DEMOCRAZIA DI OGGI E
NUOVE FORME DELLA POLITICA
A cura
della Redazione
L’articolo seguente è il
riporto dei tre interventi introduttivi all’assemblea “Democrazia di
oggi e nuove forme della politica”, tenutasi al Dada (Dipartimento
Autogestito Dell’Alternativa), spazio occupato nella Federico
II di Napoli, il 23 Marzo 2012, alla quale abbiamo partecipato come
rivista.
Giulio Trapanese
Pensavo di incentrare il mio intervento
su tre questioni. La prima che presta attenzione alla svolta epocale di
questi nostri tempi, legata alla nuova rivoluzione industriale e cioè
alle nuove tecnologie informatiche; la seconda che riguarda la
discussione vera e propria sulla democrazia in relazione a ciò che si
può imparare dai movimenti del 2011, la primavera araba,
Indignados,
Occupy; ed in fine la terza che riguarda lo sforzo di individuare,
in base a quanto detto nelle prime due parti, se esista una possibilità
per una nuova forma di democrazia nelle condizioni odierne in cui questi
stessi movimenti si stanno manifestando.
Mi sto occupando delle trasformazioni
che negli ultimi decenni subisce la percezione temporale della nostra
esperienza; si tratta d’un tema non originale, visto che sono in
parecchi che si stanno ponendo queste tipo di domande a diversi livelli
e in particolare su di un piano storico-antropologico. Cito a tal
proposito un’intervista a Marc Augé, uscita recentemente sulla
Repubblica, che si pone la domanda sulla prospettiva temporale nella
nostra percezione, la scomparsa del futuro e del passato, e la
stazionarietà della nostra esperienza in un perpetuo presente. Per
quanto il suo articolo non pervenga a conclusioni propositive
condivisibili, esso tratta un tema di ricerca che probabilmente sarà
proficuo anche per i prossimi anni.
In questo capitolo rientra il tema della
natura dell’evoluzione delle nostra società capitalistica negli ultimi
anni. In altre discussioni ho provato a definire la fase attuale come
quella del “capitalismo post-umano”, fondato cioè sul rapporto mutato,
negli ultimi vent’anni, fra l’uomo, la natura e la tecnica. Uno degli
aspetti fondamentali della mutazione di questo rapporto riguarda il
tempo. L’accelerazione impressa dai nuovi mezzi di comunicazione
elettronici (informazione, comunicazione, lavoro), sta conducendo alle
estreme conseguenze un fenomeno, per altro già innescato da tempo, che è
quello della perdita della memoria (dei fatti storici e di noi stessi),
perché in sintesi per quanto possiamo illuderci che la moltiplicazione
dell’esperienza che noi viviamo tutti i giorni, attraverso l’utilizzo
dell’informatica in senso lato, rappresenti un allargamento delle
possibilità, in realtà essa costituisce piuttosto un impoverimento
dell’esperienza sensibile, anche in termini corporali. Legherei questo
aspetto del tempo alla questione della memoria: l’assenza di una
capacità ritentiva della realtà nel soggetto. Credo che la memoria ci
consenta di oggettivarci e fondare, in qualche modo, la nostra identità.
Nel momento in cui la memoria, invece, è affidata ad elementi terzi,
come le macchine, la nostra individualità finisce per rapportarsi
temporalmente in modo assolutamente diverso alla realtà. Credo che la
scomparsa della memoria, abbia a che fare, come scrivono Augé ed altri,
sia con la scomparsa della dimensione del passato che con quella del
futuro. D’altro canto a questo tipo di scomparsa del tempo è legata
anche la trasformazione della nostra esperienza dello spazio, anche qui
connessa ad un’illusione di estensione dello spazio, l’illusione di
Google che amplia la mappatura
e la disponibilità del campo che noi abbiamo in ogni istante a
disposizione per individuare e collocare i fatti del mondo, contrapposta
ad una realtà in cui l’esperienza dello spazio è profondamente deformata
dal fatto di non essere più radicata in un luogo preciso. Venendo meno
lo spazio in cui si manifesta la nostra fisicità, viene meno la
possibilità quantitativamente limitata ma qualitativamente proficua di
esperienza.
Credo che questi aspetti di spazio e
tempo, per come si sono modificati e come si andranno a modificare per
almeno i prossimi 15-20 anni, portino sicuramente a cambiare il nostro
concetto di appartenenza, che rappresenta il primo di due poli della
trasformazione degli individui rispetto alla società e quindi della
possibilità stessa oggi di parlare di democrazia. Perché senza memoria e
senza possibilità di circoscrivere un’esperienza in una dimensione
spaziale definita, diventa impossibile parlare di appartenenza allo
stesso modo di come se ne parlava prima. Non c’è più la capacità di
consolidare una proiezione di sé in un arco temporale e di sentirsi
legati e dipendenti ad un certo ambiente.
L’altro polo della questione che ha
subito forti cambiamenti è quello che riguarda la trasformazione del
lavoro e del concetto stesso di lavoro. Non parliamo tanto del fatto che
la disoccupazione stia aumentando, ma di un cambiamento inerente proprio
la natura del lavoro nella terza rivoluzione industriale, in cui,
sostanzialmente, si tratta di un lavoro con la macchina informatica, che
non trasforma più la materia lavorata, ma che semplicemente relega il
ruolo umano alla gestione e controllo di un lavoro fatto da macchine
informatiche.
