DA PORTO ALEGRE A TUNISI 2013: LA NECESSITà DI UN ALTRO MONDO
Intervista a Marica Di Pierri* a cura di Ornella Esposito
“Un altro mondo è possibile”, questo lo
slogan che dodici anni fa accompagnò la nascita del Forum Sociale
Mondiale promotore di un’idea di sviluppo economico, sociale ed
ambientale diversa e contrapposta a quella di cui i maggiori dirigenti
politici ed economici internazionali insieme con intellettuali e
giornalisti selezionati, discutevano negli stessi giorni a Davos in
Svizzera.
Probabilmente, anzi, sicuramente quelle
12.000 persone, sostenute in parte anche dal Governo brasiliano, furono
definite visionarie e fuori dal mondo perché il processo di avanzamento
del capitalismo era (ed è) inarrestabile, dunque, bisognava piegarsi
alle regole del mercato e alle logiche del profitto.
Ma fu proprio questa “necessità” che
venne contesta, e ad essa contrapposta la possibilità di un’alternativa.
Da Porto Alegre 2001 a Tunisi 2013,
passando per il G8 di Genova, le guerre in Iraq ed Afghanistan, le
calamità naturali, l’aumento delle migrazioni, la crisi finanziaria,
urge un cambio di paradigma. Si è giunti cioè alla necessità di un altro
mondo, perché questo in cui viviamo è seriamente a rischio di scomparire
e neanche tra moltissimo tempo.
Non è un caso che il
fsm 2013 si sia svolto
proprio a Tunisi, perché i giovani tunisini (e nord africani)
rappresentano l’emblema di un cambiamento (o per lo meno di un
tentativo), seppure la cosiddetta primavera araba imponga riflessioni
molto complesse e chiami in causa (come evidenzia Vittorio Agnoletto) i
rapporti tra i governi locali e le politiche neoliberiste, in
particolare statunitensi, nonché la posizione dell’islam rispetto a come
far fronte alle diseguaglianze sociali.
Veniamo ai contenuti del
fsm discussi da oltre
40.000 persone appartenenti a circa 4.000 organizzazioni.
Le tematiche affrontate sono state
davvero tante, dal processo di democratizzazione dei paesi mediterranei,
alle libertà civili e alla giustizia sociale, con una particolare
attenzione alla dimensione di genere.
Tra queste, le questioni ambientali, il
tema delle migrazioni e quello della primavera araba ci sembrano
particolarmente importanti ed attuali.
Ne parliamo con Marica di Pierri,
giornalista ed attivista per i diritti umani, responsabile dell’area
comunicazione dell’Associazione A Sud che ha seguito i lavori del
fsm.
Il
fsm ha affrontato molte tematiche relative all’ambiente ed allo
sfruttamento dei territori. Tra queste il fenomeno del
land grabbing e del
fracking, di cui nei paesi
ricchi si parla pochissimo. Cosa sono e quali effetti hanno sul lungo
periodo su tutto il pianeta?
Le criticità ambientali e
l’impoverimento delle zone ad alta intensità industriale sono state una
costante nei racconti dei rappresentanti delle organizzazioni della
società civile tunisina impegnate nei temi ambientali incontrati al
Forum. Uno dei problemi centrali è la scarsità d’acqua, cui concorrono
in maniera sostanziale tanto le colture intensive di alimenti destinati
all’esportazione quanto i progetti estrattivi altamente contaminanti,
come appunto il fracking (o
estrazione del Gas di Scisto). Il
fracking è una pratica estremamente invasiva e consiste
nell’estrazione di gas naturale attraverso la fratturazione idraulica,
ossia attraverso un processo di perforazione multilivello, che prevede
l’esplosione di rocce fino a 6 km di profondità. Le acque iniettate
oltre ad essere piene di sostanze altamente tossiche fuoriescono come
acque di produzione contaminando non solo le falde acquifere ma anche i
suoli sui quali ha luogo la perforazione. Oltre al gravissimo impatto
legato all’utilizzo dell’acqua, questo processo estrattivo produce
livelli di emissioni di co2
nettamente maggiori rispetto ai processi convenzionali di estrazione del
gas, del petrolio e del carbone. Ad oggi numerose imprese in vari paesi
conducono studi di prospezione per implementare progetti di questo tipo.
