DA L’UOMO A UNA DIMENSIONE (1964) A MISERIA UMANA DELLA
PUBBLICITÀ (2004)
Massimo Ammendola
La prima stesura del presente articolo
risale al Marzo del 2009 in occasione degli incontri “Letture di storia
del pensiero politico”, organizzate a Napoli dalla Società di Studi
Politici.
L’Uomo a una
dimensione.
Studi sull’ideologia
della società industriale avanzata
di Herbert Marcuse (Einaudi, Torino 1999), e Miseria umana della
pubblicità. Il nostro stile di vita sta uccidendo il mondo del
Gruppo Marcuse (acronimo che sta per «Movimento Autonomo di Riflessione
Critica a Uso dei Sopravvissuti dell’Economia», Elèuthera, Milano 2006),
sono due opere, pur distanti quarant’anni tra loro, capaci di fornirci
alcuni strumenti per guardare la realtà,
come lo stesso Marcuse scrive nella sua
introduzione al L’Uomo a una dimensione:
«La mia analisi è centrata su tendenze che operano nelle società
contemporanee più altamente sviluppate. […] Io proietto queste tendenze
nel prossimo futuro e offro alcune ipotesi, nulla più».
Fare alcune ipotesi, spingerci a tentare di dare risposte alle
domande pressanti che gravano sull’uomo oggi, ovvero le domande
riguardanti la condizione dell’uomo,
il suo rapporto col mondo, con la vita, con se stesso.
Cosa fare in quest’epoca di passioni tristi? Così la definisce
Miguel Benasayag[1],
riprendendo Spinoza: un’epoca contrassegnata da impotenza,
disgregazione, incertezza, mancanza di senso, un’epoca in cui tutto pare
possibile, e allora niente è più reale. Un’epoca che produce una
soggettività straniata, un sentimento di esteriorità rispetto al mondo
circostante.
E allora come ritrovare
il significato di un impegno esistenziale, ripensare il posto dell’uomo?
Per rispondere a questi interrogativi, la prima cosa è capire. Capire,
superando la cortina di ambiguità che circonda la realtà, superando
quella che Marcuse definisce “falsa coscienza”:
Sotto le condizioni repressive in cui
gli uomini pensano e vivono, il pensiero – ogni maniera di pensare che
non sia confinata ad un indirizzo pragmatico entro lo status quo – può
riconoscere i fatti e rispondere ai fatti solo se guarda dietro di essi.
L’esperienza ha luogo davanti a un velo che nasconde, e se il mondo è
l’apparenza di qualcosa che sta dietro il velo dell’esperienza
immediata, allora, nei termini di Hegel, siamo noi stessi dietro al
velo.
Quello di Marcuse è un
testo complesso, il linguaggio è ostico, proprio perché ritiene che
l’analisi critica deve dissociarsi da ciò che cerca di comprendere e
quindi i termini filosofici devono essere diversi da quelli ordinari per
chiarire il pieno significato di questi ultimi.
Marcuse emigrò negli USA nel 1933, seguendo l’emigrazione
dell’intellighenzia tedesca di quell’epoca, un gigantesco fenomeno di
spostamento, adattamento, “traduzione” e ri-radicamento del capitale
culturale della cultura europea “alta” nelle nuove condizioni della
civiltà democratica di massa: Adorno, Löwenthal, Marcuse, ma anche
Auerbach e Spitzer per la filologia e la letteratura comparata.
Significativamente, Marcuse è il solo che non torna in Europa nel
dopoguerra: abbraccia pienamente le condizioni della modernità
industriale, rese evidenti in usa
dalla fase più avanzata di sviluppo rispetto all’Europa, come non solo
oggetto ma condizione del proprio lavoro intellettuale, e non come fatto
contingente da condannare e dal quale ritrarsi alla prima occasione.
La sua ricerca è quella di un quadro teorico per comprendere e
analizzare le forme quotidiane dell’alienazione e il problema
dell’autenticità dell’esistenza umana nelle condizioni reificate della
moderna società capitalistica. Nuclei forti e riconoscibili: la
questione dell’autenticità dell’esistenza nelle condizioni della
modernizzazione e della tecnologia, da Heidegger, di cui fu allievo; la
ricerca di una versione del marxismo adeguata alla società contemporanea
e alle sue trasformazioni qualitative, e l’analisi critica del sistema
della cultura moderna, nelle sue responsabilità e nei suoi legami con i
modi di produzione e con la nuova società di massa, dai francofortesi;
l’analisi del potere in relazione alla moderna società tecnologica, dal
confronto con Weber.
L’Uomo a una dimensione porta l’analisi sul terreno politico delle possibilità di
trasformazione della società.
Punto di partenza: l’analisi della situazione unidimensionale e
totalitaria della
società industriale
avanzata creata dall’avvento di un pensiero
unico incentrato intorno alla produzione e alla produttività, in modo
simmetrico e speculare nei due blocchi e nelle due forme di pensiero e
modelli sociali egemonici, capitalista-democratico e marxista-comunista,
entrambi retti dall’idea dell’aumento indefinito della produzione come
centro indiscutibile della società e come telos dell’esistenza
umana, e organizzati intorno alle “oggettive” necessità della
produzione, col valore assoluto e neutrale dello sviluppo delle forze
produttive, delle leggi del mercato e del
pil.
In entrambi i mondi, ed oggi nel mondo a una dimensione, la
produzione subordina gli esseri umani alla “necessità”, allo sviluppo
delle forze produttive, e in entrambi l’economia detta l’agenda politica
e il modello sociale.
Ecco che ci troviamo
davanti a una paralisi della critica: alla società senza opposizione.
L’apparato tecnico di
produzione e di distribuzione (sempre più automatizzato) funziona come
un sistema che è totalitario, nella misura in cui determina non soltanto
le occupazioni, le abilità e gli atteggiamenti socialmente richiesti, ma
anche i bisogni e le aspirazioni individuali: in tal modo dissolve
l’opposizione tra esistenza privata ed esistenza pubblica, tra i bisogni
individuali e quelli sociali, che vengono quindi manipolati. La
tecnologia serve per istituire nuove forme di controllo sociale e di
coesione sociale, più efficaci e più piacevoli.
Di fronte ai tratti
totalitari di questa società, la nozione tradizionale della “neutralità”
della tecnologia non può più essere sostenuta. La tecnologia come tale
non può essere isolata dall’uso cui è adibita; la società tecnologica è
un sistema di dominio che prende ad operare sin dal momento in cui le
tecniche sono concepite ed elaborate.
Il modo in cui una
società organizza la vita dei suoi membri comporta una scelta iniziale
tra alternative storiche che sono determinate dal livello preesistente
della cultura materiale ed intellettuale. La scelta stessa deriva dal
gioco degli interessi dominanti. Essa prefigura modi specifici di
trasformare e utilizzare l’uomo e la natura e respinge gli altri modi.
Una volta che il progetto diviene operativo nelle istituzioni e
relazioni di base, esso tende a diventare esclusivo e a determinare lo
sviluppo della società come un tutto. Man mano che si dispiega esso
plasma l’intero universo del discorso e dell’azione, della cultura
intellettuale e di quella materiale. Entro il medium costituito dalla
tecnologia, la cultura, la politica e l’economia si fondono in un
sistema onnipresente che assorbe o respinge tutte le alternative. La
produttività e il potenziale di sviluppo di questo sistema stabilizzano
la società e limitano il progresso mantenendolo entro il quadro del
dominio. La razionalità tecnologica è divenuta razionalità politica.
Marcuse così apre
l’introduzione: «La minaccia di una catastrofe atomica, che potrebbe
spazzar via la razza umana, non serve nel medesimo tempo a proteggere le
stesse forze che perpetuano tale pericolo?».
