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10
Maggio 2013

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TECNO-PURGATORIO

Redazione

 

L’egemonia oggi non si presenta nella forma di processo: il sistema in quanto produttore di rappresentazioni, riesce ad astrarsi dalla storia e il capitalismo non è più un sistema percepito storicamente. Su questa base oggettiva, e non più, quindi, solo ideologica, esso fonda il suo dominio.

(G. Trapanese, Esperienza e rappresentazione nel mondo senza tempo. Il dibattito,

in questo stesso numero).

 

Né di destra, né di sinistra

È una moda oggi sentire risuonare da ogni parte la premessa di rifiuto equidistante tanto della destra quanto della sinistra politica. Chiunque voglia apparire come novità politica dotata di “buon senso” sente il dovere di posizionarsi fuori dagli schieramenti tradizionali. Dire che non ci si riconosce nella rappresentanza parlamentare, sia essa di destra o di sinistra, è legittimo e condivisibile, ci mancherebbe altro, ma questo è, pensiamo, diverso dal rifiutare tout court il significato storico dell’opposizione tra destra e sinistra. I due termini hanno confini sfuggenti, oggi più che mai, ma solo al costo, appunto, del rifiuto completo di una prospettiva storica capace di distinguere tra la realtà e la sua rappresentazione. Non è nostra intenzione sostenere una qualsiasi difesa della sinistra parlamentare di oggi o di ieri, ma solo cercare di capire se la definizione possa avere ancora senso.

Della sinistra politica ci preme non la sua forma presente ma il suo divenire sinistra. Se così non fosse, non avrebbe alcun senso criticarla e ci si potrebbe cullare nell’infinito, e ideologicamente rassicurante, scandalo della destra, attuale e passata.

Allora, pur comprendendo che siamo nell’epoca dell’istantaneità e dell’immediatezza discorsiva, rivendichiamo l’inattuale necessità di porci fuori dal tipo di forme espressive da essa consentite.

Quando Alain Badiou, dice che bisogna rompere con la sinistra chiarisce bene cosa intende con questo termine: «Chiamiamo “sinistra” l'insieme del personale politico parlamentare che si dichiara il solo capace di assumere le conseguenze generali di un movimento politico popolare singolare. O, in un lessico più contemporaneo, il solo capace di fornire un “esito politico” ai “movimenti sociali”»[1]. Qui rompere con la sinistra è un’azione volta ad espropriare al “personale politico parlamentare” il monopolio della definizione. È una rivendicazione al diritto di politicizzare lo spazio esterno all’istituzione della politica. Questa rottura necessaria, fuori da una cornice ideologica, può avere un interesse solo per chi si senta appartenente alla storia della sinistra, dato che solo la sinistra può davvero rompere con se stessa.

Al contrario una posizione superiormente equidistante, suona piuttosto come un’indifferenza verso la storia in generale, e verso, solo ad esempio, le vicende del movimento operaio, in particolare, che conferisce alla futurista[2] politica a-ideologica una sgradevole assonanza con quella dell’unità nazionale in nome del capitale, entrambe così prive di portata emancipatrice. Proprio perché la sinistra parlamentare vive nel tradimento perpetuo del proprio referente sociale, porsi indifferentemente contro l’intero arco rappresentativo, significa misconoscere le responsabilità delle parti in questo tradimento e dunque, per assurdo, assolvere anche la sinistra nell’equiparazione con la destra.

Non si pretende qui, tra l’altro, ripercorrere ambigui parallelismi, per esempio, tra concetti come sinistra e progresso, o destra e conservazione, dato che bisognerebbe prima definire cosa intendere con i termini che dovrebbero spiegare l’una o l’altra posizione. Piuttosto sarà utile proporre una interpretazione del termine “sinistra”, che potrà essere condivisa o meno, ma che dia quanto meno un senso più elementare al termine.

