banner ruggine
09
Gennaio 2013

home - indice


 

ALCUNE RIFLESSIONI SUL CONVEGNO DI STUDI LA REPRESSIONE DEI CRIMINI CONTRO GLI ANIMALI: ASPETTI SOSTANZIALI E PROCEDURALI

Daniele Alagia

 

Dal secolo scorso in poi, specialmente nel mondo occidentale, i governi di molte nazioni hanno ampliato i prerequisiti per poter godere di una tutela giuridica ed usufruire del diritto di cittadinanza, concedendo pari opportunità ad individui e gruppi che fino ad allora ne erano stati esclusi. Specialmente nel caso delle donne, il progresso verso la loro affermazione come soggetti giuridici al pari degli uomini è stato preceduto e accompagnato dalla discussione su come l’estensione delle prerogative del gruppo dominante dovesse articolarsi in funzione e nel rispetto della loro peculiarità, fino ad allora motivo di esclusione. Non si tratta di un processo lineare e definitivo: al mantenimento dei diritti acquisiti e all’incisività della loro applicazione hanno contribuito in maniera decisiva l’attenzione e la mobilitazione dei gruppi di pressione che esprimono gli interessi dei soggetti in causa. Proprio per questo motivo la nostra età è spesso definita come un’Età dei diritti. In questa formula, tuttavia, soggiace implicitamente l’intima connessione tra l’affermazione dei diritti da parte di gruppi oppressi e le lotte che storicamente hanno permesso tale riconoscimento.

Eppure, al giorno d’oggi è in discussione, sebbene in modo estremamente parziale e spesso praticamente inefficace, l’estensione della tutela giuridica verso una categoria di soggetti non in grado di esprimere una protesta collettiva e organizzata, si tratta degli animali non umani.

In realtà qualcosa di analogo si è già verificato, quando, ad esempio, si è iniziato a porre in questione la problematica ambientale, con il connesso diritto delle future generazioni a ricevere in dote un ecosistema ancora vivibile: si considera, quindi, un soggetto giuridico non ancora fattivamente esistente e, pertanto, non in grado rivendicare i propri diritti. Il Convegno di Studi La repressione dei crimini contro gli animali: aspetti sostanziali e procedurali, che ha avuto luogo giorno 23 novembre 2012 presso il Palazzo di Giustizia del capoluogo campano, è stata un’occasione per discutere sul modo in cui la legislazione, da noi elaborata, interviene sul nostro rapporto con gli altri animali. Come, durante il suo intervento al convegno, ha illustrato il prof. Valerio Pocar, già ordinario di Sociologia del diritto e Bioetica presso l’Università di Milano-Bicocca, attualmente Garante per la tutela degli animali del Comune di Milano, se si tralascia il corso storico degli eventi, che non deve essere confuso con i principi etici, risulta assiomatico che «Non sono i diritti a creare i doveri, ma sono i doveri che creano i diritti». Esiste, pertanto, il dovere da parte degli essere umani di riconoscere e rispettare i diritti anche degli animali non umani, considerata primariamente la loro natura di esseri senzienti, ma non solo. Nel suo discorso piano e ben strutturato, Pocar ha ampliato enormemente l’angusta prospettiva con cui siamo soliti rapportarci ai nostri prossimi di altre specie, andando ben al di là della massima latina, fortemente antropocentrica, per cui Saevitia in bruta est tirocinium crudelitatis in homines, ma anche dalla concezione utilitarista secondo cui i diritti degli animali derivano semplicemente dalla loro natura di esseri senzienti, capaci di provare piacere e dolore. Non si tratta di interpretare la natura degli animali non umani alla luce dei nostri comportamenti e dei nostri bisogni, ma di riconoscere pienamente la loro peculiarità abbandonando il punto di vista privilegiato da cui abitualmente li osserviamo. Una volta fatto questo, non risulta troppo ostico valutare che, concepiti dalla loro prospettiva, anche i non umani posseggono diritti politici, corrispondenti al nostro dovere di non violare le loro gerarchie interne (si ha un esempio di ciò nell’abbandono di un cane, che lo priva di un’essenziale figura di ascendente). Disconoscere agli animali non umani prerogative quali il pensiero o il linguaggio, significa intenderle attraverso la lente dell’uomo maschio adulto e occidentale, giacché equivale a negare altre forme possibili come il linguaggio simbolico o il pensiero non razionale, presenti, se pur in forme diverse, in civiltà differenti,o nei primi stadi della crescita, e significa ignorare come il pensiero occidentale, fino a tempi recenti, abbia grandemente trascurato l’apporto della metà femminile del genere umano.