Questo fenomeno a cui non voglio dare un
segno necessariamente positivo o negativo (certamente ha anche risvolti
positivi), cambia in effetti la natura della discussione di cosa sia
stato tradizionalmente il lavoro e quello che ha significato come
attività trasformatrice, cioè come quella capacità della società in
genere di rapportarsi alla natura riuscendo, in qualche modo, a
comprenderla. Tanto in epoca pre-industriale, quanto in epoca
industriale, in ogni caso, riusciamo a riconoscere un atteggiamento
trasformativo del lavoro rispetto alla natura. Questo è importante non
tanto per fare un’analisi del lavoro in quanto tale, ma per riconoscere
nel lavoro, inteso come attività, la possibilità di una storicità delle
nostre azioni in una società. Perché essere stati capaci di “dominare”
in qualche modo la natura ci ha dato la capacità di immaginare di poter
trasformare la società stessa. In quest’ottica diventa interessante
focalizzare l’attenzione sulle trasformazioni del lavoro negli ultimi
anni, trasformazioni per cui adesso il lavoro non riesce più a
riconoscersi come attività trasformatrice e, di conseguenza, l’individuo
più che come produttore è costretto ad identificarsi quale semplice
consumatore. Il consumatore non trasforma ciò che utilizza, ma
semplicemente lo consuma, nel senso che il proprio rapporto con la
realtà diventa passivo e non più attivo e allo stesso tempo legato tutto
al presente, all’immediatezza del consumo e dell’espressione di una
pulsione.
Questi due poli, quello
dell’appartenenza, o meglio della rottura di un legame di appartenenza
(tanto l’appartenenza ad un contesto di classe, quanto quella ad un
contesto politico) e l’altro della storicità, sono approdati oggi ad una
rottura, producendo l’individualizzazione della soggettività, che
risulta altresì disgregata. Detto meglio, la scomparsa
dell’appartenenza, da un lato, e della storicità, dall’altro,
strutturano un Io contemporaneo fondato su un egocentrismo pulsionale.
L’Io di oggi, non riuscendo ad oggettivarsi in nulla fuori di sé, è
dominato dagli istinti del momento, incapace di consolidare un progetto
trasformativo o un progetto collettivo di partecipazione e di impegno in
quello che sta vivendo.
Parlare di democrazia può diventare
ancora più astratto se il discorso non si colloca nella società reale,
in quello che accade nel presente, al di là delle forme delle
istituzioni politiche, presente che è, tra l’altro, esso stesso in
rivoluzione accelerata.
Ci sono delle cose interessanti che
stanno uscendo su questi aspetti fin qui analizzati, la posizione di
Marc Augé, il libro di Diego Fusaro (Essere
senza tempo). Io credo, però, che questo stato delle cose da cui
possiamo partire per discutere della possibilità di nuove forme di
democrazia, ci metta abbastanza in guardia dal poter credere che la
democrazia possa essere oggi semplicemente restaurata. Penso che bisogni
imparare da ciò che sta accadendo, dalla nostra esperienza politica in
particolare, partendo da quello che politicamente e socialmente è
accaduto negli ultimi anni. Lo sfondo al quale mi riferisco è quello dei
movimenti del 2011, quello degli studenti, ma anche quello dei
referendum, quello degli
Indignados e degli Occupy che è ancora attivo. Perché questi movimenti ci segnalano
delle trasformazioni che non sono superficiali e che ci pongono, a mio
parere, tre domande, alle quali adesso cercherò di dare delle risposte.
La prima domanda è se su questa base in
cui si sono disarticolate le forme di aggregazione, le ideologie
tradizionali e le forme politiche come quelle dei partiti (processo che
utilizzando un termine alla moda si può schematicamente descrivere come
la liquefazione della società) sia ancora possibile immaginare una
possibilità concreta per la democrazia. Se da un lato è vero che il
nichilismo in cui è piombata la società a partire dal post anni
settanta, apre delle possibilità positive, liberando energie, è anche
vero che non c’è speranza, dal mio punto di vista, di riformare un’idea
di adesione e partecipazione ad un qualcosa che ci contiene senza
immaginare nuovi collanti fra gli individui. Nuovi collanti, nuovi
valori o nuove forme di condivisione sociale tali per cui gli individui
siano in grado di superare se stessi, di trascendersi in un’opera più
grande, al di là del proprio Io.