Ed è un po’ quello che
Noam Chomsky e altri hanno ipotizzato sulla guerra fredda, che fosse un
tacito accordo tra i due blocchi, per mantenere lo status quo, tenendo
la popolazione in uno stato di paura e minaccia continuata.
La società industriale
avanzata diventa più ricca, più grande a mano a mano che perpetua il
pericolo.
Siamo schiacciati dalla
paura di minacce esterne, allora era il comunismo, negli ultimi anni
pensiamo al terrorismo, alla crisi. I bisogni politici della società
diventano bisogni e aspirazioni individuali. Ma questa società è,
nell’insieme, irrazionale. La sua produttività tende a distruggere il
libero sviluppo di facoltà e bisogni umani, la sua pace è mantenuta da
una costante minaccia di guerra, la sua crescita si fonda sulla
repressione delle possibilità più vere per rendere pacifica la lotta per
l’esistenza – individuale, nazionale e internazionale.
Siamo sottomessi in
tempo di pace alla produzione dei mezzi di distruzione, al
perfezionamento dello spreco.
I controlli sociali
esigono che si sviluppi il bisogno ossessivo di produrre e consumare lo
spreco, il bisogno di lavorare fino all’istupidimento, quando ciò non è
più una necessità reale. Il bisogno di modi di rilassarsi che alleviano
e prolungano tale istupidimento, il bisogno di mantenere libertà
ingannevoli, come la libera concorrenza, una stampa libera che si
censura da sola, la scelta tra marche e aggeggi vari. Sotto il governo
di un tutto repressivo, la libertà può essere trasformata in un possente
strumento di dominio. Cosa può essere scelto dall’individuo? Ciò
determina la libertà umana.
E l’individuo a una dimensione è asservito alla produzione in ogni
suo atto e momento, inclusi quelli che crede autodiretti, incluso il
“tempo libero” – predeterminato e saturato dai falsi bisogni e dagli
‘svaghi’ funzionali non alla liberazione e alla soddisfazione
individuale, ma all’ulteriore asservimento in sintonia con gli interessi
della produzione.
Infatti Marcuse parla,
in Eros e Civiltà[2],
di repressione addizionale, riprendendo Freud: ovvero, per mantenere
unita la civiltà, è necessaria una repressione di base degli istinti,
altrimenti sarebbe il caos. Nella società industriale avanzata invece,
assistiamo ad un surplus di repressione, cioè subiamo una repressione
maggiore di quella necessaria, il tutto per mantenere l’attuale
irrazionale assetto sociale.
Proprio quando le
capacità intellettuali e materiali della società sono smisuratamente più
grandi di quanto siano mai state, e quindi è possibile pensare ad una
liberazione dell’umanità dalla fatica; ma ciò significa che la portata
del dominio della società sull’individuo è smisuratamente più grande di
quanto sia mai stata.
La nostra società
si distingue in quanto sa domare le forze sociali centrifughe a mezzo
della Tecnologia piuttosto che a mezzo del Terrore, sulla duplice base
di una efficienza schiacciante e di un più elevato livello di vita. Il
progresso tecnico regola la realtà e impedisce il dibattito. E più la
società si lascerà controllare dalla tecnologia, più avanzerà il
controllo panottico, totale.
Indagare quali sono le
radici di questo sviluppo ed esaminare le loro alternative storiche
rientra negli scopi di una teoria critica della società contemporanea,
teoria che analizza la società alla luce delle capacità che essa usa o
non usa, o di cui abusa, per migliorare la condizione umana.
Per Marcuse la società
costituita dispone di risorse intellettuali e materiali in quantità e
qualità misurabili. In che modo queste risorse possono venire usate per
lo sviluppo e soddisfazioni ottimali di bisogni e facoltà individuali,
con il minimo di fatica e di pena?
Il progresso tecnico
esteso a tutto un sistema di dominio e di coordinazione crea forme di
vita e di potere che conciliano, che fanno proprie e quindi annullano le
forze che si oppongono al sistema, ogni protesta formulata in nome delle
prospettive storiche di libertà dalla fatica e dal dominio.
La società
contemporanea sembra capace di contenere il mutamento sociale, inteso
come mutamento qualitativo che porterebbe a stabilire istituzioni
essenzialmente diverse, imprimerebbe una nuova direzione al processo
produttivo e introdurrebbe nuovi modi di esistenza per l’uomo. Questa
capacità di contenere il mutamento sociale è forse il successo più
potente e caratteristico della società industriale avanzata: Marcuse
parla di «integrazione degli opposti» che è al tempo stesso il
risultato, non meno che il requisito, di tale successo.
L’esempio più lampante
viene dai programmi dei partiti politici, che diventano sempre meno
distinguibili. Tale unificazione degli opposti incide sulla possibilità
stessa di un mutamento sociale in quanto coinvolge questi strati sociali
sul cui dosso il sistema progredisce. Gli stessi partiti della sinistra
cosiddetta radicale fanno fede alla generale tendenza delle circostanze,
aderendo a un programma minimo che archivia l’idea di una conquista
rivoluzionaria e si conforma alle regole del gioco parlamentare. Essi
testimoniano la profondità e portata dell’integrazione capitalistica. Ci
torneremo dopo, quello dell’integrazione degli opposti è tema chiave per
il filosofo tedesco.
Un breve confronto tra
lo stadio iniziale della teoria della società industriale e la sua
situazione presente può contribuire a mostrare come le basi stesse della
critica siano state alterate. La critica nell’800 elaborò i primi
concetti di un’alternativa, e ci fu una mediazione storica tra teoria e
pratica, valori e fatti, bisogni e scopi, che ebbe luogo nella coscienza
e nell’azione politica delle due grandi classi che si fronteggiavano:
borghesia e proletariato. Ma lo sviluppo capitalista ha alterato la
struttura e la funzione di queste due classi in modo tale che esse non
appaiono più essere agenti di trasformazione storica. Anzi, un interesse
prepotente per la conservazione ed il miglioramento dello status quo
istituzionale unisce gli antagonisti d’un tempo. Nell’impossibilità di
indicare in concreto quali agenti ed enti di mutamento sociale sono
disponibili, la critica è costretta ad arretrare verso un livello più
alto di astrazione. Non v’è alcun terreno su cui la teoria e la pratica,
il pensiero e l’azione si incontrino. Persino l’analisi strettamente
empirica delle alternative storiche sembra essere una speculazione
totalmente irrealistica, e il farle proprie sembra essere un fatto di
preferenza personale.
Il livellamento delle
distinzioni di classe non indica la scomparsa delle classi, quanto la
misura in cui i bisogni e le soddisfazioni che servono a conservare gli
interessi costituiti sono ormai fatti propri dalla maggioranza della
popolazione.
I bisogni sociali si
legano così efficacemente a quelli individuali cosicché la differenza
tra i due sembra essere puramente teorica. Si può distinguere tra i
mezzi di comunicazione di massa come strumenti di informazione e di
divertimento e come agenti di manipolazione e di indottrinamento? Tra
l’automobile come jattura o come comodità? Ecco uno degli aspetti più
inquietanti della civiltà industriale avanzata: il carattere razionale
della sua irrazionalità.
La sua produttività ed
efficienza, la sua capacità di accrescere e diffondere la comodità, di
trasformare lo spreco in bisogno e la costruzione in distruzione, la
misura in cui questa civiltà trasforma il mondo oggettuale in una
estensione della mente e del corpo dell’uomo, rendono discutibile la
nozione di alienazione. Le persone si riconoscono nelle loro merci, il
controllo sociale è radicato nei nuovi bisogni creati.
