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10
Maggio 2013

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Esperienza e rappresentazione

ESPERIENZA E RAPPRESENTAZIONE NEL MONDO SENZA TEMPO

Il dibattito

Giulio Trapanese

 

Riportiamo qui la trascrizione, con alcune correzioni e aggiunte del dibattito avutosi al termine del seminario del Maggio 2011, Esperienza e rappresentazione nel mondo senza tempo. Riportiamo alcuni degli interventi più significativi di quella giornata tra cui, nell’ordine in cui compaiono, quelli di Raffaele De Stasio, Vincenzo Del Core, Anna Fava, Nanni e le relative risposte. Con questo testo concludiamo la serie degli interventi pubblicati relativi al seminario.

 

Raffaele: La mia domanda riguarda, anzitutto, il modo in cui credi di procedere con questa ricerca. Per quanto il discorso abbia, senza dubbio, dei tratti apocalittici, credo, però, esistano e vadano cercate le contraddizioni interne al sistema che hai descritto. Tra i vari concetti messi in campo esistono passaggi logici quasi immediati, e alcune contraddizioni possono essere sviscerate meglio.

 

Giulio: Posso dirti che al momento attuale è la prima volta che propongo questo discorso ad un pubblico; qualche mese fa scrissi un articolo su Città future dal titolo appunto Esperienza e rappresentazione nel mondo senza tempo, ma quel testo rappresentò più un inizio e un insieme di spunti suggestivi, lo considero un germe di pensiero, più che uno studio compiuto. Al momento non so, o non so ancora, come continuare la ricerca. Spero comunque di averne la possibilità, e di trovare il tempo e il modo di riuscirci.

Quello di cui sono, tuttavia, fermamente convinto è che una tale ricerca andrebbe svolta in modo collettivo; diciamo alla maniera di come ci organizziamo con la rivista Città future o, anche, di come stiamo provando, con difficoltà, a muoverci con quest’associazione Scuola critica.

Il discorso sul presente è un discorso complesso; e non solo, forse, perché è la nostra storia. Tra coscienza ed interpretazione, da un lato, e realtà storica, dall’altro, si va disfacendo lo stretto nesso che sussisteva fino a qualche anno fa. Sarà anche perché siamo europei e l’Europa e le categorie su cui noi ci fondiamo non sono più le categorie “del mondo” (d’altro canto la terza rivoluzione industriale è la prima non “europea”), sarà che la realtà, intesa come forma informatica del mondo attuale, presenta un tempo altro dai tempi del nostro pensare tradizionale; fatto è che non riusciamo (o riusciamo solo per pochi momenti) a soffermarci in una data interpretazione del reale e ad approfondire quella. Tutto ci sfugge, ma soprattutto tale fuggevolezza non costituisce più un problema.

Già parlare di collettivo al lavoro, forse, può apparire antiquato, superato. Quando si dice oggi di fare le cose insieme, s’intende principalmente di farle “in connessione” gli uni con gli altri, di creare una rete; chiaramente, tuttavia, ciò non significa farle insieme. Significa, soprattutto, invece, scambiarsi informazioni, o mettere insieme pezzi prefabbricati di lavori di individui isolati gli uni dagli altri. Significa sostituire ai vecchi concetti di individuo e di gruppo, la nuova configurazione della rete.

Quindi, discorso collettivo sì; tuttavia essendo consapevoli dell’ambiguità che riveste questo discorso per noi, oggi, inseriti come siamo nella società della comunicazione e dell’informatica.

Credo di poterti rispondere, quindi, dicendo che personalmente ho delle linee di sviluppo in mente per questa ricerca, così come credo che alcuni dei collaboratori della rivista e i membri di Scuola critica abbiano delle loro; e sono convinto che in giro per il mondo ci sia chi discute di queste cose; ma credo, pure, che il destino della ricerca sulla trasformazione repentina di alcuni tratti dell’esperienza umana dipenda molto dalla forza e dalla debolezza interiore di chi si sta volgendo a pensare a queste cose, da quanto il dolore inconsapevole per la perdita dell’umano non sia più forte della volontà di comprendere cosa stia accadendo.

