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09
Gennaio 2013

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DA L’UOMO A UNA DIMENSIONE (1964) A MISERIA UMANA DELLA PUBBLICITÀ (2004)

Massimo Ammendola

 

La prima stesura del presente articolo risale al Marzo del 2009 in occasione degli incontri “Letture di storia del pensiero politico”, organizzate a Napoli dalla Società di Studi Politici.

 

L’Uomo a una dimensione. Studi sull’ideologia della società industriale avanzata di Herbert Marcuse (Einaudi, Torino 1999), e Miseria umana della pubblicità. Il nostro stile di vita sta uccidendo il mondo del Gruppo Marcuse (acronimo che sta per «Movimento Autonomo di Riflessione Critica a Uso dei Sopravvissuti dell’Economia», Elèuthera, Milano 2006), sono due opere, pur distanti quarant’anni tra loro, capaci di fornirci alcuni strumenti per guardare la realtà, come lo stesso Marcuse scrive nella sua introduzione al L’Uomo a una dimensione: «La mia analisi è centrata su tendenze che operano nelle società contemporanee più altamente sviluppate. […] Io proietto queste tendenze nel prossimo futuro e offro alcune ipotesi, nulla più».

Fare alcune ipotesi, spingerci a tentare di dare risposte alle domande pressanti che gravano sull’uomo oggi, ovvero le domande riguardanti la condizione dell’uomo, il suo rapporto col mondo, con la vita, con se stesso.

Cosa fare in quest’epoca di passioni tristi? Così la definisce Miguel Benasayag[1], riprendendo Spinoza: un’epoca contrassegnata da impotenza, disgregazione, incertezza, mancanza di senso, un’epoca in cui tutto pare possibile, e allora niente è più reale. Un’epoca che produce una soggettività straniata, un sentimento di esteriorità rispetto al mondo circostante.

E allora come ritrovare il significato di un impegno esistenziale, ripensare il posto dell’uomo? Per rispondere a questi interrogativi, la prima cosa è capire. Capire, superando la cortina di ambiguità che circonda la realtà, superando quella che Marcuse definisce “falsa coscienza”:

 

Sotto le condizioni repressive in cui gli uomini pensano e vivono, il pensiero – ogni maniera di pensare che non sia confinata ad un indirizzo pragmatico entro lo status quo – può riconoscere i fatti e rispondere ai fatti solo se guarda dietro di essi. L’esperienza ha luogo davanti a un velo che nasconde, e se il mondo è l’apparenza di qualcosa che sta dietro il velo dell’esperienza immediata, allora, nei termini di Hegel, siamo noi stessi dietro al velo.

 

Quello di Marcuse è un testo complesso, il linguaggio è ostico, proprio perché ritiene che l’analisi critica deve dissociarsi da ciò che cerca di comprendere e quindi i termini filosofici devono essere diversi da quelli ordinari per chiarire il pieno significato di questi ultimi.

 

Marcuse emigrò negli USA nel 1933, seguendo l’emigrazione dell’intellighenzia tedesca di quell’epoca, un gigantesco fenomeno di spostamento, adattamento, “traduzione” e ri-radicamento del capitale culturale della cultura europea “alta” nelle nuove condizioni della civiltà democratica di massa: Adorno, Löwenthal, Marcuse, ma anche Auerbach e Spitzer per la filologia e la letteratura comparata.

Significativamente, Marcuse è il solo che non torna in Europa nel dopoguerra: abbraccia pienamente le condizioni della modernità industriale, rese evidenti in usa dalla fase più avanzata di sviluppo rispetto all’Europa, come non solo oggetto ma condizione del proprio lavoro intellettuale, e non come fatto contingente da condannare e dal quale ritrarsi alla prima occasione.

La sua ricerca è quella di un quadro teorico per comprendere e analizzare le forme quotidiane dell’alienazione e il problema dell’autenticità dell’esistenza umana nelle condizioni reificate della moderna società capitalistica. Nuclei forti e riconoscibili: la questione dell’autenticità dell’esistenza nelle condizioni della modernizzazione e della tecnologia, da Heidegger, di cui fu allievo; la ricerca di una versione del marxismo adeguata alla società contemporanea e alle sue trasformazioni qualitative, e l’analisi critica del sistema della cultura moderna, nelle sue responsabilità e nei suoi legami con i modi di produzione e con la nuova società di massa, dai francofortesi; l’analisi del potere in relazione alla moderna società tecnologica, dal confronto con Weber.

L’Uomo a una dimensione porta l’analisi sul terreno politico delle possibilità di trasformazione della società.

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Punto di partenza: l’analisi della situazione unidimensionale e totalitaria della società industriale avanzata creata dall’avvento di un pensiero unico incentrato intorno alla produzione e alla produttività, in modo simmetrico e speculare nei due blocchi e nelle due forme di pensiero e modelli sociali egemonici, capitalista-democratico e marxista-comunista, entrambi retti dall’idea dell’aumento indefinito della produzione come centro indiscutibile della società e come telos dell’esistenza umana, e organizzati intorno alle “oggettive” necessità della produzione, col valore assoluto e neutrale dello sviluppo delle forze produttive, delle leggi del mercato e del pil.

In entrambi i mondi, ed oggi nel mondo a una dimensione, la produzione subordina gli esseri umani alla “necessità”, allo sviluppo delle forze produttive, e in entrambi l’economia detta l’agenda politica e il modello sociale. Ecco che ci troviamo davanti a una paralisi della critica: alla società senza opposizione.

L’apparato tecnico di produzione e di distribuzione (sempre più automatizzato) funziona come un sistema che è totalitario, nella misura in cui determina non soltanto le occupazioni, le abilità e gli atteggiamenti socialmente richiesti, ma anche i bisogni e le aspirazioni individuali: in tal modo dissolve l’opposizione tra esistenza privata ed esistenza pubblica, tra i bisogni individuali e quelli sociali, che vengono quindi manipolati. La tecnologia serve per istituire nuove forme di controllo sociale e di coesione sociale, più efficaci e più piacevoli.

Di fronte ai tratti totalitari di questa società, la nozione tradizionale della “neutralità” della tecnologia non può più essere sostenuta. La tecnologia come tale non può essere isolata dall’uso cui è adibita; la società tecnologica è un sistema di dominio che prende ad operare sin dal momento in cui le tecniche sono concepite ed elaborate.

Il modo in cui una società organizza la vita dei suoi membri comporta una scelta iniziale tra alternative storiche che sono determinate dal livello preesistente della cultura materiale ed intellettuale. La scelta stessa deriva dal gioco degli interessi dominanti. Essa prefigura modi specifici di trasformare e utilizzare l’uomo e la natura e respinge gli altri modi. Una volta che il progetto diviene operativo nelle istituzioni e relazioni di base, esso tende a diventare esclusivo e a determinare lo sviluppo della società come un tutto. Man mano che si dispiega esso plasma l’intero universo del discorso e dell’azione, della cultura intellettuale e di quella materiale. Entro il medium costituito dalla tecnologia, la cultura, la politica e l’economia si fondono in un sistema onnipresente che assorbe o respinge tutte le alternative. La produttività e il potenziale di sviluppo di questo sistema stabilizzano la società e limitano il progresso mantenendolo entro il quadro del dominio. La razionalità tecnologica è divenuta razionalità politica.

