ALCUNE RIFLESSIONI SUL
CONVEGNO DI STUDI LA REPRESSIONE
DEI CRIMINI CONTRO GLI ANIMALI: ASPETTI SOSTANZIALI E PROCEDURALI
Daniele
Alagia
Dal secolo scorso in
poi, specialmente nel mondo occidentale, i governi di molte nazioni
hanno ampliato i prerequisiti per poter godere di una tutela giuridica
ed usufruire del diritto di cittadinanza, concedendo pari opportunità ad
individui e gruppi che fino ad allora ne erano stati esclusi.
Specialmente nel caso delle donne, il progresso verso la loro
affermazione come soggetti giuridici al pari degli uomini è stato
preceduto e accompagnato dalla discussione su come l’estensione delle
prerogative del gruppo dominante dovesse articolarsi in funzione e nel
rispetto della loro peculiarità, fino ad allora motivo di esclusione.
Non si tratta di un processo lineare e definitivo: al mantenimento dei
diritti acquisiti e all’incisività della loro applicazione hanno
contribuito in maniera decisiva l’attenzione e la mobilitazione dei
gruppi di pressione che esprimono gli interessi dei soggetti in causa.
Proprio per questo motivo la nostra età è spesso definita come un’Età dei diritti. In questa formula, tuttavia, soggiace
implicitamente l’intima connessione tra l’affermazione dei diritti da
parte di gruppi oppressi e le lotte che storicamente hanno permesso tale
riconoscimento.
Eppure, al giorno
d’oggi è in discussione, sebbene in modo estremamente parziale e spesso
praticamente inefficace, l’estensione della tutela giuridica verso una
categoria di soggetti non in grado di esprimere una protesta collettiva
e organizzata, si tratta degli animali non umani.
In realtà qualcosa di
analogo si è già verificato, quando, ad esempio, si è iniziato a porre
in questione la problematica ambientale, con il connesso diritto delle
future generazioni a ricevere in dote un ecosistema ancora vivibile: si
considera, quindi, un soggetto giuridico non ancora fattivamente
esistente e, pertanto, non in grado rivendicare i propri diritti. Il
Convegno di Studi La repressione
dei crimini contro gli animali: aspetti sostanziali e procedurali,
che ha avuto luogo giorno 23 novembre 2012 presso il Palazzo di
Giustizia del capoluogo campano, è stata un’occasione per discutere sul
modo in cui la legislazione, da noi elaborata, interviene sul nostro
rapporto con gli altri animali. Come, durante il suo intervento al
convegno, ha illustrato il prof. Valerio Pocar, già ordinario di
Sociologia del diritto e Bioetica presso l’Università di Milano-Bicocca,
attualmente Garante per la tutela degli animali del Comune di Milano, se
si tralascia il corso storico degli eventi, che non deve essere confuso
con i principi etici, risulta assiomatico che «Non sono i diritti a
creare i doveri, ma sono i doveri che creano i diritti». Esiste,
pertanto, il dovere da parte degli essere umani di riconoscere e
rispettare i diritti anche degli animali non umani, considerata
primariamente la loro natura di esseri senzienti, ma non solo. Nel suo
discorso piano e ben strutturato, Pocar ha ampliato enormemente
l’angusta prospettiva con cui siamo soliti rapportarci ai nostri
prossimi di altre specie, andando ben al di là della massima latina,
fortemente antropocentrica, per cui
Saevitia in bruta est tirocinium
crudelitatis in homines, ma anche dalla concezione utilitarista
secondo cui i diritti degli animali derivano semplicemente dalla loro
natura di esseri senzienti, capaci di provare piacere e dolore. Non si
tratta di interpretare la natura degli animali non umani alla luce dei
nostri comportamenti e dei nostri bisogni, ma di riconoscere pienamente
la loro peculiarità abbandonando il punto di vista privilegiato da cui
abitualmente li osserviamo. Una volta fatto questo, non risulta troppo
ostico valutare che, concepiti dalla loro prospettiva, anche i non umani
posseggono diritti politici, corrispondenti al nostro dovere di non
violare le loro gerarchie interne (si ha un esempio di ciò
nell’abbandono di un cane, che lo priva di un’essenziale figura di
ascendente). Disconoscere agli animali non umani prerogative quali il
pensiero o il linguaggio, significa intenderle attraverso la lente
dell’uomo maschio adulto e occidentale, giacché equivale a negare altre
forme possibili come il linguaggio simbolico o il pensiero non
razionale, presenti, se pur in forme diverse, in civiltà differenti,o
nei primi stadi della crescita, e significa ignorare come il pensiero
occidentale, fino a tempi recenti, abbia grandemente trascurato
l’apporto della metà femminile del genere umano.
