banner principale
10
Maggio 2013

home - indice


Esperienza e rappresentazione

EMOZIONI ED EMOTICON

Mariano Mazzullo

 

Non c’è dubbio, il mondo moderno è decisamente un posto pieno di emozioni, o quanto meno ricco di stimoli. Il nostro variopinto villaggio globale, con il suo sky-line vertiginoso, il suo miscuglio multietnico, il bombardamento mediatico, l’estrema disponibilità e varietà del piacere, non sembra certo un posto per gente apatica. O non è forse così? Certo, se tra lo stimolo e l’emozione corrispondente valesse una relazione determinata, gran parte dell’umanità sarebbe già stesa da tempo sul pavimento, tramortita da un’incontenibile sindrome di Stendhal collettiva. Ci sono, infatti, abbastanza occasioni oggi per emozionare seriamente la maggior parte degli uomini, e non mi riferisco soltanto all’offerta dell’hi-tech, dell’architettura, dell’ingegneria estrema, dell’industria del sesso, della tv, del gossip, e dei molteplici mirabilia dei nostri tempi, mi riferisco anche a fenomeni più “classici”, come le sempreverdi guerre e rivoluzioni. Hi-tech o vintage, l’emozione è oggi certamente più a portata di mano, più fruibile, più compressa, convertibile e riciclabile. Basti pensare per esempio al fenomeno degli “emo”, che fanno di un’artificiale malinconia la propria moda, o alla condivisione sui social network del proprio “stato” quotidiano, condito spesso di particolari sulla cagione dei propri sentimenti più personali.

L’equazione deterministica però non funziona, e al mercato dell’emozione non si trova mai il prodotto di cui si va in cerca. A dispetto di tutta questa colorata offerta emozionale, piuttosto che estasiata di fronte all’oggetto delle proprie passioni, l’umanità di oggi non si emoziona più tanto facilmente, o peggio: cade in depressione per molto meno rispetto ad epoche diverse. Chi non ha provato sulla propria pelle, nella noia dell’insensatezza e dell’individualismo insaziabile, a dispetto di tutti i megabyte che divora davanti agli schermi, la minaccia che si avverasse sul serio il detto di Baudelaire, che con uno sbadiglio la noia possa inghiottire il mondo? Si è inceppato qualcosa nel meccanismo del lusso e del benessere per tutti? Non dovremmo essere il migliore dei mondi possibili (o almeno la parte del mondo più fortunata), il più felice, il più entusiasta, ricco di così tanti “canali” in cui trovare il nostro proprio individuale corrispettivo dell’animo? Non sarà che abbiamo sofisticato troppo? Non sarà forse che la moltiplicazioni delle possibilità, l’ipertrofia della libido, l’estrema diversificazione degli oggetti del piacere ci abbia spinto ad una qual certa disemozione collettiva? Di sicuro se l’emozione fosse una diretta conseguenza del giusto stimolo, basterebbe conoscere la corretta formula magica per avvertirla, un po’ d’amicizia, un po’ di gelosia, un pizzico di superbia, ed eccoti come per magia la cartesiana “passione dell’animo”, partorita tirando le corde giuste, come una pozione di Harry Potter. Per fortuna le cose non stanno proprio così, l’emozione corre parallela alla sensazione per un sentiero abbastanza lungo, ma ad un punto imprecisato del cammino le due strade divergono, la sensazione giunge meccanicamente alla risposta nervosa e oggettiva, l’emozione invece scaturisce sempre da un’aggiunta soggettiva, da un fondo di libertà intangibile, da una sovrapposizione di livelli esistenziali. È per questo motivo che la soggettività non sarà mai soddisfatta o delusa dalle stesse cose di cui altri godono, non lo sarà per sempre, non lo sarà pienamente, poiché l’uomo è uno strumento infinitamente variabile e refrattario, solo determinate sequenze interiori, ricordi, esperienze, passioni, riescono a farlo vibrare emotivamente. È a causa di questa individualità dell’emozione che il sogno politico-utilitarista di società “felici e contente” si andrà sempre a scontrare con la resistenza soggettiva ad un’emozione massificata e uniformata ad una forma di sentimento collettivo. Il gran numero di individui insoddisfatti, tristi e spenti, in una società che offre così tanti mezzi e occasioni per essere felici, che amplifica qualunque momento possieda un potenziale d’impressione sugli animi, è un esempio abbastanza chiaro di come non sia sufficiente un mondo esterno ricco di occasioni felici per provare altrettante emozioni positive. Gioia e tristezza non corrispondono a piacere e dolore, e direi anche per fortuna, ma è pur sempre vero che l’emozione, sebbene sottratta allo pseudo-determinismo dei sensi, possiede una sua regolarità, una sua conformità in diversi soggetti. Si può essere innamorati o annoiati per diverse cose e per diversi motivi, ma l’effetto patito, qualunque ne sia la causa, è quasi identico a diverse latitudini e in culture diversissime.