Marcuse così apre l’introduzione: «La minaccia di una catastrofe atomica, che potrebbe spazzar via la razza umana, non serve nel medesimo tempo a proteggere le stesse forze che perpetuano tale pericolo?».

Ed è un po’ quello che Noam Chomsky e altri hanno ipotizzato sulla guerra fredda, che fosse un tacito accordo tra i due blocchi, per mantenere lo status quo, tenendo la popolazione in uno stato di paura e minaccia continuata.

La società industriale avanzata diventa più ricca, più grande a mano a mano che perpetua il pericolo.

Siamo schiacciati dalla paura di minacce esterne, allora era il comunismo, negli ultimi anni pensiamo al terrorismo, alla crisi. I bisogni politici della società diventano bisogni e aspirazioni individuali. Ma questa società è, nell’insieme, irrazionale. La sua produttività tende a distruggere il libero sviluppo di facoltà e bisogni umani, la sua pace è mantenuta da una costante minaccia di guerra, la sua crescita si fonda sulla repressione delle possibilità più vere per rendere pacifica la lotta per l’esistenza – individuale, nazionale e internazionale.

Siamo sottomessi in tempo di pace alla produzione dei mezzi di distruzione, al perfezionamento dello spreco.

I controlli sociali esigono che si sviluppi il bisogno ossessivo di produrre e consumare lo spreco, il bisogno di lavorare fino all’istupidimento, quando ciò non è più una necessità reale. Il bisogno di modi di rilassarsi che alleviano e prolungano tale istupidimento, il bisogno di mantenere libertà ingannevoli, come la libera concorrenza, una stampa libera che si censura da sola, la scelta tra marche e aggeggi vari. Sotto il governo di un tutto repressivo, la libertà può essere trasformata in un possente strumento di dominio. Cosa può essere scelto dall’individuo? Ciò determina la libertà umana.

E l’individuo a una dimensione è asservito alla produzione in ogni suo atto e momento, inclusi quelli che crede autodiretti, incluso il “tempo libero” – predeterminato e saturato dai falsi bisogni e dagli ‘svaghi’ funzionali non alla liberazione e alla soddisfazione individuale, ma all’ulteriore asservimento in sintonia con gli interessi della produzione.

Infatti Marcuse parla, in Eros e Civiltà[2], di repressione addizionale, riprendendo Freud: ovvero, per mantenere unita la civiltà, è necessaria una repressione di base degli istinti, altrimenti sarebbe il caos. Nella società industriale avanzata invece, assistiamo ad un surplus di repressione, cioè subiamo una repressione maggiore di quella necessaria, il tutto per mantenere l’attuale irrazionale assetto sociale.

Proprio quando le capacità intellettuali e materiali della società sono smisuratamente più grandi di quanto siano mai state, e quindi è possibile pensare ad una liberazione dell’umanità dalla fatica; ma ciò significa che la portata del dominio della società sull’individuo è smisuratamente più grande di quanto sia mai stata.

La nostra società si distingue in quanto sa domare le forze sociali centrifughe a mezzo della Tecnologia piuttosto che a mezzo del Terrore, sulla duplice base di una efficienza schiacciante e di un più elevato livello di vita. Il progresso tecnico regola la realtà e impedisce il dibattito. E più la società si lascerà controllare dalla tecnologia, più avanzerà il controllo panottico, totale.

Indagare quali sono le radici di questo sviluppo ed esaminare le loro alternative storiche rientra negli scopi di una teoria critica della società contemporanea, teoria che analizza la società alla luce delle capacità che essa usa o non usa, o di cui abusa, per migliorare la condizione umana.

Per Marcuse la società costituita dispone di risorse intellettuali e materiali in quantità e qualità misurabili. In che modo queste risorse possono venire usate per lo sviluppo e soddisfazioni ottimali di bisogni e facoltà individuali, con il minimo di fatica e di pena?

Il progresso tecnico esteso a tutto un sistema di dominio e di coordinazione crea forme di vita e di potere che conciliano, che fanno proprie e quindi annullano le forze che si oppongono al sistema, ogni protesta formulata in nome delle prospettive storiche di libertà dalla fatica e dal dominio.

La società contemporanea sembra capace di contenere il mutamento sociale, inteso come mutamento qualitativo che porterebbe a stabilire istituzioni essenzialmente diverse, imprimerebbe una nuova direzione al processo produttivo e introdurrebbe nuovi modi di esistenza per l’uomo. Questa capacità di contenere il mutamento sociale è forse il successo più potente e caratteristico della società industriale avanzata: Marcuse parla di «integrazione degli opposti» che è al tempo stesso il risultato, non meno che il requisito, di tale successo.

L’esempio più lampante viene dai programmi dei partiti politici, che diventano sempre meno distinguibili. Tale unificazione degli opposti incide sulla possibilità stessa di un mutamento sociale in quanto coinvolge questi strati sociali sul cui dosso il sistema progredisce. Gli stessi partiti della sinistra cosiddetta radicale fanno fede alla generale tendenza delle circostanze, aderendo a un programma minimo che archivia l’idea di una conquista rivoluzionaria e si conforma alle regole del gioco parlamentare. Essi testimoniano la profondità e portata dell’integrazione capitalistica. Ci torneremo dopo, quello dell’integrazione degli opposti è tema chiave per il filosofo tedesco.

Un breve confronto tra lo stadio iniziale della teoria della società industriale e la sua situazione presente può contribuire a mostrare come le basi stesse della critica siano state alterate. La critica nell’800 elaborò i primi concetti di un’alternativa, e ci fu una mediazione storica tra teoria e pratica, valori e fatti, bisogni e scopi, che ebbe luogo nella coscienza e nell’azione politica delle due grandi classi che si fronteggiavano: borghesia e proletariato. Ma lo sviluppo capitalista ha alterato la struttura e la funzione di queste due classi in modo tale che esse non appaiono più essere agenti di trasformazione storica. Anzi, un interesse prepotente per la conservazione ed il miglioramento dello status quo istituzionale unisce gli antagonisti d’un tempo. Nell’impossibilità di indicare in concreto quali agenti ed enti di mutamento sociale sono disponibili, la critica è costretta ad arretrare verso un livello più alto di astrazione. Non v’è alcun terreno su cui la teoria e la pratica, il pensiero e l’azione si incontrino. Persino l’analisi strettamente empirica delle alternative storiche sembra essere una speculazione totalmente irrealistica, e il farle proprie sembra essere un fatto di preferenza personale.

Il livellamento delle distinzioni di classe non indica la scomparsa delle classi, quanto la misura in cui i bisogni e le soddisfazioni che servono a conservare gli interessi costituiti sono ormai fatti propri dalla maggioranza della popolazione.

I bisogni sociali si legano così efficacemente a quelli individuali cosicché la differenza tra i due sembra essere puramente teorica. Si può distinguere tra i mezzi di comunicazione di massa come strumenti di informazione e di divertimento e come agenti di manipolazione e di indottrinamento? Tra l’automobile come jattura o come comodità? Ecco uno degli aspetti più inquietanti della civiltà industriale avanzata: il carattere razionale della sua irrazionalità.

La sua produttività ed efficienza, la sua capacità di accrescere e diffondere la comodità, di trasformare lo spreco in bisogno e la costruzione in distruzione, la misura in cui questa civiltà trasforma il mondo oggettuale in una estensione della mente e del corpo dell’uomo, rendono discutibile la nozione di alienazione. Le persone si riconoscono nelle loro merci, il controllo sociale è radicato nei nuovi bisogni creati.

