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10
Maggio 2013

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La città dell'uomo

VIRT-REALITY SHOW: SIMULACRI IN CITTà

Alessandro D'Aloia

 

Spazio privato come difesa

In tv accade di tutto. Accade persino che le strade siano sgombre. Così si vedeva nel nuovo spot[1] della vecchia smart. Accadono lapsus freudiani dell’ideologia capitalista, a sua stessa riprova. Proprio come una persona che si è accorta di dichiarare una cosa non voluta, e nell’imbarazzo della verità cambia discorso, si è visto sparire dalla programmazione l’insostenibile concentrato di cliché reazionari che agitano il nostro “senso comune”. Erano oggettivamente offensivi nei confronti dell’uomo, prima che dell’ecologia e della mobilità pubblica, quei trenta secondi di slow motion a ripetizione in cui il contatto forzoso di persone, imprigionate nel servizio di trasporto pubblico, diventava parossistico al limite della decenza. Una fotografia raffinata al punto da diventare quasi olfattiva, giocava sul senso di sudicio di corpi sudati che si asfissiavano, su animali occupanti interi sedili, sul frastuono di sguaiati suonatori ambulanti. Un vero girone dantesco, di dubbia umanità, al quale si contrapponeva l’immensa libertà di chi, astutamente, sceglieva il servizio privato dell’auto da città, potendo sfrecciare sulla strada (pur essa pubblica però) così incredibilmente sgombra.

In molti sono davvero convinti che guidare per ore nel traffico sia “più comodo” che spostarsi liberamente a piedi, sfruttando infrastrutture di trasporto pubblico. Si sente sostenere, da più parti, che l’autobus è più comodo del treno. Molti pensano sinceramente che lo spazio pubblico invaso da scatole colorate dalle forme avveniristiche, anche se puzzolenti, sia effettivamente la cifra della modernità e preferiscono davvero passare grosse fette della propria giornata incapsulati in un guscio metallico, ipertecnologico e costoso, incastonato in arcipelagi di proprietà privata su ruote. La pubblicità servirà pure a qualcosa.

Tanto questa convinzione è ormai radicata da costituirsi proprio come stile di vita. La gente percorre blindata i propri percorsi, anche a piedi. Si cerca protezione dagli astanti mediante telefonini, iPad, tablet e così via e lo si fa anche quando capita di stare insieme, tenendo discorsi in contemporanea, quasi a voler dimostrare il valore superiore dalla propria attenzione, gentilmente concessa alle presenze fisiche. L’uomo è in fuga dallo spazio reale, ha paura del peso e dell’odore dei suoi simili.

 

Evasione

L’uomo può fuggire, senza partire. Lo ha fatto per decenni grazie alla “finestra inversa”[2] della propria camera. Oggi le sue finestre inverse, moltiplicate, sono diventate portatili, liberandolo anche dall’ultima necessità di essere implicato. Fuggendo egli afferma il desiderio di ritrarsi, eleggendo come preferibile il proprio spazio virtuale, che gli permette il lusso della sostanziale indifferenza nei confronti della propria appartenenza fisica, così gravosa e permeata di necessità. Ambienti virtuali avvolgono in ogni dove l’etere realizzando la tascabilità dello spazio. Te lo chiudi nel tuo tablet, lo apri dove vuoi, ti alieni dalla tua stessa corporeità, lo esibisci agli altri, ti ci identifichi fortemente perché è tuo e di nessun altro. Te lo porti anche in viaggio e ti appropri degli spazi che visiti mediante gigabyte di fotografie alle quali soltanto affidi la tua memoria del periplo, quasi a dimostrare a te stesso di essere veramente stato là. Costruisci così i tuoi mondi virtuali, le tue proprie geografie esistenziali, e molto spesso tanto ti basta. Gigabyte di spazio virtuale, fatto di amici che non incontri, di luoghi che non vivi, di storie immobili, di relazioni sciolte, di messaggi istantanei che registrano con precisione chirurgica il vuoto della tua quotidianità. Vuoi mettere la comodità di tenere relazioni mondane in pigiama?