Il rifiuto
intellettuale ed emotivo di allinearsi è percepito come segno di nevrosi
e di impotenza. Sono tramontate le forze storiche che in passato parvero
rappresentare la possibilità di nuove forme di esistenza.
C’è una mìmesi,
un’identificazione immediata dell’individuo con la sua società, e
tramite questa, con la società come un tutto. Ecco il pensiero a una
dimensione.
Ma l’assenza di agenti
di mutamento non confuta la teoria. L’unione di una produttività
crescente e di una crescente capacità di distruzione, soffocando
efficacemente quei bisogni che chiedono di essere liberati; la politica
condotta sull’orlo dell’annientamento; la resa del pensiero, della
speranza, della paura alle decisioni delle potenze in atto; il perdurare
della povertà in presenza di una ricchezza senza precedenti
costituiscono la più imparziale delle accuse, anche se non sono la
raison d’etre di questa società, ma solamente il suo sottoprodotto:
la sua razionalità travolgente, motore di efficienza e sviluppo
infinito, è essa stessa irrazionale.
L’analisi critica deve
quindi continuare ad insistere che il bisogno di un mutamento
qualitativo non è mai stato così urgente. Ne ha bisogno la società come
un tutto, per ciascuno dei suoi membri.
Il fatto che la
stragrande maggioranza della popolazione accetta ed è spinta ad
accettare la società presente non rende questa meno irrazionale e meno
riprovevole: ecco la distinzione tra coscienza autentica e falsa
coscienza. Gli uomini devono trovare la via che porta dall’una
all’altra, dall’interesse immediato al loro interesse reale. Possono
farlo solamente se avvertono il bisogno di mutare il loro modo di vita,
di negare il positivo, di rifiutarlo. È precisamente questo bisogno che
la società costituita si adopera a reprimere, nella misura in cui essa è
capace di “distribuire dei beni” su scala sempre più ampia e di usare la
conquista scientifica della natura per la conquista scientifica
dell’uomo.
Posta dinanzi al
carattere totale delle realizzazioni della società industriale avanzata,
la teoria critica si trova priva di argomenti razionali per trascendere
la società stessa. Il vuoto giunge a svuotare la stessa struttura della
teoria, fin nelle sue categorie (individuo, classe, privato, famiglia)
che denotavano sfere e forze di tensione e di contraddizione. Con la
crescente integrazione della società industriale, queste categorie vanno
perdendo la loro connotazione critica e tendono a diventare termini
descrittivi, ingannevoli.
Una situazione così
ambigua implica un’ambiguità ancora più fondamentale. L’Uomo a una
dimensione oscilla tra due ipotesi contraddittorie: 1) la società
industriale avanzata è capace di reprimere ogni mutamento qualitativo
per il futuro che si può prevedere; 2) esistono oggi forze e tendenze
capaci di interrompere tale operazione repressiva e fare esplodere la
società. Ambedue le tendenze persistono, la prima predomina e qualsiasi
condizione possa darsi per rovesciare la situazione attuale viene usata
per impedire che ciò avvenga.
A meno che il
riconoscimento di quanto viene fatto e di quanto viene impedito sovverta
la coscienza e il comportamento dell’uomo, nemmeno una catastrofe
produrrà il cambiamento.
Una confortevole,
levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà
industriale avanzata.
Razionale è la
soppressione dell’individualità nel corso della meccanizzazione di
attività socialmente necessarie ma faticose; la concentrazione di
imprese individuali in società per azioni più produttive; la regolazione
della libera concorrenza tra soggetti economici non egualmente
attrezzati; la limitazione di prerogative e sovranità nazionali che
impediscono l’organizzazione internazionale delle risorse.
La libertà dal bisogno
diventa una possibilità reale. La liberazione
dal lavoro, non liberazione del lavoro; cioè, non il dogma
principale del marxismo ortodosso (massima espansione delle forze
produttive e liberazione del lavoro salariato nella società senza classi
post-rivoluzione) ma liberazione universale dal lavoro attraverso la
liberazione di energie libidinali e creative consentita dall’uso
umanistico e non alienato della tecnologia.
Se l’individuo non
fosse più obbligato a provare quanto vale sul mercato, nella sua qualità
di libero soggetto economico, la scomparsa della libertà di lavorare (e
la connessa fatica, insicurezza e paura), sarebbe uno dei più grandi
successi della civiltà. I processi tecnologici di meccanizzazione e di
unificazione potrebbero liberare l’energia di molti individui, facendola
confluire in un regno ancora inesplorato di libertà al di là della
necessità. La stessa esistenza umana ne sarebbe modificata; l’individuo
verrebbe liberato dal lavoro di un mondo che gli impone bisogni e
possibilità a lui estranei. L’individuo sarebbe libero di esercitare la
sua autonomia in una vita che sarebbe ormai veramente sua. Dirigere
l’apparato produttivo verso la soddisfazione dei bisogni vitali,
attraverso la produzione materiale automatizzata, mentre il tempo di
lavoro necessario sarebbe ridotto ai margini. La vita come fine, non
come mezzo.
La meccanizzazione,
potenziata dall’avvento dell’informatica, riduce la quantità e
l’intensità dell’energia fisica erogata nel lavoro, che è l’elemento più
tangibile nella schiavitù e nell’alienazione del lavoratore, che lo
strema e lo istupidisce, tramite la standardizzazione e la routine.
Addolcito lo sfruttamento, il lavoratore viene incorporato più
facilmente: il nuovo mondo tecnologico indebolisce la posizione negativa
della classe lavoratrice, che non appare più come la contraddizione
vivente della società costituita. Il dominio prende veste di
amministrazione, i padroni e i proprietari capitalisti perdono la loro
identità di agenti responsabili, per assumere le funzioni di burocrati
nella macchina delle corporations.
Il velo tecnologico maschera la riproduzione della disuguaglianza e
dell’asservimento. La non-libertà viene perpetuata e intensificata sotto
forma di molte piccole libertà e agi.
Gli schiavi della
civiltà industriale sviluppata sono schiavi sublimati, ma sono pur
sempre schiavi, poiché la schiavitù è determinata, come scrisse
l’economista Francois Perroux, «non dall’obbedienza, né dall’asprezza
della fatica, bensì dallo stato di strumento e dalla riduzione dell’uomo
allo stato di cosa». La servitù allo stato puro, esistere come
strumento, come cosa, e non sentire di esserlo.
Se dovesse mai divenire
il processo di produzione materiale, l’automazione totale, per Marcuse,
rivoluzionerebbe la società intera, essendo incompatibile con una
società fondata sullo sfruttamento privato della forza lavoro umana. La
reificazione della forza lavoro umana, spezzerebbe la forma reificata,
tagliando la catena che lega l’individuo alla macchina, al meccanismo
per mezzo del quale il suo stesso lavoro lo rende schiavo. L’automazione
integrale del regno della necessità farebbe del tempo libero la
dimensione in cui primariamente si formerebbe l’esistenza privata e
sociale dell’uomo. Si avrebbe così la trascendenza storica verso una
nuova civiltà.
Il potere bruto della
macchina supera quello dell’individuo: è il più efficace degli strumenti
politici, ma non è altro che il potere dell’uomo accumulato e
proiettato. Nel momento in cui il mondo del lavoro viene concepito come
una macchina e meccanizzato di conseguenza, esso diviene la base
potenziale di una nuova libertà per l’uomo.