Il rifiuto intellettuale ed emotivo di allinearsi è percepito come segno di nevrosi e di impotenza. Sono tramontate le forze storiche che in passato parvero rappresentare la possibilità di nuove forme di esistenza.

C’è una mìmesi, un’identificazione immediata dell’individuo con la sua società, e tramite questa, con la società come un tutto. Ecco il pensiero a una dimensione.

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Ma l’assenza di agenti di mutamento non confuta la teoria. L’unione di una produttività crescente e di una crescente capacità di distruzione, soffocando efficacemente quei bisogni che chiedono di essere liberati; la politica condotta sull’orlo dell’annientamento; la resa del pensiero, della speranza, della paura alle decisioni delle potenze in atto; il perdurare della povertà in presenza di una ricchezza senza precedenti costituiscono la più imparziale delle accuse, anche se non sono la raison d’etre di questa società, ma solamente il suo sottoprodotto: la sua razionalità travolgente, motore di efficienza e sviluppo infinito, è essa stessa irrazionale.

L’analisi critica deve quindi continuare ad insistere che il bisogno di un mutamento qualitativo non è mai stato così urgente. Ne ha bisogno la società come un tutto, per ciascuno dei suoi membri.

Il fatto che la stragrande maggioranza della popolazione accetta ed è spinta ad accettare la società presente non rende questa meno irrazionale e meno riprovevole: ecco la distinzione tra coscienza autentica e falsa coscienza. Gli uomini devono trovare la via che porta dall’una all’altra, dall’interesse immediato al loro interesse reale. Possono farlo solamente se avvertono il bisogno di mutare il loro modo di vita, di negare il positivo, di rifiutarlo. È precisamente questo bisogno che la società costituita si adopera a reprimere, nella misura in cui essa è capace di “distribuire dei beni” su scala sempre più ampia e di usare la conquista scientifica della natura per la conquista scientifica dell’uomo.

Posta dinanzi al carattere totale delle realizzazioni della società industriale avanzata, la teoria critica si trova priva di argomenti razionali per trascendere la società stessa. Il vuoto giunge a svuotare la stessa struttura della teoria, fin nelle sue categorie (individuo, classe, privato, famiglia) che denotavano sfere e forze di tensione e di contraddizione. Con la crescente integrazione della società industriale, queste categorie vanno perdendo la loro connotazione critica e tendono a diventare termini descrittivi, ingannevoli.

Una situazione così ambigua implica un’ambiguità ancora più fondamentale. L’Uomo a una dimensione oscilla tra due ipotesi contraddittorie: 1) la società industriale avanzata è capace di reprimere ogni mutamento qualitativo per il futuro che si può prevedere; 2) esistono oggi forze e tendenze capaci di interrompere tale operazione repressiva e fare esplodere la società. Ambedue le tendenze persistono, la prima predomina e qualsiasi condizione possa darsi per rovesciare la situazione attuale viene usata per impedire che ciò avvenga.

A meno che il riconoscimento di quanto viene fatto e di quanto viene impedito sovverta la coscienza e il comportamento dell’uomo, nemmeno una catastrofe produrrà il cambiamento.

 

Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata.

Razionale è la soppressione dell’individualità nel corso della meccanizzazione di attività socialmente necessarie ma faticose; la concentrazione di imprese individuali in società per azioni più produttive; la regolazione della libera concorrenza tra soggetti economici non egualmente attrezzati; la limitazione di prerogative e sovranità nazionali che impediscono l’organizzazione internazionale delle risorse.

La libertà dal bisogno diventa una possibilità reale. La liberazione dal lavoro, non liberazione del lavoro; cioè, non il dogma principale del marxismo ortodosso (massima espansione delle forze produttive e liberazione del lavoro salariato nella società senza classi post-rivoluzione) ma liberazione universale dal lavoro attraverso la liberazione di energie libidinali e creative consentita dall’uso umanistico e non alienato della tecnologia.

Se l’individuo non fosse più obbligato a provare quanto vale sul mercato, nella sua qualità di libero soggetto economico, la scomparsa della libertà di lavorare (e la connessa fatica, insicurezza e paura), sarebbe uno dei più grandi successi della civiltà. I processi tecnologici di meccanizzazione e di unificazione potrebbero liberare l’energia di molti individui, facendola confluire in un regno ancora inesplorato di libertà al di là della necessità. La stessa esistenza umana ne sarebbe modificata; l’individuo verrebbe liberato dal lavoro di un mondo che gli impone bisogni e possibilità a lui estranei. L’individuo sarebbe libero di esercitare la sua autonomia in una vita che sarebbe ormai veramente sua. Dirigere l’apparato produttivo verso la soddisfazione dei bisogni vitali, attraverso la produzione materiale automatizzata, mentre il tempo di lavoro necessario sarebbe ridotto ai margini. La vita come fine, non come mezzo.

La meccanizzazione, potenziata dall’avvento dell’informatica, riduce la quantità e l’intensità dell’energia fisica erogata nel lavoro, che è l’elemento più tangibile nella schiavitù e nell’alienazione del lavoratore, che lo strema e lo istupidisce, tramite la standardizzazione e la routine. Addolcito lo sfruttamento, il lavoratore viene incorporato più facilmente: il nuovo mondo tecnologico indebolisce la posizione negativa della classe lavoratrice, che non appare più come la contraddizione vivente della società costituita. Il dominio prende veste di amministrazione, i padroni e i proprietari capitalisti perdono la loro identità di agenti responsabili, per assumere le funzioni di burocrati nella macchina delle corporations. Il velo tecnologico maschera la riproduzione della disuguaglianza e dell’asservimento. La non-libertà viene perpetuata e intensificata sotto forma di molte piccole libertà e agi.

Gli schiavi della civiltà industriale sviluppata sono schiavi sublimati, ma sono pur sempre schiavi, poiché la schiavitù è determinata, come scrisse l’economista Francois Perroux, «non dall’obbedienza, né dall’asprezza della fatica, bensì dallo stato di strumento e dalla riduzione dell’uomo allo stato di cosa». La servitù allo stato puro, esistere come strumento, come cosa, e non sentire di esserlo.

Se dovesse mai divenire il processo di produzione materiale, l’automazione totale, per Marcuse, rivoluzionerebbe la società intera, essendo incompatibile con una società fondata sullo sfruttamento privato della forza lavoro umana. La reificazione della forza lavoro umana, spezzerebbe la forma reificata, tagliando la catena che lega l’individuo alla macchina, al meccanismo per mezzo del quale il suo stesso lavoro lo rende schiavo. L’automazione integrale del regno della necessità farebbe del tempo libero la dimensione in cui primariamente si formerebbe l’esistenza privata e sociale dell’uomo. Si avrebbe così la trascendenza storica verso una nuova civiltà.

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Il potere bruto della macchina supera quello dell’individuo: è il più efficace degli strumenti politici, ma non è altro che il potere dell’uomo accumulato e proiettato. Nel momento in cui il mondo del lavoro viene concepito come una macchina e meccanizzato di conseguenza, esso diviene la base potenziale di una nuova libertà per l’uomo.