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Second life

Finisci, ad un certo punto, a passare più tempo ad archiviare la tua vita che a viverla. Essa quasi non esiste senza prova digitale. Hai bisogno di rappresentarla a te stesso (e agli altri) ed hai definitivamente traslocato, senza accorgertene, nei terabyte delle tue memorie rigide. Ma non lo hai fatto da solo. Quando esci per strada a procurarti del cibo, incontri, ad essere fortunato, simulacri fisici di altre memorie digitali, corpi senza pensiero, di cui niente sai e nulla ti importa, affaccendati, come te, in intime operazioni di pura toilette.

Solo il tempo necessario ad aggiornare i tuoi vari profili, ti consente di non badare a quanto hai lasciato nel tuo vecchio appartamento, quello nel condominio del tuo quartiere in cui il tuo corpo riposa, con almeno l’ottanta per cento dei tuoi sensi.

Quel quartiere di quella città vuota, da cui tutti sono ormai traslocati, dove non si gioca più a pallone, né a carte, dove non si confabula più, dove i tramonti passano indifferenti, dove non nascono amori, ma solo timori, popolato dall’ultima generazione di esuli della città reale, soli anche loro. Incidentalmente questi esempi umani liminali cercano di metterci in guardia dal loro più forte turbamento con la pacatezza di frasi che invariabilmente sussurrano: «La cosa più brutta è la solitudine».

 

Dissoluzione del multi-soggetto

Alla sera riassembli pezzi disparati di percezioni, reali e digitali, sommando i vuoti pneumatici della tua stereo-realtà[3]. Finestre inverse lucidamente rifinite confinano il tuo Io, da ogni lato. Non ci pensi, ma sei intrappolato, non c’è aria nella tua giornata. In alcuni momenti può sfiorarti l’idea che ti manca la brezza. Lo spazio virtuale non ne è ancora dotato, in compenso tutto è splendente, senza polvere.

Sei qui, a premere volontariamente interruttori di connessione e a toccare schermi sempre più piccoli in cui si nascondono promesse sempre più grandi. Ridicoli scrigni piatti zeppi di mirabilie che sofisticano il nulla. Lo schermo è lì e non ne esce niente, sei tu che ci entri, per sempre. Meraviglioso dispositivo di connessione, buco nero di tempo sociale, spopolatore beckettiano[4]. Il dispositivo, potendo disporre, dispone la tua assenza dal mondo. Ecco come è possibile rubare risorse alla rivoluzione. “Proletari di tutto il mondo unitevi”, basta che sia per finta. E così tu sei connesso a migliaia, e ciascuno di questi mille, ad altre migliaia. Risultato: queste migliaia di migliaia si ignorano. La rete? un garbuglio esploso di sconnessi. Ci hanno dileguato nella quantità.

Lo spazio reale segregato dalle rendite di posizione, dai confini di proprietà, dagli isolati a blocco, dai blocchi ad alveare, dai flussi veicolari, si avvita in una spirale di profili virtuali che moltiplicano le manifestazioni dei singoli separando anche l’unità indivisibile del soggetto. Ogni singolo si profila diversamente in diversi ambienti virtuali, popolando reti multiple che, come ragnatele, lo impigliano da ogni parte. Multi-soggetti virtualmente ubiqui e realmente smaterializzati.

Il rapporto che si instaura tra città reale e virtuale è presbite. Puoi conoscere, e conosci, cose e persone lontane, ignorando perfettamente cose e persone vicine, ma non te ne curi, dato che la differenza tra vicino e lontano ti appare del tutto saltata.

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Disinvestimento temporale

Così accade che «Non è il tempo a mancarci. Siamo noi che manchiamo al tempo»[5]. Il tempo della nostra storia diventa un foglio scritto da altri. Da chi, o da cosa? Dispositivi meccanici predeterminati automatizzano incastri dichiaratamente avversi all’uomo, libero di occuparsi di faccende virtuali.