Questo senso è banale. Se si crede che nella società tutti abbiano le stesse possibilità, allora è pacifico che il mondo è già nel giusto, per cui non ha nessun senso dichiararsi di sinistra. Se invece si crede che nella società le possibilità siano distribuite in modo diseguale, ecco che allora la definizione politica di “sinistra”, in senso lato, ha ancora ragione d’essere, indipendentemente da ciò che fa o che pensa il suo “personale politico parlamentare”. Se la società è diseguale, la sinistra prima ancora di essere organizzazione politica è un sentimento, prima ancora di essere un’appartenenza di classe, è un’empatia con una parte della società. In questo senso, non si può non essere di parte. Già Gramsci odiava gl’indifferenti. Allora essere di sinistra, mentre implica un carattere diseguale della società, pone il soggetto dalla parte di chi in quella diseguaglianza è sfavorito. È una regola semplice, quasi primordiale, nel senso che non ci si dovrebbe prima pensare su, e tuttavia non sempre così univoca in ogni situazione anche se abbastanza verificata nella gran parte dei casi. Si tratta “semplicemente” di stare sempre dalla parte giusta, dalla parte di chi subisce il misfatto e non di chi lo promuove, né di chi lo accetta come naturale.

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Polarità e neutralità

Quando Debord critica l’ideologia, lo fa assegnando ad essa la corrispondenza con la “coscienza deformata della realtà”[3]. Questa coscienza deformata, che opera ideologicamente al servizio del sistema, non concepisce più se stessa come parte in lotta, ma come “piedistallo epistemologico”. Essa si identifica con la verità e dal momento che si è “materializzata” non ha più nulla da proporre, se non la purga delle passioni nella ripetizione del “politico” trasceso in “tecnico”.

È esattamente questo che intende Monti quando dice che non è più tempo di vecchie distinzioni politiche. A sua insaputa egli è d’accordo con Debord, e questa posizione (ideologica) è, certamente in accordo con la sua posizione di classe e, molto probabilmente, in accordo con la sua polarità inconscia. Ma la sequenza ideologia – classe – preconscio è ugualmente rispettata quando l’affermazione esce dalla bocca di chi vuole presentarsi quale un movimento politico di proposta, come il M5S?

Più in generale, la domanda che ci sembra legittima è la seguente: se la parte che ha vinto si astrae nella post-ideologia avendone tutte le ragioni, la parte che ha perso, può concedersi lo stesso lusso?

Nel tentativo di abbozzare una risposta, essendo persuasi da Debord che l’ideologia non può che costituirsi, in ultima analisi, come autorità indiscutibile e perciò come dogmatica e sclerotizzante deformazione della realtà, non crediamo all’utilità del ritorno dello scontro ideologico, come lo abbiamo conosciuto nel novecento, quando la “falsa coscienza” era già di casa a sinistra non meno che a destra. Tuttavia il rifiuto dell’impostazione esclusivamente ideologica nella comprensione della realtà, non può neanche sortire l’adesione modaiola all’era post-ideologica, come se nulla fosse. Ecco perché crediamo sia possibile affermare con decisione, per l’agire politico di un soggetto in movimento, l’assoluta necessità di una vigorosa, primordiale, essenziale pre-ideologia, nel senso di un orientamento generale, quanto meno, storicamente radicato e socialmente consapevole, che permetta di legare il proprio sentire alle proprie azioni ed affermazioni politiche, in modo elementarmente spiegabile.

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Molare e molecolare

È dunque possibile considerare le proprie azioni come prive di ideologia semplicemente affermandone a parole la neutralità? Oppure, come polvere di metallo, tendiamo sempre ad aggregarci secondo modalità allo stesso tempo istintive e distintive?

Per capire meglio vogliamo citare un verso:

 

Il paranoico congegna masse, è l’artista dei grandi insiemi molari, formazioni statistiche o gregarietà, fenomeni di folle organizzate. Egli investe tutto sotto la specie di grandi numeri. […] Si direbbe che, delle due direzioni della fisica, la direzione molare che va verso i grandi numeri e i fenomeni di folla, e la direzione molecolare che al contrario si addentra nelle singolarità, nelle loro interazioni e connessioni a distanza o di vario ordine, il paranoico abbia scelto la prima: egli fa della macrofisica. Lo schizo al contrario va nella direzione opposta, quella della microfisica, delle molecole in quanto non obbediscono più alle leggi statistiche; onde e corpuscoli, flussi e oggetti parziali che non sono più tributari dei grandi numeri, linee di fuga infinitesimali invece delle prospettive dei grandi insiemi. E sarebbe certo un errore opporre queste due dimensioni come il collettivo e l’individuale[4].

