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10
Maggio 2013

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inchieste

LA DISPERSIONE SCOLASTICA A NAPOLI

Rossella Grasso

 

A Napoli la vita per tanti ragazzi non è sempre facile. Molti non avendo il sostegno delle loro famiglie e vivendo in situazioni di degrado socio-economico non colgono tutte le opportunità che la vita può dare. Una di queste è la scuola. È così che nasce e si sviluppa una delle piaghe che affligge Napoli: la dispersione scolastica. Un fenomeno che, nonostante negli anni si stia inasprendo sempre di più, non trova l’adeguata risonanza tra i media e le Istituzioni. Ma la dispersione scolastica è davvero un problema minore tra tanti altri nella città di Napoli?

L’articolo 34 della Costituzione italiana recita: «l’istruzione inferiore, impartita per almeno 10 anni è obbligatoria e gratuita». Secondo Save the Children nel 2012 a Napoli sono 1.283 i minori – 623 maschi e 660 femmine – che hanno messo prematuramente da parte i libri e non vanno più a scuola. Di questi ben 194 pari al 15% sono bambini della scuola primaria. 770, pari al 60%, sono di scuola secondaria di primo grado, 319, pari al 24,9% di scuola secondaria di secondo grado. Questi ragazzi più che andare contro legge hanno perso un’occasione: quella di imparare, capire e di essere liberi di scegliere. A scuola si impara ad imparare: oggi non è tanto importante avere una testa ben piena di nozioni, quanto una testa ben fatta e che sappia pensare e compiere delle scelte. Il problema della dispersione scolastica è grave soprattutto se si considera che i bambini ignoranti di oggi sono i cittadini inconsapevoli e senza prospettive di domani. Per una società intera questo rappresenta un vero e proprio cancro che non permette di progredire in nessun modo e di uscire dal forte periodo di crisi che sta vivendo oggi l’Italia, ancora di più Napoli.

Considerando che con il termine “dispersione scolastica” si intende anche la disaffezione per la scuola che si concretizza in basso profitto e scarsa ambizione, si intuisce come il fenomeno abbia proporzioni non indifferenti. Cosa produce questa demotivazione allo studio? Le cause sono tante e ogni ragazzo che abbandona la scuola ha la sua storia. Intervistando docenti, ragazzi, genitori, operatori e assistenti sociali si sono delineati due ordini di problematiche che determinano l’abbandono scolastico: quelle relative al soggetto che si disperde e quelle relative al sistema scolastico che produce dispersione. Dietro la scelta di non andare a scuola, molto spesso c’è la famiglia: situazioni di forte disagio, povertà, illegalità e a volte anche uno o due genitori in carcere, comportano che il ragazzo non sia seguito e stimolato adeguatamente; succede ancora più spesso che sia la famiglia stessa a non ritenere importante andare a scuola e che anche madre e padre abbiano un livello di istruzione molto basso. A questo si aggiunge che l’ambiente di riferimento magari è un “ghetto” chiuso, dove ristagnano mentalità, modi di fare e di vivere, convinzioni difficili da scardinare, come il fatto che una buona istruzione non serve a migliorare la vita. Soprattutto in alcuni quartieri non è difficile sentir dire dai più piccoli che andare a scuola è inutile perché non farà guadagnare di più. È tanto sbagliato quanto incredibile, ma come dargli torto? C’è chi vede i propri fratelli maggiori diplomati o addirittura laureati che non riescono a trovare lavoro, e altri ragazzi che hanno abbandonato la scuola guadagnare anche tantissimo con attività illegali come lo spaccio. In alcuni quartieri è questa l’idea che ristagna: la scuola è inutile. Ma è anche vero che in molti casi la scuola è diventata “inutile” perché magari il sistema scolastico è troppo rigido e lontano dalle reali esigenze dei ragazzi. Cesare Moreno è uno degli ideatori della Fondazione Maestri di Strada che da più di 15 anni propone progetti per combattere la dispersione scolastica a Napoli con attività molto particolari. Moreno sostiene che i ragazzi abbandonano gli studi perché «la scuola non capisce i ragazzi e i ragazzi non capiscono la scuola». Una scuola che segue rigidi programmi e metodi uguali per tutti non è una scuola accattivante, soprattutto per quei ragazzi che già hanno pochi stimoli dalla famiglia e dall’ambiente di riferimento. A questi ragazzi sembra inutile imparare nozioni che nella quotidianità, nel pratico, non servono a nulla. Pensano: le nozioni che imparo a scuola mi serviranno a trovare un lavoro? Ecco questo è uno dei maggiori limiti della scuola: non tiene presenti le diversità e le esigenze dei ragazzi. A questo si aggiunge che è diffusa in Italia l’idea che studiare significhi solo imparare dai libri: i corsi professionali che preparano a svolgere un lavoro non formano uomini e donne capaci. In questo la scuola è molto incoerente: secondo l’art. 64 della legge del 06.08.08 n.133, l’obbligo di istruzione può essere assolto sia nei percorsi di istruzione e formazione professionale, così come l’esercizio del diritto-dovere all’istruzione e alla formazione. Purtroppo però attualmente il Ministero non offre corsi di formazione non scolastici e in più l’ultima riforma ha eliminato la certificazione professionale spendibile sul mercato del lavoro al terzo anno degli istituti professionali. Sono tanti i ragazzi che, non preferendo imparare dai libri, vorrebbero una scuola più pratica, dove poter imparare in tempi brevi e iniziare un lavoro, magari perché ne hanno esigenza. Purtroppo la scuola dopo i tagli subiti negli ultimi anni esclude molti laboratori, ed elimina la formazione professionale come alternativa valida a formare menti e persone. È opportuno fare una considerazione anche su un altro limite della scuola: gli insegnanti. Per quanto magari poco politically correct, è evidente la constatazione che insegnare in una scuola del quartiere Vomero e in una di Scampia è un lavoro completamente diverso. La formazione e anche gli stipendi degli insegnanti sono gli stessi. A questo punto sta solo alla buona volontà o meno dell’insegnante la buona riuscita dell’insegnamento. Un insegnante a Napoli può anche trovarsi nella situazione di non poter usare libri perché magari i genitori degli alunni non hanno abbastanza soldi per comprarli, oppure di avere a che fare con ragazzi “irrequieti” che è impossibile tenere seduti tra i banchi. Allora l’insegnante deve trovare un altro modo per impartire un’istruzione a qualsiasi livello. È giusto che un cattivo o buono insegnamento dipenda esclusivamente dalla bontà propria del docente, dal modo in cui interpreta il suo lavoro, se ha abbracciato una missione (aiutare i più piccoli a diventare buoni cittadini consapevoli del futuro) o un lavoro per avere uno stipendio? Non si possono attribuire colpe agli insegnanti, esseri umani che si trovano a svolgere un lavoro delicato e complesso e spesso non vengono nemmeno gratificati per questo, ma al sistema scolastico che non offre loro una giusta formazione e adeguato sostegno.