 

Vincenzo: Io, invece, rispetto ad uno dei temi, in particolare, che tu hai trattato, la virtualità intesa come astrazione dall’esperienza, ti chiederei di porlo, se possibile, in connessione con la più ampia storia del capitalismo. A me sembra esserci una certa relazione fra i due…

 

Giulio: È una domanda difficile, anche perché presupporrebbe un’essenza unitaria presente fin dall’inizio in un fenomeno, invece, complesso e variegato (in quanto fenomeno storico) quale è il capitalismo. Direi, quindi, sia difficile desumere dalla natura immateriale (cioè informatica) della rivoluzione industriale in corso, uno spirito primordiale di tale natura già nel primo capitalismo. D’altro canto se pensiamo al carbone, oppure alla siderurgia o alla trasformazione del petrolio nei suoi derivati, è difficile sostenere che il capitalismo sia andato sviluppandosi sul binario dell’astrazione dalla materialità del mondo. Tuttavia, se una connessione vogliamo stabilirla (per quanto detta così non so se sia corretto) dovremmo probabilmente introdurre, piuttosto, il concetto di reificazione. Cioè la terza rivoluzione industriale pone le basi per una nuova – ed ulteriore – forma di reificazione dei rapporti umani, la rappresentazione del loro essere sociale su d’un piano virtuale dell’esperienza, dove con virtuale dovremo intendere una riproduzione simulata d’un’esperienza originariamente umana.

 

Vincenzo: Che intendi con riproduzione simulata?

 

Giulio: Penso al fatto che la virtualità (dal telefono cellulare agli ultimi social networks) riproduce qualcosa che non è estraneo all’umano (ad es. chiacchierare, scambiarsi notizie, mettersi in mostra, cercare un fidanzato o fidanzata, fare politica), ma lo fa in una maniera simulata, cioè imita un aspetto della relazione umana, lo traspone su di un piano altro, astraendo dal fenomeno alcune determinate caratteristiche e lasciandone da parte altre. Così facendo, e, cioè, fornendo una traduzione della relazione umana, sostenendo tuttavia di riprodurla semplicemente per come è, e magari su scala più ampia, finisce con il dare della relazione una certa rappresentazione la quale, a sua volta, diviene modello per ogni altra relazione. Per cui l’astrazione compiuta a partire da un modello di base diviene essa stessa un modello dell’esperienza che ne era all’origine, e, dunque, tout court “ideale d’ogni relazione”.

Non è nulla di così complesso e, d’altro canto, non è una mia idea originale: si tratta di pensare a come la nostra esperienza si riconosca ormai in una forma che è sempre più “rappresentazionale”, cioè legittimata di diritto ad astrarre da alcuni tratti cui siamo stati abituati a considerare essenziali rispetto all’umano.

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Vincenzo: Ad esempio? Pensi al corpo?

 

Giulio: Sì, ma non solo; adesso, ad esempio, pensavo solo al fatto che nessuno si rende più conto che le parole sono solo la superficie del mondo, così come della personalità di un individuo. O meglio, dovrei dire degli individui, per come essi erano…

 

Vincenzo: Cioè tu adesso consideri che le persone si siano trasformate… le vedi come sola astrazione, parole, immagine di se stesse… e nient’altro?

 

Giulio: No, o non solo. Però io credo che la trasformazione della relazione umana dipendente dalla virtualità rischi di portare ad un vero e proprio rimodellamento dell’umano, in cui l’esperienza condivisa non è più un sentire insieme, ma un rappresentarsi da soli un certo significato del mondo.

