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10
Maggio 2013

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Recensioni

SHERRY TURKLE, LIFE ON THE SCREEN

Annelise D'Egidio

 

Se oggi fosse ancora vivo, Heidegger non potrebbe più né scrivere né sostenere che l’uomo è l’«ente privo di mondo». L’enorme diffusione di Internet – il World Wide Web e l’aggettivo Wide meriterebbe d’essere analizzato a dovere – e, parallelamente, l’esplosione dei social networks hanno propiziato una vera e propria rivoluzione antropologica, che è sotto gli occhi di tutti quanti noi. Con buona pace di Baudrillard, l’iper-realtà si è tramutata in cyber-realtà e il villaggio globale è divenuto un cyber-villaggio a portata di touch. Su tutto ciò lavora e riflette la professoressa Sherry Turkle, un’esperta del settore, che da molti anni oramai analizza l’impatto della Rete sulle esistenze quotidiane degli individui. La vita sullo schermo[1] – questo il titolo del saggio – ripercorre per tappe l’Evento e ne documenta, presentando interviste e pareri, la ricezione, prevalentemente presso l’opinione pubblica statunitense. In linea di massima (e dai bambini in primis), la sensazione che se ne trae è di una generale soddisfazione rispetto alla tecnologia informatica: in parecchi affermano di aver avuto grazie agli incontri virtuali – i cyber-incontri – la possibilità di vivere un’altra vita, di essersene potuti cioè creare una radicalmente nuova e, cosa ancor più importante, deliberatamente scelta. Community, mud e chat sono divenuti collettori di raccolta ospitali per quanti non si sentivano a proprio agio nel mondo: l’adolescente timido, l’uomo di mezz’età per nulla piacente, la ragazzina paffutella ed impacciata, la donna, madre di famiglia insoddisfatta. E non solo: tra di essi, ad animare l’atmosfera della cyber-room anche uomini d’affari e managers in cerca di diversivi, professionisti annoiati dalla routine del mondo reale o semplicemente incuriositi. È accaduto così che il mondo (reale) si sia diviso tra utenti ed esperti: da un lato chi si limita ad usufruire della macchina, a sfruttarne le virtù e le potenzialità, senza conoscerne il funzionamento reale, e, dall’altra, i tecnici, gli esperti, coloro che «se il pc si imballa sanno dove mettere le mani». Dopo tutto comunque, sostengono gli entusiasti della Rete, non occorre affatto sapere come opera e come computa il computer: basta farlo partire e fa tutto da solo, perché «sa cosa fa». Tale obiezione si dimostra valida per molti fra gli utenti, ma non li persuade tutti e, come diceva Einstein, la macchina risolve problemi senza riuscire a porsi mai domande. D’altra parte, sperimentare a livello telematico è a costo zero, l’intera vita sullo schermo lo è! E, oltre a ciò, i vantaggi sono parecchi altri: condivisione orizzontale delle nozioni e delle emozioni, libero l’accesso e libera la modalità di trasmissione dei contenuti – in altri termini: nessuna censura. Un vero e proprio Eden, insomma; anzi, un cyber-Eden o, se si preferisce, un cyber-Paradiso. Da cui non saremo mai cacciati (dato che Dio è morto)? Seguendo Turkle lungo il dipanarsi del resoconto d’indagine che presenta nel testo, c’è ben poco di che gioire: il cyber-Eden è solo simulato; è cioè una simulazione che simula se stessa, ma questo non sconcerta: Debord non è passato invano. Prima o poi, utente o programmatore che sia, dovrà mettere piede a terra e, per esempio, mangiare, uscire di casa a pagare le bollette, andare a lavoro, incontrare degli amici, far visita ai parenti. Certo, i casi di dipendenza acuta da chat non sono rari, anzi ciascuno di noi conosce qualcuno che lo sia o che lo è stato o potrà diventarlo, quando addirittura non è egli stesso ex, attuale o futuro chat-dipendente! Inquietante, scabroso, o forse solo esagerato? Niente di tutto questo: è il futuro, bellezza. O, in altri termini: noi siamo i figli di Internet, Internet è la nostra creazione maggiormente riuscita, il nostro ambiente. Insomma, tornando ad Heidegger, siamo l’unico ente che si relaziona ad Internet (dunque, di conseguenza, siamo anche il solo che si relaziona ad esso «in quanto tale»). Pertanto, la sola ontologia praticabile nell’era postmoderna è cyber-ontologia. Abbastanza entusiasmante, no? Gli scenari che si profilano sono da brivido e non potrà venirci in soccorso neppure il buon Bauman con le sue categorie “liquide”: il flusso magmatico di “pixel” e “byte” definisce e ridefinisce continuamente spazi e tempi, strutturando dimensioni fluide, multiple, sovente disorganiche. Lo spaesamento è all’ordine del giorno e non è detto che non possa rappresentare una ricchezza, un’opportunità. Lo sappiamo bene, ce lo ripetono come un mantra: dietro ogni trapasso epocale si cela un possibile cambiamento che, solamente chi avrà abbastanza coraggio da spingersi a guardare oltre, potrà cogliere. E allora che ne è dello stupro reale ai tempi del cyber-stupro? Domanda lecita, considerando il veemente dibattito scatenato dal suddetto evento in senso ai membri della community: uno stupro simulato è paragonabile ad uno reale? E ancora, chi stupra solo in chat va curato prima che tenti di farlo nella vita reale? Lo farà senza dubbio o il suo è solo il gesto sconsiderato di colui che non ha smarrito affatto il senso del limite tra realtà e realtà simulata? Eppure, quando l’alta definizione comincia ad essere più reale del reale (iper-reale appunto), tanto da far scomparire, inghiottendo e polverizzando, la realtà originaria, siamo davvero sicuri che lo schermo è unicamente il veicolo con cui vengono trasmesse le immagini? È più che lecito nutrire dubbi e provare paura; d’altronde, a quanti, da piccoli, è successo di continuare a singhiozzare terrorizzati a causa delle ombre intraviste nel buio, nonostante le rassicurazioni dei genitori? La fragile realtà del mondo-ambiente, che abbiamo creato su misura per noi, ci ha completamente scavalcati, comprimendoci all’interno delle maglie, quelle stesse che, un tempo – neppure tanto remoto – ci apparivano larghe e ariose, del Web. Stiamo lentamente scoprendo che la Rete è selvaggia (wide, in inglese), quanto e più del mondo reale, da cui abbiamo preso le distanze. Se Internet simula e se la sua simulazione cibernetica è così mostruosamente reale (Turkle parla di “estetica della simulazione”), varrà la pena interrogarsi seriamente sui suoi pro e sui suoi contro, per continuare a programmarlo e a non essere (ri)programmati a nostra volta. Che piaccia o meno, questa è l’era della soggettività fluida!

 

APRILE 2013

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[1] Sherry Turkle, La vita sullo schermo. Nuove identità e relazioni sociali nell’epoca di Internet, Apogeo, Milano 1997.