La città dell'uomo
VIRT-REALITY SHOW: SIMULACRI IN CITTà
Alessandro D'Aloia
Spazio privato come difesa
In tv accade di tutto. Accade persino
che le strade siano sgombre. Così si vedeva nel nuovo spot[1] della vecchia
smart. Accadono lapsus freudiani dell’ideologia capitalista, a sua
stessa riprova. Proprio come una persona che si è accorta di dichiarare
una cosa non voluta, e nell’imbarazzo della verità cambia discorso, si è
visto sparire dalla programmazione l’insostenibile concentrato di cliché
reazionari che agitano il nostro “senso comune”. Erano oggettivamente
offensivi nei confronti dell’uomo, prima che dell’ecologia e della
mobilità pubblica, quei trenta secondi di
slow motion a ripetizione in
cui il contatto forzoso di persone, imprigionate nel servizio di
trasporto pubblico, diventava parossistico al limite della decenza. Una
fotografia raffinata al punto da diventare quasi olfattiva, giocava sul
senso di sudicio di corpi sudati che si asfissiavano, su animali
occupanti interi sedili, sul frastuono di sguaiati suonatori ambulanti.
Un vero girone dantesco, di dubbia umanità, al quale si contrapponeva
l’immensa libertà di chi, astutamente, sceglieva il servizio privato
dell’auto da città, potendo sfrecciare sulla strada (pur essa pubblica
però) così incredibilmente sgombra.
In molti sono davvero convinti che
guidare per ore nel traffico sia “più comodo” che spostarsi liberamente
a piedi, sfruttando infrastrutture di trasporto pubblico. Si sente
sostenere, da più parti, che l’autobus è più comodo del treno. Molti
pensano sinceramente che lo spazio pubblico invaso da scatole colorate
dalle forme avveniristiche, anche se puzzolenti, sia effettivamente la
cifra della modernità e preferiscono davvero passare grosse fette della
propria giornata incapsulati in un guscio metallico, ipertecnologico e
costoso, incastonato in arcipelagi di proprietà privata su ruote. La
pubblicità servirà pure a qualcosa.
Tanto questa convinzione è ormai
radicata da costituirsi proprio come stile di vita. La gente percorre
blindata i propri percorsi, anche a piedi. Si cerca protezione dagli
astanti mediante telefonini, iPad, tablet e così via e lo si fa anche quando capita di stare
insieme, tenendo discorsi in contemporanea, quasi a voler dimostrare il
valore superiore dalla propria attenzione, gentilmente concessa alle
presenze fisiche. L’uomo è in fuga dallo spazio reale, ha paura del peso
e dell’odore dei suoi simili.
Evasione
L’uomo può fuggire, senza partire. Lo ha
fatto per decenni grazie alla “finestra inversa”[2] della propria
camera. Oggi le sue finestre inverse, moltiplicate, sono diventate
portatili, liberandolo anche dall’ultima necessità di essere implicato.
Fuggendo egli afferma il desiderio di ritrarsi, eleggendo come
preferibile il proprio spazio virtuale, che gli permette il lusso della
sostanziale indifferenza nei confronti della propria appartenenza
fisica, così gravosa e permeata di necessità. Ambienti virtuali
avvolgono in ogni dove l’etere realizzando la tascabilità dello spazio.
Te lo chiudi nel tuo tablet, lo apri dove vuoi, ti alieni dalla tua
stessa corporeità, lo esibisci agli altri, ti ci identifichi fortemente
perché è tuo e di nessun altro. Te lo porti anche in viaggio e ti
appropri degli spazi che visiti mediante gigabyte di fotografie alle
quali soltanto affidi la tua memoria del periplo, quasi a dimostrare a
te stesso di essere veramente stato là. Costruisci così i tuoi mondi
virtuali, le tue proprie geografie esistenziali, e molto spesso tanto ti
basta. Gigabyte di spazio virtuale, fatto di amici che non incontri, di
luoghi che non vivi, di storie immobili, di relazioni sciolte, di
messaggi istantanei che registrano con precisione chirurgica il vuoto
della tua quotidianità. Vuoi mettere la comodità di tenere relazioni
mondane in pigiama?