Rendite e mercati dettano linee di sviluppo al formicaio umano che si affanna, senza ribattere, nella costruzione e sostentamento di spazi destinati ad altre macchine, a turisti facoltosi, a dirigenti ossequiosi, a cerimonie di alto bordo, ad eventi temporanei, persino ad acquirenti inesistenti. Una cittadinanza relegata alle libertà (degli spazi) virtuali, permette, silenziosa e collaborativa, che il suo spazio reale sia colonizzato contro di sé. D’altra parte per quello che le serve, non pare essere un problema. Non saprebbe neanche che farsene di parchi pubblici, piste ciclabili, piscine, biblioteche, piazze. Non ha tempo di chiudere le proprie finestre inverse, che la seguono ovunque, richiedendo continuamente, attenzione e tempo. “Armi di distrazione di massa” funzionano a ciclo continuo, nella confusione del gioco-lavoro. La necessità di decrescere s’impone non fosse altro che per liberare tempo, per quella vaga idea di rallentamento.

Mire predatorie non hanno bisogno di ricorrere a dichiarati dispositivi di controllo, da quando possono contare sulla libera adesione di tutti alla giostra digitale allestita nello spazio virtuale, questo sì davvero potenzialmente infinito. Ma niente illusioni, dal momento che anche lo spazio virtuale è una produzione. In quanto tale esso non sfugge alle regole del “grande urbanista”, che infatti già dispone steccati, accessi controllati, regole di comportamento, spazi preclusi, tariffe di fitto, rendite di posizione, software proprietari, applicazioni rigide ed ogni sorta di striuature possibili ed immaginabili. In questo spazio, apparentemente illimitato, il tuo movimento non è libero. I tuoi comportamenti sono forzosamente conformi alle possibilità programmate. Puoi fare solo ciò che è già previsto. Esattamente come accade negli spazi privati o nelle infrastrutture pubbliche della società del controllo[6]. Il movimento è condizionato, totalmente.

Le finestre inverse hanno qualcosa che le accomuna agli specchi, con la loro capacità di proiettare rappresentazioni del mondo e di persone, attraverso un meccanismo di scomposizione e ricomposizione digitale del materico, in cui ovviamente tutto si depura in una specie di catarsi generalizzata.

Il capitalismo ha inaugurato, con la città virtuale, la sua propria utopia. Esso si dà ad un tempo come realtà e come utopia di se stesso. Ma nel dare vita alle infinite proiezioni di sé ha anche fornito l’eterotipia per eccellenza della città reale, creando luoghi, in cui tutto appare possibile, proprio perché ciò che vi accade non avviene da nessuna parte. Queste etorotipie digitali sono frequentate in massa senza che nessuno si incontri. Nel processo di virtualizzazione dello “spazio altro” si è di colpo de-potenziato il suo reale potere destabilizzante. Ma l’eterotipia di cui abbiamo bisogno è situata al di qua dello schermo.

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Libertà condizionata

Basta farsi un giro all’Ikea per comprendere la claustrofobia dello spazio privato e ad un tempo il nostro destino nella città virt-reale. Chi ha progettato quegli spazi ha previsto i tuoi percorsi, ha calcolato il tempo minimo che dovrai impiegare una volta entrato. Entrerai, e farai 4 chilometri a piedi, impiegando almeno un’ora, senza possibilità di riposarti, sederti o prendere una boccata d’aria; così dovrebbe esserci scritto all’ingresso. Anche se già sai esattamente cosa devi comprare, ti sorbirai ugualmente, ignaro, l’intero percorso, dato che non sono previste altre uscite. Chi ha progettato quegli spazi, ha disposto del tuo tempo, ha previsto le tue mosse. Sei parte di un programma, anche qui.

Il tempo come dispositivo di controllo è elemento perfettamente noto a chi ha progettato gl’infernali scatoloni dell’Ikea e a chi, ad esempio, ha pensato di regolamentare l’utilizzo delle autostrade mediante la misurazione dei tempi di percorrenza degli utenti, tramite Tutor.

