UNA PRIMA RISPOSTA A GUIDO COSENZA
Redazione
Il presente testo raccoglie l’invito di
Guido a dibattere circa l’impostazione teorica della rivista Città
Future. La valutazione contenuta nel suo articolo evidenzia i limiti di
un carattere tendenzialmente miscellaneo della rivista, che spesso non
presenta una linea convergente e per di più afferma cose anche disparate
senza che sia riconoscibile una direzione di analisi chiara. La
redazione della rivista sente di accogliere le riflessioni di Guido,
nella consapevolezza della loro verità di fondo e argomenta in merito
anche nell’intento di esplicitare ai collaboratori una volontà di
confronto maggiore sulle tematiche trattate. L’esplicitazione ha il
senso di esternare un certo disagio che la redazione vive nel non
riuscire a coinvolgere, i pur numerosi e generosi, collaboratori in un
rapporto di discussione più serrato e continuativo. Questo disagio è
però vissuto consapevolmente nel senso che proprio le tematiche trattate
in gran parte degli articoli pubblicati, indagando i cambiamenti
antropologici che le tecnologie dell’informazione stanno determinando,
ci rendono edotti su come le relazioni umane stiano cambiando e, per
questo, consci di come ciò non possa non avere conseguenze anche su noi
stessi e sul modo in cui oggi è o meno possibile anche fare una rivista. Tuttavia
la consapevolezza circa la fine di un’era non significa non provare
neanche a fare diversamente e a tentare di tenere saldi dei rapporti
umani centrifugati da mille contingenze di un’esistenza senza più
appartenenze. Siamo in un momento in cui mettere fisicamente anche dieci
persone intorno ad un tavolo per discutere programmaticamente è compito
arduo, ma il problema non è neanche prettamente logistico, dato che la
precarizzazione delle relazioni a tutti i livelli ha effetti sul modo di
pensare stesso delle persone, al punto che ciò in cui sinceramente si
crede oggi è già passato di mente domani e qualsiasi programma, anche
semplicemente relativo a ciò di cui si vuole scrivere, è quasi sempre un
programma istantaneo, vale a dire la fotografia di ciò in cui si crede,
o che ci appassiona, nell’ultimo momento utile per poter scrivere.
Fatta questa premessa è il caso di
entrare più nel merito delle osservazioni di Guido.
La redazione condivide
l’obiettivo di costituire un riferimento per un’azione incisiva
della realtà, ma proprio il tentativo di essere un’espressione condivisa
di azione potenziale, oltre che di analisi, presuppone una natura
collegiale che non dipende dalla volontà di un nucleo ristretto di
persone. Il primo problema in questo senso è rappresentato da un dato di
fatto. A più di tre anni di attività la redazione registra una crescita
nulla in termini di risorse umane, nonostante il dato positivo della
continua crescita del numero di collaboratori che scrivono sulla
rivista. Cogliamo quindi l’occasione anche per dire pubblicamente che la
redazione vuole crescere nella consapevolezza che non ha molto da
offrire ma piuttosto da chiedere a chi vorrà eventualmente contribuire.
Essendo sostanzialmente una rivista politica ciò che essa chiede è una
sorta di militanza attiva paragonabile a quella che molti hanno magari
già svolto in strutture partitiche quando queste ancora non erano
dissolte. Chiunque abbia avuto un po’ d’esperienza in tal senso sa che
la politica richiede tempo e dedizione, senza, molto spesso, ripagare
l’impegno profuso. Ecco, se questo tempo lo si vuole impegnare per
qualcosa di attivo, la rivista è un modo di farlo, ma bisogna crederci.
Senza discussione corale sui problemi
osservati è difficile esprimere posizioni condivise e convergenti e per
farlo non resta che escludere tutti i contributi dissonanti, ma una
scelta di questo tipo sarebbe oggettivamente un impoverimento. Neanche
si può accettare, pensiamo, l’opzione del “tutto o niente”, nel senso di
dire che se non si può avere un collettivo allora non vale proprio la
pena di cercare l’espressione di un disagio crescente cui la realtà ci
costringe.
“Non tutti gli strumenti d’indagine sono
equivalenti”. Siamo perfettamente d’accordo e riteniamo anche che se
siamo qui a discutere della realtà che osserviamo, ciò lo dobbiamo ad
uno strumento d’indagine particolare e non ad uno tra gli altri. Lo
diciamo chiaramente, tale strumento è il marxismo. Ma diciamo
chiaramente anche che non tutta la redazione è legata al marxismo nello
stesso modo, ma soprattutto che il marxismo non può essere una
discriminante nei rapporti umani e politici, perché in tal modo esso si
trasforma in uno strumento di esclusione e non di inclusione, negando la
sua natura di oggetto di adesione consapevole e non di demarcazione
intellettuale. Su questo punto siamo anche convinti che non esista un
marxismo, ma soltanto marxismi e che tutti non sono ascrivibili a Marx.