Occorrono nuovi modi di definizione e realizzazione per una società libera, dato che non può essere definita nei termini tradizionali delle libertà economiche, politiche ed intellettuali, ma dall’equivalente negativo: in tal senso, libertà economica significherebbe libertà dall’economia, dal controllo di forze e relazioni economiche; libertà dalla lotta quotidiana per l’esistenza, dal problema di guadagnarsi la vita. Libertà politica significherebbe liberazione degli individui da una politica su cui essi non hanno nessun controllo effettivo. E la libertà intellettuale equivarrebbe alla restaurazione del pensiero individuale, ora assorbito dalla comunicazione e dall’indottrinamento di massa, e all’abolizione dell’opinione pubblica, assieme ai suoi produttori. Il suono irrealistico di queste proposizioni è indicativo dell’intensità delle forze che impediscono di tradurle in atto, coltivando bisogni materiali e intellettuali che perpetuano forme obsolete di lotta per l’esistenza.

Distinzione chiave è quella tra bisogni veri e bisogni falsi. I bisogni falsi vengono sovrimposti all’individuo da parte di interessi sociali particolari cui preme la sua repressione: sono i bisogni che perpetuano la fatica, l’aggressività, la miseria e l’ingiustizia. L’individuo può trovare estremo piacere nel soddisfarli, ma non possono essere conservati e protetti se servono ad arrestare lo sviluppo della capacità (sua e di altri) di riconoscere la malattia dell’insieme e afferrare le possibilità che si offrono per curarla. Il risultato è pertanto un’euforia nel mezzo dell’infelicità. La maggior parte dei bisogni che prevalgono, bisogno di rilassarsi, divertirsi, comportarsi e consumare in accordo con gli annunci pubblicitari, di amare e odiare ciò che altri amano e odiano, appartengono a questa categoria di falsi bisogni, determinati da potenze esterne.

I soli bisogni che hanno un diritto illimitato ad essere soddisfatti sono quelli vitali: il cibo, il vestire, un’abitazione adeguata. L’obiettivo dell’umanità dovrebbe essere la soddisfazione universale dei bisogni vitali e una progressiva riduzione di fatica e povertà.

Fintanto che gli individui sono ritenuti incapaci di essere autonomi, fintanto che sono indottrinati e manipolati non possono rendersi conto della distinzione tra bisogni veri e falsi.

 

E poi vi è la questione del linguaggio, altro tema affrontato in maniera originale e critica: il fatto che il modo prevalente di essere liberi è la servitù, il modo di esser uguali è una disuguaglianza imposta dall’alto, non può oggi trovare espressione a causa della rigida definizione di tali concetti nei termini dei poteri che plasmano il relativo universo di discorso. Il risultato è il familiare linguaggio orwelliano di 1984, la guerra è pace, la pace è guerra. Altro risultato sono partiti politici che operano per la difesa e lo sviluppo del capitalismo, ma si chiamano socialisti…

La novità è l’accettazione generale di queste menzogne da parte dell’opinione pubblica e privata, la soppressione del loro mostruoso contenuto. La diffusione e l’efficacia di questo linguaggio testimoniano del trionfo della società sulle contraddizioni che albergano in essa; le contraddizioni sono riprodotte senza far saltare il sistema sociale. Ed è la contraddizione dichiarata, clamorosa, che viene usata come strumento di discorso e di pubblicità. La sintassi dell’abbreviazione riduttiva (onu, nato) proclama la conciliazione degli opposti saldandoli insieme in una struttura solida e familiare. Considerata un tempo l’offesa principale contro la logica, la contraddizione appare ora come un principio della logica della manipolazione. È la logica di una società che può permettersi di far a meno della logica e di giocare con la distruzione, una società in grado di dominare con mezzi tecnologici la mente e la materia.

L’unificazione degli opposti che caratterizza lo stile commerciale e politico è uno dei molti modi in cui il discorso e la comunicazione si rendono immuni all’espressione della protesta e del rifiuto. Come possono protesta e rifiuto trovare la parola giusta quando gli organi dell’ordine costituito ammettono, dando pubblicità alla cosa, che la pace consiste realmente nel trovarsi sull’orlo della guerra, che le armi definitive hanno un prezzo foriero di profitti e che il rifugio antiatomico può avere una sua area domestica? Nell’esibire le proprie contraddizioni come contrassegno della sua verità, quest’universo di discorso si chiude in sé, escludendo ogni altro discorso che non si svolga nei suoi termini.

Il linguaggio si articola in costruzioni che impongono all’ascoltatore un significato obliquo e abbreviato, che bloccano lo sviluppo del contenuto, che spingono ad accettare ciò che viene offerto nella forma in cui è offerto. L’analisi descrittiva dei fatti blocca la loro comprensione e diventa un elemento dell’ideologia che li sostiene.

E ciò significa sopprimere la storia: un universo di discorso in cui le categorie della libertà sono divenute intercambiabili con i loro opposti, e anzi si identificano con questi, non solo pratica il linguaggio di Orwell o di Esopo, ma respinge e dimentica la realtà storica: i vecchi concetti storici sono invalidati da nuove definizioni, da falsificazioni. Significa sopprimere il passato stesso della società ed il suo futuro, nella misura in cui il futuro invoca il mutamento qualitativo, la negazione del presente.

Il linguaggio chiuso non dimostra e non spiega, bensì comunica decisioni, dettati, comandi.

Descrivere ciò che succede e quindi ciò che significa, cominciando con l’eliminare i concetti capaci di comprendere ciò che succede, e ciò che significa.

Bisogna quindi conservare e proteggere il diritto, il bisogno di pensare e parlare in termini diversi da quelli dell’uso comune, densi di significato, razionali, e validi precisamente perché sono diversi.

Le idee diventano oggi solo ideali, e il loro carattere ascientifico indebolisce l’opposizione alla realtà stabilita. I concetti vengono svuotati di senso:

 

Tutto è definito in base a concetti ed a modalità di comportamento operazionali, funzionali al mantenimento ed al rafforzamento del sistema. In tale situazione, persino il linguaggio usuale ed il significato che in passato avevano determinati concetti vengono ad essere svuotati di senso, privati del loro significato originario ed assumono un nuovo senso, più consono alle richieste del sistema – che cerca di evitare l’esplodere di conflitti sociali: i concetti utilizzati vengono “depotenziati”, tradotti – letteralmente – in maniera tale da renderli privi di tutto il loro potenziale critico, ed infine rimessi in circolazione. In tal modo, concetto e parola tendono a coincidere, o meglio il concetto tende ad essere assorbito dalla parola. Il primo non ha altro contenuto che non sia quello designato dalla parola nell’uso pubblicitario, standardizzato di questa, né ci si aspetta che alla parola segua altra risposta che non sia il comportamento standardizzato, proposto dalla pubblicità (reazione).

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E un cambiamento c’è stato nelle arti con l’avvento della società industriale avanzata.

In contrasto col concetto marxiano, Marcuse parla di alienazione artistica, ovvero la trascendenza (l’andare oltre l’universo costituito di discorso e azione, verso le alternative storiche) consapevole dell’esistenza alienata, un’alienazione mediata, di ordine superiore, che alimenta e protegge la contraddizione, la coscienza infelice del mondo diviso. L’alienazione artistica soccombe, insieme con altri modi di negazione, al progredire della razionalità tecnologica. Si svuota la dimensione artistica, vengono assorbiti i contenuti antagonistici. Nel regno della cultura il nuovo totalitarismo si manifesta in un pluralismo armonioso, dove le opere e le verità più contraddittorie coesistono pacificamente in un mare di indifferenza. Le opere diventano strumenti pubblicitari, servono a vendere, a confortare o ad eccitare.

