
molto preparati su cosa debba essere fatto, o debba essere detto,
secondo un certo canone normativo. Abbiamo costruito, d’altro canto,
macchine che decodificano ciò che è umano (dunque, ciò che deve esserlo)
rispetto a ciò che non lo è. Con l’intelligenza artificiale abbiamo
astratto l’intelligenza dalla base naturale della vita, creando così
della macchine che, se pur non vive, riteniamo comunque intelligenti e
alle quali lasciamo decidere cosa può essere accettato come umano e cosa
no.
L’intelligenza artificiale è divenuta
oggi il modello implicito d’ogni altra intelligenza.
D’altro canto, osservando l’evoluzione
delle specie animali, e in particolare della specie animale che è
l’uomo, possiamo riconoscere come l’intelligenza si vada presentando
come una funzione della vita: essa sorge cioè all’interno del circolo di
senso e di valore costituito dalla dimensione vita e, dunque, non può
essere astratta da tale base naturale senza che si modifichi
sostanzialmente.
Proiettare l’intelligenza in qualcosa di
non vivo rende l’intelligenza stessa qualcosa di diverso e, forse, di
non vivo.
L’androide stesso, dunque, rappresenta
una forma assai evoluta di intelligenza. D’altro canto le macchine dei
nostri giorni sono, almeno da un certo punto di vista, più capaci di
noi, nel senso che hanno più memoria, sono più veloci dell’intelligenza
che le ha generate.
Questo piano di sviluppo
dell’intelligenza, in qualche modo, si regge quindi su di una
rappresentazione di una modalità d’essere originaria dell’uomo cui non
corrisponde però, necessariamente, un sentire di essere. Dunque, alla
base del suo aumento non si presenta una maggiore pienezza di questo
essere stesso.
Devo, tuttavia, dare ancora la mia
risposta alla domanda relativa a cosa senta il cameriere di Sartre; darò
una risposta in chiave negativa. Credo anzitutto che egli non senta, e,
in modo particolare, non senta di sentire il vuoto, cioè di sentire di
non trovarsi affatto a suo agio dove si trova. Non arrivando a sentire
questo, finisce con il rifugiarsi nella rappresentazione di una certa
immagine di sé.
Giuseppe Di Stefano:
Ma il cameriere deve essere cameriere…
Sì, ma soltanto nel senso che se lo
autoimpone, poiché non è certo costretto da qualcosa di esterno ad
esserlo. Riducendo, però, l’autocoscienza sensibile di ciò che prova o
di ciò che non prova – ricordate l’introduzione al romanzo di Dick – si
rifugia in un’immagine che gli è esterna.
Con questo terminiamo lo spazio dedicato
a questa prima riflessione e, se non ci sono altri interventi, possiamo
andare avanti con la seconda, che costituisce il punto di riflessione
più denso di questo seminario.
Introdurrò ora alcuni personaggi del
romanzo di cui non vi ho ancora fatto menzione. Il primo è Isidore, uno
“speciale” (cioè dotato di un’intelligenza inferiore per via della
polvere radioattiva) il quale lavora in una ditta che costruisce animali
artificiali.
L’altro è invece Mercer, personaggio con
caratteri reali affiancati ad altri più fantastici, rappresentante della
capacità empatica di cui ancora una parte dell’umanità si sente
detentrice. Nuova figura di Cristo in forma post moderna, rappresenta il
modello di chi si sacrifica per gli altri: egli, infatti, è impegnato in
un proprio percorso di ascesi e di sofferenza, grazie al quale tutti gli
altri, collegati con lui attraverso una scatola empatica, possono
sentire le emozioni degli altri, in un’esperienza che si oppone al vuoto
che li sovrasta quotidianamente[6].
Il titolo che ho dato questa seconda
parte è il seguente: Non è possibile resuscitare i morti, cioè sentire, essere, appartenere[7].
Partiamo ancora dal romanzo. In questa
scena del romanzo R. Deckard, dopo aver concluso il suo lavoro di ritiro
degli androidi, si trova lontano, sperduto in un qualche angolo della
costa Ovest degli Stati Uniti.
«Rimisi a posto il
ricevitore senza togliere gli occhi dal punto oscuro che si era mosso
fuori dalla macchina. Nel terreno, in mezzo alle pietre, c’era come un
rigonfiamento. Un animale», disse fra sé. E il suo cuore perse qualche
colpo, sotto il peso eccessivo, lo shock del riconoscimento. «So che
cosa è», si rese conto all’improvviso. «Non ne ho mai visto uno prima,
ma lo riconosco da uno di quei vecchi documentari naturalistici che
mandano in onda sulla rete del governo. Ma sono estinti!», esclamò
dentro di sé. Tirò subito fuori la copia ormai consunta del Sidney[8].