L’esperienza condivisa di due o più individui contemporanei, temo, sia più prossima a quella di softwares elettronici connessi fra loro che a quella di un gruppo di animali, ad esempio, facenti parti di un branco… Qualcuno potrebbe aggiungere che non è detto che sia peggio… io mi sentirei di rispondere che, forse, non è né meglio né peggio, ma di sicuro esprime un senso dell’esistere molto diverso da quello del passato.

 

Vincenzo: Però bisogna dire che le macchine sono state create dagli uomini, quindi in quanto prodotto umano, hanno un che di umano...

 

Giulio: Sì, infatti, il problema non sono le macchine, o almeno non lo sono quanto gli uomini che le creano. Cioè, lo studio delle macchine semplicemente ci interessa in quanto esse sono il prodotto del nuovo uomo. Bisognerebbe soffermarsi su questa simbiosi fra uomo e strumento elettronico e guardare al fatto che a me sembra evidente che la macchina elettronica “servendo” l’uomo, lo cambia e, come dicevo, trasforma alcune delle sue funzioni essenziali.

L’uomo che si fa servire, per quanto da strumenti che egli ha inventato, cambia la sua posizione nel mondo, diviene inabile come soggetto, e, abdicando al suo ruolo, progressivamente s’indebolisce, limita i suoi orizzonti, accontentandosi solo di non estinguersi fisicamente, quando nei fatti, invece, culturalmente lo sta già facendo…

 

Raffaele: Io vorrei aggiungere un elemento che, in apparenza, è in controtendenza rispetto a questo discorso. A me sembra che, almeno da un certo punto di vista, il sistema attuale producendo umanità sulla base di rappresentazioni, determini più che un appiattimento sulla realtà data, uno slittamento continuo verso il piano delle possibilità. Sparendo la realtà, dunque, tutto diviene possibile. Per essere propositivi bisognerebbe capire se e come è possibile che gli individui si rendono conto di questo processo…

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Giulio: Credo di poterti rispondere che non sopravvaluterei l’aspetto della coscienza nel rapporto fra l’uomo e la società del suo tempo. Credo vi sia piuttosto un rapporto di opacità, in cui solo raramente penetra un po’ di luce. È difficile che una gran parte degli individui giunga a realizzare cosa muova alla radice la società in cui vive; ma non è questo, a mio avviso almeno, il punto. Si tratta di valutare quale sia la disponibilità “istintiva” ad opporsi ad un certo stato di cose. In particolare osservando quali siano, in una certa società, le diverse forze in campo, i diversi gruppi e la consistenza delle loro idee, la loro capacità di perseguirle, l’efficacia della loro organizzazione etc... Questo in via generale…

In modo specifico, rispetto al nostro mondo, credo che uno dei principali ostacoli all’assunzione d’una certa consapevolezza sia da ascrivere, come ho detto, alla nuova forma di intelligenza che si va diffondendo tra le nuove generazioni. Un’intelligenza, come abbiamo detto, slegata dalla dimensione della fisicità e della finitezza. Un’intelligenza, quella dell’uomo, ormai artificiale, fondata quasi solo sull’associazione di rappresentazioni già date, e incapace di porle a critica.

La creatività stessa dell’espressione è così sottoposta a dura prova: basti pensare alla creatività connessa al nostro parlare quotidiano. Nei filmati vedremo domani, ce n’è uno di Pasolini (tratto dal suo film documentario Comizi d’amore del 1965) in cui egli intervista alcuni siciliani. Ad un certo punto uno degli intervistati, non riuscendo ad esprimersi correttamente, per comunicare il suo pensiero inventa una parola. A proposito dei giovani degli anni sessanta, per indicare la loro intraprendenza, pronuncia la parola “prontismo”. “Oggi c’è più prontismo” dice, intendendo con questo la maggiore intraprendenza della generazione dei giovani. Dunque, all’assenza di un vocabolario completo egli provvede con una vera e propria invenzione linguistica.

