IL COMMENTO
Guido Cosenza
Legenda
Questo intervento si ripromette di
innescare un dibattito finalizzato all’elaborazione di una comune base
metodologica, nella prospettiva di rendere meno dispersa e inefficace
l’azione della rivista e di promuovere l’emersione di una coerente linea
progettuale.
La finalità di tale operazione è
suscettibile di essere fraintesa, nel senso che l’intento può essere
accolto come l’imposizione di un orientamento metodologico
preferenziale; viceversa l’obiettivo è di evitare che la rivista abbia
un carattere meramente culturale miscellaneo, ci si prefigge di
innescare un processo per cui essa diventi sempre più chiaramente un
contenitore d’idee, analisi e progetti convergenti che abbiano la
potenzialità di incidere sulla realtà e rappresenti un efficace coerente
punto di riferimento.
Ovviamente in via preliminare si dovrà
chiarire se l’obiettivo esposto è condiviso o meno.
L’articolazione di queste note si
configura in due stadi. Un primo in cui si espone l’impostazione
metodologica, un secondo a carattere esplicativo che esamina alcuni
degli interventi apparsi nel n°9 della rivista per indicare come questi
testi si allontanino dall’obiettivo proposto.
Osservazioni generali
Inizierò dal formulare una tesi.
Tesi – Non tutti gli strumenti d’indagine sono
equivalenti ed egualmente idonei a comprendere i fenomeni che sono
scaturiti a seguito della rivoluzione industriale, la fenomenologia
economico-sociale emersa con l’avvento del capitale e le relative
problematiche sono state decifrate a seguito di un lungo processo
teorico culminato con la sistemazione operata da Marx.
L’impalcatura conoscitiva cui ci si
riferisce nella tesi ha permesso di individuare i punti nodali di un
modello produttivo dotato di profonde contraddizioni e che procede
riproducendo e aggravando disuguale distribuzione del prodotto sociale,
così provocando la suddivisione della società in categorie di cittadini
caratterizzate da un tasso di appropriazione diseguale delle risorse.
Nel periodo dello scontro più acuto e violento del conflitto sociale
questa impostazione metodologica è stata patrimonio chiaro e preciso
della classe subordinata nel processo produttivo. Con l’evolversi delle
condizioni storiche e il diffondersi e il rafforzarsi del dominio del
capitale il patrimonio conoscitivo della classe subalterna si è andato
impoverendo, si è assistito all’attenuazione delle solide basi teoriche
conquistate in precedenza dalle avanguardie storiche protese al
cambiamento e si è propagato il loro travisamento ad opera degli
apparati pseudo conoscitivi nati all’ombra del capitale, riconducibili
principalmente all’ideologia idealista.
Il compito urgente che si pone ora è di
liberare le analisi, i discorsi che andiamo conducendo, dalle scorie di
categorie interpretative che hanno debole valenza propositiva e quindi
non sono idonee a individuare le trasformazioni inevitabili che
s’impongono. In realtà l’impostazione metodologica corrente genera
spesso proposizioni che a qualcuno potrebbero apparire suggestive ma che
in realtà non hanno valore cognitivo, spesso sono prive di senso.
La perdita di padronanza interpretativa
e di chiarezza esemplare si riscontra nella più parte delle analisi
critiche del sistema capitalista presenti nella pubblicistica attuale e
non ne sono esenti neppure corrispondenze che trovano spazio nella
rivista.
Nel seguito come esemplificazione del
discorso prenderemo in esame alcuni degli interventi apparsi nel n°9
della rivista – nello spirito di sviluppare idee e metodologie di
analisi su esempi concreti.
Una precisazione preliminare è di
prammatica: l’intendimento del lavoro cui ci sobbarchiamo non è quello
di far polemica per il solo gusto di segnalare debolezza nelle
argomentazioni altrui, ma di elaborare e operare congiuntamente
acquisendo di volta in volta i contributi più disparati per meglio
procedere e incidere nella realtà. Ragion per cui non bisogna sentirsi
svalutati se si propongono rettifiche ai propri interventi o se le
considerazioni addotte possano invalidare quanto dedotto.