Le piazze della città virt-reale si svuotano progressivamente al crescere del numero di applicazioni per iphone che la Apple licenzia. Internet è solo l’ultimo spopolatore globale, in ordine temporale. Esso virtualizza anche la pratica dello spazio reale con applicazioni come Ingress[7] (di Google), in cui spazi e monumenti della città concreta, divengono location da conquistare lanciando applicazioni sul proprio smartphone, in un videogioco “sociale” le cui strategie sono discusse in chat. L’appropriazione degli spazi reali è la posta, ma solo per gioco, ovviamente. Il meccanismo ludico manifesta tuttavia bene l’idea che gli sviluppatori coltivano circa lo spazio pubblico: organizzarne l’interdizione altrui. Chi gioca aderisce a questo obiettivo strategico.

In spiaggia, invece, ti senti libero. Decidi tu se stare al sole o in acqua. Se stare seduto o sdraiato, con o senza l’ombrellone. In acqua poi, non ci sono limiti, puoi andare a destra o a sinistra, sopra e sotto, planare e risalire, fare capriole e se c’è uno scoglio puoi volare. Sei in uno spazio liscio, ti senti potente. Lo spazio liscio è vuoto.

Quando si delimitano spazi, si riempie il vuoto, innalzando mura, e predisponendo varchi (di controllo). È chi decide di costruire quelle mura che determina gli usi e, ovviamente, gli accessi possibili degli spazi. Forse la piazza è di tutti, dato che essendo un vuoto, nessuno potrà mai dire di averla costruita? La piazza è liscia, ti ci senti quasi come in spiaggia. Potrebbe darsi che una politica dello spazio pubblico sia semplicemente una “politica del vuoto”. Lo spazio non costruito è quello che nessuno potrà recintare.

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Spazio e luogo

Ma se di vuoto si parla, cosa lo rende un luogo? Molti architetti e urbanisti, ma anche politici, sono convinti che basti erigere opere, per far luoghi e spesso devono registrare sonori fallimenti in termini di utilizzo dei loro spazi. Grosse porzioni di edificato stentano ad assumere quei caratteri di centralità che nei secoli hanno contraddistinto gli spazi pubblici della città pre-capitalista. Manca sempre qualcosa e quel qualcosa è la presenza corporea della comunità. Non si possono progettare luoghi senza comunità e non c’è comunità senza disponibilità di tempo da socializzare. Nessuna piazza, quartiere o città è possibile dove le persone mancano al loro tempo. Il tempo sociale è un elemento della progettazione al pari di una trave, di un pilastro, di una facciata. È per questo che nella conformazione degli spazi non si può restare indifferente al trattamento che i cittadini subiscono nei processi che li coinvolgono nella vita sociale. Per questo la spazialità è, senza mezzi termini, una questione politica. Hai voglia a comporre esteticamente brani anche notevoli di città, se poi nessuno ha tempo di utilizzarli. Hai voglia di immaginare appartenenze di corpi a degli spazi, in una comunità i cui rapporti sono destrutturati dalla precarizzazione esistenziale della flessibilità produttiva, dell’esternalizzazione, dell’aumento della giornata lavorativa e della disoccupazione strutturale, come del disinvestimento del tempo libero. La città ha assunto la veste paradossale di uno spazio di concentrazione organizzato su famiglie di dispositivi di solitudine. Il “permesso di soggiorno” non è solo un problema degli immigrati. È questo il principale problema-obiettivo della scomparsa della comunità urbana: infrangere la solitudine; rifiutare ciò che isola.

In effetti nel 2011 gli Indignados, non hanno fatto altro che occupare, insieme, le piazze delle città, per affermare la volontà di riappropriarsi della politica, attraverso la formazione di una comunità riconoscibile. Per fare questo hanno utilizzato due elementi, il loro corpo e il loro tempo. Hanno affermato che il luogo della politica, o della democrazia reale, è fatto di spazio pubblico e di tempo sociale. Se hanno perso, probabilmente ciò è avvenuto sul piano del tempo, quando restituendo lo spazio delle piazze al loro consueto vuoto, hanno prima di tutto restituito il loro tempo alle consuete occupazioni, anche quando queste sono delle inoccupazioni.