Probabilmente, il pieno
riconoscimento degli animali non umani come soggetti di vita e, quindi,
soggetti morali, potrebbe portarci verso un pensiero in grado di
superare definitivamente l’atteggiamento di fondo alla base di ogni
genere di discriminazione: quello per cui la diversità rispetto al
gruppo dominante giustificherebbe un statuto morale inferiore.
Ma come arrivare a
superare questo scoglio? Che ruolo possono avere le leggi e gli
ordinamenti degli Stati e delle istituzioni sovranazionali, se sono
un’emanazione dello stesso gruppo dominante? Come creare i presupposti
giuridici, culturali, psicologici e i rapporti di forza necessari per
suscitare questo radicale cambiamento? Qual è, dunque, la strategia da
adottare?
Il convegno,
accreditato dall’Ordine degli Avvocati di Napoli e promosso dalla
lav
Lega Antivivisezione Onlus,
dal Movimento Forense Nomos e
dalla Unione Italiana Forsense
, è stato ospitato dalla Camera Penale di Napoli e ha sicuramente
rappresentato una buona occasione per creare interesse e suscitare
spunti di riflessione su questa tematica assolutamente cruciale e
delicata, così latente nelle nostre abitudini di vita da non essere
quasi mai portata a galla per essere affrontata a viso aperto.
Già durante l’apertura
del convegno, si è potuto osservare un confronto tra posizioni
differenti proprio su come la legge interviene, o dovrebbe intervenire,
per tutelare i diritti animali: mentre l’avvocato Domenico Ciruzzi,
Presidente della Camera penale di Napoli, ha apprezzato
significativamente le sanzioni previste dall’ordinamento giuridico
italiano, pur esprimendo riserve su un possibile eccessivo allargamento
della sanzione penale in funzione deterrente, il Presidente dell’Ordine
degli Avvocati di Napoli, avvocato Francesco Caia, vegetariano in erba,
si è espresso considerando come la legislazione italiana sui diritti
degli animali fosse edificata su fondamenta ipocrite, perlopiù creata
per tutelare privilegiate categorie di animali domestici, escludendo
quasi del tutto quegli individui
destinati alla macellazione, ad essere trasformati in vestiario o
utilizzati negli spettacoli pubblici, per i quali la sanzione penale non
esercita tuttora una significativa tutela.
In particolare, la
legge a cui si sta facendo riferimento è la n. 189 del 2004 –
disposizioni concernenti il
maltrattamento sugli animali nonché impiego degli stessi in
combattimenti clandestini o competizioni non autorizzate – che
istituisce una serie di reati come l’uccisione e il maltrattamento di
animali, ma anche la vendita di pellicce di animali come cani, gatti e
foche. La legislazione in merito può costituire un ottimo angolo di
osservazione per indagare su come le esigenze e i bisogni degli animali
non umani vengano intesi e selezionati attraverso il filtro della
prospettiva antropocentrica che le leggi incarnano. L’ articolo in
questione, il ix bis del
ii libro del Codice Penale,
«dei delitti contro il sentimento per gli animali» punisce chiunque
cagioni la morte di un animale «per crudeltà o senza necessità» e
chiunque «per crudeltà o senza necessità cagiona una lesione ad un
animale, ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti o a fatiche o a
lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche». Prevedendo
la norma una maggiore penalità, come è ovvio, se dalla lesione consegue
la morte dell’animale, si è potuto, grazie al lavoro della
giurisprudenza, assimilare a quest’ultima fattispecie di reato anche la
condotta omissiva da cui deriva la morte del soggetto in causa. Il
Legislatore fa leva sulla componente emotiva indiretta del rapporto
uomo-animale, di cui generalmente si avvantaggia una ristretta cerchia
di soggetti – gli animali da
compagnia – ma non demarca esplicitamente alcun limite. Come ha ben
illustrato l’avvocato Carla Campanaro, responsabile dell’ufficio legale
della lav – associazione
antispecista che da più di trent’anni lavora all’interno delle
istituzioni per ottenere una maggiore tutela giuridica per gli animali e
una maggiore efficacia delle normative vigenti – il provvedimento si
scontra con quanto previsto da molteplici, e spesso vetuste, normative
di settore che regolamentano l’attività venatoria, l’uso di animali in
ambito circense (la cui normativa risale al 1968), quello a fini
sperimentali, il trasporto di soggetti destinati alla macellazione, la