«Rospo Bufonidae tutte le varietà». Era estinto ormai da anni. La
bestiola più cara a W. Mercer, insieme all’asino. Ma il rospo veniva
prima di tutti.
Dopo aver preso e portato via con sé
questo rospo, una volta giunto a casa, scopre, con l’aiuto della moglie,
che il rospo non è vivo, ma artificiale. Sopraggiunge così una grande
delusione.
La delusione
s’impossessò pian piano della sua faccia. «Ah beh, adesso capisco, hai
ragione tu». Avvilito, scrutò in silenzio l’animale finto, lo tolse
dalle mani di lei e giocherellò perplesso con le zampe, sembrava non
capire bene quello che era successo. Poi lo ripose con cura nella
scatola. «Chissà come ci è andato a finire in quella parte isolata della
California. Qualcuno deve avercelo portato, non c’è modo di sapere come
o perché». «Forse non avrei dovuto fartelo vedere che era artificiale»,
disse Iran. Iran gli allungò la mano, gli toccò un braccio. Si sentiva
un po’ in colpa, per via dell’effetto, il cambiamento che la rivelazione
aveva avuto su di lui. Rick risponde, tuttavia, con coraggio: «È
meglio sapere. O piuttosto... ». Tacque per un attimo. «Insomma,
preferisco saperlo».
Qui adesso troviamo la frase che vi ho
riportato, che a me sembra introdurre una riflessione importante quanto
al rapporto fra la vita e il sentire.
«”Non ho più quella impressione”, disse
lei. “Sono solo contenta, accidenti, di averti di nuovo qui, dove
dovresti essere”, riferita al marito. Lo baciò, e la cosa sembrò fargli
piacere. Il volto gli si illuminò, quasi quanto prima». Prima di capire
cioè che il rospo fosse artificiale.
«”Secondo te ho sbagliato”, chiese lui,
“a fare quello che ho fatto?”» – si riferisce
al ritiro degli androidi – «”No. Mercer ha detto che era sbagliato, ma
che avrei dovuto farlo lo stesso. Però è strano, a volte è meglio fare
la cosa sbagliata, piuttosto che quella giusta. È la maledizione che
incombe su di noi”, spiegò Iran. “Quella di cui parla sempre Mercer”.
“Vuoi dire la polvere?” chiese lui – s’intende la polvere radioattiva –
“no, gli assassini che lo hanno trovato quando lui aveva solo sedici
anni, quando gli dissero che non poteva far tornare indietro il tempo e
riportare in vita le cose».
Sembra, infatti, che nel suo passato
Mercer avesse il dono di far resuscitare i morti ma, al tempo stesso,
che egli abbia perso tale capacità a causa di una sorta di maledizione.
«Perciò ora non può fare altro che
lasciarsi trascinare dalla vita, e andare dove lo porta, cioè verso la
morte. E gli assassini gli tirano le pietre, sono loro che gliele tirano
e lo inseguono ancora. In realtà inseguono anche tutti noi. È stato uno
di loro a farti quel taglio sulla guancia, vero?»
Siamo ormai alla fine del romanzo, e mi
sembra che, arrivati a questo punto della lettura, si possa già
sostenere – come ho scritto nell’introduzione che vi ho distribuito –
che il motore del romanzo sia la ricerca di una qualche manifestazione
residua della vita, rappresentata dal desiderio di possedere un animale
vivo. Di certo non può essere considerata una scelta casuale da parte di
Dick quella di aprire e chiudere il romanzo con la rappresentazione
della modulazione dell’umore.
Nelle ultimissime righe del romanzo,
così, Iran chiama il negozio di animali artificiali e ordina del cibo
per il rospo artificiale che hanno deciso di tenere. Dunque il sogno
originario di Rick, relativo all’acquisto di un animale vivo, a
confronto con la realtà, si ridimensiona, orientandosi al possesso di
qualcosa di artificiale. Dunque, alla conclusione del percorso del
romanzo sembra che l’autore ci voglia suggerire come non siano solo gli
androidi a sognare pecore elettriche, ma gli stessi uomini a farlo, tra
cui Rick, accontentandosi di un rospo di fattura umana. Ormai il mondo
va in una direzione nuova, in parte imprevista agli stessi personaggi
del romanzo, la direzione di una radicale trasformazione di certi
aspetti dell’esperienza umana.
Si possono avere reazioni differenti
rispetto a tale nodo storico. Quella dell’autore (attraverso il
protagonista Rick Deckard) si riassume nell’invito di Mercer, la figura
del nuovo Cristo: bisogna andare avanti, seguire la direzione del flusso
temporale.