 

Raffaele: Vorrei proporre ancora un’altra suggestione, che riguarda la superproduzione di rappresentazioni. In Uscite dal mondo, Zolla sostiene che il ricorso continuo di oggi al piano della virtualità potrebbe comportare come effetto il perfezionamento della capacità di elaborare le proprie esperienze interiori, rendendo possibile un passaggio collettivo ad un livello più alto di consapevolezza. Io credo che questa contraddizione che stiamo analizzando fra l’esperienza e la rappresentazione, potrebbe anche, in ipotesi, provocare una rottura del sensorio condizionato ed aprire ad una nuova possibilità di sentire. Dunque l’iperproduzione che si fonda su un flusso continuo di notizie, informazioni, potrebbe anche, contrariamente a quanto sta avvenendo adesso, favorire l’instaurarsi di un livello più elevato di coscienza sul mondo…

 

Giulio: Devo dirti che il concetto di uscita o fuga dal mondo, per come mi sembra la intenda Zolla non mi convince molto, né mi sembra – ma lo dico a partire dalla mia esperienza – che la sovrapproduzione di rappresentazioni stia portando ad un affinamento della sensibilità comune.

Certo, è innegabile che un giovane d’oggi abbia una capacità di tollerare un alto numero di informazioni (e quindi di stimolazioni) più che un uomo del passato; e, pur tuttavia, sono dubbioso che ciò sia qualcosa di più che una risposta d’adattamento e che comporti un ispessimento reale della sua personalità. Diciamo pure che tutto mi sembra vada nella direzione opposta, in quella della semplificazione.

Detto questo, devo ammettere che assistiamo a qualcosa che ancora non riusciamo a decifrare in modo chiaro... c’è in atto un cambiamento radicale della vita che le stesse “categorie di ieri” rischiano di deformare, nel tentativo di fornirne un’interpretazione…

Vorrei ora porre alla vostra attenzione un elemento ulteriore. Ricordo come Toni Negri in un’intervista del 2003 discutesse di come le forme della nuova tecnologia siano state frutto del desiderio delle masse di instaurare forme nuove di comunicazione; in base a ciò la rete di internet e l’informatica, in generale, sarebbero sorte grazie all’espressione d’una creatività latente presente fra le masse. In più circostanze, anche in alcuni suoi testi scritti, egli ha esposto questa tesi. Vorrei dirvi che, per quanto interessante, non sento di poter condividere questa posizione. Una cosa è, infatti, il dato del desiderio di costruire nuove relazioni (ed anche nuove forme di relazione) che infrangano i limiti oppressivi dei rapporti sociali precostituiti dalla tradizione; altro è discutere il modo in cui oggettivamente tali forme si siano venute creando, anche indipendentemente dalla volontà dei singoli attori (ma non certo indipendentemente dall’egemonia di pensiero dei ceti dominanti). E sulla base di questo mi trovo in disaccordo con Negri.

Tornando alla tua domanda iniziale, Raffaele, rispetto a come questa ricerca potrebbe proseguire, mi sembrerebbe molto utile allora discriminare singoli campi di indagine, anche un po’ ristretti, a che possano rendere bene il tipo di trasformazione antropologica cui siamo di fronte. Mi viene da pensare a volte a come sarebbe interessante svolgere uno studio sui tempi del linguaggio quotidiano, prendendo in esame l’accelerazione in atto che si verifica rispetto solo a qualche decennio fa. Il nostro discorso ha interiorizzato il frame della pubblicità; e mi sembra, d’altro canto, che noi oggi parliamo, nei fatti, imitando la pubblicità...

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Raffaele: In effetti non è solo il frame tipico della pubblicità, è proprio la distruzione dell’articolazione sintattica...