L’esempio che fa il filosofo tedesco è quello letterario: certe nozioni e immagini chiave della letteratura, col progredire della razionalità tecnologica, si vedono svuotate degli elementi di opposizione e trascendenza, che erano insiti nella “alta cultura”, in contrapposizione con la realtà sociale. Queste immagini sono state svuotate di forza sovversiva e di verità, e così trovano posto nella vita quotidiana, diventando beni e servizi. Soccombono di fatto al processo di desublimazione che prevale nei settori avanzati della società contemporanea. Esprimevano una alienazione metodica, cosciente, rispetto all’intero mondo degli affari e dell’industria, e all’ordine sociale, oggetto di calcolo e di profitto, che su di esso si reggeva. Un’altra dimensione confutava l’ordine borghese: in letteratura quest’altra dimensione era rappresentata non dagli eroi religiosi, spirituali, morali (che spesso sostengono l’ordine stabilito), ma piuttosto da personaggi in un certo senso sovversivi, come l’artista, la prostituta, l’adultera, il gran criminale senza patria, il guerriero, il poeta-ribelle, il diavolo, l’idiota – coloro che non lavorano per vivere, almeno non in modo ordinato e normale. Personalmente penso anche ai pirati, storicamente simbolo di una visione del mondo basata sui valori della libertà e dell’uguaglianza, che ha sfidato le convenzioni a proposito di razza, sesso, classe e nazionalità.

Questa letteratura è portatrice di una negazione dell’ordine costituito non solo in quanto portatrice di rappresentazioni, personaggi e situazioni che ne negano l’inevitabilità o che invocano possibilità alternative, per quanto sconfitte, di organizzazione dell’esistenza; ma perché in quanto “arte alta” rappresentativa della “alta cultura dell’Occidente” attiva un processo di ordine estetico che ha a che fare con la composizione, con la forma e con la bellezza, che è “promessa di felicità” e che in quanto tale nega e contesta l’ordine storicamente costituito. Nella sua incompatibilità estetica con il mondo contemporaneo la grande arte espleta una funzione sovversiva e liberatrice.

Le immagini provenienti dalla sublimazione artistica perdono di validità, rappresentano una forma di desublimazione, cioè la sostituzione di una gratificazione mediata con una immediata; questa sostituzione viene praticata da una posizione di forza da parte della società, che concede più cose perché i suoi interessi si sono fusi con gli impulsi più intimi dei suoi cittadini, perché le gioie che essa concede promuovono la coesione e la contentezza sociali. Il progresso tecnico e una vita più confortevole permettono di includere sistematicamente componenti libidiche nel regno della produzione e dello scambio di merci. La gamma delle soddisfazioni socialmente permesse e desiderabili è stata molto ampliata, ma per loro tramite il principio di piacere viene ridotto. Grazie a questo processo di adattamento, il piacere genera sottomissione.

In questo l’alta cultura: 1) si pone come “sublimazione”, cioè come differimento, raffinamento e innalzamento del piacere, non in senso repressivo e produttivo, ma in senso completamente e altamente liberatorio, opponendosi al processo costante di “desublimazione” in atto nell’asservimento costante dell’individuo al soddisfacimento immediato di falsi bisogni mercificati;

2) si pone come alternativa “autentica” alla cultura di massa che vanifica l’esperienza estetica commercializzandola e confondendola con altre esperienze, e dunque pervertendola a un uso ideologico legato alla circolazione delle merci, all’industria del divertimento e dell’informazione, e dunque ai falsi bisogni repressivi, atti a indurre falsa coscienza e comportamenti alienati e soddisfatti;

3) si pone in continuità con la “rivoluzione sessuale” e la “liberazione dell’eros” attraverso la sua funzione ludica, al tempo stesso gratuita e strutturata, legata appunto al recupero della libido e dell’eros dalla sua repressione finalizzata a scopi produttivi.

L’esperienza estetica prodotta dall’arte alta e non mercificata, così come la liberazione dell’eros e del desiderio, possono costituire dunque i momenti di una dialettica negativa capace di produrre una forma di passaggio alla prassi e una rivolta collettiva contro qualcosa di intollerabile (la società amministrata e unidimensionale, il lavoro salariato, la repressione dell’eros) in nome della felicità e della libertà individuale. È l’apertura di uno spazio politico rivoluzionario in cui possono esprimersi le innumerevoli forme di esistenza che si affacciano sul palcoscenico della storia e chiedono legittimazione, riconoscimento, e anche una vita felice.

 

Come restituire all’arte valori antagonistici? Riprendendo Brecht, con l’effetto d’estraniazione, per produrre una dissociazione con la quale il mondo può esser riconosciuto per ciò che è. Le cose della vita quotidiana sono tolte dal regno dell’evidenza ovvia, ciò che è naturale deve assumere i caratteri dello straordinario.

 

Il principio di piacere assorbe il principio di realtà, la sessualità viene liberalizzata in forme socialmente ed economicamente costruttive, de-erotizzandosi; si diffonde la libertà mentre si intensifica il dominio.

Si altera l’equilibrio originario tra istinto di vita e istinto di morte, facendo sì che quest’ultimo prevalga. La libido viene incanalata tutta nel lavoro, le pulsioni distruttive restano slegate. Così il sottoprodotto della civiltà basata sul principio di prestazione (della continua performance, che si venga chiamati alla produzione, valutati in base al proprio grado di produttività, in maniera del tutto irrelata alla necessità reale di questa produzione) è l’aggressività permanente, la distruzione della vita umana e della vita naturale.

Esempio di sessualità sublimata/sessualità desublimata nella letteratura contemporanea: la letteratura contemporanea è realistica, audace, priva di inibizione, fa parte integrante della società in cui queste cose succedono, e non è mai la sua negazione. Mentre di nessuna donna sessualmente attraente si dice oggi ciò che scrisse Balzac di Ester, la prostituta: la sua tenerezza fiorisce soltanto nell’infinito.

Sembra qualcosa di fuori dal tempo, di irreale: questa per Marcuse è la caratteristica delle immagini della letteratura romantica, che proprio perché fuori dal tempo, sono vere, ovvero fuori da questo tempo.

 

La perdita di coscienza dovuta alle libertà gratificanti concesse da una società non libera dà origine ad una coscienza felice che facilita l’accettazione dei misfatti di questa società. È un indice del declino dell’autonomia e della comprensione. Codesta liberazione di sessualità e di aggressività libera gli impulsi istintuali da gran parte dell’infelicità e dello scontento che riflettono il potere repressivo dell’universo di soddisfazioni stabilito. Ma esiste una diffusa infelicità, e la coscienza felice è piuttosto precaria, è una crosta sottile che copre paura, frustrazione e disgusto. E in molti modi quest’infelicità può venir trasformata in fonte di forza e coesione dell’ordine sociale.

Questa società cambia tutto ciò che tocca in una fonte potenziale di progresso e di sfruttamento, di fatica miserabile e di soddisfazione, di libertà e oppressione.

Il rischio di distruzione prodotta dall’uomo è diventato un elemento normale nell’organizzazione mentale come in quella materiale degli uomini, di modo che non può servire per porre sotto accusa o confutare il sistema sociale stabilito.