Dunque, la riflessione filosofica di
questa seconda parte riguarda il tema della vita e dell’univocità del
verso del tempo. Mercer, infatti, sostiene come ormai non sia possibile
resuscitare i morti, riportarli in vita. Dopo aver perso queste sue
capacità sovrannaturali, anche ai suoi occhi il tempo non può che
scorrere in un unico verso.
La riflessione che vi propongo si fonda
a partire da questi tre termini:
sentire, essere ed appartenere.
Cercherò di stabilire fra questi una certa relazione, spiegando in quali
termini ci sia lecito stabilire fra di essi una relazione di identità.
Quando ne ho parlato privatamente due settimane fa con Annelise
D’Egidio e Jamil Palumbo, ho sostenuto come ci sono una serie di
ragioni per le quali, nella dimensione dell’esperienza umana, fra
sentire ed essere, essere ed appartenere, e appartenere e sentire
sussista una circolarità di senso, che porta all’identificazione,
secondo un certo rispetto, di questi termini.
Credo, tuttavia, che si debba procedere
ad una chiarificazione preliminare delle ragioni.
Cominciamo dal termine del sentire, che
forse si presenta come quello di più difficile interpretazione. Si
tratta, infatti, di un termine che utilizziamo comunemente nella nostra
quotidianità, ma su cui abbiamo difficoltà a soffermarci con il
pensiero. Cosa vuol dire, infatti, che sentiamo qualcosa? In che modo
questo qualcosa si rapporta al nostro essere? In che senso noi siamo
implicati in ciò che sentiamo? D’altro canto è il nostro stesso presente
che ci conduce a queste riflessioni.
Nella nostra società, infatti, ci
troviamo di fronte ad una moltiplicazione dei livelli del sentire nel
senso che siamo di fronte alla moltiplicazione del numero di stimoli,
immagini, informazioni che giungono ai nostri sensi[9].
Dunque, da questo punto di vista, a chi
come me sostiene che ci troviamo di fronte ad un assottigliamento della
capacità del sentire, si potrebbe rispondere che viviamo piuttosto una
condizione contraria[10].
Il modo in cui vi propongo, tuttavia, di
intendere il concetto di sentire, non s’identifica con una mera
sensazione[11]. Considero
il sentire come qualcosa di connaturato alla vita, ancor prima di essere
un’espressione specifica dell’animalità[12]. Dunque il
sentire può essere considerato il trovarsi in accordo con quanto è
esterno a sé.
Sulla base di ciò, devo adesso proporvi
una distinzione che considero importante: la distinzione fra il semplice
sentire, ed il sentire di sentire.
Se con il sentire
tout court noi possiamo
intendere per l’appunto ciò che prima dicevo, con il sentire di sentire
dobbiamo orientarci a quella capacità di essere autocoscienti, di
ritornare su ciò che si è sentito. Risuonare con ciò che risuona in noi.
Affermare di sentire implica, in verità,
il sentire di sentire. Nel secondo caso si tratta di un processo, ovvero
dell’effetto della mediazione di sé con il proprio sentire.
In ciascuna delle dimensioni di vita,
noi siamo sempre senzienti. Lo siamo ovviamente quando siamo su
Facebook, e lo saremo anche quando fra duemila anni saremo così
accelerati da essere estremamente diversi da quelli di oggi. Fin quando
saremo vivi, e cioè la nostra vita avrà un inizio, noi saremo nella
dimensione del tempo. In questo ambito, l’ambito del tempo. Sentire è,
infatti, sentire qualcosa nel tempo; la fissazione di qualcosa in modo
stabile ha a che fare più con la capacità di rappresentare. Se io mi
rappresento un qualcosa ciò può anche rimanere identico a sé, perché la
posso fissare, dentro o fuori di me; mentre sentire ha a che fare con la
finitezza dell’esperienza in questione. Potrà durare un minuto, un’ora,
un giorno, un anno, o anche tutta la vita, ma quell’esperienza rimane
comunque legata a dei momenti. Essa sarà sempre in via di
trasformazione. Quindi sentire, da un certo punto di vista, è finire.