A tutto questo si aggiunge che il sistema di segnalazione dei ragazzi inadempienti non funziona troppo bene: le scuole sono obbligate a segnalarli, ma non esiste una scadenza entro cui bisogna farlo. Per questo motivo solitamente le scuole si riducono all’ultimo momento, alla fine dell’anno scolastico, quando è impossibile fare qualsiasi intervento da parte dei servizi sociali territoriali. Il sistema di segnalazione sta certamente molto migliorando ma bisogna considerare che molto spesso le scuole non fanno le segnalazioni correttamente oppure hanno iscrizioni d’ufficio di ragazzi che in realtà non vanno mai a scuola. Non  denunciano nemmeno queste situazioni perché con il dimensionamento scolastico il numero degli alunni è fondamentale: si mantengono nell’elenco finché non hanno realizzato l’obbligo scolastico, per tenere in piedi strutture scolastiche più ampie rispetto alla richiesta dell’utenza. Più iscritti risultano sulla carta, più professori, classi e contributi può avere la scuola. Inoltre può evitare l’accorpamento con altri istituti, operazione che crea tanto disagio anche tra i dipendenti.

Il risultato di tutte queste problematiche è che sempre più ragazzi non arrivano all’età dell’obbligo scolastico o se lo fanno, è con grandi difficoltà e non raggiungono i risultati attesi: non si tratta solo di nozioni, ma anche di valori e altri insegnamenti sulla vita che solo la scuola può dare. La scuola è un’occasione: lì si impara a stare insieme agli altri, il rispetto delle regole utili a vivere bene in una società, ma soprattutto si apprendono valori. In una città come Napoli essere abituati a vivere già da piccoli in base a principi di legalità, essere sensibili a grandi temi come la raccolta differenziata, rispettare l’ambiente e i luoghi che viviamo, conoscere e amare la propria città è fondamentale: se lo impari bene da piccolo sarai sicuramente un buon cittadino domani. È questo il segreto del successo di tutte le migliori società moderne e lo dimostrano tutte le ricerche socio-economiche mondiali che riconoscono una migliore qualità della vita in quei paesi dove il sistema scolastico è ritenuto più efficiente. La Commissione di Indagine sull’Esclusione Sociale (cies) ha rilevato un’associazione significativa tra istruzione e misure di democratizzazione, tutela dei diritti umani e stabilità politica. Nelle società democratiche è infatti indispensabile che i cittadini siano consapevoli e attivi nella cosa pubblica, sotto forma di associazionismo o semplicemente esprimendo la propria opinione sotto forma di voto alle elezioni. In una società dove i cittadini sono poco istruiti questo non avviene o succede che le persone siano facile preda di corruttori e falsi predicatori. A Napoli, nei quartieri più disagiati non è raro che il voto sia compromesso da mazzette o da false promesse.