Second life
Finisci, ad un certo punto, a passare
più tempo ad archiviare la tua vita che a viverla. Essa quasi non esiste
senza prova digitale. Hai bisogno di rappresentarla a te stesso (e agli
altri) ed hai definitivamente traslocato, senza accorgertene, nei
terabyte delle tue memorie rigide. Ma non lo hai fatto da solo. Quando
esci per strada a procurarti del cibo, incontri, ad essere fortunato,
simulacri fisici di altre memorie digitali, corpi senza pensiero, di cui
niente sai e nulla ti importa, affaccendati, come te, in intime
operazioni di pura toilette.
Solo il tempo necessario ad aggiornare i
tuoi vari profili, ti consente di non badare a quanto hai lasciato nel
tuo vecchio appartamento, quello nel condominio del tuo quartiere in cui
il tuo corpo riposa, con almeno l’ottanta per cento dei tuoi sensi.
Quel quartiere di quella città vuota, da
cui tutti sono ormai traslocati, dove non si gioca più a pallone, né a
carte, dove non si confabula più, dove i tramonti passano indifferenti,
dove non nascono amori, ma solo timori, popolato dall’ultima generazione
di esuli della città reale, soli anche loro. Incidentalmente questi
esempi umani liminali cercano di metterci in guardia dal loro più forte
turbamento con la pacatezza di frasi che invariabilmente sussurrano: «La
cosa più brutta è la solitudine».
Dissoluzione del multi-soggetto
Alla sera riassembli pezzi disparati di
percezioni, reali e digitali, sommando i vuoti pneumatici della tua
stereo-realtà[3]. Finestre
inverse lucidamente rifinite confinano il tuo Io, da ogni lato. Non ci
pensi, ma sei intrappolato, non c’è aria nella tua giornata. In alcuni
momenti può sfiorarti l’idea che ti manca la brezza. Lo spazio virtuale
non ne è ancora dotato, in compenso tutto è splendente, senza polvere.
Sei qui, a premere volontariamente
interruttori di connessione e a toccare schermi sempre più piccoli in
cui si nascondono promesse sempre più grandi. Ridicoli scrigni piatti
zeppi di mirabilie che sofisticano il nulla. Lo schermo è lì e non ne
esce niente, sei tu che ci entri, per sempre. Meraviglioso dispositivo
di connessione, buco nero di tempo sociale, spopolatore beckettiano[4]. Il
dispositivo, potendo disporre, dispone la tua assenza dal mondo. Ecco
come è possibile rubare risorse alla rivoluzione. “Proletari di tutto il
mondo unitevi”, basta che sia per finta. E così tu sei connesso a
migliaia, e ciascuno di questi mille, ad altre migliaia. Risultato:
queste migliaia di migliaia si ignorano. La rete? un garbuglio esploso
di sconnessi. Ci hanno dileguato nella quantità.
Lo spazio reale segregato dalle rendite
di posizione, dai confini di proprietà, dagli isolati a blocco, dai
blocchi ad alveare, dai flussi veicolari, si avvita in una spirale di
profili virtuali che moltiplicano le manifestazioni dei singoli
separando anche l’unità indivisibile del soggetto. Ogni singolo si
profila diversamente in diversi ambienti virtuali, popolando reti
multiple che, come ragnatele, lo impigliano da ogni parte.
Multi-soggetti virtualmente ubiqui e realmente smaterializzati.
Il rapporto che si instaura tra città
reale e virtuale è presbite. Puoi conoscere, e conosci, cose e persone
lontane, ignorando perfettamente cose e persone vicine, ma non te ne
curi, dato che la differenza tra vicino e lontano ti appare del tutto
saltata.
Disinvestimento temporale
Così accade che «Non è il tempo a
mancarci. Siamo noi che manchiamo al tempo»[5]. Il tempo
della nostra storia diventa un foglio scritto da altri. Da chi, o da
cosa? Dispositivi meccanici predeterminati automatizzano incastri
dichiaratamente avversi all’uomo, libero di occuparsi di faccende
virtuali.