Ma vorrei anche aggiungere un elemento che non è stato ancora approfondito. In Italia, come negli Stati Uniti, il passaggio alla società dei consumi compiutosi in modo pressoché definitivo a metà degli anni settanta, si pone lungo una linea di continuità con l’epoca successiva, la nostra, caratterizzata dalla tecnologia e dall’informatica. Dunque gli anni ottanta e novanta non sono affatto caduti dal cielo, ma sono la prosecuzione di un processo già compiutosi nella sua essenza negli anni settanta. Bisogna, dunque, saper proporre un’analisi della realtà adeguata al cambiamento dei tempi. L’uso, ad esempio, che la scuola di Francoforte fece della psicoanalisi, oggi va integrato con i nuovi apporti delle neuroscienze, le scienze biologiche e la psicologia sociale e del profondo. Questo studio così articolato ci permetterebbe di comprendere anche meglio la drammaticità della nostra condizione. Ci permetterebbe di giungere alla consapevolezza che la colonizzazione oggi si va compiendo su tutti i livelli dell’esperienza umana.

 

Giulio: Sì, coscienti del fatto che alcuni aspetti dell’innovazione tecnologica procedono a passi spediti. Oggi facebook, ad esempio, utilizza un certo numero di applicazioni; domani saranno il doppio.

Tra queste probabilmente spiccherà quella che renderà possibile la localizzazione degli utenti connessi tramite un telefono cellulare. In un prossimo futuro non solo potrò leggere tutti i messaggi sulle bacheche virtuali dei miei contatti, ma potrò anche sapere dove questi si trovano in un dato momento. Come dicevamo, il mondo diviene sempre più qualcosa che mi è “a disposizione”…

 

Raffaele: D’altra parte il capitalismo se non espande il campo della propria influenza non può continuare ad esistere, per questo il suo è un moto perpetuo, continuo.

Inoltre, va sottolineata un’altra questione: la questione demografica. Da quando si è affermato, con la rivoluzione industriale, il trend dell’esplosione demografica, questo non si è più fermato, e, nei fatti, oggi la questione demografica è uno dei parametri essenziali per poter ragionare di società e politica. La popolazione mondiale cresce perché sono aumentate la tecniche di cura della salute, e si è innalzato il livello medio, ma cresce anche perché è necessario alla produzione che cresca.

 

Giulio: Fai bene a porre l’accento sulla questione demografica, perché è una questione centrale; però credo non sia così sicuro che gli strateghi del capitalismo mirino oggi ad una crescita demografica esponenziale. D’altro canto è vero che rispetto al passato e alla civiltà contadina c’è una gran differenza: anzitutto prima il tasso di mortalità infantile era molto più alto, dunque concepire un figlio era una speranza, e non una certezza; in secondo luogo un individuo non si sentiva mai del tutto fuori luogo, “in più”, dal momento che le sue braccia potevano essere comunque braccia di lavoro utili. La differenza con il mondo tardo industriale fu messa bene in luce da Pasolini quando considerò alla base del senso di colpa dei giovani degli anni settanta lo spaesamento di essere di troppo, senza un posto nel mondo. Se fare un figlio in passato poteva avere davvero il senso di mettere al mondo, cioè di donare una vita nuova, oggi i figli…

 

Raffaele: …i figli oggi sono maledetti.

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Giulio: Sì, nel senso che il mondo non ha bisogno di nuovi individui. L’umanità non vive più ponendosi dei veri e propri compiti, e, dunque, non ha bisogno che vi siano nuove generazioni che continuino e compiano l’opera dei padri.

 

Raffaele: Passando ad una discussione più specificamente politica, vorrei chiederti di dire qualcosa in più rispetto alla differenza fra le rivoluzioni di ieri e le possibili rivoluzioni di oggi, rispetto al tema dello spazio, e del rapporto fra locale e globale.

 

Giulio: Quello che intendevo è che un cambiamento storico del passato avveniva necessariamente all’interno di un contesto circoscritto, determinando solo successivamente, ed eventualmente, effetti su una scala più ampia. Questo rendeva possibile (e necessario) un processo di mediazione delle idee, e di assimilazione delle stesse da parte dei soggetti interessati. Oggi tutto questo si pone in termini diversi, ed è difficile immaginare oggi un processo analogo a quelli più classici che la storia ha conosciuto. La realtà in cui viviamo sembra piuttosto presentarsi come un insieme di tante provincie facenti capo ad un centro che, però, è immateriale.