È ovvio che poca istruzione porti anche all’impossibilità di accedere a buone posizioni lavorative. A livello della collettività, una scarsa istruzione della popolazione non consente il progresso anche tramite l’utilizzo di nuove tecnologie, che blocca lo sviluppo economico del Paese o della città, favorendo invece quello di altre nazioni o città più avanzate. Posizioni lavorative scarsamente qualificate e come tali meno continue nel tempo, portano le persone a frequenti episodi di disoccupazione e non guadagno. Nello studio del cies si legge:

 

i giovani poveri in istruzione sono anche i primi candidati all’esclusione sociale e culturale, vale a dire che i ragazzi con bassi titoli di studio e con competenze scarsamente evolute hanno una maggiore probabilità di diventare ‘produttori’ di povertà. […] L’istruzione è strumento fondamentale per accrescere le attitudini e le abilità conoscitive delle persone, per sviluppare la loro capacità di comprendere e affrontare le differenti situazioni e di vivere in maniera adeguata nella società.

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La mancata formazione costituisce il primo passo di un progressivo processo di esclusione: significa ristagno nella povertà ed esclusione sociale precoce, produce spreco di risorse umane che spesso si rivoltano contro la società, non favorendo il progresso e l’uscita dalla crisi.

La conseguenza più tremenda di tutto ciò è che spesso i ragazzi che abbandonano la scuola vanno a ingrossare le fila della criminalità organizzata o delinquono. Molti assistenti sociali intervistati nel corso dell’inchiesta hanno affermato che i minori che delinquono sono adolescenti il cui bisogno di identità  spesso si traduce in bisogno di affermazione, tanto più pressante se a scuola hanno realizzato solo insuccessi, sono stati mortificati, si sono sentiti emarginati. A quel punto si lasciano attrarre dai facili guadagni offerti dalla criminalità organizzata, che consente loro di comprare ciò che vogliono, ma soprattutto di acquisire un ruolo, sia pure di manovalanza, all’interno dell’organizzazione. È un dato di fatto però che un’istruzione più elevata implichi la tendenza ad usufruire di retribuzioni più cospicue e quindi renda meno probabile la messa in atto di reati. Scrive Carla Melazzini, una delle ideatrici assieme a suo marito Cesare Moreno della Fondazione Maestri di Strada: «Non è semplice sconfiggere il fascino dell’onnipotenza criminosa, e l’attrazione di una vita senza lavoro. […] I criminali conoscono bene il senso della condanna “guadagnerai il pane con il sudore della tua fronte”, e ne hanno dato la loro sarcastica versione». A Napoli questo è profondamente vero e altrettanto difficile da scardinare. Per questo la scuola si trova a ricoprire un ruolo particolarmente importante, non solo a livello nozionistico.