Probabilmente, il pieno riconoscimento degli animali non umani come soggetti di vita e, quindi, soggetti morali, potrebbe portarci verso un pensiero in grado di superare definitivamente l’atteggiamento di fondo alla base di ogni genere di discriminazione: quello per cui la diversità rispetto al gruppo dominante giustificherebbe un statuto morale inferiore.

Ma come arrivare a superare questo scoglio? Che ruolo possono avere le leggi e gli ordinamenti degli Stati e delle istituzioni sovranazionali, se sono un’emanazione dello stesso gruppo dominante? Come creare i presupposti giuridici, culturali, psicologici e i rapporti di forza necessari per suscitare questo radicale cambiamento? Qual è, dunque, la strategia da adottare?

Il convegno, accreditato dall’Ordine degli Avvocati di Napoli e promosso dalla lav Lega Antivivisezione Onlus, dal Movimento Forense Nomos e dalla Unione Italiana Forsense , è stato ospitato dalla Camera Penale di Napoli e ha sicuramente rappresentato una buona occasione per creare interesse e suscitare spunti di riflessione su questa tematica assolutamente cruciale e delicata, così latente nelle nostre abitudini di vita da non essere quasi mai portata a galla per essere affrontata a viso aperto.

(torna su)

Già durante l’apertura del convegno, si è potuto osservare un confronto tra posizioni differenti proprio su come la legge interviene, o dovrebbe intervenire, per tutelare i diritti animali: mentre l’avvocato Domenico Ciruzzi, Presidente della Camera penale di Napoli, ha apprezzato significativamente le sanzioni previste dall’ordinamento giuridico italiano, pur esprimendo riserve su un possibile eccessivo allargamento della sanzione penale in funzione deterrente, il Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Napoli, avvocato Francesco Caia, vegetariano in erba, si è espresso considerando come la legislazione italiana sui diritti degli animali fosse edificata su fondamenta ipocrite, perlopiù creata per tutelare privilegiate categorie di animali domestici, escludendo quasi del tutto quegli individui destinati alla macellazione, ad essere trasformati in vestiario o utilizzati negli spettacoli pubblici, per i quali la sanzione penale non esercita tuttora una significativa tutela.