macellazione stessa ecc., rendendo fortemente ristretto il suo campo di
applicazione. Si tratta di ambiti che il senso comune non è solito
percepire come forme di oppressione e sfruttamento, ed è proprio
l’assenza di percezione a far sì che questi fenomeni non vengano
eliminati e che siano anzi giuridicamente legittimati. Difendere
legalmente una categoria che non gode della piena tutela rappresenta un
compito particolarmente ostico, occorre scovare quei punti deboli in cui
la discriminazione non viene sancita in tutti gli aspetti. Difatti,
sebbene l’art. 3 della legge 189/04 afferma che «le disposizioni del
titolo ix-bis del Libro
ii del Codice Penale non si
applicano ai casi previsti dalle leggi speciali in materia di caccia,
pesca […]» sono soltanto i casi sanzionati specificatamente da queste
leggi, o quelli espressamente definiti leciti, a non rientrare nel
raggio d’intervento della 189/04, e non tutte le condotte praticate in
seno alle attività regolamentate dalle leggi speciali. Per citare un
esempio di come questa osservazione abbia trovato effettivo riscontro
giuridico, si può citare la sentenza del 21/12/05 con cui la Corte di
Cassazione ha respinto il ricorso del
cacciatore Giuseppe Eugenio Boventi, condannato lo stesso anno dal
tribunale di Voghera per aver utilizzato, «al fine di richiamare a scopo
di caccia gli uccelli, una cesena viva legata ad una cordicella,
strattonandola e facendole compiere continui decolli e conseguenti
ricadute». Il ricorso di questo signore faceva leva sulla L. 11/02/’92
n.157 che tuttavia, pur consentendo l’uso a scopo venatorio di richiami
vivi, vieta l’inflizione di gratuite sofferenze specie cui viene
attribuita sensibilità psico-fisica, come appunto gli uccelli,«con
offesa al comune sentimento di pietà verso gli animali». Pur non essendo
prevista espressamente da detta legge, che elenca una serie di casi a
titolo meramente esemplificativo, la condotta del signor Boventi , a
detta della Cassazione, non era consona alle caratteristiche etologiche
dell’animale utilizzato.
Chiaramente, questa tipologia di reato è particolarmente
suscettibile di non essere valutata nella maniera opportuna, e ciò
avviene tanto più gravemente quando lo sfruttamento di animali diventa
una componente importante delle organizzazioni malavitose. Il fenomeno
delle Zoomafie, vede nella città di Napoli, con il suo
hinterland, un importante, e
triste, teatro. Il dott. Ciro Troiano, criminologo responsabile
dell’Osservatorio Nazionale Zoomafie della
lav, intervenendo al convegno ha indicato, con il termine
Zoomafia, da egli coniato, lo sfruttamento con modalità criminose di
animali da parte di singoli o gruppi associati alla criminalità
organizzata. Si tratta di un reato plurioffensivo, in quanto non offende
soltanto la vittima animale in causa o il comune sentimento di pietà nei
confronti degli animali, ma che comporta anche una violazione del senso
di sicurezza nazionale
–
nel caso combattimenti clandestini tra cani e in quello della
macellazione di animali compiuta abusivamente –
e un uso illecito di infrastrutture pubbliche –
come si verifica durante lo svolgimento di gare ippiche clandestine, che
avviene all’interno di ippodromi comunali o sulla carreggiata stradale
– implica l’offesa ai beni patrimoniali –
quando si utilizza la fauna selvatica –
e, anche se in senso non strettamente giuridico, l’offesa al consesso
civile, ledendo il comune atteggiamento di compassione verso gli
animali. L’aspetto multiforme di questo fenomeno criminale corrisponde
alle enormi e variegate opportunità che il mondo animale offre alle
organizzazioni mafiose. Infatti, oltre che a garantire un’ingente fonte
di guadagno, gli animali non umani rappresentano un efficace strumento
di controllo del territorio, come nel caso citato delle corse
clandestine con l’impiego di cavalli, in cui la Camorra si avvale, fra
gli altri mezzi che usa per conservare la propria egemonia, di forze
paramilitari, oltre che della comune indifferenza. Le specie esotiche,
specie se feroci, vengono di sovente importate per essere sfruttate come
“blasoni animati”, ossia come espressioni di lusso e simulacri del
potere: due forme, strettamente intrecciate, con cui l’esercizio del
dominio si rappresenta. In aggiunta, spesso i metodi educativi praticati
nel contesto dei sistemi mafiosi consistono nell’affidare ai fanciulli
il compito di accudire la fauna domestica dei
boss.
