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LA DISPERSIONE SCOLASTICA A NAPOLI
Rossella Grasso
A Napoli la vita per tanti ragazzi non è
sempre facile. Molti non avendo il sostegno delle loro famiglie e
vivendo in situazioni di degrado socio-economico non colgono tutte le
opportunità che la vita può dare. Una di queste è la scuola. È così che
nasce e si sviluppa una delle piaghe che affligge Napoli: la dispersione
scolastica. Un fenomeno che, nonostante negli anni si stia inasprendo
sempre di più, non trova l’adeguata risonanza tra i media e le
Istituzioni. Ma la dispersione scolastica è davvero un problema minore
tra tanti altri nella città di Napoli?
L’articolo 34 della Costituzione
italiana recita: «l’istruzione inferiore, impartita per almeno 10 anni è
obbligatoria e gratuita». Secondo Save the Children nel 2012 a Napoli
sono 1.283 i minori – 623 maschi e 660 femmine – che hanno messo
prematuramente da parte i libri e non vanno più a scuola. Di questi ben
194 pari al 15% sono bambini della scuola primaria. 770, pari al 60%,
sono di scuola secondaria di primo grado, 319, pari al 24,9% di scuola
secondaria di secondo grado. Questi ragazzi più che andare contro legge
hanno perso un’occasione: quella di imparare, capire e di essere liberi
di scegliere. A scuola si impara ad imparare: oggi non è tanto
importante avere una testa ben piena di nozioni, quanto una testa ben
fatta e che sappia pensare e compiere delle scelte. Il problema della
dispersione scolastica è grave soprattutto se si considera che i bambini
ignoranti di oggi sono i cittadini inconsapevoli e senza prospettive di
domani. Per una società intera questo rappresenta un vero e proprio
cancro che non permette di progredire in nessun modo e di uscire dal
forte periodo di crisi che sta vivendo oggi l’Italia, ancora di più
Napoli.
Considerando che con il termine
“dispersione scolastica” si intende anche la disaffezione per la scuola
che si concretizza in basso profitto e scarsa ambizione, si intuisce
come il fenomeno abbia proporzioni non indifferenti. Cosa produce questa
demotivazione allo studio? Le cause sono tante e ogni ragazzo che
abbandona la scuola ha la sua storia. Intervistando docenti, ragazzi,
genitori, operatori e assistenti sociali si sono delineati due ordini di
problematiche che determinano l’abbandono scolastico: quelle relative al
soggetto che si disperde e quelle relative al sistema scolastico che
produce dispersione. Dietro la scelta di non andare a scuola, molto
spesso c’è la famiglia: situazioni di forte disagio, povertà, illegalità
e a volte anche uno o due genitori in carcere, comportano che il ragazzo
non sia seguito e stimolato adeguatamente; succede ancora più spesso che
sia la famiglia stessa a non ritenere importante andare a scuola e che
anche madre e padre abbiano un livello di istruzione molto basso. A
questo si aggiunge che l’ambiente di riferimento magari è un “ghetto”
chiuso, dove ristagnano mentalità, modi di fare e di vivere, convinzioni
difficili da scardinare, come il fatto che una buona istruzione non
serve a migliorare la vita. Soprattutto in alcuni quartieri non è
difficile sentir dire dai più piccoli che andare a scuola è inutile
perché non farà guadagnare di più. È tanto sbagliato quanto incredibile,
ma come dargli torto? C’è chi vede i propri fratelli maggiori diplomati
o addirittura laureati che non riescono a trovare lavoro, e altri
ragazzi che hanno abbandonato la scuola guadagnare anche tantissimo con
attività illegali come lo spaccio. In alcuni quartieri è questa l’idea
che ristagna: la scuola è inutile. Ma è anche vero che in molti casi la
scuola è diventata “inutile” perché magari il sistema scolastico è
troppo rigido e lontano dalle reali esigenze dei ragazzi. Cesare Moreno
è uno degli ideatori della Fondazione Maestri di Strada che da più di 15
anni propone progetti per combattere la dispersione scolastica a Napoli
con attività molto particolari. Moreno sostiene che i ragazzi
abbandonano gli studi perché «la scuola non capisce i ragazzi e i
ragazzi non capiscono la scuola». Una scuola che segue rigidi programmi
e metodi uguali per tutti non è una scuola accattivante, soprattutto per
quei ragazzi che già hanno pochi stimoli dalla famiglia e dall’ambiente
di riferimento. A questi ragazzi sembra inutile imparare nozioni che
nella quotidianità, nel pratico, non servono a nulla. Pensano: le
nozioni che imparo a scuola mi serviranno a trovare un lavoro? Ecco
questo è uno dei maggiori limiti della scuola: non tiene presenti le
diversità e le esigenze dei ragazzi. A questo si aggiunge che è diffusa
in Italia l’idea che studiare significhi solo imparare dai libri: i
corsi professionali che preparano a svolgere un lavoro non formano
uomini e donne capaci. In questo la scuola è molto incoerente: secondo
l’art. 64 della legge del 06.08.08 n.133, l’obbligo di istruzione può
essere assolto sia nei percorsi di istruzione e formazione
professionale, così come l’esercizio del diritto-dovere all’istruzione e
alla formazione. Purtroppo però attualmente il Ministero non offre corsi
di formazione non scolastici e in più l’ultima riforma ha eliminato la
certificazione professionale spendibile sul mercato del lavoro al terzo
anno degli istituti professionali. Sono tanti i ragazzi che, non
preferendo imparare dai libri, vorrebbero una scuola più pratica, dove
poter imparare in tempi brevi e iniziare un lavoro, magari perché ne
hanno esigenza. Purtroppo la scuola dopo i tagli subiti negli ultimi
anni esclude molti laboratori, ed elimina la formazione professionale
come alternativa valida a formare menti e persone. È opportuno fare una
considerazione anche su un altro limite della scuola: gli insegnanti.