In particolare, la legge a cui si sta facendo riferimento è la n. 189 del 2004 – disposizioni concernenti il maltrattamento sugli animali nonché impiego degli stessi in combattimenti clandestini o competizioni non autorizzate – che istituisce una serie di reati come l’uccisione e il maltrattamento di animali, ma anche la vendita di pellicce di animali come cani, gatti e foche. La legislazione in merito può costituire un ottimo angolo di osservazione per indagare su come le esigenze e i bisogni degli animali non umani vengano intesi e selezionati attraverso il filtro della prospettiva antropocentrica che le leggi incarnano. L’ articolo in questione, il ix bis del ii libro del Codice Penale, «dei delitti contro il sentimento per gli animali» punisce chiunque cagioni la morte di un animale «per crudeltà o senza necessità» e chiunque «per crudeltà o senza necessità cagiona una lesione ad un animale, ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche». Prevedendo la norma una maggiore penalità, come è ovvio, se dalla lesione consegue la morte dell’animale, si è potuto, grazie al lavoro della giurisprudenza, assimilare a quest’ultima fattispecie di reato anche la condotta omissiva da cui deriva la morte del soggetto in causa. Il Legislatore fa leva sulla componente emotiva indiretta del rapporto uomo-animale, di cui generalmente si avvantaggia una ristretta cerchia di soggetti – gli animali da compagnia – ma non demarca esplicitamente alcun limite. Come ha ben illustrato l’avvocato Carla Campanaro, responsabile dell’ufficio legale della lav – associazione antispecista che da più di trent’anni lavora all’interno delle istituzioni per ottenere una maggiore tutela giuridica per gli animali e una maggiore efficacia delle normative vigenti – il provvedimento si scontra con quanto previsto da molteplici, e spesso vetuste, normative di settore che regolamentano l’attività venatoria, l’uso di animali in ambito circense (la cui normativa risale al 1968), quello a fini sperimentali, il trasporto di soggetti destinati alla macellazione, la macellazione stessa ecc., rendendo fortemente ristretto il suo campo di applicazione. Si tratta di ambiti che il senso comune non è solito percepire come forme di oppressione e sfruttamento, ed è proprio l’assenza di percezione a far sì che questi fenomeni non vengano eliminati e che siano anzi giuridicamente legittimati. Difendere legalmente una categoria che non gode della piena tutela rappresenta un compito particolarmente ostico, occorre scovare quei punti deboli in cui la discriminazione non viene sancita in tutti gli aspetti. Difatti, sebbene l’art. 3 della legge 189/04 afferma che «le disposizioni del titolo ix-bis del Libro ii del Codice Penale non si applicano ai casi previsti dalle leggi speciali in materia di caccia, pesca […]» sono soltanto i casi sanzionati specificatamente da queste leggi, o quelli espressamente definiti leciti, a non rientrare nel raggio d’intervento della 189/04, e non tutte le condotte praticate in seno alle attività regolamentate dalle leggi speciali. Per citare un esempio di come questa osservazione abbia trovato effettivo riscontro giuridico, si può citare la sentenza del 21/12/05 con cui la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso del cacciatore Giuseppe Eugenio Boventi, condannato lo stesso anno dal tribunale di Voghera per aver utilizzato, «al fine di richiamare a scopo di caccia gli uccelli, una cesena viva legata ad una cordicella, strattonandola e facendole compiere continui decolli e conseguenti ricadute». Il ricorso di questo signore faceva leva sulla L. 11/02/’92 n.157 che tuttavia, pur consentendo l’uso a scopo venatorio di richiami vivi, vieta l’inflizione di gratuite sofferenze specie cui viene attribuita sensibilità psico-fisica, come appunto gli uccelli,«con offesa al comune sentimento di pietà verso gli animali». Pur non essendo prevista espressamente da detta legge, che elenca una serie di casi a titolo meramente esemplificativo, la condotta del signor Boventi , a detta della Cassazione, non era consona alle caratteristiche etologiche dell’animale utilizzato.

Chiaramente, questa tipologia di reato è particolarmente suscettibile di non essere valutata nella maniera opportuna, e ciò avviene tanto più gravemente quando lo sfruttamento di animali diventa una componente importante delle organizzazioni malavitose. Il fenomeno delle Zoomafie, vede nella città di Napoli, con il suo hinterland, un importante, e triste, teatro. Il dott. Ciro Troiano, criminologo responsabile dell’Osservatorio Nazionale Zoomafie della lav, intervenendo al convegno ha indicato, con il termine Zoomafia, da egli coniato, lo sfruttamento con modalità criminose di animali da parte di singoli o gruppi associati alla criminalità organizzata. Si tratta di un reato plurioffensivo, in quanto non offende soltanto la vittima animale in causa o il comune sentimento di pietà nei confronti degli animali, ma che comporta anche una violazione del senso di sicurezza nazionale nel caso combattimenti clandestini tra cani e in quello della macellazione di animali compiuta abusivamente e un uso illecito di infrastrutture pubbliche come si verifica durante lo svolgimento di gare ippiche clandestine, che avviene all’interno di ippodromi comunali o sulla carreggiata stradale implica l’offesa ai beni patrimoniali quando si utilizza la fauna selvatica e, anche se in senso non strettamente giuridico, l’offesa al consesso civile, ledendo il comune atteggiamento di compassione verso gli animali. L’aspetto multiforme di questo fenomeno criminale corrisponde alle enormi e variegate opportunità che il mondo animale offre alle organizzazioni mafiose. Infatti, oltre che a garantire un’ingente fonte di guadagno, gli animali non umani rappresentano un efficace strumento di controllo del territorio, come nel caso citato delle corse clandestine con l’impiego di cavalli, in cui la Camorra si avvale, fra gli altri mezzi che usa per conservare la propria egemonia, di forze paramilitari, oltre che della comune indifferenza. Le specie esotiche, specie se feroci, vengono di sovente importate per essere sfruttate come “blasoni animati”, ossia come espressioni di lusso e simulacri del potere: due forme, strettamente intrecciate, con cui l’esercizio del dominio si rappresenta. In aggiunta, spesso i metodi educativi praticati nel contesto dei sistemi mafiosi consistono nell’affidare ai fanciulli il compito di accudire la fauna domestica dei boss.