Occorrono nuovi modi di
definizione e realizzazione per una società libera, dato che non può
essere definita nei termini tradizionali delle libertà economiche,
politiche ed intellettuali, ma dall’equivalente negativo: in tal senso,
libertà economica significherebbe libertà dall’economia, dal controllo
di forze e relazioni economiche; libertà dalla lotta quotidiana per
l’esistenza, dal problema di guadagnarsi la vita. Libertà politica
significherebbe liberazione degli individui da una politica su cui essi
non hanno nessun controllo effettivo. E la libertà intellettuale
equivarrebbe alla restaurazione del pensiero individuale, ora assorbito
dalla comunicazione e dall’indottrinamento di massa, e all’abolizione
dell’opinione pubblica, assieme ai suoi produttori. Il suono
irrealistico di queste proposizioni è indicativo dell’intensità delle
forze che impediscono di tradurle in atto, coltivando bisogni materiali
e intellettuali che perpetuano forme obsolete di lotta per l’esistenza.
Distinzione chiave è
quella tra bisogni veri e bisogni falsi. I bisogni falsi vengono
sovrimposti all’individuo da parte di interessi sociali particolari cui
preme la sua repressione: sono i bisogni che perpetuano la fatica,
l’aggressività, la miseria e l’ingiustizia. L’individuo può trovare
estremo piacere nel soddisfarli, ma non possono essere conservati e
protetti se servono ad arrestare lo sviluppo della capacità (sua e di
altri) di riconoscere la malattia dell’insieme e afferrare le
possibilità che si offrono per curarla. Il risultato è pertanto
un’euforia nel mezzo dell’infelicità. La maggior parte dei bisogni che
prevalgono, bisogno di rilassarsi, divertirsi, comportarsi e consumare
in accordo con gli annunci pubblicitari, di amare e odiare ciò che altri
amano e odiano, appartengono a questa categoria di falsi bisogni,
determinati da potenze esterne.
I soli bisogni che
hanno un diritto illimitato ad essere soddisfatti sono quelli vitali: il
cibo, il vestire, un’abitazione adeguata. L’obiettivo dell’umanità
dovrebbe essere la soddisfazione universale dei bisogni vitali e una
progressiva riduzione di fatica e povertà.
Fintanto che gli
individui sono ritenuti incapaci di essere autonomi, fintanto che sono
indottrinati e manipolati non possono rendersi conto della distinzione
tra bisogni veri e falsi.
E poi vi è la questione
del linguaggio, altro tema affrontato in maniera originale e critica: il
fatto che il modo prevalente di essere liberi è la servitù, il modo di
esser uguali è una disuguaglianza imposta dall’alto, non può oggi
trovare espressione a causa della rigida definizione di tali concetti
nei termini dei poteri che plasmano il relativo universo di discorso. Il
risultato è il familiare linguaggio orwelliano di 1984, la guerra è
pace, la pace è guerra. Altro risultato sono partiti politici che
operano per la difesa e lo sviluppo del capitalismo, ma si chiamano
socialisti…
La novità è
l’accettazione generale di queste menzogne da parte dell’opinione
pubblica e privata, la soppressione del loro mostruoso contenuto. La
diffusione e l’efficacia di questo linguaggio testimoniano del trionfo
della società sulle contraddizioni che albergano in essa; le
contraddizioni sono riprodotte senza far saltare il sistema sociale. Ed
è la contraddizione dichiarata, clamorosa, che viene usata come
strumento di discorso e di pubblicità. La sintassi dell’abbreviazione
riduttiva (onu,
nato) proclama la
conciliazione degli opposti saldandoli insieme in una struttura solida e
familiare. Considerata un tempo l’offesa principale contro la logica, la
contraddizione appare ora come un principio della logica della
manipolazione. È la logica di una società che può permettersi di far a
meno della logica e di giocare con la distruzione, una società in grado
di dominare con mezzi tecnologici la mente e la materia.
L’unificazione degli
opposti che caratterizza lo stile commerciale e politico è uno dei molti
modi in cui il discorso e la comunicazione si rendono immuni
all’espressione della protesta e del rifiuto. Come possono protesta e
rifiuto trovare la parola giusta quando gli organi dell’ordine
costituito ammettono, dando pubblicità alla cosa, che la pace consiste
realmente nel trovarsi sull’orlo della guerra, che le armi definitive
hanno un prezzo foriero di profitti e che il rifugio antiatomico può
avere una sua area domestica? Nell’esibire le proprie contraddizioni
come contrassegno della sua verità, quest’universo di discorso si chiude
in sé, escludendo ogni altro discorso che non si svolga nei suoi
termini.
Il linguaggio si
articola in costruzioni che impongono all’ascoltatore un significato
obliquo e abbreviato, che bloccano lo sviluppo del contenuto, che
spingono ad accettare ciò che viene offerto nella forma in cui è
offerto. L’analisi descrittiva dei fatti blocca la loro comprensione e
diventa un elemento dell’ideologia che li sostiene.
E ciò significa
sopprimere la storia: un universo di discorso in cui le categorie della
libertà sono divenute intercambiabili con i loro opposti, e anzi si
identificano con questi, non solo pratica il linguaggio di Orwell o di
Esopo, ma respinge e dimentica la realtà storica: i vecchi concetti
storici sono invalidati da nuove definizioni, da falsificazioni.
Significa sopprimere il passato stesso della società ed il suo futuro,
nella misura in cui il futuro invoca il mutamento qualitativo, la
negazione del presente.
Il linguaggio chiuso
non dimostra e non spiega, bensì comunica decisioni, dettati, comandi.
Descrivere ciò che
succede e quindi ciò che significa, cominciando con l’eliminare i
concetti capaci di comprendere ciò che succede, e ciò che significa.
Bisogna quindi
conservare e proteggere il diritto, il bisogno di pensare e parlare in
termini diversi da quelli dell’uso comune, densi di significato,
razionali, e validi precisamente perché sono diversi.
Le idee diventano oggi
solo ideali, e il loro carattere ascientifico indebolisce l’opposizione
alla realtà stabilita. I concetti vengono svuotati di senso:
Tutto è definito in base a concetti ed a
modalità di comportamento operazionali, funzionali al mantenimento ed al
rafforzamento del sistema. In tale situazione, persino il linguaggio
usuale ed il significato che in passato avevano determinati concetti
vengono ad essere svuotati di senso, privati del loro significato
originario ed assumono un nuovo senso, più consono alle richieste del
sistema – che cerca di evitare l’esplodere di conflitti sociali: i
concetti utilizzati vengono “depotenziati”, tradotti – letteralmente –
in maniera tale da renderli privi di tutto il loro potenziale critico,
ed infine rimessi in circolazione. In tal modo, concetto e parola
tendono a coincidere, o meglio il concetto tende ad essere assorbito
dalla parola. Il primo non ha altro contenuto che non sia quello
designato dalla parola nell’uso pubblicitario, standardizzato di questa,
né ci si aspetta che alla parola segua altra risposta che non sia il
comportamento standardizzato, proposto dalla pubblicità (reazione).
E un cambiamento c’è
stato nelle arti con l’avvento della società industriale avanzata.
In contrasto col
concetto marxiano, Marcuse parla di alienazione artistica, ovvero la
trascendenza (l’andare oltre l’universo costituito di discorso e azione,
verso le alternative storiche) consapevole dell’esistenza alienata,
un’alienazione mediata, di ordine superiore, che alimenta e protegge la
contraddizione, la coscienza infelice del mondo diviso. L’alienazione
artistica soccombe, insieme con altri modi di negazione, al progredire
della razionalità tecnologica. Si svuota la dimensione artistica,
vengono assorbiti i contenuti antagonistici. Nel regno della cultura il
nuovo totalitarismo si manifesta in un pluralismo armonioso, dove le
opere e le verità più contraddittorie coesistono pacificamente in un
mare di indifferenza. Le opere diventano strumenti pubblicitari, servono
a vendere, a confortare o ad eccitare.