Per quanto magari poco politically
correct, è evidente la constatazione che insegnare in una scuola del
quartiere Vomero e in una di Scampia è un lavoro completamente diverso.
La formazione e anche gli stipendi degli insegnanti sono gli stessi. A
questo punto sta solo alla buona volontà o meno dell’insegnante la buona
riuscita dell’insegnamento. Un insegnante a Napoli può anche trovarsi
nella situazione di non poter usare libri perché magari i genitori degli
alunni non hanno abbastanza soldi per comprarli, oppure di avere a che
fare con ragazzi “irrequieti” che è impossibile tenere seduti tra i
banchi. Allora l’insegnante deve trovare un altro modo per impartire
un’istruzione a qualsiasi livello. È giusto che un cattivo o buono
insegnamento dipenda esclusivamente dalla bontà propria del docente, dal
modo in cui interpreta il suo lavoro, se ha abbracciato una missione
(aiutare i più piccoli a diventare buoni cittadini consapevoli del
futuro) o un lavoro per avere uno stipendio? Non si possono attribuire
colpe agli insegnanti, esseri umani che si trovano a svolgere un lavoro
delicato e complesso e spesso non vengono nemmeno gratificati per
questo, ma al sistema scolastico che non offre loro una giusta
formazione e adeguato sostegno.
A tutto questo si aggiunge che il
sistema di segnalazione dei ragazzi inadempienti non funziona troppo
bene: le scuole sono obbligate a segnalarli, ma non esiste una scadenza
entro cui bisogna farlo. Per questo motivo solitamente le scuole si
riducono all’ultimo momento, alla fine dell’anno scolastico, quando è
impossibile fare qualsiasi intervento da parte dei servizi sociali
territoriali. Il sistema di segnalazione sta certamente molto
migliorando ma bisogna considerare che molto spesso le scuole non fanno
le segnalazioni correttamente oppure hanno iscrizioni d’ufficio di
ragazzi che in realtà non vanno mai a scuola. Non
denunciano nemmeno queste situazioni perché con il
dimensionamento scolastico il numero degli alunni è fondamentale: si
mantengono nell’elenco finché non hanno realizzato l’obbligo scolastico,
per tenere in piedi strutture scolastiche più ampie rispetto alla
richiesta dell’utenza. Più iscritti risultano sulla carta, più
professori, classi e contributi può avere la scuola. Inoltre può evitare
l’accorpamento con altri istituti, operazione che crea tanto disagio
anche tra i dipendenti.
Il risultato di tutte queste
problematiche è che sempre più ragazzi non arrivano all’età dell’obbligo
scolastico o se lo fanno, è con grandi difficoltà e non raggiungono i
risultati attesi: non si tratta solo di nozioni, ma anche di valori e
altri insegnamenti sulla vita che solo la scuola può dare. La scuola è
un’occasione: lì si impara a stare insieme agli altri, il rispetto delle
regole utili a vivere bene in una società, ma soprattutto si apprendono
valori. In una città come Napoli essere abituati a vivere già da piccoli
in base a principi di legalità, essere sensibili a grandi temi come la
raccolta differenziata, rispettare l’ambiente e i luoghi che viviamo,
conoscere e amare la propria città è fondamentale: se lo impari bene da
piccolo sarai sicuramente un buon cittadino domani. È questo il segreto
del successo di tutte le migliori società moderne e lo dimostrano tutte
le ricerche socio-economiche mondiali che riconoscono una migliore
qualità della vita in quei paesi dove il sistema scolastico è ritenuto
più efficiente. La Commissione di Indagine sull’Esclusione Sociale (cies)
ha rilevato un’associazione significativa tra istruzione e misure di
democratizzazione, tutela dei diritti umani e stabilità politica. Nelle
società democratiche è infatti indispensabile che i cittadini siano
consapevoli e attivi nella cosa pubblica, sotto forma di associazionismo
o semplicemente esprimendo la propria opinione sotto forma di voto alle
elezioni. In una società dove i cittadini sono poco istruiti questo non
avviene o succede che le persone siano facile preda di corruttori e
falsi predicatori. A Napoli, nei quartieri più disagiati non è raro che
il voto sia compromesso da mazzette o da false promesse.