Dall’analisi di Ciro Troiano, si conclude che dalla scarsa percezione della gravità e della complessità del fenomeno, deriva che non tutti i relativi aspetti, ad esempio quello economico, siano presi nella giusta considerazione e ciò origina, conseguentemente, uno scarso coordinamento tra le varie componenti che dovrebbero operare a partire dai settori di loro specifica competenza, come la polizia giudiziaria e la guardia di finanza, nella repressione del fenomeno.

(torna su)

Questo tipo di approccio, che tende a considerare poco il fenomeno delle zoomafie, è fatto proprio anche da uno dei più noti giornalisti italiani, Marco Travaglio, di solito particolarmente preparato sulle questioni giuridiche. La sua proposta di sostituire la sanzione penale con una multa amministrativa, in modo tale da evitare il costo dei tre gradi di giudizio e garantire, rispetto ad un reato che certo finirebbe a suo dire in prescrizione, è certo frutto di un’insufficiente conoscenza del fenomeno, che non permette di considerare come la sofferenza inflitta ad un singolo animale sia in realtà inserita in un articolato sistema criminale che fa dello sfruttamento costante di essere viventi un importante fonte di guadagno, di potere e di prestigio. Tuttavia, l’ignoranza non è mai del tutto attribuibile al caso, specie se propria di una persona generalmente non disinformata, ed è da ritenere che l’ignoranza prima fra tutte sia composta da quegli schemi mentali, ereditati dalle generazioni precedenti, che non ci lasciano interrogare su ciò che quotidianamente esperiamo e di cui siamo partecipi. La criminalità organizzata non è un fenomeno che può spiegarsi meramente in termini di reato e di illegalità, in quanto spesso esso si mescola con ciò che formalmente non costituisce reato: con il nostro vivere quotidiano, i prodotti che consumiamo, in genere con le scelte che facciamo ogni giorno e, in ultima analisi, con la nostra decisione radicale di influire sulla società in cui viviamo o di essere soltanto dei sudditi. Lo stesso vale, in generale, per lo sfruttamento degli animali di altre specie. Le rivolte di braccianti contro il caporalato in località come Rosarno o Castelvolturno, hanno imposto una maggiore consapevolezza sia da parte delle istituzioni che della società civile; ma, come è stato detto, gli animali non umani non possono esprimere una protesta organizzata e le poche notizie che abbiano sulla loro condizione di macchine alimentari ci viene data quando le modalità in cui vengono nutriti e allevati rischia di procurare un danno alla nostra salute. La legge degli uomini può salvare singoli animali dalla morte e da atroci sofferenze, ma per estirpare il fenomeno alla radice occorre un cambiamento di mentalità generalizzato, che influisca sulle istituzioni che ci governano.

Rinchiusi in edifici costruiti in modo da occultare la loro oppressione, gli animali non umani vivono un problema analogo a quello dei detenuti: la loro sofferenza, anche se manifesta, è decisamente visibile all’interno del loro gruppo e quasi per niente al di fuori. Un’ingiustizia lontana dal sentire quotidiano non può che essere rimossa in fretta dal senso comune; in più, i macelli, gli allevamenti intensivi, i laboratori, come le carceri, hanno dei rispettivi ruoli e, dunque, sono giustificati dalla società in cui viviamo. Le prigioni servono per proteggerci dai criminali, gli allevamenti per procurarci il cibo necessario per vivere, gli esperimenti su animali per assicurare la nostra salute: in nessuno di questi casi, generalmente, ci si chiede quali considerazioni e quale sviluppo storico ne siano alla base. Da dove si origina il crimine e come mai si è deciso di rinchiudere delle persone per rieducarle? È necessario, specie per una società evoluta come la nostra, seviziare degli animali per valutare l’efficacia o la sicurezza di un farmaco? Si possono indagare le cause e i rimedi di una malattia sezionando un organismo diverso dal nostro? È necessario per il nostro regime alimentare allevare degli animali, dalla nascita alla macellazione, frustrando tutti i loro bisogni più elementari, anche se ciò non avviene presso altre specie viventi? In che modo giova al bene comune questo regime alimentare, se gli allevamenti comportano un enorme spreco di risorse idriche e alimentari, oltre che diverse forme di inquinamento a livelli molto alti?