L’esempio che fa il
filosofo tedesco è quello letterario: certe nozioni e immagini chiave
della letteratura, col progredire della razionalità tecnologica, si
vedono svuotate degli elementi di opposizione e trascendenza, che erano
insiti nella “alta cultura”, in contrapposizione con la realtà sociale.
Queste immagini sono state svuotate di forza sovversiva e di verità, e
così trovano posto nella vita quotidiana, diventando beni e servizi.
Soccombono di fatto al processo di desublimazione che prevale nei
settori avanzati della società contemporanea. Esprimevano una
alienazione metodica, cosciente, rispetto all’intero mondo degli affari
e dell’industria, e all’ordine sociale, oggetto di calcolo e di
profitto, che su di esso si reggeva. Un’altra dimensione confutava
l’ordine borghese: in letteratura quest’altra dimensione era
rappresentata non dagli eroi religiosi, spirituali, morali (che spesso
sostengono l’ordine stabilito), ma piuttosto da personaggi in un certo
senso sovversivi, come l’artista, la prostituta, l’adultera, il gran
criminale senza patria, il guerriero, il poeta-ribelle, il diavolo,
l’idiota – coloro che non lavorano per vivere, almeno non in modo
ordinato e normale. Personalmente penso anche ai pirati, storicamente
simbolo di una visione del mondo basata sui valori della libertà e
dell’uguaglianza, che ha sfidato le convenzioni a proposito di razza,
sesso, classe e nazionalità.
Questa letteratura è portatrice di una negazione dell’ordine
costituito non solo in quanto portatrice di rappresentazioni, personaggi
e situazioni che ne negano l’inevitabilità o che invocano possibilità
alternative, per quanto sconfitte, di organizzazione dell’esistenza; ma
perché in quanto “arte alta” rappresentativa della “alta cultura
dell’Occidente” attiva un processo di ordine estetico che ha a che fare
con la composizione, con la forma e con la bellezza, che è “promessa di
felicità” e che in quanto tale nega e contesta l’ordine storicamente
costituito. Nella sua incompatibilità estetica con il mondo
contemporaneo la grande arte espleta una funzione sovversiva e
liberatrice.
Le immagini provenienti
dalla sublimazione artistica perdono di validità, rappresentano una
forma di desublimazione, cioè la sostituzione di una gratificazione
mediata con una immediata; questa sostituzione viene praticata da una
posizione di forza da parte della società, che concede più cose perché i
suoi interessi si sono fusi con gli impulsi più intimi dei suoi
cittadini, perché le gioie che essa concede promuovono la coesione e la
contentezza sociali. Il progresso tecnico e una vita più confortevole
permettono di includere sistematicamente componenti libidiche nel regno
della produzione e dello scambio di merci. La gamma delle soddisfazioni
socialmente permesse e desiderabili è stata molto ampliata, ma per loro
tramite il principio di piacere viene ridotto. Grazie a questo processo
di adattamento, il piacere genera sottomissione.
In questo l’alta cultura: 1) si pone come “sublimazione”, cioè come
differimento, raffinamento e innalzamento del piacere, non in senso
repressivo e produttivo, ma in senso completamente e altamente
liberatorio, opponendosi al processo costante di “desublimazione” in
atto nell’asservimento costante dell’individuo al soddisfacimento
immediato di falsi bisogni mercificati;
2) si pone come alternativa “autentica” alla cultura di massa che
vanifica l’esperienza estetica commercializzandola e confondendola con
altre esperienze, e dunque pervertendola a un uso ideologico legato alla
circolazione delle merci, all’industria del divertimento e
dell’informazione, e dunque ai falsi bisogni repressivi, atti a indurre
falsa coscienza e comportamenti alienati e soddisfatti;
3) si pone in continuità con la “rivoluzione sessuale” e la
“liberazione dell’eros” attraverso la sua funzione ludica, al tempo
stesso gratuita e strutturata, legata appunto al recupero della libido e
dell’eros dalla sua repressione finalizzata a scopi produttivi.
L’esperienza estetica prodotta dall’arte alta e non mercificata,
così come la liberazione dell’eros e del desiderio, possono costituire
dunque i momenti di una dialettica negativa capace di produrre una forma
di passaggio alla prassi e una rivolta collettiva contro qualcosa di
intollerabile (la società amministrata e unidimensionale, il lavoro
salariato, la repressione dell’eros) in nome della felicità e della
libertà individuale. È l’apertura di uno spazio politico rivoluzionario
in cui possono esprimersi le innumerevoli forme di esistenza che si
affacciano sul palcoscenico della storia e chiedono legittimazione,
riconoscimento, e anche una vita felice.
Come restituire
all’arte valori antagonistici? Riprendendo Brecht, con l’effetto
d’estraniazione, per produrre una dissociazione con la quale il mondo
può esser riconosciuto per ciò che è. Le cose della vita quotidiana sono
tolte dal regno dell’evidenza ovvia, ciò che è naturale deve assumere i
caratteri dello straordinario.
Il principio di piacere
assorbe il principio di realtà, la sessualità viene liberalizzata in
forme socialmente ed economicamente costruttive, de-erotizzandosi; si
diffonde la libertà mentre si intensifica il dominio.
Si altera l’equilibrio
originario tra istinto di vita e istinto di morte, facendo sì che
quest’ultimo prevalga. La libido viene incanalata tutta nel lavoro, le
pulsioni distruttive restano slegate. Così il sottoprodotto della
civiltà basata sul principio di prestazione (della continua performance,
che si venga chiamati alla produzione, valutati in base al proprio grado
di produttività, in maniera del tutto irrelata alla necessità reale di
questa produzione) è l’aggressività permanente, la distruzione della
vita umana e della vita naturale.
Esempio di sessualità
sublimata/sessualità desublimata nella letteratura contemporanea: la
letteratura contemporanea è realistica, audace, priva di inibizione, fa
parte integrante della società in cui queste cose succedono, e non è mai
la sua negazione. Mentre di nessuna donna sessualmente attraente si dice
oggi ciò che scrisse Balzac di Ester, la prostituta: la sua tenerezza
fiorisce soltanto nell’infinito.
Sembra qualcosa di
fuori dal tempo, di irreale: questa per Marcuse è la caratteristica
delle immagini della letteratura romantica, che proprio perché fuori dal
tempo, sono vere, ovvero fuori da questo tempo.
La perdita di coscienza
dovuta alle libertà gratificanti concesse da una società non libera dà
origine ad una coscienza felice che facilita l’accettazione dei misfatti
di questa società. È un indice del declino dell’autonomia e della
comprensione. Codesta liberazione di sessualità e di aggressività libera
gli impulsi istintuali da gran parte dell’infelicità e dello scontento
che riflettono il potere repressivo dell’universo di soddisfazioni
stabilito. Ma esiste una diffusa infelicità, e la coscienza felice è
piuttosto precaria, è una crosta sottile che copre paura, frustrazione e
disgusto. E in molti modi quest’infelicità può venir trasformata in
fonte di forza e coesione dell’ordine sociale.
Questa società cambia
tutto ciò che tocca in una fonte potenziale di progresso e di
sfruttamento, di fatica miserabile e di soddisfazione, di libertà e
oppressione.
Il rischio di
distruzione prodotta dall’uomo è diventato un elemento normale
nell’organizzazione mentale come in quella materiale degli uomini, di
modo che non può servire per porre sotto accusa o confutare il sistema
sociale stabilito.