È ovvio che poca istruzione porti anche
all’impossibilità di accedere a buone posizioni lavorative. A livello
della collettività, una scarsa istruzione della popolazione non consente
il progresso anche tramite l’utilizzo di nuove tecnologie, che blocca lo
sviluppo economico del Paese o della città, favorendo invece quello di
altre nazioni o città più avanzate. Posizioni lavorative scarsamente
qualificate e come tali meno continue nel tempo, portano le persone a
frequenti episodi di disoccupazione e non guadagno. Nello studio del
cies si legge:
i giovani poveri in istruzione sono anche i primi candidati
all’esclusione sociale e culturale, vale a dire che i ragazzi con bassi
titoli di studio e con competenze scarsamente evolute hanno una maggiore
probabilità di diventare ‘produttori’ di povertà. […] L’istruzione è
strumento fondamentale per accrescere le attitudini e le abilità
conoscitive delle persone, per sviluppare la loro capacità di
comprendere e affrontare le differenti situazioni e di vivere in maniera
adeguata nella società.
La mancata formazione costituisce il
primo passo di un progressivo processo di esclusione: significa ristagno
nella povertà ed esclusione sociale precoce, produce spreco di risorse
umane che spesso si rivoltano contro la società, non favorendo il
progresso e l’uscita dalla crisi.
La conseguenza più tremenda di tutto ciò
è che spesso i ragazzi che abbandonano la scuola vanno a ingrossare le
fila della criminalità organizzata o delinquono. Molti assistenti
sociali intervistati nel corso dell’inchiesta hanno affermato che i
minori che delinquono sono adolescenti il cui bisogno di identità
spesso si traduce in bisogno di affermazione, tanto più pressante
se a scuola hanno realizzato solo insuccessi, sono stati mortificati, si
sono sentiti emarginati. A quel punto si lasciano attrarre dai facili
guadagni offerti dalla criminalità organizzata, che consente loro di
comprare ciò che vogliono, ma soprattutto di acquisire un ruolo, sia
pure di manovalanza, all’interno dell’organizzazione. È un dato di fatto
però che un’istruzione più elevata implichi la tendenza ad usufruire di
retribuzioni più cospicue e quindi renda meno probabile la messa in atto
di reati. Scrive Carla Melazzini, una delle ideatrici assieme a suo marito Cesare
Moreno della Fondazione Maestri di Strada: «Non è semplice sconfiggere
il fascino dell’onnipotenza criminosa, e l’attrazione di una vita senza
lavoro. […] I criminali conoscono bene il senso della condanna
“guadagnerai il pane con il sudore della tua fronte”, e ne hanno dato la
loro sarcastica versione». A Napoli questo è profondamente vero e
altrettanto difficile da scardinare. Per questo la scuola si trova a
ricoprire un ruolo particolarmente importante, non solo a livello
nozionistico.
I fatti di cronaca testimoniano
tristemente giorno per giorno quali e di che entità sono gli effetti
della dispersione scolastica a Napoli. Durante la notte del 25 giugno
2012, a Napoli sono avvenuti tre omicidi. Una delle vittime è stata
Marco Riccio, un diciottenne colpito al volto da tre colpi di pistola.