(torna su)

La domanda più interessane che ci si possa fare, a questo punto, di fronte alla comunanza di effetti e alla differenza di cause che le emozioni ci mostrano, sarebbe chiedersi da dove vengono, perché le patiamo, perché ne siamo affetti, ma soprattutto perché le manifestiamo, quasi fossimo costretti a darle a vedere. Probabilmente, diremmo tante cose sensate se affermassimo che l’emozione è sublimazione di stati fisici elementari, è un portato della nostra origine animale sorto per una funzione strumentale e difensiva, che sulla loro manifestazione si svolge una parte importante dell’interazione ecc. Di tutte queste risposte sensate Darwin ha offerto un’approfondita e affascinante discussione nel suo studio sull’espressione delle emozioni, ma per quanto sembri misteriosa e recondita la loro origine, il vero “mistero dei misteri” non è la loro causa, che ci si può figurare in modo abbastanza semplice, bensì la loro espressione, la rappresentazione fisiognomica che l’uomo mette in scena per manifestarle all’altro. Questo elemento è quello di maggior interesse nella spiegazione che il grande naturalista inglese fornisce delle emozioni, sia perché l’espressione non è soltanto un momento fisiologico, essa infatti coinvolge l’esistenza ben al di là della pura sopravvivenza ormai si sorride o si mette il grugno senza che ciò metta a repentaglio la nostra vita – sia perché il modo in cui una civiltà esprime l’emozione è particolarmente rappresentativo del modo che ha di viverle, del concetto che essa possiede di sé stessa come intersoggettività, come unità, come sostanza. Dobbiamo dire innanzitutto che l’emozione in una civiltà globalizzata, economicamente e tecnologicamente avanzata come la nostra, non solo si esprime, ma soprattutto si rappresenta. Darwin ci illumina con chiarezza sul primo punto: l’espressione dell’emozione è un atto originariamente cosciente, praticato per esigenze funzionali alla sopravvivenza, divenuto successivamente atto riflesso e invertito rispetto alla sua insorgenza da uno stimolo corrispondente. In sostanza: se prima si sorrideva per mostrare i denti in segno di difesa e sfida di fronte alle minacce dei predatori, adesso per il “principio dell’antitesi” si sorride per indicare un sentimento opposto alla minaccia e alla paura. Il ragionamento però si mostra utile solo in parte, getta luce sulle origini dell’espressione e sulla natura di questa simbologia, ma con l’imporsi del fattore culturale questa provenienza animale dell’espressione viene scavalcata da altri fattori. Il sorriso, il grugno, il grido, aggrottare le sopracciglia e quant’altro, nascono certamente da condizioni interne all’evoluzione, ma (come il meccanismo dell’evoluzione in generale) si sono resi indipendenti dalla natura, sono ormai divenuti espressioni-feticci, hanno acquisito un significato loro proprio, una “seconda natura”. L’uomo può oggi fare a meno di esprimere le emozioni, anche in contesti dove la natura lo avrebbe obbligato a farlo. Si può amare o odiare senza darlo a vedere in modo particolarmente espressivo, «ci sono altri mezzi per ottenere i propri scopi», così come ci si può difendere da un’aggressione anteponendo un self-control culturale all’istinto emotivo animale. A guardar bene tutto ciò non è certo un felice destino per le nostre emozioni, nate all’aria aperta e finite in cassaforte, ma ciò su cui bisogna riflettere è che la loro espressione è divenuta principalmente una rappresentazione. In un mondo pretecnologico, la rappresentazione dell’emozione era affidata alla spontaneità incontrollata di un sorriso o alla messa in scena lenta delle opere d’arte, poemi, drammi, ritratti, il mezzo espressivo era per forza di cose un elemento dell’emozione stessa: gli attori, i pittori, i poeti, patiscono in parte le emozioni che rappresentano con le proprie opere. La nostra società è invece dominata da una impressionante ricchezza di mezzi d’espressione immediati, il web e le trasmissioni satellitari rendono possibile comunicare repentinamente le proprie emozioni, quelle di una comunità, di una famiglia, di una nazione, con un tweet o con infinte forme di condivisione, come i blog ad esempio. Mi sento triste o felice? Basta un tweet per rendere partecipe la comunità virtuale del mio umore, che può modificarsi in tempi record, sobbalzare e precipitare, restando sempre immediatamente comunicabile.