Dall’analisi di Ciro Troiano, si conclude che dalla scarsa
percezione della gravità e della complessità del fenomeno, deriva che
non tutti i relativi aspetti, ad esempio quello economico, siano presi
nella giusta considerazione e ciò origina, conseguentemente, uno scarso
coordinamento tra le varie componenti che dovrebbero operare a partire
dai settori di loro specifica competenza, come la polizia giudiziaria e
la guardia di finanza, nella repressione del fenomeno.
Questo tipo di approccio, che tende a considerare poco il fenomeno
delle zoomafie, è fatto proprio anche da uno dei più noti giornalisti
italiani, Marco Travaglio, di solito particolarmente preparato sulle
questioni giuridiche. La sua proposta di sostituire la sanzione penale
con una multa amministrativa, in modo tale da evitare il costo dei tre
gradi di giudizio e garantire, rispetto ad un reato che certo finirebbe
–
a suo dire – in prescrizione, è certo
frutto di un’insufficiente conoscenza del fenomeno, che non permette di
considerare come la sofferenza inflitta ad un singolo animale sia in
realtà inserita in un articolato sistema criminale che fa dello
sfruttamento costante di essere viventi un importante fonte di guadagno,
di potere e di prestigio. Tuttavia, l’ignoranza non è mai del tutto
attribuibile al caso, specie se propria di una persona generalmente non
disinformata, ed è da ritenere che l’ignoranza prima fra tutte sia
composta da quegli schemi mentali, ereditati dalle generazioni
precedenti, che non ci lasciano interrogare su ciò che quotidianamente
esperiamo e di cui siamo partecipi. La criminalità organizzata non è un
fenomeno che può spiegarsi meramente in termini di reato e di
illegalità, in quanto spesso esso si mescola con ciò che formalmente non
costituisce reato: con il nostro vivere quotidiano, i prodotti che
consumiamo, in genere con le scelte che facciamo ogni giorno e, in
ultima analisi, con la nostra decisione radicale di influire sulla
società in cui viviamo o di essere soltanto dei sudditi. Lo stesso vale,
in generale, per lo sfruttamento degli animali di altre specie. Le
rivolte di braccianti contro il caporalato in località come Rosarno o
Castelvolturno, hanno imposto una maggiore consapevolezza sia da parte
delle istituzioni che della società civile; ma, come è stato detto, gli
animali non umani non possono esprimere una protesta organizzata e le
poche notizie che abbiano sulla loro condizione di macchine alimentari
ci viene data quando le modalità in cui vengono nutriti e allevati
rischia di procurare un danno alla nostra salute. La legge degli uomini
può salvare singoli animali dalla morte e da atroci sofferenze, ma per
estirpare il fenomeno alla radice occorre un cambiamento di mentalità
generalizzato, che influisca sulle istituzioni che ci governano.
Rinchiusi in edifici costruiti in modo da occultare la loro
oppressione, gli animali non umani vivono un problema analogo a quello
dei detenuti: la loro sofferenza, anche se manifesta, è decisamente
visibile all’interno del loro gruppo e quasi per niente al di fuori.
Un’ingiustizia lontana dal sentire quotidiano non può che essere rimossa
in fretta dal senso comune; in più, i macelli, gli allevamenti
intensivi, i laboratori, come le carceri, hanno dei rispettivi ruoli e,
dunque, sono giustificati dalla società in cui viviamo. Le prigioni
servono per proteggerci dai criminali, gli allevamenti per procurarci il
cibo necessario per vivere, gli esperimenti su animali per assicurare la
nostra salute: in nessuno di questi casi, generalmente, ci si chiede
quali considerazioni e quale sviluppo storico ne siano alla base. Da
dove si origina il crimine e come mai si è deciso di rinchiudere delle
persone per rieducarle? È necessario, specie per una società evoluta
come la nostra, seviziare degli animali per valutare l’efficacia o la
sicurezza di un farmaco? Si possono indagare le cause e i rimedi di una
malattia sezionando un organismo diverso dal nostro? È necessario per il
nostro regime alimentare allevare degli animali, dalla nascita alla
macellazione, frustrando tutti i loro bisogni più elementari, anche se
ciò non avviene presso altre specie viventi? In che modo giova al bene
comune questo regime alimentare, se gli allevamenti comportano un enorme
spreco di risorse idriche e alimentari, oltre che diverse forme di
inquinamento a livelli molto alti?