Questa società, anche attraverso la desublimazione istituzionalizzata, assorbe l’opposizione nel regno della politica e dell’alta cultura, così come nella sfera degli istinti: il risultato è l’atrofia degli organi mentali necessari per afferrare contraddizioni ed alternative, e nella sola dimensione che rimane, quella della razionalità tecnologica, la coscienza felice giunge a prevalere. Essa riflette la credenza che il reale è razionale, e che il sistema stabilito, nonostante tutto, mantiene le promesse.

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Nella misura in cui la società stabilita è irrazionale, l’analisi in termini di razionalità storica introduce nel concetto l’elemento negativo – la critica, la contraddizione, la trascendenza. Questo elemento non può venire assimilato al positivo, cambia il concetto nella sua interezza, nel suo intento e validità.

In tal modo, nell’analisi di un’economia che opera come un potere indipendente al di sopra degli individui, le caratteristiche negative (sovrapproduzione, disoccupazione, mancanza di sicurezza, spreco, repressione) non sono afferrate finché appaiono semplicemente come sottoprodotti più o meno inevitabili, come l’altro aspetto della storia della crescita e del progresso illimitato.

Questa conoscenza dell’altro aspetto è parte integrante di quella solidificazione delle circostanze della grande unificazione degli opposti che ostacola ogni cambiamento qualitativo, perché attiene ad un’esistenza del tutto senza speranza o del tutto condizionata che ha costruito la propria casa in un mondo dove persino l’irrazionale è Ragione. La tolleranza del pensiero positivo è tolleranza imposta dalla potenza ed efficienza (schiaccianti e anonime) della società tecnologica. Come tale, essa permea la coscienza di tutti. L’assorbimento del negativo da parte del positivo è convalidato dall’esperienza quotidiana, che offusca la distinzione tra apparenza razionale e realtà irrazionale. Ecco alcuni esempi banali del processo di armonizzazione in corso, che dimostrano la felice unione del positivo e del negativo, è ambiguità oggettiva.

 

Cosa c’è di sbagliato nella razionalità del sistema? È la maniera in cui gli uomini hanno organizzato il loro lavoro in società. E quest’organizzazione sbagliata, nel diventare totalitaria a causa delle sue forze interne, rifiuta le alternative. Certo non è del tutto naturale che i tangibili benefici del sistema siano considerati degni di essere difesi: ciò appare naturale solo ad un modo di pensare e di comportarsi che non è incline e forse è incapace di comprendere ciò che avviene e perché avviene; un modo di pensare e di comportarsi che è immune da ogni forma di razionalità che non sia la razionalità stabilita. Pensiero e comportamento esprimono una falsa coscienza, che si adatta e contribuisce a mantenere un ordine dei fatti in autentico. Questa falsa coscienza è ormai incorporata nell’apparato tecnico dominante, che a sua volta la riproduce.

Noi viviamo e moriamo in modo razionale e produttivo; sappiamo che la distruzione è il prezzo del progresso, così come la morte è il prezzo della vita; che rinuncia e fatica sono condizioni necessarie del piacere e della gioia; che l’attività economica deve proseguire, e che le alternative sono utopiche. Questa ideologia appartiene all’apparato stabilito della società, è un requisito del suo regolare funzionamento, fa parte della sua razionalità.

La gestione scientifica e la divisione scientifica del lavoro hanno aumentato largamente la produttività delle iniziative economiche, politiche e culturali. Risultato: un più alto tenore di vita. Nello stesso tempo e per le stesse ragioni, questa impresa razionale ha prodotto un modo di pensare e comportarsi che ha giustificato ed assolto anche le più funeste ed oppressive caratteristiche da essa palesate. La razionalità tecnico-scientifica e la manipolazione si sono saldate insieme in nuove forme di controllo sociale: ciò è il risultato di una specifica applicazione della scienza da parte della società.

 

La filosofia dovrebbe diventare terapeutica: affrancando il pensiero dal suo asservimento all’universo stabilito di discorso e di comportamento, espone la negatività dell’establishment e progetta le sue alternative.

Usare la tecnologia che oggi distrugge per la pacificazione, la tecnologia come fine per l’esistenza pacificata, per il libero sviluppo dei bisogni e delle facoltà umani: questi concetti per Marcuse si possono definire empiricamente nei termini delle risorse e capacità disponibili, intellettuali e materiali, e del loro uso sistematico allo scopo di moderare la lotta per l’esistenza. Questo è il fondamento oggettivo della razionalità storica.

La scienza dovrebbe diventare politica. I valori dovrebbero diventare bisogni: sarebbe un nuovo stadio nella conquista delle forze oppressive, è un atto di liberazione, in cui la costruzione, lo sviluppo e l’utilizzazione delle risorse materiali ed intellettuali sono liberate da tutti quegli interessi particolari che impediscono la soddisfazione dei bisogni umani e l’evoluzione delle facoltà umane.

Arte e tecnologia finiscono per convergere, in un certo senso, strumenti di pacificazione, organi dell’arte di vivere.

Oggi, nel prosperoso stato della guerra e del benessere, le qualità umane tipiche di un’esistenza pacifica sembrano asociali e antipatriottiche: qualità come il rifiuto di ogni durezza, cameratismo e brutalità; la disobbedienza alla tirannia della maggioranza; il far professione di paura e debolezza (la reazione più razionale a questa società!); un’intelligenza sensibile nauseata da ciò che viene perpetrato; l’impegno in azioni, di solito deboli e poste in ridicolo, di protesta e di rifiuto.

La solitudine, la condizione stessa che sosteneva l’individuo contro ed oltre la sua società, è divenuta tecnicamente impossibile: questo aspetto della sfera privata – la sola condizione che, quando i bisogni vitali siano stati soddisfatti,  può dare significato alla libertà e all’indipendenza di pensiero – è diventata da tempo la più dispendiosa delle merci. Per questo, del resto, la cultura rivela le sue origini e limitazioni feudali: può cioè divenire democratica solo a mezzo dell’abolizione della democrazia di massa, ovvero solo se la società sarà riuscita a ristabilire le prerogative della sfera privata consentendole a tutti e proteggendole per tutti.

Il requisito soggettivo primario è la ridefinizione dei bisogni.

Esempio: l’assenza di pubblicità e degli altri mezzi di informazione e indottrinamento. Se tutto si spegnesse, l’individuo precipiterebbe nel vuoto traumatico, in cui poter farsi domande, pensare, conoscere se stesso (o la negazione di sé). Sarebbe insopportabile. Mentre la gente può sopportare la produzione di armi nucleari, di pioggia radioattiva, di alimenti “discutibili”, essa non può tollerare di essere privata del trattenimento e dell’educazione che la rende capace di riprodurre i meccanismi predisposti per la sua difesa e per la sua distruzione.

L’arresto della televisione e degli altri media potrebbe contribuire a provocare ciò che le contraddizioni inerenti al capitalismo non provocarono, ovvero la disintegrazione del sistema.

Marcuse spesso nel testo fa riferimento alla pubblicità: quando parla del linguaggio, dice che sono proprio gli agenti pubblicitari a dar forma all’universo di comunicazione in cui il comportamento unidimensionale si esprime. L’accorciamento della sintassi, che taglia lo sviluppo del significato, creando immagini fisse che si impongono con concretezza sopraffattoria e pietrificata, è la tecnica tipica dell’industria pubblicitaria.