(torna su)

Ma ciò che è detto col breviloquio del tweet o con la nuova retorica da fuoco d’artificio dei blogger può ritenersi una concreta rappresentazione emotiva? Se ci soffermiamo a pensare a quante cose dette con il cuore, anche in modo semplice e conciso, vengano fraintese, stravolte o ignorate nella comunicazione ordinaria, ci si rende subito conto di quanto poco pratico e relativo sia il mezzo discorsivo come veicolo dell’emozione, privo del pathos della recitazione oppure troppo carico del pathos da messa in scena del blog. L’immediatezza si può prestare bene, fin troppo bene all’espressione dell’emozione, ma il discorso, breve o lungo, profondo o superficiale, non sarà mai il mezzo privilegiato da un’emozione che spinge per fuoriuscire, che vuole essere compresa, condivisa, vissuta insieme. L’emozione vuole essere colta nel suo sbocciare, vuole un volto su cui nascere e uno su cui fiorire.

La società ultra-mediata della tecnologia di massa come può eludere questo primato dell’immediatezza, del volto che l’emozione richiede per essere compresa? Naturalmente ci sono molte meno occasioni per il faccia a faccia, quando possiamo tranquillamente svolgere il nostro lavoro e parlare con un amico davanti allo stesso schermo, ottimizzando i tempi e con la libertà di non venire coinvolti. Ma per quanto grande sia la nostra libertà da un coinvolgimento diretto, quando si interagisce con un amico o con un gruppo di amici, la comunicazione ha comunque bisogno di manifestare delle emozioni per esser davvero disinvolta, per far sì che il messaggio arrivi al destinatario con il giusto tono emotivo. Vogliamo sentire l’emozione dell’altro quando comunichiamo spontaneamente, altrimenti ci sembra di parlare a vuoto. Affinché sia franca e informale essa non può abbandonarsi a perifrasi, alla rima o a trovate impressionanti, soprattutto nell’estrema brevità a cui la comunicazione si riduce nei social network o con gli smartphone. E così, per dare un pizzico di umanità alla conversazione disumanizzata di soggetti che non si vedono e non si sentono, che tante volte non sanno molto l’uno dell’altro, o peggio non si conoscono affatto, tra le numerose funzioni a disposizione degli utenti è stata inserita con enorme successo una panoplia di faccine stupite, sorridenti, piagnucolanti e così via, da iniettare all’occorrenza tra le righe del discorso rapido e diretto del mezzo informatico. L’emoticon è l’invenzione mediatica per dare emozione al discorso immediato, al botta e risposta delle chat, alla frammentazione di abbreviazioni e slang degli sms, un elemento appartenente al vissuto inserito all’interno di uno scambio troppo veloce o interrotto. La sua funzione è chiara e anche poco criticabile, è come se in un’antica missiva d’amore un innamorato al fronte avesse allegato usualmente alle sue righe vergate frettolosamente un disegno commovente, un oggetto rappresentativo, una frase alla moda. La funzione è sempre quella di umanizzare e semplificare il discorso, fornendo un’impressione diretta dello stato d’animo di chi scrive. Ma non si tratta solo di questo, o meglio non solo di questo. La specificità dell’emoticon, infatti, rientra nel sistema comunicativo immediato delle chat, degli sms, dello scambio di messaggi istantanei nei social network, fa parte di un contesto comunicativo assolutamente specifico e tipico solo di una generazione tecnologica. Il soldato che dal fronte scrive una lettera d’amore o l’amico che va in vacanza e spedisce una cartolina non ricorrerebbero mai ad allegare rappresentazioni emotive al proprio discorso al fine di essere compresi, almeno non lo farebbero per abitudine, a meno che non siano dei tipi particolarmente artistici ed eclettici. Il motivo per cui l’emoticon è usato solo in tipi di discorsi molto immediati, risiede nella quantità di tempo e di riflessione con cui il discorso viene concepito e articolato. Quale modo migliore dell’emoticon per far capire all’amico, che mi chiede in chat “come stai?”, che non sono semplicemente stanco per il lavoro, ma che assieme alla stanchezza si accompagna oggi uno stato di tristezza e abbattimento? Non posso certo darmi a spiegazioni approfondite sul rapporto che lega insieme stanchezza e tristezza in quel dato momento della mia vita, dovrei sprecare troppo tempo e troppa riflessione per una innocua chiacchierata via internet, che deve essere breve ed efficace, esporsi il meno possibile a fraintendimenti e interpretazioni.