L’obiettivo è di aprire un dibattito che
consenta di consolidare una visione comune, di avanzare congiuntamente
nelle analisi in modo da renderle sempre più incisive.
Inizierò dall’articolo della redazione
sulla categoria democrazia in generale e su quella americana in
particolare.
Tema della democrazia
Premessa: L’uso del termine democrazia nella
pubblicistica corrente è ambiguo, da un lato denota una categoria
astratta, non chiaramente precisata, con caratteristiche ideali desunte
da un’utopica epoca mitizzata del passato: la Grecia delle città-stato,
dall’altro designa ordinamenti sociali e annessi organi di governo
demandati alla gestione delle varie componenti più o meno autonome che
concorrono a costituire comunità nazionali, generalmente del cosiddetto
mondo occidentale, nel cui ambito è oramai consolidato il modo di
produzione capitalista. In questo contesto l’espressione ingloba anche
il complesso di normative e di dispositivi tecnici demandati a
salvaguardare e a operare il congegno funzionale del sistema.
L’ambiguità sorge dall’osservazione che lo stesso
termine indica un’idea astratta, allegoria dell’anelito a una reale
eguaglianza di tutti i membri della comunità, e un dispositivo di
gestione che salvaguarda il privilegio di una minoranza e che si
presenta come la realizzazione di quell’aspirazione a condividere su
base paritaria le risorse disponibili.
Quest’ultima osservazione denota un intento
ingannevole nell’adozione del medesimo vocabolo in due differenti
contesti.
In altri termini la pubblicistica corrente intende
avvalorare l’esistenza di una categoria atemporale, un concetto
astratto, un dispositivo ideale cui si ispirerebbero, o si siano
ispirati, i vigenti ordinamenti sociali per adeguarsi a una giusta
salvaguardia su basi egualitarie degli interessi, dei diritti e dei
doveri dei membri della comunità.
È da quest’ultima operazione fuorviante che si
originano proposizioni
inappropriate come: «degenerazione della democrazia», «la democrazia
morente cerca, spettacolarizzandosi, di assicurarsi un’esistenza come
zombie di se stessa». Quale che sia il significato che si voglia dare al
vocabolo “democrazia” le due proposizioni sono prive di senso.
Nel merito occorre riflettere sulla circostanza che
tutti gli apparati di governo che si sono succeduti storicamente hanno
badato a salvaguardare il privilegio e a difendere gli strati sociali
egemoni. Nel sistema di città stato dell’antica Grecia l’istituzione di
governo, designata originariamente con lo stesso termine in voga ora,
aveva il compito di perpetuare una società schiavista salvaguardando
allo stesso tempo l’eguale accesso alle risorse da parte dei membri
della classe privilegiata. Ciò che è avvenuto con l’affermarsi del
sistema produttivo capitalista è stato la progressiva costruzione e
perfezionamento di un ben articolato organo di governo inteso a tutelare
gli interessi di classe, pur preservando l’apparenza di strumento
neutrale. In altri termini è occorso mettere a punto un meccanismo che
garantisse l’accesso agli organi di governo solo ai fedeli promotori di
provvedimenti utili allo sviluppo del capitale. A tal fine inizialmente
si è reso necessario precludere alla maggioranza dei cittadini l’accesso
alla designazione dei membri del governo. Mano a mano che furono
perfezionati e gestiti dai ceti abbienti strumenti in grado di regolare
la visibilità di soggetti della più varia natura, così assicurando anche
il monopolio nella designazione dei rappresentanti negli organi di
governo, ne conseguì che la platea degli aventi diritto al voto andò
progressivamente estendendosi fino a giungere al suffragio universale, e
alla ingannevole illusione che a chiunque fosse garantito l’accesso alla
gestione della cosa pubblica. Tale azione graduale che ha raggiunto la
sua acme nel paese a più avanzato sviluppo capitalista è stata barattata
come una marcia di avvicinamento alla democrazia intesa come categoria
ideale.