Se noi, dunque, sentiamo di sentire, ci
immettiamo in modo autocosciente nel flusso di sentire. Io riconduco
quest’esperienza ad un mondo pre-virtuale (o pre-androide, se vogliamo
dirlo con le parole di Dick). Non dobbiamo immaginare l’uomo che verrà
come un’entità del tutto scollegata dall’uomo che è stato, bisognerà
piuttosto definire l’elemento che sta cambiando di più (rispetto a tanti
altri che, invece, non stanno cambiando, come ad esempio le relazioni di
parentela, la costituzione della famiglia che, per quanto in crisi, oggi
mantiene la sua forma tradizionale). Nella superficie della coscienza
degli individui in società, invece, qualcosa cambia; ciò ha a che fare
con l’esperienza soggettiva del sentire di sentire, cioè con la
possibilità di questa possibilità di riconoscersi per quello che si è
nella propria natura. Per quanto ci riguarda, come esseri viventi ed
esseri umani, questo significa riconoscerci come essere finiti.
La citazione che vi ho riportato di P.
Dick. che l’autore attribuisce a W. Mercer, mi sembra possa essere
inserita nel nostro discorso. «Non è possibile resuscitare i morti»:
cioè, neanche un nuovo Cristo può resuscitare i morti. Perché? Perché
non è nella dimensione umana il resuscitare ciò che è morto, far
retrocedere il flusso temporale dell’esistenza delle cose. In altre
parole non è possibile astrarre dal sentire che è un flusso temporale.
Sentire di sentire è anche un sentire di morire.
Ed è questo, infatti, che i personaggi
di Dick non riescono più a fare. Essi non riescono più a sentire la
disperazione legata alla fine e all’estinzione della vita e degli
animali, alla solitudine.
AGOSTO 2013
[1]
Le citazioni del romanzo sono tratte da
Ma gli androidi sognano
pecore elettriche? In P. Dick,
Visioni dal futuro,
Fanucci, Roma 2006.
[2]
Dico così, come sottotitolo a questo discorso, che Dick è stato
un grande osservatore delle dinamiche di psichiatrizzazione,
medicalizzazione, reificazione della malattia mentale, anche, ad
esempio, rispetto all’uso degli
psicofarmaci. Va detto, tuttavia, come qui non c’è solo
il tema dello psicofarmaco, ma quello più generale, e più
subdolo, della manipolazione di sé nella sfera dei sentimenti.
[3]
Sottolineo come non si tratti solo di una questione di androidi,
quando oggi parliamo di verità e rappresentazione di verità. Si
tratta d’una questione che senz’altro riguarda il nostro
demandare tutto alla sfera dell’informatica.
In questa riproduzione di umano, quale l’androide, sembra che
qualcosa ci sia sufficiente a distinguere cosa sia umano, e cosa
non lo sia.
[4]
Criterio di discernimento, infatti, è quello della dilatazione
della pupilla e dei tempi di reazione delle risposte verbali che
vengono date.
[5]
Questi criteri sono indubbiamente anche risibili, e tutti
interni ad un punto di vista americano di verità, di
rappresentazione dell’umano. Il problema,. tuttavia, non è
quello. Il problema è se possano esserci dei criteri.
[6]
D’altro canto, anche Rick (per quanto solo alla fine del
romanzo), sua moglie Iran, lo stesso Isidore sono adepti di
questa sorta di nuova religione. Chi segue l’esperienza di
Mercer , diviene così presto sintonizzato non più solo sulle
frequenze della televisione o della radio, ma anche con quelle
che lo conducono, attraverso la scatola, a questo tipo di
esperienza collettiva, fondata su di una risonanza emotiva.
[7]
La prima parte è tratta dal romanzo stesso, anche se l’ho
tradotta con parole diverse, ma il senso rimane quello
sostanzialmente. È una frase pronunciata da W. Mercer, riportata
da Iran.
[8]
Manuale, oltre che prezzario degli animali finti.
[9]
Lessi una volta che il numero di informazioni che un uomo del
1820 riusciva ad avere in tutta una vita, noi oggi riusciamo ad
averlo in una sola giornata, attraverso la lettura di un
giornale. Non so se sia proprio così, tuttavia, mi sembra
evidente che assistiamo alla moltiplicazione di informazioni e,
dunque, anche di sensazioni in modo più o meno correlato.
[10]
Una condizione tale per cui ciò che i nostri nonni impiegavano
una vita intera a fare, oggi lo si riesce a fare in un solo
mese.
[11]
La sensazione, infatti, ha sempre a che fare con degli stimoli
ben circoscritti legati a degli oggetti. Il sentire è uno stato
d’essere, base soggettiva entro cui si colloca la nostra
esperienza.
[12]
Da un certo punto di vista, arriverei a dire che se lo
intendiamo in qualche modo come l’essere in risonanza con il
contesto, anche le pietre, i minerali, avrebbero forse uno
spazio nel capitolo nel sentire. La pietra non sente, come
intendiamo noi generalmente il sentire, però una pietra si
riscalda, si trasforma. In un certo rispetto, essa ha una vita.
Non sente come sente un animale, però è ricettiva.