A questo discorso è ovviamente collegato
quello sulle “scorie di idealismo”. Diciamo che, pur essendoci nella
redazione posizioni diverse a riguardo non crediamo che una distinzione
generica tra materialismo e idealismo sia di per sé così utile. Bisogna
piuttosto capirsi su cosa si intende per materialismo ed idealismo. E
crediamo che a questo riguardo molte considerazioni dei Quaderni dal
carcere di Gramsci possano essere interessanti. Sempre per chi crede che
il pensiero di Marx vada anche oltre i tre tomi de Il capitale. Ad
esempio Canfora infatti sostiene che il “sistema misto” vada riformato
con un ritorno al proporzionale (cosa condivisibile nell’ambito di una
riforma della rappresentanza, ma non nell’ambito necessario del suo
superamento), noi sosteniamo che la democrazia rappresentativa vada
sostituita con la partecipazione diretta di tutti, senza esclusione
alcuna, alla vita politica del paese, dato che la rappresentanza governa
da decenni in nome del popolo sovrano contro il popolo. La forma
possibile di tale partecipazione diretta non è ancora data, ma
certamente non può essere più mediata dai partiti e certamente non può
essere qualcosa di paragonabile a ciò che propone Grillo, almeno non in
internet per come internet si presenta e funziona oggi. La proposta,
avanzata nell’ultimo editoriale, della “demarchia” se da un lato è
provocatoria, dall’altro è una suggestione volta a rivendicare un modo
immediato per evitare la storica esclusione del popolo dalla gestione
del potere e rompere la gestione monoclassista delle istituzioni. Non
c’è traccia di questo nelle tesi di Canfora. In ogni caso bisogna
discutere nel dettaglio queste posizioni, e non basta semplicemente
bollarle come idealiste.
Sulla questione culturale
Non si può disconoscere la gerarchia tra
struttura economica e sovrastruttura culturale nella determinazione
generale del funzionamento della società. Ci mancherebbe altro. Il fatto
è che però accettando questo schema senza tentare di storicizzare le
relazioni particolari tra struttura e sovrastruttura non si riesce a
comprenderne il nesso profondo. Se è vero che la transizione ad un
diverso sistema economico è sostanzialmente fenomeno politico (cosciente
o meno), allora esso si genera nella sovrastruttura. Ad esempio quando
Marx scrive Il capitale
fornisce alla cultura umana uno strumento di interpretazione che cambia
la percezione della realtà svelandone il funzionamento intimo. Solo a
partire da questo momento diventa possibile pensare al superamento del
capitalismo come sistema. Dunque se si riesce a intravedere un problema
strutturale e a concepirne la soluzione è solo grazie ad un’operazione
che prima di tutto rompe degli schemi mentali di lettura della realtà.
Se la struttura determinasse sempre tutto il resto, allora nulla
potrebbe determinare la struttura e dunque qualsiasi discorso sulla
transizione sarebbe puro esercizio intellettuale.
Dicendo che l’Europa si è autoesclusa
dalla possibilità di egemonizzare la cultura mondiale significa
semplicemente ammettere che la distruzione di forze produttive
rappresentata dai conflitti mondiali del Novecento, ha avuto una
geografia particolare che ha devastato un continente piuttosto che un
altro e questo ha determinato un vantaggio economico e militare
americano che non è merito degli americani. È certo che l’egemonia
culturale americana deriva dalla supremazia economico-militare, ma
questa supremazia è derivata a sua volta da una devastazione bellica
localizzata in Europa, che ha avuto dinamiche storiche interne e cioè
sostanzialmente indipendenti da attività americane. Puntualizzando un
passaggio in più il risultato non cambia nella sostanza. Certo è meglio
essere precisi, ma nel processo storico non ci sono solo cause ed
effetti ma anche cause delle cause e effetti degli effetti. Né porre la
questione in questi termini vuol dire sostenere che se la storia si
fosse svolta diversamente non sarebbe potuto sorgere un “europeismo”
anche peggiore dell’americanismo. Ma la storia non si fa con i se.
La supremazia economico-militare resta
un dato di fondo valido che però non lascia intravedere i motivi per i
quali una società funziona come funziona. Non si può sostenere che le
abitudini materiali di milioni di persone siano condizionate dalla
supremazia economico-militare degli americani, tanto più in un’epoca
spettacolare in cui il potere ottiene pacificamente ciò che vuole e non
tramite meccanismi di pura repressione. Per questo motivo la categoria
gramsciana dell’americanismo ci sembra una chiave interpretativa molto
utile per la comprensione del presente, soprattutto perché permette di
indagare in quali modi un sistema economico riesca attraverso la
produzione di merci a produrre, non “anche” ma “soprattutto”,
soggettività, in sostanza, conformi al potere e la cui percezione del
mondo è depurata dalla coscienza delle sue disfunzioni. La soggettività
di una società americanizzata è una soggettività capitalistica
“naturalizzata”. Per questo pensiamo che possa accadere che
«Si vedono i più sfavoriti,
investire con passione il sistema che li opprime»
(L’anti-Edipo, pag. 397).