In definitiva il perfezionamento massimo degli
organi d’indottrinamento a servizio dei detentori del capitale:
monopolio dell’informazione, visibilità sulla base della disponibilità
finanziaria, è avvenuto nel paese che ha sviluppato più ampiamente il
modello capitalista oramai generalizzato a livello planetario, ne è
seguito poi l’adeguamento agli stessi metodi di manipolazione del
consenso da parte delle nazioni che hanno visto a loro volta
consolidarsi progressivamente il modo di produzione capitalista. Ciò che
è indicato come americanismo non è altro che il punto di approdo del
perfezionamento di uno strumento di dominio.
Considerazioni sull’articolo redazionale;
Se la
democrazia
è quella americana
– Dalla premessa precedente emerge che sussistono delle discrepanze non
secondarie con le posizioni della redazione in relazione al tema della
cosiddetta “democrazia”, non è mia intenzione di affrontare l’analisi
puntuale del testo proposto, piuttosto mi sembra opportuno richiamare
alcuni elementi in quanto dalla loro rilevazione è possibile evidenziare
la diversa orientazione del quadro complessivo.
La prima questione che vorrei segnalare
è il riferimento alle tesi di Canfora, esse sono citate nel testo come
esplicative dei fenomeni economico-sociali occorsi nella fase matura del
sistema capitalista e risultano condivise dagli estensori dell’articolo.
Si afferma che «l’egemonia dell’americanismo non è dunque figlia della
supposta superiorità culturale del modello americano, ma, al contrario,
conseguenza della folle autoesclusione europea dalla scena globale delle
culture che avrebbero potuto porsi come modello di civiltà».
L’affermazione è paradossale l’egemonia
degli usa deriva
principalmente dalla supremazia economica e militare quella culturale è
diretta conseguenza di quest’ultima. Pensare a una sfera culturale
autonoma è illusione idealistica. È il capitale che genera, e dove
necessario attrae e assorbe, la sovrastruttura culturale, nessuna
autoesclusione, la dipendenza è imposta dalla risultante delle forze
reali che agiscono sul campo. Vorrei ricordare come l’industria della
cultura è anch’essa parte della macchine economica gestita dal capitale
e quindi imposta con meccanismi di mercato.
Mi bastano due esempi, il predominio
americano nell’industria del cinema e quello nella produzione di
telefilm, due rami essenziali per realizzare profitti e nel contempo
imporre l’egemonia culturale. È il capitale che detta legge non certo
l’autoesclusione o la preminenza di valori culturali.
Ribadisco, non è sul piano della cultura
attraverso l’autoesclusione che si determina il predominio di una
formazione economico-sociale. Canfora e con lui la redazione ribaltano i
termini del discorso, scambiano cause ed effetti. La cultura è specchio
della realtà. In una condizione di supremazia economico-militare si
realizza anche la prevalenza dei canoni culturali. Soprattutto non è un
fenomeno controllabile e quindi non può essere ascritto a scelte
sbagliate, è come dire che un grave dovrebbe sollevarsi piuttosto che
precipitare in basso. La superfetazione culturale è il portato della
struttura sottostante nei suoi aspetti positivi, nuove forme di
espressione, e negativi, adeguamento alla dinamica del mondo delle
merci. Il deprecato imbonimento (fra cui l’istituto delle primarie) è
funzionale alla sopravvivenza del sistema.
Ciò che appare imitativo nelle scelte di
gestione del potere è solo il riflesso di un adattamento alle forme
trovate per primi dai rappresentanti del capitalismo più avanzato. Sono
queste le ragioni dell’egemonia non certo l’ingenua convinzione
dell’autoesclusione altrui.