Rendite e mercati dettano linee di
sviluppo al formicaio umano che si affanna, senza ribattere, nella
costruzione e sostentamento di spazi destinati ad altre macchine, a
turisti facoltosi, a dirigenti ossequiosi, a cerimonie di alto bordo, ad
eventi temporanei, persino ad acquirenti inesistenti. Una cittadinanza
relegata alle libertà (degli spazi) virtuali, permette, silenziosa e
collaborativa, che il suo spazio reale sia colonizzato contro di sé.
D’altra parte per quello che le serve, non pare essere un problema. Non
saprebbe neanche che farsene di parchi pubblici, piste ciclabili,
piscine, biblioteche, piazze. Non ha tempo di chiudere le proprie
finestre inverse, che la seguono ovunque, richiedendo continuamente,
attenzione e tempo. “Armi di distrazione di massa” funzionano a ciclo
continuo, nella confusione del gioco-lavoro. La necessità di decrescere
s’impone non fosse altro che per liberare tempo, per quella vaga idea di
rallentamento.
Mire predatorie non hanno bisogno di
ricorrere a dichiarati dispositivi di controllo, da quando possono
contare sulla libera adesione di tutti alla giostra digitale allestita
nello spazio virtuale, questo sì davvero potenzialmente infinito. Ma
niente illusioni, dal momento che anche lo spazio virtuale è una
produzione. In quanto tale esso non sfugge alle regole del “grande
urbanista”, che infatti già dispone steccati, accessi controllati,
regole di comportamento, spazi preclusi, tariffe di fitto, rendite di
posizione, software proprietari, applicazioni rigide ed ogni sorta di
striuature possibili ed immaginabili. In questo spazio, apparentemente
illimitato, il tuo movimento non è libero. I tuoi comportamenti sono
forzosamente conformi alle possibilità programmate. Puoi fare solo ciò
che è già previsto. Esattamente come accade negli spazi privati o nelle
infrastrutture pubbliche della
società del controllo[6]. Il movimento
è condizionato, totalmente.
Le finestre inverse hanno qualcosa che
le accomuna agli specchi, con la loro capacità di proiettare
rappresentazioni del mondo e di persone, attraverso un meccanismo di
scomposizione e ricomposizione digitale del materico, in cui ovviamente
tutto si depura in una specie di catarsi generalizzata.
Il capitalismo ha inaugurato, con la
città virtuale, la sua propria utopia. Esso si dà ad un tempo come
realtà e come utopia di se stesso. Ma nel dare vita alle infinite
proiezioni di sé ha anche fornito l’eterotipia per eccellenza della
città reale, creando luoghi, in cui tutto appare possibile, proprio
perché ciò che vi accade non avviene da nessuna parte. Queste etorotipie
digitali sono frequentate in massa senza che nessuno si incontri. Nel
processo di virtualizzazione dello “spazio altro” si è di colpo
de-potenziato il suo reale potere destabilizzante. Ma l’eterotipia di
cui abbiamo bisogno è situata al di qua dello schermo.
Libertà condizionata
Basta farsi un giro all’Ikea per
comprendere la claustrofobia dello spazio privato e ad un tempo il
nostro destino nella città virt-reale. Chi ha progettato quegli spazi ha
previsto i tuoi percorsi, ha calcolato il tempo minimo che dovrai
impiegare una volta entrato. Entrerai, e farai 4 chilometri a piedi,
impiegando almeno un’ora, senza possibilità di riposarti, sederti o
prendere una boccata d’aria; così dovrebbe esserci scritto all’ingresso.
Anche se già sai esattamente cosa devi comprare, ti sorbirai ugualmente,
ignaro, l’intero percorso, dato che non sono previste altre uscite. Chi
ha progettato quegli spazi, ha disposto del tuo tempo, ha previsto le
tue mosse. Sei parte di un programma, anche qui.
Il tempo come dispositivo di controllo è
elemento perfettamente noto a chi ha progettato gl’infernali scatoloni
dell’Ikea e a chi, ad esempio, ha pensato di regolamentare l’utilizzo
delle autostrade mediante la misurazione dei tempi di percorrenza degli
utenti, tramite Tutor.