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Diritto alla produzione

Problemi di un’altra epoca, si dirà. Ma c’è forse chi pensa ancora che lo spazio virtuale sia qualcosa di sostanzialmente assolto dalle leggi della produzione? Ogni applicazione non è altro che un ambiente digitale in cui muoversi. Esattamente come per la città, c’è chi progetta questi ambienti, definendo precise regole di utilizzo. La differenza è semmai che lo spazio virtuale non esiste in natura, non ha un suo paesaggio preesistente all’intervento umano e per questo neanche limiti fisici. Esso è completamente artificiale, una produzione per eccellenza. Se in città esiste, nonostante tutto, una forte codificazione pubblica da rispettare (norme, leggi, rapporti estetici), nel web “il pubblico” non ha ruolo alcuno, ma le grosse infrastrutture, di utilizzo pubblico, sono completamente private. Per questo chi le usa lo fa realizzando fini determinati, fin nei minimi dettagli, alle sue spalle. Ma tant’è, volendo soprassedere sulla natura di fini altrui che realizziamo tutti, il vero problema di fondo di uno spazio virtuale strutturato su iniziativa privata è che esso risulta essere naturalmente inadeguato ad un utilizzo “sociale” oltre che a formare usi e consuetudini individualistici attraverso un utilizzo a ciclo continuo. È questo che fa delle tecnologie di connessione un fine in sé. Si producono spazi virtuali, per creare comunità virtuali di utilizzatori dettagliatamente “profilati”, che poi acquisteranno oggetti in grado di far funzionare le applicazioni, che consiglieranno ad altri amici, che poi faranno lo stesso, ma per fare cosa? Per essere connessi. Sì, ma per fare cosa? Appunto, per essere connessi. Cioè per eleggere ad unica possibilità relazionale, non la presenza, il contatto, la condivisione di progetti, la comunione di impegni che deriverebbe da qualsiasi fine associativo, ma la solitudine umana del rapporto uomo-macchina, quale strumento di connessione moltiplicato all’inverosimile, la regola dell’isolamento tecno-applicativo e la segregazione della propria soggettività, in un delirio di azioni private prive di obiettivi concreti elementari.

Qualcuno dibatte sulla possibilità di definire sport i videogiochi, al fine di nobilitare una pratica masturbatoria in spettacolare espansione.

È, in ogni caso, un errore pensare che se la città virtuale è fatta così piuttosto che diversamente, ciò si spieghi facendo ricorso ad una sua presunta natura intrinseca, assegnando, così pensando, allo spazio virtuale l’unica cosa che non può avere e cioè un paesaggio (o una natura) preesistente alla sua costruzione. Essa semmai si è venuta formando in un certo modo[8], poiché rispondendo a fini produttivi, ha scelto di innestarsi sull’unica cultura di massa a disposizione, quella del consumo passivo, in cui l’attività è ridotta ad operazioni automatiche talmente elementari da passivizzare l’azione. Siamo al riduzionismo tecno-soggettivo. Ma non basta connettersi per essere al mondo.

È necessario rivendicare la produzione di spazio, virtuale o reale che sia, per liberare la creatività sociale dalle secche della virtualità per la virtualità. Agire contro lo spopolatore, producendo realtà.

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Le città non nascono a caso

Se voglio organizzare una comunità, o anche solo tentare di farlo, non penso di farlo in uno store dell’Ikea, ma piuttosto in una piazza. Per questo motivo, se penso al web come ad uno spazio sociale, sento una mancanza incolmabile. Sento la necessità di un web pubblico, che non significa un web pubblicamente accessibile. Per pubblico bisogna intendere piuttosto qualsiasi spazio in cui la persona è libera di muoversi senza condizionamenti. Uno spazio privo di varchi, e al limite, vuoto. Il vuoto è potenza, anche nel senso di potenzialità. Esso è attivatore di creatività, dato che laddove è già tutto conformato non c’è null’altro da esperire oltre al consumo passivo. 