Nel parlare il suo proprio linguaggio, la gente parla il linguaggio dei suoi padroni, degli agenti pubblicitari, non esprimendo solo se stessi, le proprie conoscenze, sentimenti e aspirazioni, ma anche qualcos’altro diverso da sé Descrivono ciò che i media della comunicazione di massa gli dicono, e questo si confonde con quanto vedono e sentono realmente. Per descriverci dobbiamo usare i termini della pubblicità, dei film, dei politici, dei bestsellers. Ciò che gli individui intendono quando dicono, si collega a ciò che essi non dicono. Oppure ciò che intendono non può essere preso alla lettera, non perché mentano, ma perché l’universo di pensiero e di pratica in cui vivono è un universo di contraddizioni manipolate.

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E il Gruppo Marcuse da ciò parte nella sua analisi:

Oggi la pubblicità si impone ovunque, e poiché la natura del prodotto (le sue qualità reali, le sue possibili implicazioni) e la sua storia (dove, quando e da chi è stato fabbricato) potrebbero provocare il disgusto del potenziale cliente, la pubblicità ha il ruolo di occultare questi dati. Lo scopo non è informare, bensì creare desiderio, attribuendo un interesse a prodotti o marche che talvolta non ne hanno alcuno. Nell’economia moderna, dove la sovrapproduzione ha raggiunto il suo apice, i clienti non cercano i beni di cui hanno bisogno: al contrario, essi sono perseguitati dalle merci. Bisogna allora formattarli, trasformarli in “consumatori”.

Alcuni manager sono addirittura arrivati a immaginare di creare biologicamente una “nuova razza di superconsumatori”.

Ma è la televisione, considerata dai consumatori, che la guardano in media più di tre ore al giorno, il mezzo di comunicazione “più convincente”, a essere eletta plebiscitariamente dall’elite industriale come il mezzo d’imbecillimento più appropriato ai loro fini. Come ben dice il direttore del più potente canale televisivo francese: “Fondamentalmente, il mestiere di TF1 è, ad esempio, aiutare la Coca-Cola a vendere il suo prodotto. Per far sì che il messaggio pubblicitario sia percepito, è necessario che il cervello del telespettatore sia disponibile. La vocazione delle nostre trasmissioni è proprio quello di creare tale disponibilità: facendo divertire il telespettatore, rilassandolo e preparandolo nello spazio tra due messaggi. Ciò che vendiamo alla Coca-Cola è tempo di cervello umano disponibile”.

Un inquinamento pluridimensionale che non ha altro scopo se non quello di provocare il consumo di prodotti industriali, cioè la matrice di tutti gli inquinamenti. In questo senso la pubblicità è l’inquinamento degli inquinamenti.

L’emergere della pubblicità deriva dunque da una triplice necessità della grande industria:

1.Dominare il mercato nazionale per garantirsi di vendere, al di là dei consueti circuiti locali, le immense quantità prodotte. Cosa niente affatto evidente, dato che il “mercato” ormai non è più un insieme concreto di clienti più o meno conosciuti, ma una massa astratta di consumatori lontani. Perciò diventa indispensabile spendere somme considerevoli per accattivarsi questi sconosciuti attraverso i mezzi di comunicazione moderni, che hanno precisamente il “vantaggio” di rivolgersi alle “masse”.

2.Smerciare i prodotti secondari o residuali derivati dai nuovi processi industriali e innanzitutto dalla produzione continua. Prendiamo ad esempio la produzione dei fiocchi d’avena negli Stati Uniti. La produzione di questo alimento, tradizionalmente riservato agli animali, si è rivoluzionata dal 1880 grazie a nuove macchine che permesso (di fatto, imposto) la trasformazione di quantità di avena talmente rilevanti che è stato necessario inventare un nuovo mercato per vendere gli avanzi e rendere redditizi gli investimenti. Ed è stato così che sono comparsi i cereali per la prima colazione, la cui diffusione è stata sostenuta dalla pubblicità e dalle autorità scientifiche, sulle quali l’industria può sempre contare per cooperare “all’educazione delle masse”, spacciata come salute pubblica. Seguiranno altri cereali a base di grano o mais, o ancora gli alimenti per neonati: tutti prodotti nati dalla nuova produzione industriale che andranno progressivamente sostituendosi ai consumi abituali della popolazione. Allo stesso modo la Procter & Gamble, per utilizzare appieno i suoi stabilimenti di produzione di sapone, si è lanciata nella fabbricazione di detersivi, olii detergenti e tante altre cose che un tempo la gente si procurava diversamente, spesso attraverso procedimenti domestici di recupero e trasformazione. Recentemente, seguendo la stessa logica, si è cercato di evitare le perdite finanziarie legate alla non utilizzazione dei resti delle carcasse. Così l’industria agroalimentare le ha trasformate in “farine animali” destinate a nutrire un bestiame abitualmente non carnivoro. Non sono solo le mucche a essere “pazze”, ma anche gli industriali, presi in un sistema che li obbliga ad adottare procedimenti sempre più deliranti al fine di mantenere il loro tasso di profitto.

3.Differenziare e valorizzare prodotti industriali che hanno in comune soltanto la qualità scadente. Le nuove tecniche di produzione effettivamente implicano una considerevole standardizzazione dei beni di consumo corrente. La missione dei pubblicitari è allora quella di distinguere, agli occhi dei consumatori, merci che in realtà nulla ormai distingue. Come loro stessi dichiarano, in un mondo di «beni equivalenti conta il fattore psicologico, ovvero è con le tecniche di persuasione che il produttore può aspirare a una differenziazione che valorizzi e spinga all’acquisto». Si tratta cioè di creare un «valore immaginario aggiunto senza il quale i prodotti non sarebbero quello che sono».

In fondo la pubblicità è semplicemente l’industria che promuove l’industria. La sua prima funzione è quella di promuovere il consumo di prodotti industriali e di sostituirsi ai costumi popolari tradizionali. Le bibite sostituiscono l’acqua; la cucina casalinga è rimpiazzata da piatti incellofanati, la cui mancanza di sapore viene appena mascherata dall’abbondanza di additivi cancerogeni.

L’emergere della pubblicità coincide quindi con l’ingresso in una nuova era del capitalismo, un’epoca di compimento del sistema. L’accumulazione capitalistica, basandosi sulla produzione di massa, non poteva continuare a esistere se non colonizzando ogni dimensione dell’esistenza sociale e individuale. Così l’imperativo a produrre sempre di più si è ben presto tradotto nell’imperativo a consumare sempre di più.

A partire dalla crisi del 1929 il consumo di massa è stato elevato, in tutte le economie industriali, a imperativo civico. In effetti l’iperconsumo è diventato indispensabile al movimento espansivo delle nostre economie. Globalmente un tale sistema economico si mantiene soltanto se le popolazioni consumano in misura sempre maggiore la stessa merce, oppure creando nuovi prodotti capaci di sviluppare nuove attività convertibili in denaro e lucrative. La commercializzazione di nuovi aspetti delle attività sociali e umane, che oggi suscita tanta indignazione, è necessariamente inscritta nella dinamica capitalistica.

Siamo prigionieri di un meccanismo infernale. La natura di tale sistema spinge costantemente la società verso il baratro, o piuttosto la vuole mantenere artificialmente sempre sull’orlo.

La pubblicità era presente anche in urss, anche se molto meno che negli Usa. Nel 1970 gli investimenti pubblicitari raggiungevano appena quelli dell’Italia. A causa del delirio pianificatorio, certi prodotti mancavano drammaticamente, mentre altri erano fabbricati in sovrabbondanza. Per favorirne lo smercio si faceva ricorso alla pubblicità come in tutti i Paesi industrializzati.