 

Raffaele: Credo, d’altra parte, che dopo aver detto quello che stiamo dicendo, non sia scandaloso considerare l’impossibilità della rivoluzione al momento attuale.

 

Giulio: Beh, bisognerebbe intendersi prima sul concetto di rivoluzione e cosa intendiamo quando pronunciamo questa parola. In ogni modo, se teniamo fermo il principio che esiste una contrazione degli spazi in cui si coniugano esperienza politica e teorizzazione creativa, e in generale una tendenza all’ibernazione della storia come processo culturale, rimane da dire, certo, che una rivoluzione è difficile da immaginare. Almeno una rivoluzione del sistema capitalistico in quel senso che fino agli anni sessanta sembrava avere ancora una possibilità d’attuazione. Una rivoluzione leninista, in quel senso lì, direi di no, se non altro per il ruolo che può avere oggi un’ideologia o un partito.

Nella storia del Novecento lo stesso concetto di egemonia ha subito un’evoluzione: quella classica, pensiamo a Lenin, è quella di un gruppo o un partito che conquista con la sua azione il popolo ad una certa visione del mondo e della politica. Questa concezione è stata, in parte, corretta da Gramsci, il quale, anche nel testo che vi ho riportato nella dispensa[1], propone in effetti una teoria più complessa delle società occidentali. L’egemonia oggi non si presenta nella forma di processo: il sistema in quanto produttore di rappresentazioni, riesce ad astrarsi dalla storia e il capitalismo non è più un sistema percepito storicamente. Su questa base oggettiva, e non più, quindi, solo ideologica, esso fonda il suo dominio.

 

Nanni: Io vorrei, in riferimento anche agli eventi degli ultimi mesi del Maghreb, sottolineare, invece, la centralità della questione della comunicazione. Perché nonostante lo strapotere informativo di oggi, in questi paesi si è creato un movimento che ha mantenuto una propria autonomia. Allora io mi chiedo: è possibile trovare dei mezzi che contrastino questo dominio incontrastato, trovare una prospettiva alternativa? È possibile, cioè, utilizzare i nuovi mezzi di comunicazione ai fini di scardinare questa chiusura dell’universo di pensiero?

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Giulio: Nanni, ti rispondo osservando come negli ultimi anni ciascun attivista politico sia divenuto al tempo stesso un media attivista, vale a dire è impegnato a trasmettere immediatamente la propria esperienza al di là della ristretta cerchia di persone che vi si trovano attorno. Deve comunicare ciò che fa, altrimenti non esiste. Questa svolta è stata necessaria per via del cambiamento degli ultimi anni. Sia nelle rivolte maghrebine, che in piccolo, nelle mobilitazioni degli studenti italiani di quest’ultimo Dicembre [2010 Ndr], abbiamo assistito chiaramente alla necessità da parte del movimento in lotta di creare in modo autonomo la propria rappresentazione mediatica.

Proporrei, a questo punto, un approfondimento del piano strettamente politico. Con la democrazia di massa, infatti, comincia a porsi la necessità di una diffusione capillare di rappresentazioni in ogni ganglio della società. Nessuno spazio può essere lasciato fuori dal campo del consenso politico. Nelle nostre democrazie la partecipazione non è resa possibile attraverso la distribuzione degli strumenti culturali necessari ad essa, ma è imposta, sul modello del mercato, come inclusione degli individui nella sfera della comunicazione; alla pari di come si è tirati dentro il circuito dei consumi, così la politica democratica di oggi è uno spettacolo cui siamo obbligati ad assistere. Ciascuno è obbligato ad avere un’opinione su tutto.

Si capisce, ora, come internet si sia inserito in questo quadro. E di conseguenza è facile concludere come la partecipazione politica oggi non possa prescindere, per nessuno, dall’utilizzare questo strumento e dallo stare dentro la rete. Così chiaramente anche per i movimenti di protesta e di lotta.