Questa società, anche
attraverso la desublimazione istituzionalizzata, assorbe l’opposizione
nel regno della politica e dell’alta cultura, così come nella sfera
degli istinti: il risultato è l’atrofia degli organi mentali necessari
per afferrare contraddizioni ed alternative, e nella sola dimensione che
rimane, quella della razionalità tecnologica, la coscienza felice giunge
a prevalere. Essa riflette la credenza che il reale è razionale, e che
il sistema stabilito, nonostante tutto, mantiene le promesse.
Nella misura in cui la
società stabilita è irrazionale, l’analisi in termini di razionalità
storica introduce nel concetto l’elemento negativo – la critica, la
contraddizione, la trascendenza. Questo elemento non può venire
assimilato al positivo, cambia il concetto nella sua interezza, nel suo
intento e validità.
In tal modo,
nell’analisi di un’economia che opera come un potere indipendente al di
sopra degli individui, le caratteristiche negative (sovrapproduzione,
disoccupazione, mancanza di sicurezza, spreco, repressione) non sono
afferrate finché appaiono semplicemente come sottoprodotti più o meno
inevitabili, come l’altro aspetto della storia della crescita e del
progresso illimitato.
Questa conoscenza
dell’altro aspetto è parte integrante di quella solidificazione delle
circostanze della grande unificazione degli opposti che ostacola ogni
cambiamento qualitativo, perché attiene ad un’esistenza del tutto senza
speranza o del tutto condizionata che ha costruito la propria casa in un
mondo dove persino l’irrazionale è Ragione. La tolleranza del pensiero
positivo è tolleranza imposta dalla potenza ed efficienza (schiaccianti
e anonime) della società tecnologica. Come tale, essa permea la
coscienza di tutti. L’assorbimento del negativo da parte del positivo è
convalidato dall’esperienza quotidiana, che offusca la distinzione tra
apparenza razionale e realtà irrazionale. Ecco alcuni esempi banali del
processo di armonizzazione in corso, che dimostrano la felice unione del
positivo e del negativo, è ambiguità oggettiva.
Cosa c’è di sbagliato
nella razionalità del sistema? È la maniera in cui gli uomini hanno
organizzato il loro lavoro in società. E quest’organizzazione sbagliata,
nel diventare totalitaria a causa delle sue forze interne, rifiuta le
alternative. Certo non è del tutto naturale che i tangibili benefici del
sistema siano considerati degni di essere difesi: ciò appare naturale
solo ad un modo di pensare e di comportarsi che non è incline e forse è
incapace di comprendere ciò che avviene e perché avviene; un modo di
pensare e di comportarsi che è immune da ogni forma di razionalità che
non sia la razionalità stabilita. Pensiero e comportamento esprimono una
falsa coscienza, che si adatta e contribuisce a mantenere un ordine dei
fatti in autentico. Questa falsa coscienza è ormai incorporata
nell’apparato tecnico dominante, che a sua volta la riproduce.
Noi viviamo e moriamo
in modo razionale e produttivo; sappiamo che la distruzione è il prezzo
del progresso, così come la morte è il prezzo della vita; che rinuncia e
fatica sono condizioni necessarie del piacere e della gioia; che
l’attività economica deve proseguire, e che le alternative sono
utopiche. Questa ideologia appartiene all’apparato stabilito della
società, è un requisito del suo regolare funzionamento, fa parte della
sua razionalità.
La gestione scientifica
e la divisione scientifica del lavoro hanno aumentato largamente la
produttività delle iniziative economiche, politiche e culturali.
Risultato: un più alto tenore di vita. Nello stesso tempo e per le
stesse ragioni, questa impresa razionale ha prodotto un modo di pensare
e comportarsi che ha giustificato ed assolto anche le più funeste ed
oppressive caratteristiche da essa palesate. La razionalità
tecnico-scientifica e la manipolazione si sono saldate insieme in nuove
forme di controllo sociale: ciò è il risultato di una specifica
applicazione della scienza da parte della società.
La filosofia dovrebbe
diventare terapeutica: affrancando il pensiero dal suo asservimento
all’universo stabilito di discorso e di comportamento, espone la
negatività dell’establishment
e progetta le sue alternative.
Usare la tecnologia che
oggi distrugge per la pacificazione, la tecnologia come fine per
l’esistenza pacificata, per il libero sviluppo dei bisogni e delle
facoltà umani: questi concetti per Marcuse si possono definire
empiricamente nei termini delle risorse e capacità disponibili,
intellettuali e materiali, e del loro uso sistematico allo scopo di
moderare la lotta per l’esistenza. Questo è il fondamento oggettivo
della razionalità storica.
La scienza dovrebbe
diventare politica. I valori dovrebbero diventare bisogni: sarebbe un
nuovo stadio nella conquista delle forze oppressive, è un atto di
liberazione, in cui la costruzione, lo sviluppo e l’utilizzazione delle
risorse materiali ed intellettuali sono liberate da tutti quegli
interessi particolari che impediscono la soddisfazione dei bisogni umani
e l’evoluzione delle facoltà umane.
Arte e tecnologia
finiscono per convergere, in un certo senso, strumenti di pacificazione,
organi dell’arte di vivere.
Oggi, nel prosperoso
stato della guerra e del benessere, le qualità umane tipiche di
un’esistenza pacifica sembrano asociali e antipatriottiche: qualità come
il rifiuto di ogni durezza, cameratismo e brutalità; la disobbedienza
alla tirannia della maggioranza; il far professione di paura e debolezza
(la reazione più razionale a questa società!); un’intelligenza sensibile
nauseata da ciò che viene perpetrato; l’impegno in azioni, di solito
deboli e poste in ridicolo, di protesta e di rifiuto.
La solitudine, la
condizione stessa che sosteneva l’individuo contro ed oltre la sua
società, è divenuta tecnicamente impossibile: questo aspetto della sfera
privata – la sola condizione che, quando i bisogni vitali siano stati
soddisfatti, può dare
significato alla libertà e all’indipendenza di pensiero – è diventata da
tempo la più dispendiosa delle merci. Per questo, del resto, la cultura
rivela le sue origini e limitazioni feudali: può cioè divenire
democratica solo a mezzo dell’abolizione della democrazia di massa,
ovvero solo se la società sarà riuscita a ristabilire le prerogative
della sfera privata consentendole a tutti e proteggendole per tutti.
Il requisito soggettivo
primario è la ridefinizione dei bisogni.
Esempio: l’assenza di
pubblicità e degli altri mezzi di informazione e indottrinamento. Se
tutto si spegnesse, l’individuo precipiterebbe nel vuoto traumatico, in
cui poter farsi domande, pensare, conoscere se stesso (o la negazione di
sé). Sarebbe insopportabile. Mentre la gente può sopportare la
produzione di armi nucleari, di pioggia radioattiva, di alimenti
“discutibili”, essa non può tollerare di essere privata del
trattenimento e dell’educazione che la rende capace di riprodurre i
meccanismi predisposti per la sua difesa e per la sua distruzione.
L’arresto della
televisione e degli altri media potrebbe contribuire a provocare ciò che
le contraddizioni inerenti al capitalismo non provocarono, ovvero la
disintegrazione del sistema.
Marcuse spesso nel
testo fa riferimento alla pubblicità: quando parla del linguaggio, dice
che sono proprio gli agenti pubblicitari a dar forma all’universo di
comunicazione in cui il comportamento unidimensionale si esprime.
L’accorciamento della sintassi, che taglia lo sviluppo del significato,
creando immagini fisse che si impongono con concretezza sopraffattoria e
pietrificata, è la tecnica tipica dell’industria pubblicitaria.