Una vera e propria esecuzione per mano camorristica di un ragazzo
affiliato a un noto clan locale che, da quanto emerso dalle indagini,
aveva deciso di aggregarsi ad un altro clan, per questo motivo sarebbe
stato punito dalla fazione di cui faceva parte o da quella che aveva
lasciato. La mattanza di quel
lunedì notte di un’afosa sera d’estate è una storia molto napoletana,
esemplare. Ma oltre ad un affiliato a un clan camorristico, poi ad un
altro, chi era Marco Riccio? Era un ragazzo che aveva fatto una scelta
sbagliata e poi aveva continuato a sbagliare. Ma Marco era anche un
ragazzo abbandonato dalla mamma insieme con i suoi due fratelli a 6
anni. La mamma, di cui non voleva mai parlare, era scappata lasciandoli
con un padre pressoché assente e incostante e non aveva mai più dato
notizie di sé. L'unica volta che i fratelli Riccio avevano provato a
cercare la madre, lei non li aveva nemmeno fatti entrare in casa. Marco
aveva frequentato la prima media, poi aveva abbandonato, passava il
tempo per strada e sfuggiva ad ogni tipo di controllo. Fu arrestato a 15
anni: gli fu data la possibilità di fare un percorso in una Comunità
Educativa. In quel periodo il ragazzo frequentò la scuola riuscendo a
conseguire la licenza media. Svolse varie attività di volontariato e in
particolare si occupò con grande delicatezza di un suo compagno di
scuola disabile, con il quale riuscì ad istaurare un rapporto speciale
fatto di amicizia e di protezione. Chi lo ha conosciuto racconta che
quando a scuola il suo amico disabile aveva delle crisi, chiamavano
Marco per farlo calmare.
Per ragazzi come Marco, abbandonati a se
stessi, che vivono la strada senza affetti, senza riferimenti,
affiliarsi alla camorra sembra essere l'unica possibilità: solo questo
genere di organizzazioni li “difendono”, gli offrono un qualcosa che si
avvicina vagamente ad una pseudo-famiglia che non hanno mai avuto, che
li protegge e a modo loro gli fa recuperare la fiducia in se stessi che
le vicende negative della vita gli hanno fatto perdere. Un adolescente
ha bisogno di formare una sua identità e ciò avviene di solito con
l'aiuto dei genitori e della scuola. Marco non ha mai avuto niente di
tutto questo, solo modelli negativi che tuttavia gli hanno dato la
possibilità di colmare i vuoti della sua breve esistenza. In ambiente
sano, a scuola, Marco ha dato prova di essere un ragazzo “normale” e
generoso; tornato nel suo ambiente ha ritrovato i suoi riferimenti
negativi di sempre, che però erano stati la sua ‘famiglia’ ed è stato di
nuovo con loro, dalla loro parte. Non si intende giustificare la scelta
di Marco, ma solo raccontare cosa c'è dietro la morte per mano
camorristica di un ragazzo che non è stato il primo a fare questa fine e
con ogni probabilità, purtroppo, non sarà nemmeno l'ultimo.
Per un ragazzo come Marco, in assenza di tutto il resto, la scuola
avrebbe potuto fare tanto: lì avrebbe potuto trovare dei punti di
riferimento in valori e persone positivi. Avrebbe potuto trovare quella
fiducia in se stesso che non aveva e che solo la camorra riusciva a
dargli. A scuola avrebbe avuto la possibilità di capire che forse
un’altra strada c’è e l’istruzione può essere un modo per diventare
davvero liberi di decidere cosa si vuole essere. Ovviamente sui giornali
questo episodio risuonò solo come l’ennesimo ammazzatoio di camorra di
un “fetente”. A nessuno venne in mente che, di tutti i dati sulla
drammatica piaga della dispersione scolastica a Napoli, quello che era
successo era il risultato più tangibile: Marco ha fatto la fine di un
ragazzo qualunque di Napoli, che senza il sostegno di una famiglia, in
un contesto di povertà, abbandona la scuola e cede alle lusinghe di una
vita facile, piena di soldi che offre la camorra. Nessuno pensò che a
Napoli, invece di aspettare che “si ammazzino tra di loro” bisognerebbe
fare qualcosa per far capire che se sai vali molto più di quanto pensi.
La storia di Marco Riccio, e come la sua quella di tanti, somiglia molto
a quella del Principe Amleto: sono ragazzi che vivono il tradimento
della propria famiglia, del proprio territorio, della società in cui
vivono e anche della scuola. Lo vivono con la stessa intensità e
consequenzialità del personaggio shakespeariano, con gli stessi dubbi
atavici e compiendo gli stessi errori, perché infondo il Principe di
Danimarca era solo un ragazzo, come quei tanti che vivono le zone
degradate di Napoli e che abbandonano la scuola per perdersi in un
futuro incerto. Con la differenza che non siamo a teatro ma nella vita
reale e che tutto ciò non dovrebbe avvenire da nessuna parte.
Il problema della dispersione scolastica
a Napoli è certamente uno dei tanti che affligge la città, ma in un
periodo di estrema crisi, bisogna pur iniziare da qualche parte.
Investire sui più piccoli, sulla scuola e sulle sue opportunità,
potrebbe essere un buon inizio. È certamente una sfida, ma vale la pena
accettarla e con una certa urgenza.
APRILE 2013