L’affermazione che «l’americanismo possa
essere letto come un programma di colonizzazione culturale» è
fuorviante. Il predominio degli
usa è di natura economico-militare, il programma è la
sottomissione economica e politica, la dipendenza culturale ne è solo un
sottoprodotto. Così pure non è sul piano culturale che è avvenuta, come
afferma Canfora, la caduta dell’urss
ma nella corsa agli armamenti e nella efficienza produttiva, il mito
della ricchezza e del consumismo sono orpelli secondari, l’urss
era anch’essa un sistema capitalista, poco efficiente in quanto
strutturato a direzione centralizzata e burocratica, per un limitato
periodo di tempo ha nutrito l’illusione di poter competere in egemonia
con gli usa.
Altra affermazione fuorviante: «È la
condizione culturale attuale che esclude la possibilità di concepire il
termine democrazia come portatore di una società fondata
sull’eguaglianza di tutti gli uomini». Qui siamo in pieno idealismo. Ciò
che impone all’istituzione democrazia di non consentire l’uguaglianza,
vale a dire l’accesso al prodotto sociale su base egualitaria, è la
funzione assolta dagli organi di governo di salvaguardia del privilegio,
essenziale allo sviluppo del capitale.
Un’ultima questione riguarda la riforma
di Clistene: Si asserisce che «si compì uno sforzo di concretizzazione
delle istanze teoriche circa le forme di buon governo». Vale esattamente
il contrario, furono rilevati cambiamenti sociali in atto e istanze di
sviluppo economico impedite da una struttura ipercentralizzata.
L’aspetto culturale è una conseguenza delle esigenze sociali e delle
sperimentazioni in atto. La teoria prende l’avvio dall’osservazione del
reale, non viceversa.
Rilevo che nel testo c’è una forte
presenza di argomentazioni d’ispirazione idealista, un punto di vista
che occulta la spiegazione razionale degli eventi storici, la metafisica
di concepire lo sviluppo delle idee come la causa prima dei mutamenti
sociali.
Hegel e dintorni
Non riesco ad appassionarmi a tortuose
disquisizioni nel merito. Non che non ci si possa occupare di qualsiasi
tema, perfino della natura del sesso degli angeli. [Sia bandita
qualsivoglia forma di censura!!] Ma ogni argomento dovrebbe essere
investigato a tempo debito e luogo appropriato.
I conti con Hegel sono stati fatti più
di un secolo e mezzo fa da Marx.
Latouche
Il personaggio è un buon divulgatore dei
danni prodotti dal sistema economico oramai generalizzato, in espansione
incontrollata. La constatazione dell’improponibilità della prosecuzione
del decorso attuale è presente in molta della letteratura critica che si
va sviluppando e ha radici lontane. Ciò che manca alla più parte delle
analisi correnti e in particolare a Latouche è la capacità di indicare
un percorso per evitare una crisi che si prospetta catastrofica.
Nell’articolo si parla di «decolonizzare
il nostro immaginario», «venir fuori dalla religione della crescita», cambiare l’ordine
dei valori, «reintrodurre “un po’ di dolcezza in questo mondo di bruti”
sviluppandovi la cooperazione, l’altruismo, il senso dell’umano e il
rispetto della natura», non abolire la proprietà privata dei beni di
produzione ma allontanarsi dallo spirito del capitalismo. Come se il
problema fosse culturale e non strutturale. È certamente vero che il
panorama comportamentale è devastante, ma è l’effetto di rapporti di
produzione divenuti profondamente inadeguati per il gigantesco sviluppo
e la continua inarrestabile espansione della confezione e distribuzione
di merci.
Sembra facile dire bisogna decrescere,
riduci qua, diminuisci lì.
Immaginate un uomo sulla vetta di una
montagna impervia nella necessità di guadagnare il piano che chieda
aiuto per andare a valle e che gli si dica che per scendere occorre
porre di seguito un piede più in basso dell’altro. Certo non è questo il
contributo di cui ha bisogno il personaggio, piuttosto l’indicazione di
un percorso accessibile. Allo stesso modo occorre, come molti di noi
tentano, cercare, sperimentare nel concreto forme idonee di
organizzazione sociale alternativa.
Provate a diffondere fra la gente gli
slogan di Latouche in questo mondo strutturato in modo da imporre il
trasporto privato, il consumo forzato, ecc..., ecc..., al più saranno
visti come una ammirevole opera di poesia.