Tra queste l’eni in Italia e la Shell (tra le altre) in Tunisia dove la
mobilitazione sociale è purtroppo ancora molto debole a causa della
complessità del tema.
Altra questione riguarda il tema del
land grabbing, letteralmente
“accaparramento di terre” che consiste nell’acquisto o nell’affitto di
terreni nei paesi più poveri da parte di multinazionali o governi
stranieri, in particolare quelli con una grande crescita della domanda
interna di prodotti alimentari. La terra coltivabile è al momento una
delle risorse più preziose. Quando gli investitori stranieri arrivano
sui terreni delle comunità si passa dall’agricoltura tradizionale,
basata sulle varietà locali, all’agroindustria, basata su monocolture
destinate all’esportazione (olio di palma, soia etc.) che comportano un
massiccio uso di composti chimici.
La maggior quantità di terre accaparrate
si trova nel continente africano. E il Maghreb non fa eccezione. Come
non fanno eccezione le imprese e gli istituti di credito italiani,
diversi dei quali sono coinvolti in progetti di acquisto massiccio di
terreni agricoli.
La questione del
land grab è strettamente
correlata al problema dell’insicurezza alimentare: 1 miliardo di
malnutriti provenienti soprattutto da aree rurali ne sono la prova. Come
lo sono le primavere arabe: l’aumento del prezzo dei generi alimentari è
stato tra gli elementi propulsori delle mobilitazioni di due anni fa.
Al
fsm di Tunisi, quali previsioni si sono fatte sul futuro del
pianeta terra? Quali invece le proposte per renderlo migliore?
Il dibattito parte da una considerazione
condivisa di base: le cause strutturali delle crisi, a partire da quella
ambientale, sono da ricercare nel modello economico attuale, basato su
iper-sfruttamento di risorse e uomini. È per questo che le soluzioni
vanno cercate al di fuori del paradigma dominante, lavorando alla
costruzione di un modello sociale ed economico sostenibile tanto dal
punto di vista sociale che ambientale. Che vuol dire, per cominciare:
tutela dei territori e riconoscimento dei beni comuni, riconversione
economica, riparazione e bonifica dei siti contaminati, garanzia
universale del diritto alla salute e alla vita.
Gli Stati del Nord Africa (e non solo)
sono stretti in una morsa: per fronteggiare la crisi sono “obbligati” a
cedere alle avances delle
multinazionali che sfruttano le loro terre (e le sottraggono ai
contadini locali) in cambio di transazioni economiche. Queste politiche
però creano le premesse per generare maggior povertà futura. Si è
discusso di come si può uscire da questa morsa?
La terra e le questioni ad esso
collegate sono state tra i principali argomenti discussi a Tunisi:
sovranità alimentare, economie locali, modello di produzione e consumo.
Tra assemblee, seminari e gruppi di lavoro, gli attivisti di diversi
paesi si sono ritrovati con problemi comuni: indipendentemente da
latitudine ed emisfero, il saccheggio delle terre da parte della
produzione agricola e alimentare, gli effetti sempre più lampanti del
cambiamento climatico e le sempre più aggressive pratiche di estrazione
sono divenute minacce costanti per le comunità e i territori.
Chiaro che un simile circolo vizioso non
può che creare maggiori disuguaglianze e povertà. Per questo le sfide
che i movimenti contadini affrontano sono ovunque le stesse, come anche
gli obiettivi prefissati: accesso alla terra, libertà dei semi,
rafforzamento delle economie locali e della sovranità alimentare, a
partire dalle comunità.