Le piazze della città virt-reale si
svuotano progressivamente al crescere del numero di applicazioni per
iphone che
In spiaggia, invece, ti senti libero.
Decidi tu se stare al sole o in acqua. Se stare seduto o sdraiato, con o
senza l’ombrellone. In acqua poi, non ci sono limiti, puoi andare a
destra o a sinistra, sopra e sotto, planare e risalire, fare capriole e
se c’è uno scoglio puoi volare. Sei in uno spazio liscio, ti senti
potente. Lo spazio liscio è vuoto.
Quando si delimitano spazi, si riempie
il vuoto, innalzando mura, e predisponendo varchi (di controllo). È chi
decide di costruire quelle mura che determina gli usi e, ovviamente, gli
accessi possibili degli spazi. Forse la piazza è di tutti, dato che
essendo un vuoto, nessuno potrà mai dire di averla costruita? La piazza
è liscia, ti ci senti quasi come in spiaggia. Potrebbe darsi che una
politica dello spazio pubblico sia semplicemente una “politica del
vuoto”. Lo spazio non costruito è quello che nessuno potrà recintare.
Spazio e luogo
Ma se di vuoto si parla, cosa lo rende
un luogo? Molti architetti e urbanisti, ma anche politici, sono convinti
che basti erigere opere, per far luoghi e spesso devono registrare
sonori fallimenti in termini di utilizzo dei loro spazi. Grosse porzioni
di edificato stentano ad assumere quei caratteri di centralità che nei
secoli hanno contraddistinto gli spazi pubblici della città
pre-capitalista. Manca sempre qualcosa e quel qualcosa è la presenza
corporea della comunità. Non si possono progettare luoghi senza comunità
e non c’è comunità senza disponibilità di tempo da socializzare. Nessuna
piazza, quartiere o città è possibile dove le persone mancano al loro
tempo. Il tempo sociale è un elemento della progettazione al pari di una
trave, di un pilastro, di una facciata. È per questo che nella
conformazione degli spazi non si può restare indifferente al trattamento
che i cittadini subiscono nei processi che li coinvolgono nella vita
sociale. Per questo la spazialità è, senza mezzi termini, una questione
politica. Hai voglia a comporre esteticamente brani anche notevoli di
città, se poi nessuno ha tempo di utilizzarli. Hai voglia di immaginare
appartenenze di corpi a degli spazi, in una comunità i cui rapporti sono
destrutturati dalla precarizzazione esistenziale della flessibilità
produttiva, dell’esternalizzazione, dell’aumento della giornata
lavorativa e della disoccupazione strutturale, come del disinvestimento
del tempo libero. La città ha assunto la veste paradossale di uno spazio
di concentrazione organizzato su famiglie di dispositivi di solitudine.
Il “permesso di soggiorno” non è solo un problema degli immigrati. È
questo il principale problema-obiettivo della scomparsa della comunità
urbana: infrangere la solitudine; rifiutare ciò che isola.
In effetti nel 2011 gli Indignados, non
hanno fatto altro che occupare, insieme, le piazze delle città, per
affermare la volontà di riappropriarsi della politica, attraverso la
formazione di una comunità riconoscibile. Per fare questo hanno
utilizzato due elementi, il loro corpo e il loro tempo. Hanno affermato
che il luogo della politica, o della democrazia reale, è fatto di spazio
pubblico e di tempo sociale. Se hanno perso, probabilmente ciò è
avvenuto sul piano del tempo, quando restituendo lo spazio delle piazze
al loro consueto vuoto, hanno prima di tutto restituito il loro tempo
alle consuete occupazioni, anche quando queste sono delle inoccupazioni.