Nel parlare il suo
proprio linguaggio, la gente parla il linguaggio dei suoi padroni, degli
agenti pubblicitari, non esprimendo solo se stessi, le proprie
conoscenze, sentimenti e aspirazioni, ma anche qualcos’altro diverso da
sé Descrivono ciò che i media della comunicazione di massa gli dicono, e
questo si confonde con quanto vedono e sentono realmente. Per
descriverci dobbiamo usare i termini della pubblicità, dei film, dei
politici, dei bestsellers. Ciò che gli individui intendono quando dicono, si
collega a ciò che essi non dicono. Oppure ciò che intendono non può
essere preso alla lettera, non perché mentano, ma perché l’universo di
pensiero e di pratica in cui vivono è un universo di contraddizioni
manipolate.
E il Gruppo Marcuse da
ciò parte nella sua analisi:
Oggi la pubblicità si
impone ovunque, e poiché la natura del prodotto (le sue qualità reali, le sue possibili
implicazioni) e la sua storia (dove, quando e da chi è stato fabbricato)
potrebbero provocare il disgusto del potenziale cliente, la pubblicità
ha il ruolo di occultare questi dati. Lo scopo non è informare, bensì
creare desiderio, attribuendo un interesse a prodotti o marche che
talvolta non ne hanno alcuno. Nell’economia moderna, dove la
sovrapproduzione ha raggiunto il suo apice, i clienti non cercano i beni
di cui hanno bisogno: al contrario, essi sono perseguitati dalle merci.
Bisogna allora formattarli, trasformarli in “consumatori”.
Alcuni manager sono
addirittura arrivati a immaginare di creare biologicamente una “nuova
razza di superconsumatori”.
Ma è la
televisione, considerata dai
consumatori, che la guardano in media più di tre ore al giorno, il mezzo
di comunicazione “più convincente”, a essere eletta plebiscitariamente
dall’elite industriale come il mezzo d’imbecillimento più appropriato ai
loro fini. Come ben dice il direttore del più potente canale televisivo
francese: “Fondamentalmente, il mestiere di TF1 è, ad esempio, aiutare
la Coca-Cola a vendere il suo prodotto. Per far sì che il messaggio
pubblicitario sia percepito, è necessario che il cervello del
telespettatore sia disponibile. La vocazione delle nostre trasmissioni è
proprio quello di creare tale disponibilità: facendo divertire il
telespettatore, rilassandolo e preparandolo nello spazio tra due
messaggi. Ciò che vendiamo alla Coca-Cola è tempo di cervello umano
disponibile”.
Un inquinamento
pluridimensionale che non ha altro scopo se non quello di provocare il
consumo di prodotti industriali, cioè la
matrice di tutti gli inquinamenti. In questo senso la pubblicità è
l’inquinamento degli inquinamenti.
L’emergere della
pubblicità deriva dunque da una triplice necessità della grande
industria:
1.Dominare
il mercato nazionale per garantirsi di vendere, al di là dei consueti
circuiti locali, le immense quantità prodotte. Cosa niente affatto
evidente, dato che il “mercato” ormai non è più un insieme concreto di
clienti più o meno conosciuti, ma una massa astratta di consumatori
lontani. Perciò diventa indispensabile spendere somme considerevoli per
accattivarsi questi sconosciuti attraverso i mezzi di comunicazione
moderni, che hanno precisamente il “vantaggio” di rivolgersi alle
“masse”.
2.Smerciare
i prodotti secondari o residuali derivati dai nuovi processi industriali
e innanzitutto dalla produzione
continua. Prendiamo ad esempio la produzione dei fiocchi d’avena
negli Stati Uniti. La produzione di questo alimento, tradizionalmente
riservato agli animali, si è rivoluzionata dal 1880 grazie a nuove
macchine che permesso (di fatto, imposto) la trasformazione di quantità
di avena talmente rilevanti che è stato necessario
inventare un nuovo mercato per
vendere gli avanzi e rendere redditizi gli investimenti. Ed è stato così
che sono comparsi i cereali per la prima colazione, la cui diffusione è
stata sostenuta dalla pubblicità e dalle autorità scientifiche, sulle
quali l’industria può sempre contare per cooperare “all’educazione delle
masse”, spacciata come salute pubblica. Seguiranno altri cereali a base
di grano o mais, o ancora gli alimenti per neonati: tutti prodotti nati
dalla nuova produzione industriale che andranno progressivamente
sostituendosi ai consumi abituali della popolazione. Allo stesso modo la
Procter & Gamble, per
utilizzare appieno i suoi stabilimenti di produzione di sapone, si è
lanciata nella fabbricazione di detersivi, olii detergenti e tante altre
cose che un tempo la gente si procurava diversamente, spesso attraverso
procedimenti domestici di recupero e trasformazione. Recentemente,
seguendo la stessa logica, si è cercato di evitare le perdite
finanziarie legate alla non utilizzazione dei resti delle carcasse. Così
l’industria agroalimentare le ha trasformate in “farine animali”
destinate a nutrire un bestiame abitualmente non carnivoro. Non sono
solo le mucche a essere “pazze”, ma anche gli industriali, presi in un
sistema che li obbliga ad adottare procedimenti sempre più deliranti al
fine di mantenere il loro tasso di profitto.
3.Differenziare
e valorizzare prodotti industriali che hanno in comune soltanto la
qualità scadente. Le nuove tecniche di produzione effettivamente
implicano una considerevole standardizzazione dei beni di consumo
corrente. La missione dei pubblicitari è allora quella di distinguere,
agli occhi dei consumatori, merci che in realtà nulla ormai distingue.
Come loro stessi dichiarano, in un mondo di «beni equivalenti conta il
fattore psicologico, ovvero è con le tecniche di persuasione che il
produttore può aspirare a una differenziazione che valorizzi e spinga
all’acquisto». Si tratta cioè di creare un «valore immaginario aggiunto
senza il quale i prodotti non sarebbero quello che sono».
In fondo la pubblicità
è semplicemente l’industria che
promuove l’industria. La sua prima funzione è quella di promuovere
il consumo di prodotti industriali e di sostituirsi ai costumi popolari
tradizionali. Le bibite sostituiscono l’acqua; la cucina casalinga è
rimpiazzata da piatti incellofanati, la cui mancanza di sapore viene
appena mascherata dall’abbondanza di additivi cancerogeni.
L’emergere della
pubblicità coincide quindi con l’ingresso in una nuova era del
capitalismo, un’epoca di compimento del sistema. L’accumulazione
capitalistica, basandosi sulla produzione di massa, non poteva
continuare a esistere se non colonizzando ogni dimensione dell’esistenza
sociale e individuale. Così l’imperativo a produrre sempre di più si è
ben presto tradotto nell’imperativo a consumare sempre di più.
A partire dalla crisi
del 1929 il consumo di massa è stato elevato, in tutte le economie
industriali, a imperativo civico.
In effetti l’iperconsumo è diventato indispensabile al movimento
espansivo delle nostre economie. Globalmente un tale sistema economico
si mantiene soltanto se le popolazioni consumano in misura sempre
maggiore la stessa merce, oppure creando nuovi prodotti capaci di
sviluppare nuove attività convertibili in denaro e lucrative. La
commercializzazione di nuovi aspetti delle attività sociali e umane, che
oggi suscita tanta indignazione, è necessariamente inscritta nella
dinamica capitalistica.
Siamo prigionieri di un
meccanismo infernale. La natura di tale sistema spinge costantemente la
società verso il baratro, o piuttosto la vuole mantenere artificialmente
sempre sull’orlo.
La pubblicità era
presente anche in urss,
anche se molto meno che negli Usa. Nel 1970 gli investimenti
pubblicitari raggiungevano appena quelli dell’Italia. A causa del
delirio pianificatorio, certi prodotti mancavano drammaticamente, mentre
altri erano fabbricati in sovrabbondanza. Per favorirne lo smercio si
faceva ricorso alla pubblicità come in tutti i Paesi industrializzati.