I fatti di cronaca testimoniano tristemente giorno per giorno quali e di che entità sono gli effetti della dispersione scolastica a Napoli. Durante la notte del 25 giugno 2012, a Napoli sono avvenuti tre omicidi. Una delle vittime è stata Marco Riccio, un diciottenne colpito al volto da tre colpi di pistola. Una vera e propria esecuzione per mano camorristica di un ragazzo affiliato a un noto clan locale che, da quanto emerso dalle indagini, aveva deciso di aggregarsi ad un altro clan, per questo motivo sarebbe stato punito dalla fazione di cui faceva parte o da quella che aveva lasciato. La mattanza di quel lunedì notte di un’afosa sera d’estate è una storia molto napoletana, esemplare. Ma oltre ad un affiliato a un clan camorristico, poi ad un altro, chi era Marco Riccio? Era un ragazzo che aveva fatto una scelta sbagliata e poi aveva continuato a sbagliare. Ma Marco era anche un ragazzo abbandonato dalla mamma insieme con i suoi due fratelli a 6 anni. La mamma, di cui non voleva mai parlare, era scappata lasciandoli con un padre pressoché assente e incostante e non aveva mai più dato notizie di sé. L'unica volta che i fratelli Riccio avevano provato a cercare la madre, lei non li aveva nemmeno fatti entrare in casa. Marco aveva frequentato la prima media, poi aveva abbandonato, passava il tempo per strada e sfuggiva ad ogni tipo di controllo. Fu arrestato a 15 anni: gli fu data la possibilità di fare un percorso in una Comunità Educativa. In quel periodo il ragazzo frequentò la scuola riuscendo a conseguire la licenza media. Svolse varie attività di volontariato e in particolare si occupò con grande delicatezza di un suo compagno di scuola disabile, con il quale riuscì ad istaurare un rapporto speciale fatto di amicizia e di protezione. Chi lo ha conosciuto racconta che quando a scuola il suo amico disabile aveva delle crisi, chiamavano Marco per farlo calmare.

Per ragazzi come Marco, abbandonati a se stessi, che vivono la strada senza affetti, senza riferimenti, affiliarsi alla camorra sembra essere l'unica possibilità: solo questo genere di organizzazioni li “difendono”, gli offrono un qualcosa che si avvicina vagamente ad una pseudo-famiglia che non hanno mai avuto, che li protegge e a modo loro gli fa recuperare la fiducia in se stessi che le vicende negative della vita gli hanno fatto perdere. Un adolescente ha bisogno di formare una sua identità e ciò avviene di solito con l'aiuto dei genitori e della scuola. Marco non ha mai avuto niente di tutto questo, solo modelli negativi che tuttavia gli hanno dato la possibilità di colmare i vuoti della sua breve esistenza. In ambiente sano, a scuola, Marco ha dato prova di essere un ragazzo “normale” e generoso; tornato nel suo ambiente ha ritrovato i suoi riferimenti negativi di sempre, che però erano stati la sua ‘famiglia’ ed è stato di nuovo con loro, dalla loro parte. Non si intende giustificare la scelta di Marco, ma solo raccontare cosa c'è dietro la morte per mano camorristica di un ragazzo che non è stato il primo a fare questa fine e con ogni probabilità, purtroppo, non sarà nemmeno l'ultimo. Per un ragazzo come Marco, in assenza di tutto il resto, la scuola avrebbe potuto fare tanto: lì avrebbe potuto trovare dei punti di riferimento in valori e persone positivi. Avrebbe potuto trovare quella fiducia in se stesso che non aveva e che solo la camorra riusciva a dargli. A scuola avrebbe avuto la possibilità di capire che forse un’altra strada c’è e l’istruzione può essere un modo per diventare davvero liberi di decidere cosa si vuole essere. Ovviamente sui giornali questo episodio risuonò solo come l’ennesimo ammazzatoio di camorra di un “fetente”. A nessuno venne in mente che, di tutti i dati sulla drammatica piaga della dispersione scolastica a Napoli, quello che era successo era il risultato più tangibile: Marco ha fatto la fine di un ragazzo qualunque di Napoli, che senza il sostegno di una famiglia, in un contesto di povertà, abbandona la scuola e cede alle lusinghe di una vita facile, piena di soldi che offre la camorra. Nessuno pensò che a Napoli, invece di aspettare che “si ammazzino tra di loro” bisognerebbe fare qualcosa per far capire che se sai vali molto più di quanto pensi. La storia di Marco Riccio, e come la sua quella di tanti, somiglia molto a quella del Principe Amleto: sono ragazzi che vivono il tradimento della propria famiglia, del proprio territorio, della società in cui vivono e anche della scuola. Lo vivono con la stessa intensità e consequenzialità del personaggio shakespeariano, con gli stessi dubbi atavici e compiendo gli stessi errori, perché infondo il Principe di Danimarca era solo un ragazzo, come quei tanti che vivono le zone degradate di Napoli e che abbandonano la scuola per perdersi in un futuro incerto. Con la differenza che non siamo a teatro ma nella vita reale e che tutto ciò non dovrebbe avvenire da nessuna parte.

Il problema della dispersione scolastica a Napoli è certamente uno dei tanti che affligge la città, ma in un periodo di estrema crisi, bisogna pur iniziare da qualche parte. Investire sui più piccoli, sulla scuola e sulle sue opportunità, potrebbe essere un buon inizio. È certamente una sfida, ma vale la pena accettarla e con una certa urgenza.

 

APRILE 2013

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