Diritto alla produzione
Problemi di un’altra epoca, si dirà. Ma
c’è forse chi pensa ancora che lo spazio virtuale sia qualcosa di
sostanzialmente assolto dalle leggi della produzione? Ogni applicazione
non è altro che un ambiente digitale in cui muoversi. Esattamente come
per la città, c’è chi progetta questi ambienti, definendo precise regole
di utilizzo. La differenza è semmai che lo spazio virtuale non esiste in
natura, non ha un suo paesaggio preesistente all’intervento umano e per
questo neanche limiti fisici. Esso è completamente artificiale, una
produzione per eccellenza. Se in città esiste, nonostante tutto, una
forte codificazione pubblica da rispettare (norme, leggi, rapporti
estetici), nel web “il pubblico” non ha ruolo alcuno, ma le grosse
infrastrutture, di utilizzo pubblico, sono completamente private. Per
questo chi le usa lo fa realizzando fini determinati, fin nei minimi
dettagli, alle sue spalle. Ma tant’è, volendo soprassedere sulla natura
di fini altrui che realizziamo tutti, il vero problema di fondo di uno
spazio virtuale strutturato su iniziativa privata è che esso risulta
essere naturalmente inadeguato ad un utilizzo “sociale” oltre che a
formare usi e consuetudini individualistici attraverso un utilizzo a
ciclo continuo. È questo che fa delle tecnologie di connessione un fine
in sé. Si producono spazi virtuali, per creare comunità virtuali di
utilizzatori dettagliatamente “profilati”, che poi acquisteranno oggetti
in grado di far funzionare le applicazioni, che consiglieranno ad altri
amici, che poi faranno lo stesso, ma per fare cosa? Per essere connessi.
Sì, ma per fare cosa? Appunto, per essere connessi. Cioè per eleggere ad
unica possibilità relazionale, non la presenza, il contatto, la
condivisione di progetti, la comunione di impegni che deriverebbe da
qualsiasi fine associativo, ma la solitudine umana del rapporto
uomo-macchina, quale strumento di connessione moltiplicato
all’inverosimile, la regola dell’isolamento tecno-applicativo e la
segregazione della propria soggettività, in un delirio di azioni private
prive di obiettivi concreti elementari.
Qualcuno dibatte sulla possibilità di
definire sport i videogiochi, al fine di nobilitare una pratica
masturbatoria in spettacolare espansione.
È, in ogni caso, un errore pensare che
se la città virtuale è fatta così piuttosto che diversamente, ciò si
spieghi facendo ricorso ad una sua presunta natura intrinseca,
assegnando, così pensando, allo spazio virtuale l’unica cosa che non può
avere e cioè un paesaggio (o una natura) preesistente alla sua
costruzione. Essa semmai si è venuta formando in un certo modo[8], poiché
rispondendo a fini produttivi, ha scelto di innestarsi sull’unica
cultura di massa a disposizione, quella del consumo passivo, in cui l’attività
è ridotta ad operazioni automatiche talmente elementari da passivizzare
l’azione. Siamo al riduzionismo tecno-soggettivo. Ma non basta
connettersi per essere al mondo.
È necessario rivendicare la produzione
di spazio, virtuale o reale che sia, per liberare la creatività sociale
dalle secche della virtualità per la virtualità. Agire contro lo
spopolatore, producendo realtà.
Le città non nascono a caso
Se voglio organizzare una comunità, o
anche solo tentare di farlo, non penso di farlo in uno
store dell’Ikea, ma piuttosto
in una piazza. Per questo motivo, se penso al web come ad uno spazio
sociale, sento una mancanza incolmabile. Sento la necessità di un web
pubblico, che non significa un web pubblicamente accessibile. Per
pubblico bisogna intendere piuttosto qualsiasi spazio in cui la persona
è libera di muoversi senza condizionamenti. Uno spazio privo di varchi,
e al limite, vuoto. Il vuoto è potenza, anche nel senso di potenzialità.
Esso è attivatore di creatività, dato che laddove è già tutto conformato
non c’è null’altro da esperire oltre al consumo passivo.
Resto piuttosto perplesso di fronte a
quanti parlano di “rivoluzioni tecnologiche” e “social network”, come di
cosa fatta, senza lasciarsi neanche sfiorare dal sospetto che uno spazio
privato sia alquanto indisponibile alle definizioni utilizzate. Come se
fosse scontato che una rivoluzione non debba comportare forti
trasformazioni anche di ciò che cataloghiamo sotto il termine
“informatica”. Ma è normale che il web debba funzionare come fa?