(torna su)

L’emoticon così supplisce alla mancanza di tempo e copre gli spazi bianchi lasciati dal discorso, è certamente un guadagno ma può essere anche una perdita, in ogni caso un valore che sta all’utente attribuirgli. Fin qui questa strumentalizzazione dell’emozione come rappresentazione funzionale al discorso non suscita particolari interrogativi, è un mezzo come un altro, ci si dice, che aiuta e alleggerisce una conversazione che si presenta per sua natura come uno svago poco impegnativo. Fa riflettere molto di più circa questa forma elementare di rappresentazione l’uso spropositato che se ne fa, un uso che esula da un’utilità reale e dall’emozione stessa. Cerchiamo di capirci di più e di vedere quali elementi della nostra umanità questo tipo di rappresentazione racchiuda. Chiunque sia un frequentatore abbastanza assiduo di chat, social network, twitter, smartphone e quant’altro, si potrà rendere facilmente conto di come l’emoticon venga impiegato massicciamente e con gran disinvoltura. Quasi ogni sentenza nello scambio di messaggi possiede almeno una di questa faccine, cuoricini, sorrisi, soli splendenti, ecc. e c’è anche chi, evidentemente ancor prima, e a prescindere dalla tecnologia, non dotato di una grande attitudine al dialogo o al discorso usa con prepotenza e costanza più emoticon che parole. Si tratta di casi particolari di persone più emotive che discorsive oppure è l’emozione in sé che si vive con più estraneità, con più semplicità, con minore partecipazione? È vero che l’emoticon è un salvatempo organizzato, un surrogato virtuale di un più impegnativo prodotto umano, ma è vero anche che il suo uso massiccio segnala un rapporto quantomeno strano con l’emozione patita in prima persona, soprattutto se pensiamo al fatto che si può piangere e disperarsi dietro ad uno schermo mentre si inoltrano cuoricini e sorrisini che indicano tutt’altro umore, si può sviare il discorso, portarlo fuori strada, annullarlo, attraverso un’intromissione di questi feticci artificiali nella conversazione. Tra parentesi va detto che questa condizione altamente diffusa, estremo segno della scissione e alienazione, è a dir poco raccapricciante e suscita la pelle d’oca.

Allora l’emoticon non è più un’abbreviazione del tempo che l’emozione richiede, non è più l’allegato personale ad un parlare che per natura si connota come impersonale, diventa invece la maschera greca di un teatrino dei sentimenti, dove non si ha tempo per provare vere emozioni. Nell’antico teatro greco, gli attori usavano indossare delle maschere di ceramica con delle espressioni fisse, dolore, gioia, stupore, una fissità che comunica subito una forte impressione nello spettatore, ma serve soprattutto ad identificare il ruolo, ad assegnare una parte prestabilita a quel personaggio, una funzione rappresentativa che non è lasciata alla sua fisiognomica e all’interpretazione del pubblico, ma che viene assegnata a priori, a monte, chiaramente visibile a tutti e prima ancora che il dramma venga inscenato.

Il leggero e vaporoso click dell’emoticon è un po’ come quella pesante maschera di ceramica, serve ad identificare il nostro discorso, il senso di lettura da assegnargli, serve a non farsi fraintendere piuttosto che a comunicare un’emozione, è infatti usato con più insistenza da persone che non hanno voglia di parlare o di manifestare i propri sentimenti o da chi li manifesta con troppa facilità.

A ridosso di questo discorso si impone una riflessione conclusiva. La crisi del dialogo in cui stiamo vivendo, il venir sempre meno delle occasioni di scambio dirette fa sì che l’emozione sia vissuta in un contesto più individuale e soggettivo piuttosto che sorgere dal rapporto stesso tra due individui. Con internet e i potenti mezzi di accesso alla comunicazione diretta si sta lentamente andando incontro ad una inversione funzionale: mentre questi mezzi nascono come strumenti in cui canalizzare il messaggio in modo più impersonale, meno antropomorfico, meno soggetto a fraintendimenti, più diretto e immediato, in realtà stanno diventando una dura barriera all’espressione dell’umanità che si proponevano di amplificare. L’emozione viene rimbalzata da uno schermo all’altro sotto forma di emoticon, ma non appartiene né all’uno né all’altro dei parlanti, appartiene alla logica della comunicazione lampo e alla frustrazione cui è soggetta: il bisogno, sempre e comunque umano, di essere capiti attraverso l’emozione. L’emoticon perciò non è un’emozione rappresentata telematicamente per una intima e veloce comprensione reciproca, ma è la rappresentazione di una assenza, è il riempimento artificiale di un vuoto naturale, è una richiesta di emozione, la richiesta sublimata e figurata dell’inconscio di un sentimento vero.

 

APRILE 2013

(torna su)