 

Questo passo, sembra la descrizione fedele tanto della tendenza alle formazioni leaderistiche, quanto alla disgregazione della “sinistra diffusa” e senza volto. Qualcuno si è preso la briga di contare, ad esempio, le scissioni di un partito di sinistra come Rifondazione Comunista. Pare che siano state ventidue (“onde e corpuscoli”). A sinistra si vorrebbero dei leader, ma poi c’è sempre qualcosa che emerge dal profondo contro chi, si candida ad usurpare la verità, ponendosi alla guida di formazioni che possono vivere solo attraverso il reale protagonismo di tutti gli aderenti. La sinistra è un po’ quel qualcosa che emerge dal profondo contro la sintesi forzosa di un sentire molteplice e, per definizione, irriducibile a pensiero unico. È per questo che essa riesce ad organizzarsi quasi solo snaturandosi in forme che non le appartengono[5]. Semmai la sinistra troverà una soluzione all’enorme problema dell’organizzazione, sarà quando sarà riuscita a “macchinare” positivamente questa spinta inconscia verso il rifiuto delle forme di normalizzazione di sé.

Nel momento in cui, invece, l’elemento collante di una formazione politica è sostanzialmente rappresentato da un direttore in carne ed ossa, si ha la situazione meno conveniente per l’espressione delle singolarità, a maggior ragione in un contesto di post-ideologia a priori. Il pensiero corre subito ai parlamentari eletti per il M5S, che non sono neanche liberi di esprimere un’opinione personale. Le forze politiche oggi in campo sono dunque tutte prigioniere del personalismo e del conseguente pensiero unico e il M5S ancora più degli altri. Da questo punto di vista il “nuovo” è già vecchio. Quando la situazione è questa, il programma non conta niente, checché se ne dica nella base più o meno larga delle formazioni. E mentre tutto sembra possibile a parole, l’unica politica che si riproduce sostanzialmente immutata è quella mercantile, per di più nella forma di unica possibilità indiscussa, visto che davvero essa non è più oggetto di attenzione. Per questo diventa possibile eleggere un parlamento consistentemente de-mascolinizzato e svecchiato, che però è incapace di agire. Non sa che pesci prendere, anche e soprattutto in ragione della dichiarata neutralità, quasi nichilista, della parte outsider.

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Responsabilità

L’implosione del Pd sull’elezione del Presidente della Repubblica non deve nascondere il fatto che il M5S si è reso responsabile della situazione attuale quando non ha permesso il formarsi di un governo Bersani. Se avessero contato davvero le idee, come amano dire i grillini, non ci sarebbe stato motivo di opporsi ad un nome. Anzi era palmare l’evidenza che permettendo un governo Bersani, la posizione politica seguente per il M5S sarebbe stata più forte di quella in cui si trova ora, senza contare un Pdl fuori dai giochi.

Anche qui, nessuno vuole sostenere che si avesse bisogno proprio di un governo Bersani.

Votando la prima fiducia, il M5S avrebbe, poi, potuto davvero controllare il governo. Ora invece, è all’opposizione, con Bersani fuori gioco e con Berlusconi che dopo aver perso (di poco, ma perso) finalmente un’elezione, sceglie il Presidente della Repubblica e piazza cinque ministri nel governo.

Napolitano è ancora lì, e le forze che sorreggevano Monti ora continuano a governare insieme, come se nulla fosse stato.

La domanda è: chi ha vinto davvero?

Certamente l’Europa del capitale finanziario, vero piedistallo epistemologico, sul piano sostanziale delle politiche (o tecniche) economiche e poi la destra sul piano della spicciola tattica parlamentare. Il Pd, che è responsabile, lascia fare. Ora è il redivivo Pdl a tenere sotto scacco il governo. Per il M5S la prima occasione è andata invece perduta. Spiegare il comportamento del M5S, nell’aver costretto il Pd al “governissimo”, come la giocata che gli assicurerà la sicura vittoria alle prossime elezioni, significa dimostrare, in caso di verifica positiva, il cinismo politico dei nuovi arrivati in parlamento, più interessati alla percentuale di rappresentanza che alle politiche concrete in questa fase, in caso di verifica negativa, il sostanziale analfabetismo politico della formazione.