Per questo motivo quando si dice
“degenerazione della democrazia” non ci si riferisce ad un fenomeno
storico che registra la discesa da una forma di democrazia reale ad una
forma di democrazia falsa, cosa che implicherebbe l’ammissione che da
qualche parte nella storia si sia manifestata almeno una volta la “vera
democrazia”, ma si vuole intendere che è possibile continuare a
denominare con il termine democrazia la forma politica attuale solo
perché manca completamente un concetto condiviso di cosa questa parola
possa significare e questo, ci pare, sia un dato soprattutto culturale
prima che strutturale. Di passata è utile sottolineare come la
democrazia rappresenti, una volta demistificata, un vero e proprio modo
di produzione antitetico a quello attuale, che se da una parte
appartiene al dominio della cultura in primis, dall’altro è capace di
incidere direttamente nei meccanismi economici, legando finalmente in un
unico discorso cultura, politica ed economia.
Dire che la condizione culturale attuale
esclude un significato egalitario della democrazia significa che la
cultura egemone porta i componenti delle classi subalterne piuttosto a
desiderare di distinguersi dai propri simili, a voler essere come chi
sta meglio, senza percepire la mancanza di senso di esistenze il cui
vuoto emotivo, affettivo ed esperienziale è surrogato con il ricorso al
possesso di merce in sempre maggiore quantità. Fuori dai denti è
possibile dire che la categoria politica di ceto “piccolo borghese”
rappresenta oggi una condizione mentale piuttosto pervasiva a livello
sociale e questo è il frutto, per come sono andate le cose dal secondo
dopoguerra in poi, dell’americanismo come programma di colonizzazione
culturale, nel senso che lo si è ottenuto nella pacificazione delle
disuguaglianze e non attraverso la loro eliminazione. Colonizzare
culturalmente nel senso di ottenere la sottomissione con metodi dolci
piuttosto che violenti, che questo sia poi il prodotto indiretto di una
produzione spettacolare che è a tutti gli effetti produzione economica
non toglie che l’effetto culturale possa essere strategicamente più
importante dell’effetto puramente economico di una data produzione e non
implica che le produzioni cinematografiche, e via dicendo, siano nate
proprio con l’intento di conformare le coscienze di miliardi di persone
al mondo, come però non nega la loro natura totalmente ideologica e
apertamente propagandistica
dell’american way of life.
Dunque parlare di cultura e di
democrazia non ha il senso di soprassedere sulle questioni economiche e
strutturali, ma quello di avanzare il dubbio sul fatto che cambiamenti
significativi a livello economico possano accadere senza una critica
volta a rifondare diversamente l’immaginario che domina le epoche
storiche. Crediamo, dunque, che un’analisi storica completa non debba
farsi troppo fascinare dall’applicazione di troppo semplici rapporti di
causa-effetto lineari.
La caduta dell’urss
è un esempio chiarificatore.
Non vi è dubbio che la causa prima del
suo disfacimento è la sconfitta sul piano economico e militare, ma la
spiegazione in questi termini non chiarisce perché la caduta si sia
manifestata in certe forme, in un preciso momento e in una certa area
geografica. Non chiarisce neanche cosa sia mancato, ad un certo punto,
alla società sovietica per evitare a se stessa e al mondo una
mostruosità quale è stata lo stalinismo. In questo senso sosteniamo che
l’occidente capitalista abbia vinto definitivamente la propria battaglia
nei confronti del cosiddetto “socialismo reale” sul piano culturale
dell’immaginario, o se si vuole della mitologia, che ha saputo costruire
su di sé. In sostanza siamo convinti della correttezza di fondo degli
schemi di lettura della realtà che vedono, in ultima istanza, l’economia
come determinante fondamentale dei fenomeni osservati, ma non pensiamo
di poter ritenere tali schemi anche sufficienti a penetrare
efficacemente “lo spirito” di un momento particolare, senza dire che
gran parte dei cambiamenti in corso non sono affatto svincolati da
elementi precipuamente strutturali, legati come sono ad un processo di
evoluzione, in definitiva, tecnologica che rappresenta una vera e
propria rivoluzione industriale, seppure tutta interna ai medesimi
rapporti di produzione analizzati con insuperabile efficacia da Marx.
In definitiva pur comprendendo e
condividendo in pieno le osservazioni di Guido pensiamo di poter
rispondere che siamo completamente d’accordo con lui (anche laddove
potrebbe sembrare il contrario), ma con la determinazione a spingere
l’analisi della realtà anche negli anfratti più nascosti dei rapporti di
produzione, che non sono relativi solo alla produzione di merci ma anche
di soggettività. In questo senso ci inquieta anzitutto il fatto che
decenni di acculturazione di massa su valori antisociali e persino
antiumani, non siano resettabili in poco tempo, probabilmente neanche
dalla più radicale svolta nei rapporti di produzione, se tale svolta non
matura insieme ad una riaffermazione di un diverso concetto di umanità
inverato in forme di associazione adeguate al compito eccezionale di
riumanizzare la società.
MARZO 2013