Qual è il nesso tra migrazioni,
industrie agroalimentari e Politica Agricola Comunitaria, fortemente
contestata da tempo dalle organizzazioni partecipanti al Forum?
Il nesso tra queste cose si evidenzia
proprio in un paese come la Tunisia, non a caso scelto come luogo
dell’edizione 2013 del fsm.
Dagli anni 60 ad oggi l’Africa si è
trasformata da regione esportatrice di alimenti a continente dipendente
dalle importazioni. Terra di agricoltura e pesca, la Tunisia è da tempo
diventata un porto di partenza di migliaia di persone, costrette ad
abbandonare le loro terre, distrutte dalla scarsità di acqua, dalla
desertificazione e dallo sfruttamento delle risorse, in cerca di
opportunità di vita altrove.
Sebbene siano molti i paesi in cui il
cambiamento climatico e l’industrializzazione crescente delle produzioni
agricole impongono l’abbandono delle terre d’origine, i paesi del
Maghreb, finestra di fronte dell’Europa Mediterranea, rappresentano
perfettamente le criticità di un sistema che impone come esternalità
negativa crescenti flussi migratori (distruggendo i mezzi di sussistenza
nei paesi di origine) ma pratica come politiche migratorie i
respingimenti o, una volta sul territorio nazionale, accetta
sostanzialmente un modello lavorativo di semi schiavitù. Basti pensare
alle centinaia di braccianti che contribuiscono ogni anno alla
produzione industriale di pomodori o agrumi – solo per citare un esempio
– coltivati in condizioni di lavoro degradanti nel Sud di Italia e
Spagna.
All’occhio ormai esperto dei movimenti
internazionali che da anni lottano per la sovranità alimentare e per un
produzione agricola che sia in armonia con l’equilibro del pianeta,
industrie agroalimentari e istituzioni politiche sono egualmente
coinvolte in quella che sembra essere una deportazione organizzata: i
contadini che ancora riescono ad ottenere qualche piccola produzione
dalle loro terre – quando queste non sono spossate dai ritmi imposti
dalla produzione industriale – non possono competere con i prezzi delle
industrie agroalimentari che qui in Maghreb si espandono ad un ritmo
impressionante. Ad alimentare questa condizione, la Politica Agricola
Comune implementata dall’Unione Europea, arrivata sull’area mediterranea
come una scure a causa dell’abbassamento dei prezzi dei prodotti
agricoli che comporta.
Le migrazioni sono insomma strettamente
legate al modello economico che abbiamo imposto ai paesi del sud. Lo
dimostrano i 2 milioni di persone che ogni anno tentano di entrare
illegalmente in Europa, spesso finendo tragicamente e andando ad
ingrossare la lista delle migliaia di africani morti o dispersi nel
mediterraneo.
Le primavere arabe. Molti studiosi
concordano sul fatto che siano state “controllate” ed hanno portato al
caos. Quali analisi a tal proposito al Forum?
Le primavere arabe non possono ancora
considerarsi processi rivoluzionari conclusi. La popolazione tunisina
denuncia ancora un clima di censura e repressione, e molti attivisti,
giornalisti e blogger incontrati al Social Forum credono che il processo
di cambiamento reale debba ancora sedimentare e sia solo all’inizio.
Tuttavia sembra crescere la mobilitazione di alcune realtà associative e
soprattutto dei giovani studenti che rivendicano la democratizzazione
della vita pubblica, il diritto al lavoro, all’accesso all’informazione
e il miglioramento generale della qualità della vita.
Quel che è certo è che c’è una gran
voglia di sapere, conoscere, costruire relazioni e ragionare insieme a
tante altre persone ed organizzazioni del mondo su prospettive di lavoro
comune, ma anche semplice curiosità e un rinnovato entusiasmo nel
sentirsi parte di un movimento globale che deve guardare anzitutto al
Mediterraneo, ricostruendo ponti di solidarietà, cooperazione e mutuo
soccorso tra due sponde mai state così vicine.
APRILE 2013
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