Gli animali sperimentano innumerevoli ed enormi ostacoli sul cammino della loro liberazione dall’oppressione. Già palare di liberazione per un gruppo di individui che non può conseguirla lottando non può che apparire, ad un primo impatto, alquanto fuori luogo, una sorta di forzatura: si tratta di un primo indizio sul grado di arretratezza culturale con cui viviamo questa problematica. Usare rispetto, nelle scelte di tutti i giorni, verso gli animali non umani viene considerato dal senso comune come indice di una particolare vocazione alla sensibilità e alla compassione, quindi come una deviazione dai normali canoni di comportamento, come una forma di debolezza sentimentale e non come misura della nostra umanità. Questa è sicuramente la barriera più ostica e, per quei pochi che hanno consapevolezza del problema, probabilmente anche la più odiosa.

Il linguaggio fa il resto; non appena gli animali sono trasformati in qualcosa che riveste, per noi, una qualche utilità, perdono nella nostra prospettiva ogni valore intrinseco, ogni accezione di esseri viventi, ogni possibilità di ricevere considerazione. In una società come la nostra, prevalentemente strutturata sulla violenza, una continua rimozione di umanità non colpisce solo gli animali, ma per differenti motivi, anche il migrante senza permesso di soggiorno, il nomade, il tossicodipendente, oltre che il cane randagio: individui che abitualmente sono valutati in funzione del nostro senso di sicurezza, o meglio di tranquillità, perdendo qualsiasi valenza di individui. Moralmente nessuno di questi problemi precede l’altro: quasi sempre, si creano gerarchie di valore tra le varie problematiche solo per giustificare l’indifferenza generalizzata. È proprio questo, l’indifferenza, il secondo pilastro su cui si fonda la società in cui viviamo, di cui però facciamo parte integrante, con i nostri comportamenti quotidiani, a cui siamo abituati. Ecco un terzo pilastro, molto intrecciato agli altri: le abitudini. Viviamo in una società fondata in gran parte sulla violenza, governata da istituzioni che fanno un uso costante e continuato della violenza, che si regge su comportamenti violenti, ai quali spesso non facciamo caso o cerchiamo di non fare caso, in modo da evitare riflessioni dolorose sulle nostre abitudine e, eventualmente, cambiarle.

Le associazioni criminali si reggono sul consenso collettivo e omissivo, e sulla violenza. Le istituzioni legali si reggono sulle nostre abitudini e sul monopolio della violenza. Più che essere inserito in una scala valoriale, la consapevolezza dello sfruttamento a cui sono sottoposti gli animali deve essere contestualizzata, deve cioè farci riflettere su noi stessi, su come quotidianamente ci rapportiamo verso gli altri individui, su come operiamo in funzione dei loro diritti, e a chiederci se le istituzioni da cui ci lasciamo governare siano adeguate al rispetto di tali diritti.

Nell’assunzione e nella diffusione di questa consapevolezza può un piccolo gruppo consapevole assumere un’importanza decisiva, magari operando per vie legali? Può darsi di sì, ma si deve, soprattutto, con molto coraggio, rendere palese la violenza insita in una realtà fattivamente esistente, la cui conservazione è permessa da leggi fondate, in ultima analisi, sul nostro consenso omissivo: il consumo di carne, le gabbie, i circhi, il randagismo, gli oggetti composti da parti di animali uccisi, la caccia, le competizioni sportive, ecc. sono tutti fenomeni che possiamo esperire nella vita di tutti i giorni. Per creare i rapporti di forza necessari alla loro abolizione dobbiamo prima decidere di esserne consapevoli, questo non può non comportare una radicale rottura con le nostre abitudini consolidate.

 

DICEMBRE 2012

(torna su)