Pacificamente si accetta che Google conservi in memoria gli spostamenti
di miliardi di utenti, che
facebook possa bloccare i profili scomodi, che entrambi facciano
accordi con gli stati che vogliono mantenere il potere di censura, che
per leggere una mail bisogna sorbirsi la pubblicità, che l’accesso a
sempre più informazioni sia preceduto da spot televisivi, che tutto
questo materiale inutile ingorghi la rete, che le biblioteche digitali
esistano solo per opere di autori defunti da molti decenni, che i siti
contengano solo la promozione degli oggetti anche quando potrebbero
contenere l’oggetto stesso, che non esista una produzione di software
libero statale neanche per gli usi disciplinati dalla legge, che non si
possa pensare alla professione dell’informatico come dipendente statale,
cosa che equivale a dire che in sostanza quasi non esiste la committenza
pubblica per lo spazio virtuale, esattamente come nella città materiale
è sparita la committenza pubblica per gli spazi sociali. È chiaro: se
l’informatica è monopolio privato non è che possa servire a molto, se
non a continuare a mantenere gli utenti in un rinnovato, e anzi
rafforzato, stato di dipendenza.
Ora è facile comprendere come questa
complessa architettura di vincoli e briglie proprietarie, non sia
connaturata ad uno strumento informativo e connettivo, che per
definizione è circolazione di risorse. Ciò che vediamo non è per niente
naturale, per questo non è una casualità.
L’informatica è stata trasformata in uno
spopolatore colossale della città reale, semplicemente perché aumentando
condizionatamente le possibilità del singolo, rende superflua la sua
necessità relazionale e di conseguenza la sua indole solidale. Ma quanto
più rende l’uomo autonomo rispetto ai suoi simili, tanto più lo rende
dipendente dalle macchine. Le appendici tecnologiche, in questo
contesto, sono numi tutelari della clausura volontaria dell’uomo.
Ciò che manca allo spazio virtuale è,
paradossalmente, una dimensione collettiva. L’impossibilità di formare
comunità territorializzate. La stessa esistenza di gruppi virtuali prova
l’assenza di gruppi reali, dato che difficilmente si scambierebbe
l’originale con il surrogato. La città virtuale è un colossale surrogato
di esperienze, tutte saldamente impostate sulla disarticolazione
dell’unità aristotelica di, tempo, luogo ed azione. Nella città virtuale
domina la diacronia, la dispersione, e l’inazione. Essa è, oggi, un
prefetto dispositivo antisociale.
Territorializzare la virtualità
Si predica la strumentalità della
tecnologia. Resta vero in generale, ma non in assoluto. Ciò che
osserviamo oggi è una finalità onanistica della tecnologia del virtuale.
Essa è celibe, infeconda nel suo rapporto con la realtà. Questa natura
non le è originaria ma imposta. Nella critica alle sue manifestazioni
attuali è implicita la considerazione che potrebbe darsi in altre forme.
La domanda che vale la pena fare è se la città (o meglio lo spazio)
possa tornare ad essere l’oggetto dell’investimento sociale di tempo
attraverso la messa a frutto mirata delle tecnologie di connessione.