Gli animali sperimentano innumerevoli ed enormi ostacoli sul
cammino della loro liberazione dall’oppressione. Già palare di
liberazione per un gruppo di individui che non può conseguirla
lottando non può che apparire, ad un primo impatto, alquanto fuori
luogo, una sorta di forzatura: si tratta di un primo indizio sul grado
di arretratezza culturale con cui viviamo questa problematica. Usare
rispetto, nelle scelte di tutti i giorni, verso gli animali non umani
viene considerato dal senso comune come indice di una particolare
vocazione alla sensibilità e alla compassione, quindi come una
deviazione dai normali canoni di comportamento, come una forma di
debolezza sentimentale e non come misura della nostra umanità. Questa è
sicuramente la barriera più ostica e, per quei pochi che hanno
consapevolezza del problema, probabilmente anche la più odiosa.
Il linguaggio fa il resto; non appena gli animali sono trasformati
in qualcosa che riveste, per noi, una qualche utilità, perdono nella
nostra prospettiva ogni valore intrinseco, ogni accezione di esseri
viventi, ogni possibilità di ricevere considerazione. In una società
come la nostra, prevalentemente strutturata sulla violenza, una continua
rimozione di umanità non colpisce solo gli animali, ma per differenti
motivi, anche il migrante senza permesso di soggiorno, il nomade, il
tossicodipendente, oltre che il cane randagio: individui che
abitualmente sono valutati in funzione del nostro senso di sicurezza, o
meglio di tranquillità, perdendo qualsiasi valenza di individui.
Moralmente nessuno di questi problemi precede l’altro: quasi sempre, si
creano gerarchie di valore tra le varie problematiche solo per
giustificare l’indifferenza generalizzata. È proprio questo,
l’indifferenza, il secondo pilastro su cui si fonda la società in cui
viviamo, di cui però facciamo parte integrante, con i nostri
comportamenti quotidiani, a cui siamo abituati. Ecco un terzo pilastro,
molto intrecciato agli altri: le abitudini. Viviamo in una società
fondata in gran parte sulla violenza, governata da istituzioni che fanno
un uso costante e continuato della violenza, che si regge su
comportamenti violenti, ai quali spesso non facciamo caso o cerchiamo di
non fare caso, in modo da evitare riflessioni dolorose sulle nostre
abitudine e, eventualmente, cambiarle.
Le associazioni criminali si reggono sul consenso collettivo e
omissivo, e sulla violenza. Le istituzioni legali si reggono sulle
nostre abitudini e sul monopolio della violenza. Più che essere inserito
in una scala valoriale, la consapevolezza dello sfruttamento a cui sono
sottoposti gli animali deve essere contestualizzata, deve cioè farci
riflettere su noi stessi, su come quotidianamente ci rapportiamo verso
gli altri individui, su come operiamo in funzione dei loro diritti, e a
chiederci se le istituzioni da cui ci lasciamo governare siano adeguate
al rispetto di tali diritti.
Nell’assunzione e nella diffusione di questa consapevolezza può un
piccolo gruppo consapevole assumere un’importanza decisiva, magari
operando per vie legali? Può darsi di sì, ma si deve, soprattutto, con
molto coraggio, rendere palese la violenza insita in una realtà
fattivamente esistente, la cui conservazione è permessa da leggi
fondate, in ultima analisi, sul nostro consenso omissivo: il consumo di
carne, le gabbie, i circhi, il randagismo, gli oggetti composti da parti
di animali uccisi, la caccia, le competizioni sportive, ecc. sono tutti
fenomeni che possiamo esperire nella vita di tutti i giorni. Per creare
i rapporti di forza necessari alla loro abolizione dobbiamo prima
decidere di esserne consapevoli, questo non può non comportare una
radicale rottura con le nostre abitudini consolidate.
DICEMBRE 2012