La differenza che sussiste oggi rispetto alla situazione di quaranta anni fa è enorme. Allora un partito politico importante era in grado di convocare una piazza per una manifestazione; come è evidente, invece, in questi ultimi anni i partiti hanno perso progressivamente la capacità di essere avanguardia nei processi di trasformazione sociale: essi sono costretti ad inseguire i processi che accadono in società. Dunque, riguardo alle trasformazioni delle forme della politica, sulla base di quanto detto finora, credo si tratti di un cambiamento assolutamente maturo, e radicato in profondità nella nostra società. Se, come si dice, oggi c’è una diffusione rizomatica del potere (anche se ciò andrebbe spiegato meglio), allora la resistenza anche deve avere un carattere capillare e diffuso. Sicuramente internet offre a questo riguardo opportunità interessanti, che vanno in questa direzione. Detto questo, rimango fermo nella convinzione che l’elettronica, con i suoi derivati, ci stia cambiando in un modo radicale, e più di quanto non immaginiamo. Internet può essere pure lo strumento in cui esprimere e diffondere su temi specifici un controcanto al potere politico, ma non ci si deve illudere che la forma internet non sia tutta dentro la nuova forma dei rapporti sociali odierni, in cui la comunicazione fra individui è costretta ad essere fondamentalmente (dentro e fuori da internet) una comunicazione di tipo virtuale.

La cosa più importante è criticare la convinzione che oggi la risposta all’insoddisfazione del presente possa essere sostituire la rappresentazione dominante con un’altra rappresentazione. Il discorso sul futuro stesso della democrazia, credo, riguardi il ruolo delle informazioni e delle rappresentazioni nel determinare la coscienza degli individui.

Si tratterà, infatti, di superare il monopolio della rappresentazione, e non di sostituire un tipo di rappresentazione ad un altro. Bisognerà ricostituire l’elemento dell’esperienza sociale in modo nuovo, o meglio, cercare dove, in quali contesti e in quali modi essa si vada costituendo ancorandosi ad un qualche senso di appartenenza. Ritrovare, cioè, dei nobili modi di sentirsi appartenenti al mondo.

Se ammettiamo possibile ancora, come alcuni credono, una rivoluzione socialista di tipo classico, dovremmo chiederci quale sarebbe il primo atto del nuovo potere costituito. Come prima cosa io immagino che il leader faccia un discorso alla televisione (di stato o meno, non importa). Così il primo atto rivoluzionario sarebbe necessariamente integrato – e d’altro canto come potrebbe non esserlo? – nella forma spettacolare della nostra società. Torna alla memoria quel passo in cui Marx scrisse della necessità di abbattere l’apparato dello Stato, piuttosto che di utilizzarlo ai propri fini. In questo caso non sarebbe solo l’apparato dello Stato in senso classico, ma anche l’apparato delle reti di comunicazione su cui si fonda il potere diffuso nelle nostre società. Qualunque cosa dicessi da quella televisione, infatti, io riprodurrei lo stesso schema formale di giustificazione del potere cui siamo oggi assuefatti.

 

Nanni: Dunque, sostieni che la rivoluzione oggi non può sussistere…

 

Giulio: No, credo che questa frase di per sé non significhi nulla. Dico che bisogna, invece, rendersi conto di come oggettivamente funzioni la società odierna. E dico che una rivoluzione, intesa nel suo senso novecentesco, si troverebbe oggi a misurarsi con diverse nuove questioni, fra cui quella se debba o meno favorire il sistema di riproduzione della vita fondato sulla separazione di rappresentazione e realtà.