Virtuale è tanto il paesaggio e l’ambiente di un videogioco per
playstation quanto la ricostruzione tridimensionale di Roma antica. In
entrambi gli esempi, lo sforzo creativo è rivolto ad un utilizzo ludico
o al massimo culturale. Ci si chiede legittimamente perché non si debba
pensare di lavorare ad una mappa virtuale della città reale presente,
quale contenitore della visione sociale della città sul proprio
sviluppo. Una wikipedia urbanistica, tanto per limitarci all’ambito
spaziale. Con uno sforzo immaginativo si può pre-vedere come il sindaco
di un’amministrazione illuminata, stanca di sottostare ai
diktat degli speculatori della città, decida di mettere a frutto
l’energia creativa immagazzinata nel corpo sociale del territorio che
amministra. Egli chiama a raccolta gli informatici della città e
illustra il suo progetto di piattaforma pubblica per la redazione del
piano regolatore. Gli informatici creano questa piattaforma vuota, a
partire dalla mappa topografica stratificata dello spazio urbano, in cui
ogni professionista di conformazione spaziale (dal geologo allo
psicologo sociale, all’urbanista, al geometra) si auto mappa per zone di
appartenenza (dove vive e lavora). Alla formazione dei profili tecnici
di zona (o quartiere), si fissano i giorni di lavoro. Il lavoro consiste
nella mappatura di dettaglio e in tempo reale degli spazi pubblici (e
privati), quartiere per quartiere. Stabiliti gli ambiti territoriali di
interesse, si cercano le sedi in cui organizzare le discussioni
pubbliche tra tecnici ed abitanti (unità di tempo e di luogo). Qui si
individuano problemi e si discutono, collettivamente, le soluzioni.
Elaborati i progetti si formalizzano e montano, a cura dei tecnici della
rappresentazione spaziale, nella piattaforma informatica, nella quale si
realizza la visione d’insieme, che tutti possono conoscere, al fine
anche della eventuale riorganizzazione dei progetti-stralcio. Dal piano,
così formato, si passa alla computazione economica degli interventi,
alla ricerca dei finanziamenti e alla definizione degli investimenti,
appaltando i lavori alle imprese della zona e alla mano d’opera locale,
mediante selezione e controllo pubblico. Le realizzazioni si monitorano
con dossier fotografici e quant’altro, in aggiornamento continuo,
vigilando pubblicamente su ciò che si muove nei cantieri ed attorno ad
essi (unità d’azione).
Nel frattempo il sindaco illuminato,
cerca altri sindaci illuminati e si organizza politicamente a livello
sovra locale, per ottenere riforme strutturali quali un reddito di
cittadinanza al fine di liberare, in tutti i sensi, quante più energie
sociali per il suo progetto, che è virtuale, ma soprattutto reale,
personale, ma soprattutto collettivo.
APRILE 2013
[1]
Visibile al seguente link:
[2]
«La quotidianità come clausura […], sarebbe insopportabile
senza il simulacro del mondo, senza l’alibi
di una partecipazione al mondo. Essa deve alimentarsi colle
immagini e coi segni di questa trascendenza. La sua tranquillità
ha bisogno, l’abbiamo visto, della vertigine della realtà e
della storia. La sua tranquillità per esaltarsi ha bisogno
dell’eterna violenza consumata. È oscenità a se stessa. È
ghiotta di avvenimenti e di violenza, purché quest’ultima le
vanga servita all’interno di una stanza. In modo caricaturale è
il telespettatore rilassato di fronte alle immagini della guerra
del Vietnam. L’immagine della TV, come una finestra inversa, dà
innanzitutto su una stanza e, in questa stanza, l’esteriorità
crudele del mondo diviene intima e calda, di un calore
perverso».
J. Braudillard, La
società dei consumi. I suoi miti e le sue strutture. Il
Mulino, Bologna 1976, p. 31.
[3]
Paul Virilio, Città panico,
Raffaello Cortina Editore, Milano 2004.
[4]
Samuel Beckett, Lo
spopolatore, Einaudi, Torino 1989.
[5]
Enrico Ghezzi, Paura e
desiderio. Cose (mai) viste, Bompiani, Milano 2000.
[6]
Leggibile al seguente link:
http://www.marxists.org/italiano/sezione/filosofia/deleuze/societa-controllo.htm
[7]
Si veda il seguente link:
http://www.corriere.it/tecnologia/videogiochi/13_febbraio_04/ingress-google-review-milano_a17d02e0-6ea1-11e2-87c0-8aef4246cdc1.shtml#
[8]
Sulla non ancora nata storia dell’informatica si veda, Eben
Moglen, Il trionfo
dell’anarchia: il software libero e la morte del diritto
d’autore, leggibile al seguente link:
http://moglen.law.columbia.edu/publications/anarchism-it.html