Resto piuttosto perplesso di fronte a quanti parlano di “rivoluzioni tecnologiche” e “social network”, come di cosa fatta, senza lasciarsi neanche sfiorare dal sospetto che uno spazio privato sia alquanto indisponibile alle definizioni utilizzate. Come se fosse scontato che una rivoluzione non debba comportare forti trasformazioni anche di ciò che cataloghiamo sotto il termine “informatica”. Ma è normale che il web debba funzionare come fa? Pacificamente si accetta che Google conservi in memoria gli spostamenti di miliardi di utenti, che facebook possa bloccare i profili scomodi, che entrambi facciano accordi con gli stati che vogliono mantenere il potere di censura, che per leggere una mail bisogna sorbirsi la pubblicità, che l’accesso a sempre più informazioni sia preceduto da spot televisivi, che tutto questo materiale inutile ingorghi la rete, che le biblioteche digitali esistano solo per opere di autori defunti da molti decenni, che i siti contengano solo la promozione degli oggetti anche quando potrebbero contenere l’oggetto stesso, che non esista una produzione di software libero statale neanche per gli usi disciplinati dalla legge, che non si possa pensare alla professione dell’informatico come dipendente statale, cosa che equivale a dire che in sostanza quasi non esiste la committenza pubblica per lo spazio virtuale, esattamente come nella città materiale è sparita la committenza pubblica per gli spazi sociali. È chiaro: se l’informatica è monopolio privato non è che possa servire a molto, se non a continuare a mantenere gli utenti in un rinnovato, e anzi rafforzato, stato di dipendenza.

Ora è facile comprendere come questa complessa architettura di vincoli e briglie proprietarie, non sia connaturata ad uno strumento informativo e connettivo, che per definizione è circolazione di risorse. Ciò che vediamo non è per niente naturale, per questo non è una casualità.

L’informatica è stata trasformata in uno spopolatore colossale della città reale, semplicemente perché aumentando condizionatamente le possibilità del singolo, rende superflua la sua necessità relazionale e di conseguenza la sua indole solidale. Ma quanto più rende l’uomo autonomo rispetto ai suoi simili, tanto più lo rende dipendente dalle macchine. Le appendici tecnologiche, in questo contesto, sono numi tutelari della clausura volontaria dell’uomo.

Ciò che manca allo spazio virtuale è, paradossalmente, una dimensione collettiva. L’impossibilità di formare comunità territorializzate. La stessa esistenza di gruppi virtuali prova l’assenza di gruppi reali, dato che difficilmente si scambierebbe l’originale con il surrogato. La città virtuale è un colossale surrogato di esperienze, tutte saldamente impostate sulla disarticolazione dell’unità aristotelica di, tempo, luogo ed azione. Nella città virtuale domina la diacronia, la dispersione, e l’inazione. Essa è, oggi, un prefetto dispositivo antisociale.

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Territorializzare la virtualità