Così facendo, il “socialismo”, non ha mai messo in discussione l’imperativo categorico del produrre di più o quello di sfruttare uomini e natura.

Il capitalismo ha saputo promuovere meglio l’accumulazione della ricchezza: è riuscito a vendere il comfort materiale: ecco dunque cosa è apparentemente riuscito a soffocare i vari progetti di emancipazione elaborati nella prima metà del xx secolo, di cui le rivolte del ’68 e quelle degli anni seguenti appaiono gli ultimi echi. La pubblicità è uno dei pilastri della società capitalista. Ed è diventata progressivamente un settore produttivo a sé stante, nonostante si abbia l’impressione che non produca niente. In effetti forse crea proprio l’essenziale: l’incessante rinnovamento del desiderio di comprare. Il che è fondamentale per il mantenimento dell’attuale ordine sociale, in quanto spinge al conformismo della psuedodistinzione e all’abbandono di ogni pratica autonoma tipica della vita tradizionale, formattando e delimitando l’immaginario degli individui.

Christine Frederick formulava così nel 1929:

 

Consumptionism è il nome della nuova teoria. È comunemente accettato al giorno d’oggi che si tratta dell’idea migliore che l’America potesse offrire al mondo, l’idea che le masse lavoratrici […] possano essere considerate anche come consumatrici. […] Pagarle di più per vender loro di più e trarne così maggior profitto, ecco come bisogna ragionare (Selling Mrs. Consumer).

 

Questa “grande idea” avrebbe avuto ripercussioni ben più profonde, in quanto implicava di fatto una nuova concezione dell’essere umano e dell’ordine sociale.

Tuttavia la testa d’ariete della guerra contro le tradizioni culturali è la televisione, in particolare le sue divertenti serie televisive. Mettendo in scena la vita moderna di famiglie benestanti, queste fanno sognare un nuovo stile di vita. Se si chiamano soap-operas è perché i fabbricanti di detersivi, saponi e cosmetici hanno direttamente partecipato alla loro realizzazione. La Procter & Gamble, considerata una vera scuola di pubblicità, ha interamente finanziato Beautiful. Dal lavaggio dei vestiti a quello del cervello il salto è breve.

La pubblicità è una componente logica dello spazio artificiale nel quale accettiamo di vivere, in quanto vi s’inserisce naturalmente, è ovunque.

La pubblicità, instillando continuamente la certezza che non c’è un altro mondo possibile, o desiderabile, e mascherando l’ampiezza del disastro, disinnesca tutto ciò che potrebbe condurre a una contestazione del mondo industriale. Ma fa di più: canalizza lo scontento che tutto questo provoca in svariati sfoghi commerciali che favoriscono il suo stesso sviluppo (viaggi ai tropici, calmanti, palestre, gioco d’azzardo…), e così via qualunque tipo di riflessione sulla vita che siamo costretti a vivere. Terry Gilliam, nel film Brazil, l’aveva capito: al di là delle sue pretese commerciali, la pubblicità è una vera e propria propaganda.

«Nell'epoca del suo dominio totalitario, il capitalismo ha prodotto la sua nuova religione: lo spettacolo». Il sistema pubblicitario è solamente il vettore più manifesto di questa contemplazione medusea provocata dalla vita autonoma di un'economia che si rivela mortale per ogni vita decente. Criticarla è la condizione preliminare di ogni altra critica sociale. Preliminare, perché bisogna essersi già liberati di questo contesto di accecamento per poter aprire gli occhi sul mondo immondo generato dalla crescita mercantile. Ma solo preliminare, perché una volta rotto l'incantesimo resta da ricostruire, negli interstizi e sulle rovine della devastazione, un mondo umano. Ciò che è infame ha cambiato maschera, ma la parola d'ordine di Voltaire non ha perduto nulla della sua attualità: «Schiacciate l'infame!».

Il Gruppo Marcuse fa parte del filone dei movimenti antipubblicità e per la decrescita. E lo stesso Marcuse pare essere precursore della decrescita, alla fine del testo.

La sconfitta della scarsità, limitata ancora a piccole zone della società avanzata, ha le armi per bloccare la liberazione: in gran parte è la gran quantità di beni, servizi, lavoro e svago nelle regioni super sviluppate che porta a questo blocco. Di conseguenza, il cambiamento qualitativo sembra presupporre un cambiamento quantitativo nel tenore di vita avanzato di vita, vale a dire una riduzione del sovrasviluppo.

Con gli occhi di oggi, il punto di forza del discorso di Marcuse

 

consiste proprio nella capacità di rintracciare nuovi soggetti che vogliono autocomprendersi come sottoposti a dominazione, e intravedono la possibilità di spezzare le catene di classe, di genere, di etnia, di religione e di quant’altro li lega all’esistente. […] Tuttavia, al di sotto della base popolare conservatrice vi è il sostrato dei reietti e degli stranieri, degli sfruttati e dei perseguitati di altre razze e di altri colori, dei disoccupati e degli inabili. Essi permangono al di fuori del processo democratico; la loro presenza prova come non mai quanto sia immediato e reale il bisogno di porre fine a condizioni e situazioni intollerabili. Perciò la loro opposizione è rivoluzionaria anche se non lo è la loro coscienza. La loro opposizione colpisce il sistema dal di fuori e quindi non è sviata dal sistema; è una forza elementare che viola le regole del gioco, e così facendo mostra che è un gioco truccato. […] Il fatto che essi incomincino a rifiutare di prendere parte al gioco può essere il fatto che segna l’inizio della fine di un periodo.

 

E c’è una rivalutazione del lumpenproletariat reazionario di Marx, quello straccione, come possibile agente rivoluzionario, proprio in virtù della sua estraneità al sistema produttivo cui invece è aggiogato il lavoro, e rivalutazione di tutte quelle contraddizioni “soggettive” e di tutti quei conflitti e antagonismi che il marxismo istituzionale considerava secondari e la cui risoluzione rimandava al mondo post-rivoluzionario.

Il valore universalistico del progetto marcusiano di liberazione globale dal lavoro e dal ‘mercato’ multiculturale delle identità come consumer options ricontenute all’interno del mondo tecnologico-industriale, si esprime vitalisticamente nel paragrafo finale e nella citazione finale: «È solo a favore dei disperati che ci è data la speranza», scrive citando Benjamin. Per questo motivo non considero Marcuse pessimista: la disperazione è rivoluzionaria.

Accanto a questi attori si dispongono nuove forze e soggetti emergenti: le forze anti-imperialiste e anticolonialiste nel mondo; le forze sociali rivoluzionarie che si oppongono tanto allo sviluppo capitalistico quanto alle forme di prassi politica e rivoluzionaria codificate; quelle che a vario titolo oppresse non accettano l’esistente, come i nuovi movimenti sociali, il movimento per i diritti civili e il movimento degli studenti. Questi «permettono a Marcuse di abbozzare una forma di opposizione che in qualche modo può rimettere in movimento la dialettica. E può permettere di ricostruire su nuove basi una teoria della rivoluzione», di un progetto rivoluzionario concreto che consiste nel costruire delle pratiche minoritarie che faranno esistere gli uomini e le donne del divenire, andando coraggiosamente verso le cose possibili.

 

DICEMBRE 2012

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[1] Miguel Benasayag, Gérard Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Roma 2004.

[2] Herbert Marcuse, Eros e Civiltà, Einaudi, Torino 2001.