Latouche pubblica un libro all’anno, in
Italia editi da Boringhieri, sullo stesso tema diventato di moda, ma
quelle osservazioni non spostano di un centimetro in direzione del
cambiamento, gratificano di arguti argomenti di conversazione e di amene
letture la buona borghesia benpensante.
Le avanguardie i dati relativi alla
crisi dell’attuale ordinamento economico li conoscono bene.
L’uomo a una dimensione
L’analisi della concezione marcusiana condotta da Massimo
Ammendola è interessante e utile nella prospettiva dell’elaborazione di
una strategia per il superamento della attuale dinamica sociale che
nella sua fase matura ha manifestato gravi incongruenze, difficoltà
crescenti di funzionalità e dimostrato oramai chiaramente la sua
profonda inadeguatezza a corrispondere al grado di estensione raggiunta,
condizione suscettibile di determinare guasti irreversibili.
Tuttavia
sarebbe stato opportuno commentare ed esplicitare i limiti
dell’analisi esposta, l’assenza nel testo di una discussione nel merito
degli aspetti sostanziali dei fenomeni descritti. Sarebbe
occorso porre in evidenza l’insufficienza della visione teorica del
filosofo viennese americanizzato.
Marcuse scandaglia a fondo i guasti prodotti nella fase suprema del
capitalismo, in ciò è implacabile, ma la sua visione è interna al mondo
del capitale resta circoscritta alla sfera degli epifenomeni, agli
effetti sovrastrutturali per i quali auspica correttivi, ma non riesce a
vedere la necessità del superamento del sistema economico sociale, né ha
compreso, gli è estranea, la grande lezione di Marx, essa trascende il
suo orizzonte culturale, da buon discepolo di Heidegger. Non perché non
sia a conoscenza degli scritti ma in quanto l’impostazione marxista ha
un carattere marcatamente scientifico, cioè adotta un metodo costruttivo
fondamento delle scienze esatte lontano dal filone Hegeliano di
provenienza dello studioso viennese.
Caratterizzare la deriva capitalista sul piano culturale e
comportamentale è estremamente limitante. Il fondamento della crisi del
capitalismo è principalmente strutturale. Un meccanismo che ha profonde
disfunzionalità, contraddizioni interne che ne minano lo sviluppo. I
riflessi sul piano culturale, artistico e quant’altro sono solo una
conseguenza, certo estremamente significativa e da studiare, ma è sul
piano strutturale che occorre intervenire. Marx ha visto nel capitalismo
uno degli stadi dello sviluppo storico della società umana ed è proprio
il punto di vista di osservatore dei fenomeni, del loro decorso, esterno
al sistema, che ha permesso di comprenderne la funzionalità nella sua
pienezza e il conseguente inevitabile superamento. Viceversa se si
restringe la fenomenologia da esaminare, cioè si rimane circoscritti in
alcuni ambiti senza scandagliare in profondità, si ha una visione
limitata e distorta e non si ha modo di percepire la via per modificare
il corso degli eventi, prospettiva che si pone a noi in questa fase
storica.
Mi
limiterò a poche ma significative evidenze:
Si
menzionano
«due forme di pensiero e modelli sociali egemonici,
capitalista-democratico e marxista-comunista», per entrambi si afferma
che siano «retti dall’idea dell’aumento indefinito della produzione».
Nella analisi marxista la propensione all’aumento indefinito della
produzione è presentato come una delle contraddizioni del capitalismo
che tendenzialmente dovrebbe portarlo alla debacle. È errato associare
al vocabolo “marxista” l’idea dell’incentivazione del fenomeno
dell’aumento della produzione, della sua auspicabilità. Più grave da un
punto di vista teoretico l’affermazione che uno dei blocchi fosse a
carattere comunista.