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Anna: Devo dirti che però questa non mi sembra una novità dell’oggi, ma da sempre esiste questa separazione…

 

Giulio: Beh, oggi secondo me esiste una separazione molto più ampia di prima tra rappresentazione del potere e realtà. Perciò io credo che, pur prendendo il potere, vera rivoluzione sarà lasciarlo, cioè trasformare l’assetto costituzionale e reale della società in una democrazia che permetta una partecipazione cosciente alla politica, eliminando il potere come separazione, il potere come luogo dei politici, e trasformarlo in una funzione della società nella quale ciascuno possa alternarsi nel dedicarsi, in una certa misura, alla gestione del potere. Dunque non semplicemente prendere, e quindi, occupare il potere ma assumersi il compito di eliminare la separazione tra il piano della rappresentazione e quello della realtà, che significa, al contempo, eliminare la netta separazione fra chi fa politica e chi non la fa. Come scriveva anche Marx rispetto alla Comune di Parigi, si tratta di trasformare il rapporto fra rappresentanti e rappresentati, la qual cosa, in chiave più filosofica, significherebbe trasformare il rapporto fra rappresentazione e il piano della vita.

 

Nanni: Allora forse la rivoluzione dovrebbe essere riuscire ad introdursi nei centri di gestione mondiale dei server informatici, e staccare la spina al server di tutti i server…

 

Giulio: No, non è una questione da pirati informatici; evidentemente le persone a cui tu sottrarresti Internet ne sentirebbero immediatamente la mancanza. Mi sembra evidente che una rivoluzione culturale dovrebbe dimostrare, piuttosto, che internet non può essere quello che è divenuto oggi; al tempo stesso, inoltre, dimostrare come lo spettacolo non possa prendere il posto del teatro della vita; che un bello spettacolo non sia migliore di nessuna vita, pure se triste o drammatica.

Da questo punto di vista, piuttosto che soffermarmi su quale specifico atto possa dirsi rivoluzionario, mi focalizzerei sul comprendere davvero fino a che punto una società della comunicazione a rete generi nuovi tipi di relazione sociali, e che, quindi, solo a partire da queste e da come esse trasformino le personalità, si possa affrontare il tema della politica, ed, eventualmente, quindi, quello della rivoluzione.

Siamo usciti, infatti, da pochi anni da quello che è stato definito il secolo breve, un arco di tempo relativamente esiguo, appunto, ma assai tumultuoso, al tempo stesso drammatico e frenetico. La società si è forse trasformata come mai è accaduto in un arco di così pochi decenni. Per molti versi quel secolo sembra lontano ma l’eredità che ci lascia è pesante: molti sono i nodi arrivati ai nostri anni senza soluzione di continuità. Tra questi, su tutti, spicca quello della tecnologia e delle sue applicazioni ormai in ogni campo della vita. Il concetto stesso di umano va rapidamente trasformandosi; insieme ad esso, d’altro canto, i concetti, ad esempio, di interiorità, ideologia, valore, legame, verità (e si potrebbe continuare) hanno ben poco in comune con i medesimi termini utilizzati anche solo due o tre generazioni fa. In questo campo, nel campo diciamo della spazio-temporalità dell’esperienza, il cambiamento è stato drastico, rapido, e sembra oggi, a noi, inesorabile. In virtù delle nuove forme di simbiosi fra uomo e macchina intelligente, il posto dell’uomo nel mondo è cambiato; così che cambiando il suo posto, è mutata anche la sua prospettiva sulle cose, su ciò che egli è, può essere, e vuole essere.

Che lo si riconosca o meno, stiamo andando incontro a qualcosa di radicalmente nuovo. Non intravedo alternative a tale corso. Meno lo riconosceremo, e più ne saremo immersi. Meno lo comprenderemo, e più saremo complici nel produrre tale realtà.

Al di là della superficie, la storia futura dipenderà prevalentemente da ciò: da quanto il rapporto dell’uomo con le forme artificiali d’intelligenza rimarrà entro questi binari, o da quanto se ne discosterà. Che sia per via d’un’azione umana o d’altre circostanze. Che prenda una direzione o un’altra.

 

APRILE 2012

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[1] Ci si riferisce a Gramsci, Quaderni dal carcere.