Si predica la strumentalità della tecnologia. Resta vero in generale, ma non in assoluto. Ciò che osserviamo oggi è una finalità onanistica della tecnologia del virtuale. Essa è celibe, infeconda nel suo rapporto con la realtà. Questa natura non le è originaria ma imposta. Nella critica alle sue manifestazioni attuali è implicita la considerazione che potrebbe darsi in altre forme. La domanda che vale la pena fare è se la città (o meglio lo spazio) possa tornare ad essere l’oggetto dell’investimento sociale di tempo attraverso la messa a frutto mirata delle tecnologie di connessione. Virtuale è tanto il paesaggio e l’ambiente di un videogioco per playstation quanto la ricostruzione tridimensionale di Roma antica. In entrambi gli esempi, lo sforzo creativo è rivolto ad un utilizzo ludico o al massimo culturale. Ci si chiede legittimamente perché non si debba pensare di lavorare ad una mappa virtuale della città reale presente, quale contenitore della visione sociale della città sul proprio sviluppo. Una wikipedia urbanistica, tanto per limitarci all’ambito spaziale. Con uno sforzo immaginativo si può pre-vedere come il sindaco di un’amministrazione illuminata, stanca di sottostare ai diktat degli speculatori della città, decida di mettere a frutto l’energia creativa immagazzinata nel corpo sociale del territorio che amministra. Egli chiama a raccolta gli informatici della città e illustra il suo progetto di piattaforma pubblica per la redazione del piano regolatore. Gli informatici creano questa piattaforma vuota, a partire dalla mappa topografica stratificata dello spazio urbano, in cui ogni professionista di conformazione spaziale (dal geologo allo psicologo sociale, all’urbanista, al geometra) si auto mappa per zone di appartenenza (dove vive e lavora). Alla formazione dei profili tecnici di zona (o quartiere), si fissano i giorni di lavoro. Il lavoro consiste nella mappatura di dettaglio e in tempo reale degli spazi pubblici (e privati), quartiere per quartiere. Stabiliti gli ambiti territoriali di interesse, si cercano le sedi in cui organizzare le discussioni pubbliche tra tecnici ed abitanti (unità di tempo e di luogo). Qui si individuano problemi e si discutono, collettivamente, le soluzioni. Elaborati i progetti si formalizzano e montano, a cura dei tecnici della rappresentazione spaziale, nella piattaforma informatica, nella quale si realizza la visione d’insieme, che tutti possono conoscere, al fine anche della eventuale riorganizzazione dei progetti-stralcio. Dal piano, così formato, si passa alla computazione economica degli interventi, alla ricerca dei finanziamenti e alla definizione degli investimenti, appaltando i lavori alle imprese della zona e alla mano d’opera locale, mediante selezione e controllo pubblico. Le realizzazioni si monitorano con dossier fotografici e quant’altro, in aggiornamento continuo, vigilando pubblicamente su ciò che si muove nei cantieri ed attorno ad essi (unità d’azione).

Nel frattempo il sindaco illuminato, cerca altri sindaci illuminati e si organizza politicamente a livello sovra locale, per ottenere riforme strutturali quali un reddito di cittadinanza al fine di liberare, in tutti i sensi, quante più energie sociali per il suo progetto, che è virtuale, ma soprattutto reale, personale, ma soprattutto collettivo.

 

APRILE 2013

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[2] «La quotidianità come clausura […], sarebbe insopportabile senza il simulacro del mondo, senza l’alibi di una partecipazione al mondo. Essa deve alimentarsi colle immagini e coi segni di questa trascendenza. La sua tranquillità ha bisogno, l’abbiamo visto, della vertigine della realtà e della storia. La sua tranquillità per esaltarsi ha bisogno dell’eterna violenza consumata. È oscenità a se stessa. È ghiotta di avvenimenti e di violenza, purché quest’ultima le vanga servita all’interno di una stanza. In modo caricaturale è il telespettatore rilassato di fronte alle immagini della guerra del Vietnam. L’immagine della TV, come una finestra inversa, dà innanzitutto su una stanza e, in questa stanza, l’esteriorità crudele del mondo diviene intima e calda, di un calore perverso».

J. Braudillard, La società dei consumi. I suoi miti e le sue strutture. Il Mulino, Bologna 1976, p. 31.

[3] Paul Virilio, Città panico, Raffaello Cortina Editore, Milano 2004.

[4] Samuel Beckett, Lo spopolatore, Einaudi, Torino 1989.

[5] Enrico Ghezzi, Paura e desiderio. Cose (mai) viste, Bompiani, Milano 2000.

[8] Sulla non ancora nata storia dell’informatica si veda, Eben Moglen, Il trionfo dell’anarchia: il software libero e la morte del diritto d’autore, leggibile al seguente link:

http://moglen.law.columbia.edu/publications/anarchism-it.html