Così facendo, il
“socialismo”, non ha mai messo in discussione l’imperativo categorico
del produrre di più o quello di sfruttare uomini e natura.
Il capitalismo ha
saputo promuovere meglio l’accumulazione della ricchezza: è riuscito a
vendere il comfort materiale: ecco dunque cosa è apparentemente riuscito
a soffocare i vari progetti di emancipazione elaborati nella prima metà
del xx secolo, di cui le
rivolte del ’68 e quelle degli anni seguenti appaiono gli ultimi echi.
La pubblicità è uno dei pilastri della società capitalista. Ed è
diventata progressivamente un settore produttivo a sé stante, nonostante
si abbia l’impressione che non produca niente. In effetti forse crea
proprio l’essenziale: l’incessante rinnovamento del desiderio di
comprare. Il che è fondamentale per il mantenimento dell’attuale ordine
sociale, in quanto spinge al conformismo della psuedodistinzione e
all’abbandono di ogni pratica autonoma tipica della vita tradizionale,
formattando e delimitando l’immaginario degli individui.
Christine Frederick
formulava così nel 1929:
Consumptionism è il nome della nuova teoria. È comunemente accettato al giorno d’oggi
che si tratta dell’idea migliore che l’America potesse offrire al mondo,
l’idea che le masse lavoratrici […] possano essere considerate anche
come consumatrici. […] Pagarle
di più per vender loro di più e trarne così maggior profitto, ecco come
bisogna ragionare (Selling Mrs.
Consumer).
Questa “grande idea”
avrebbe avuto ripercussioni ben più profonde, in quanto implicava di
fatto una nuova concezione
dell’essere umano e dell’ordine sociale.
Tuttavia la testa
d’ariete della guerra contro le tradizioni culturali è la televisione,
in particolare le sue divertenti serie televisive. Mettendo in scena la
vita moderna di famiglie benestanti, queste fanno sognare un nuovo stile
di vita. Se si chiamano
soap-operas è perché i fabbricanti di detersivi, saponi e cosmetici
hanno direttamente partecipato alla loro realizzazione. La Procter &
Gamble, considerata una vera scuola di pubblicità, ha interamente
finanziato Beautiful. Dal
lavaggio dei vestiti a quello del cervello il salto è breve.
La pubblicità è una
componente logica dello spazio artificiale nel quale accettiamo di
vivere, in quanto vi s’inserisce naturalmente, è ovunque.
La pubblicità,
instillando continuamente la certezza che non c’è un altro mondo
possibile, o desiderabile, e mascherando l’ampiezza del disastro,
disinnesca tutto ciò che potrebbe condurre a una contestazione del mondo
industriale. Ma fa di più: canalizza lo scontento che tutto questo
provoca in svariati sfoghi commerciali che favoriscono il suo stesso
sviluppo (viaggi ai tropici, calmanti, palestre, gioco d’azzardo…), e
così via qualunque tipo di riflessione sulla vita che siamo costretti a
vivere. Terry Gilliam, nel film
Brazil, l’aveva capito: al di là delle sue pretese commerciali, la
pubblicità è una vera e propria propaganda.
«Nell'epoca del
suo dominio totalitario, il capitalismo ha prodotto la sua nuova
religione: lo spettacolo». Il sistema pubblicitario è solamente il
vettore più manifesto di questa contemplazione medusea provocata dalla
vita autonoma di un'economia che si rivela mortale per ogni vita
decente. Criticarla è la condizione preliminare di ogni altra critica
sociale. Preliminare, perché bisogna essersi già liberati di questo
contesto di accecamento per poter aprire gli occhi sul mondo immondo
generato dalla crescita mercantile. Ma solo preliminare, perché una
volta rotto l'incantesimo resta da ricostruire, negli interstizi e sulle
rovine della devastazione, un mondo umano. Ciò che è infame ha cambiato
maschera, ma la parola d'ordine di Voltaire non ha perduto nulla della
sua attualità: «Schiacciate l'infame!».
Il Gruppo Marcuse fa
parte del filone dei movimenti antipubblicità e per la decrescita. E lo
stesso Marcuse pare essere precursore della decrescita, alla fine del
testo.
La sconfitta della
scarsità, limitata ancora a piccole zone della società avanzata, ha le
armi per bloccare la liberazione: in gran parte è la gran quantità di
beni, servizi, lavoro e svago nelle regioni super sviluppate che porta a
questo blocco. Di conseguenza, il cambiamento qualitativo sembra
presupporre un cambiamento quantitativo nel tenore di vita avanzato di
vita, vale a dire una riduzione del sovrasviluppo.
Con gli occhi di oggi, il punto di forza del discorso di Marcuse
consiste proprio nella
capacità di rintracciare nuovi soggetti che vogliono autocomprendersi
come sottoposti a dominazione, e intravedono la possibilità di spezzare
le catene di classe, di genere, di etnia, di religione e di quant’altro
li lega all’esistente. […] Tuttavia, al di sotto della base popolare
conservatrice vi è il sostrato dei reietti e degli stranieri, degli
sfruttati e dei perseguitati di altre razze e di altri colori, dei
disoccupati e degli inabili. Essi permangono al di fuori del processo
democratico; la loro presenza prova come non mai quanto sia immediato e
reale il bisogno di porre fine a condizioni e situazioni intollerabili.
Perciò la loro opposizione è rivoluzionaria anche se non lo è la loro
coscienza. La loro opposizione colpisce il sistema dal di fuori e quindi
non è sviata dal sistema; è una forza elementare che viola le regole del
gioco, e così facendo mostra che è un gioco truccato. […] Il fatto che
essi incomincino a rifiutare di prendere parte al gioco può essere il
fatto che segna l’inizio della fine di un periodo.
E c’è una rivalutazione del
lumpenproletariat reazionario di Marx, quello straccione, come
possibile agente rivoluzionario, proprio in virtù della sua estraneità
al sistema produttivo cui invece è aggiogato il lavoro, e rivalutazione
di tutte quelle contraddizioni “soggettive” e di tutti quei conflitti e
antagonismi che il marxismo istituzionale considerava secondari e la cui
risoluzione rimandava al mondo post-rivoluzionario.
Il valore universalistico del progetto marcusiano di liberazione
globale dal lavoro e dal ‘mercato’ multiculturale delle identità come
consumer options ricontenute
all’interno del mondo tecnologico-industriale, si esprime
vitalisticamente nel paragrafo finale e nella citazione finale: «È solo
a favore dei disperati che ci è data la speranza», scrive citando
Benjamin. Per questo motivo non considero Marcuse pessimista: la
disperazione è rivoluzionaria.
Accanto a questi attori si dispongono nuove forze e soggetti
emergenti: le forze anti-imperialiste e anticolonialiste nel mondo; le
forze sociali rivoluzionarie che si oppongono tanto allo sviluppo
capitalistico quanto alle forme di prassi politica e rivoluzionaria
codificate; quelle che a vario titolo oppresse non accettano
l’esistente, come i nuovi movimenti sociali, il movimento per i diritti
civili e il movimento degli studenti. Questi «permettono a Marcuse di
abbozzare una forma di opposizione che in qualche modo può rimettere in
movimento la dialettica. E può permettere di ricostruire su nuove basi
una teoria della rivoluzione», di un progetto rivoluzionario concreto
che consiste nel costruire delle pratiche minoritarie che faranno
esistere gli uomini e le donne del divenire, andando coraggiosamente
verso le cose possibili.
DICEMBRE 2012
[1]
Miguel Benasayag, Gérard Schmit,
L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Roma 2004.
[2]
Herbert Marcuse, Eros e Civiltà,
Einaudi, Torino 2001.