Di sistemi sociali comunisti si sono visti in ambito storico solo due
abbozzi, il primo nel corso della Comune di Parigi, il secondo durante
la rivoluzione d’ottobre in occasione del cosiddetto comunismo di
guerra, ma quei tentativi si esaurirono molto rapidamente. Che il regime
dell’urss ai tempi in cui lo descriveva Marcuse non fosse
comunista ma piuttosto un regime anch’esso capitalista, nella fase
dell’accumulazione primitiva, lo testimonia il fatto che la classe
operaia era assoggettata a un grado di sfruttamento perfino superiore a
quello vigente nelle restanti nazioni, ciò che distingueva i due regimi
esistenti era il meccanismo di distribuzione del prodotto sociale
nell’un caso regolato dal mercato nell’altro pilotato per via
burocratica. Il mercato era di gran lunga più efficiente dei burocrati,
anche se forse meno sensibile ai bisogni sociali.
In tutta l’impostazione di Marcuse si manifesta con chiarezza la
debolezza di una analisi idealista che propone di modificare gli effetti
dell’organizzazione produttiva e sociale divenuta inidonea al grado di
sviluppo raggiunto e non piuttosto intervenire a determinare una
transizione di fase storica, la sola via d’uscita da una crisi
dilagante.
Tutti i critici della società capitalista che non ne mettono in
discussione il modo di produzione ma si muovono all’interno del sistema
accettando i meccanismi di formazione del profitto, proponendosi cioè di
salvare il sistema modificandone gli effetti più deleteri senza
intervenire sulle cause profonde, in fondo finiscono per divenire agenti
del capitale, essi non concepiscono altro ordinamento che quello
capitalista, esattamente come gli economisti che si limitano a mettere
le pezze a un sistema oramai allo sbando escogitando correttivi sempre
meno efficaci.
Nell’articolo si dichiara che non s’intravedono mutamenti, certo nei
piani alti sovrastrutturali, laddove si manifestano i guasti prodotti,
il trend distruttivo non ha tregua. È viceversa nel tessuto sociale di
base che si cominciano a evidenziare smagliature significative. I
mutamenti si manifestano in forme
diverse da quelle canoniche del passato.
È ingenuo lamentare che la gente accetta la società presente, che non
senta il bisogno di mutare il proprio modo di vita, la responsabilità
non è della mancata coscienza o scarsa conoscenza dei guasti prodotti e
nemmeno è l’effetto della sempre più ampia distribuzione di beni. La
realtà è che la presente organizzazione sociale non ammette deroghe e
contrasta efficacemente ogni tentativo di apportare a livello
individuale modifiche alla propria condizione sociale.
Risulta evidente in Marcuse la profonda antitesi fra una analisi
puntuale delle gravi incongruenze a cui è pervenuta la comunità umana in
regime capitalista e la povertà dei rimedi proposti: la istituzione di
una serie di libertà dall’economia, dalla lotta quotidiana, libertà
politica, libertà intellettuale, ecc...ecc... Inoltre si sostiene che la
salvezza dovrebbe provenire dalla tecnologia, si afferma che la scienza
dovrebbe diventare politica, che i valori dovrebbero diventare bisogni.
Insomma un guazzabuglio.
Riassumendo, Marcuse si pone in un sistema filosofico che nasce e si
sviluppa senza attraversare l’orizzonte capitalista per cui, pur
constatando le profonde insufficienze che sono venute alla luce, manca
degli strumenti per investigare e trovare la via che ne arresti e
sopprima gli esiti negativi, i semi e le problematiche del nuovo sono
fuori della sua visuale. Marx ponendosi come osservatore esterno riesce
a vedere molto più lontano.
In
conclusione buona parte degli
articoli sono contaminati forse involontariamente da una visione
idealista che se non voluta occorrerebbe espungere, se voluta allontana
dalla comprensione dei fenomeni in atto.
In compenso compaiono delle analisi approfondite e stimolanti (ad
esempio:
Transition towns e
La totalizzazione del
rapporto di capitale) che andrebbero discusse,
commentate, approfondite, sottoposte a critica, ma che allo stato
attuale restano lettera morta e quindi non arricchiscono la dinamica
della rivista e il patrimonio di idee degli autori e dei lettori.
MARZO 2013