Quando si entra in parlamento inizia la prova della verifica dei fatti. Ora non si tratta più di valutare dichiarazioni di principio e buffet di proposte scritte, ma di verificare scelte concrete.

Una forza politica di rottura, che non si ponga l’obiettivo di inceppare gli ingranaggi “tecnici” del sistema politico-economico, non è tale, al di là della retorica urlata con la quale si presenta. La presenza in parlamento del M5S, con un terzo della rappresentanza, non ha impedito (e non lo farà) che tutto rimanesse come prima, anzi ha, se possibile, peggiorato la situazione concedendosi uno stand-by abbastanza inopportuno di questi tempi.

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Non tutto è rivoluzione

Non entriamo nel merito delle proposte politiche del movimento di Grillo, molte delle quali condivisibili, non perché siano di Grillo, ma soprattutto perché traggono origine dall’elaborazione della sinistra extraparlamentare degli ultimi anni. Ogni proposta però può cambiare segno quando si cambia il quadro in cui è inserita ed è questo quadro che non è condivisibile. Il reddito minimo, ad esempio, non è per niente la stessa cosa del reddito di cittadinanza, giusto per citarne una.

Ma al di là della cornice complessiva nella quale inquadrare le proposte, per restare ai fatti è necessaria piuttosto l’analisi dell’ascesa politica di Grillo.

Chi pensi, ad esempio, che Grillo abbia utilizzato solo la rete per costruire il suo consenso, tralascia il fatto che ogni sua dichiarazione sia stata ripetuta ed amplificata continuamente in tv e sulla stampa. Chi pensa che internet sostituirà gli altri media non considera che i media lavorano affiancati l’uno all’altro. La televisione non ha sostituito la stampa. E, in ogni caso, se internet sostituisse completamente gli altri media sarebbe davvero un vantaggio per la democrazia, con una rete esposta in modo assoluto all’iniziativa privata? Chi parla di cyber-democrazia, con riferimento al M5S, si chiede come mai Grillo, uomo di spettacolo, ma non altri movimenti politici, abbia potuto ottenere certi risultati? E quante persone abbiano votato, ad esempio, nelle parlamentarie? Ma soprattutto chi auspica questo tipo di sviluppo è capace di distinguere tra democrazia e marketing?

Si può accettare che una persona sia proprietaria di un marchio politico e di opinione?

Se Berlusconi è un padrone, inteso come datore di lavoro e potentato economico, lo è ancora in ragione di un’impresa che impiega persone. Egli è di fatto opinion maker, ma non ancora di diritto. Con Grillo il passaggio è ulteriore. Egli è formalmente padrone delle coscienze di chi fa parte del suo movimento. Che cosa tutto ciò abbia a che vedere con una società desiderabile o con un avvento rivoluzionario è tutto da spiegare. E colpisce il fatto che soprattutto le nuove generazioni siano pronte, senza remore per la propria dignità personale, ad accettare queste condizioni di assoggettamento politico completo come unica possibilità d’impegno sociale. Siamo di fronte alla prova che nell’epoca delle rappresentazioni istantanee ogni consenso è ormai un consenso senza persone?

Fintanto che sarà “buon senso” non dichiararsi di sinistra, non pensiamo di poterci attendere delle rivoluzioni e quand’anche qualche, più o meno grosso, cambiamento dovesse verificarsi in queste condizioni, dovremo presumibilmente archiviarlo ancora una volta sotto il capitolo delle rivoluzioni passive.

 

MAGGIO 2013

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[1] Alain Badiou. La Comune di Parigi. Una dichiarazione politica sulla politica. Cronopio, Napoli 2004, p. 37.

[2] Nel senso di archiviazione senza giudizio del passato.

[3] G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini&Castoldi, Milano 1997.

[4] G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino 1972, p. 318.

[5] G. Lukacs, Considerazioni metodologiche sulla questione dell’organizzazione, in Storia e coscienza di classe, leggibile al seguente link: http://it.scribd.com/doc/109248037/Gyorgy-Lukacs-Storia-e-coscienza-di-classe-TR