La seconda delle domande che propongo
riguarda le forme in cui si sono manifestati i movimenti che si sono
visti in questi anni, forme che rappresentano un tentativo di
compensazione della disgregazione della società, mediante strumenti
tecnici quali la rete, considerata come il tentativo di ricostituire
forme di comunità, di comunione, condivisione e organizzazione. Esse,
tuttavia, vanno a sostituire le forme tradizionali di aggregazione che
sono nel frattempo venute completamente a mancare. In passato avevo
pensato ad internet come a qualcosa che si andasse semplicemente ad
aggiungere a quanto c’era già in campo, mentre ora sembra evidente che
internet si pone quale surrogato delle forme tradizionali attraverso le
quali la politica si praticava. Questo fatto, l’irruzione di internet in
sostituzione di ogni altra forma determina un cambiamento nella qualità
dei rapporti umani. Dunque la domanda se internet può riunire ciò che è
stato separato, dal mio punto di vista, ha una risposta negativa. Questo
perché internet esprime comunque una preminenza della rappresentazione
sull’esperienza della vita sociale che ognuno di noi può fare.
La terza domanda è, invece, se sia
ancora possibile la democrazia rappresentativa in questa società.
La questione si fa complessa. Penso che
quando parliamo di democrazia sia necessario contestualizzare ciò di cui
si parla. La democrazia che esiste oggi in Italia, e in altre società
occidentali, è di tipo rappresentativo, con tutto ciò che questo può
significare in termini sia positivi che negativi. Nei fatti però questa
democrazia nasceva in un momento in cui c’era una possibilità di
rappresentatività. La rappresentatività ha senso se esiste, in qualche
modo, un’appartenenza ad un’ideologia, ad un partito, ad una corrente
culturale definita con una sua solidità, tale per cui io possa sentirmi
rappresentato. Questa forma democratica è dunque legata ad una certa
struttura sociale nella quale esistono legami oggettivi fra
rappresentati e rappresentanti. Nel momento in cui la società, come fin
qui descritta, subisce trasformazioni che fanno saltare certe
corrispondenze è difficile immaginare che la democrazia nella sua
vecchia forma possa ancora conservare un senso. Da questo punto di vista
non si può più parlare di rappresentatività ma solo di pura
rappresentazione, in un contesto in cui la politica è separata dalla
società e autonomamente professionalizzata. In più aggiungo che c’è una
questione strutturale, in quanto la democrazia ha bisogno di una sua
architettura, ha bisogno di forme concrete. Ad esempio la revocabilità
delle cariche, così come la turnazione dei soggetti, vanno architettate
e necessariamente formalizzate. Così come bisogna avere un’idea di come
possa svilupparsi il dibattito pubblico, la circolazione delle
informazioni, la possibilità sociale di avere i medesimi mezzi per
partecipare alla politica. E va pensato il modo in cui possa esserci il
tempo per poter discutere delle questioni che attengono la vita
associata.
La questione del tempo ritorna, perché
nella società dell’accelerazione elettronica, di fatto non è previsto il
tempo necessario alla discussione e la formazione di opinioni sui fatti.
Abbiamo visto come nell’economia globalizzata e finanziarizzata dello
spread, in realtà si sia
sospesa qualsiasi forma di rappresentatività sociale delle istituzioni
che, a livello centralizzato, determinano le politiche economiche degli
stati, senza che sia possibile nessuna elezione e nessuna discussione.
Se tutto è così veloce ed instabile la democrazia semplicemente non è
possibile. Essa ha bisogno di stabilità.
In questo quadro mi chiedo quali possono
essere i punti di fuga possibili. E penso che la storia possa ripartire
solo a costo di un rallentamento della velocità complessiva con la quale
ormai percepiamo una realtà (letteralmente) sempre più sfuggente. Questa
necessità di rallentamento potrebbe significare tante cose. Tuttavia la
possibilità della democrazia, se questa possibilità ancora esiste, deve
passare attraverso una base strutturale differente. In questo contesto
di sviluppo del capitalismo, con una tecnicizzazione dell’esperienza
umana, non c’è democrazia se non rallentando, decomplessificando la
realtà, trasformando, cioè, il regime imposto dal commercio mondiale.
Questa decomplessificazione significa
decostruire la provincializzazione del mondo per cui tutto ha una sua
funzione specifica in relazione ad un centro, che solo essendo
immateriale, può essere un centro per tutti. E questo possibilità della
democrazia potrà darsi solo passando attraverso un nuovo rapporto con la
natura, che equivale a dire un nuovo rapporto con noi stessi, come parte
della natura, nel senso di una società capace di ridiscutere il proprio
tipo di uso di risorse energetiche, di interconnessione, di
accelerazione, nella coscienza che questa tipologia di società non può
essere considerata come durevole e quindi come la società del futuro. Si
tratta di cercare di essere generosi con il nostro futuro così come il
nostro passato lo è stato con noi, immaginando come potrà essere il
futuro di una società siffatta, in modo da poter capire come evitare
questo futuro, facendo un passo indietro rispetto alla situazione
attuale e le sue possibili proiezioni. Lavorare ad un diverso rapporto
fra l’individuo e la società e l’uomo e la natura che sono
fondamentalmente le due questioni cardine di tutto il discorso della
rivista Città Future.
Eleonora de Conciliis
Anzitutto vi ringrazio dell’invito che
mi avete rivolto per intervenire qui al Dada e discutere di democrazia:
per me questa è un’occasione di confronto con una generazione che non è
più la mia, essendomi io laureata esattamente venti anni fa; non sono
nemmeno precaria, per cui quasi quasi mi vergogno a trovarmi qui con voi
che dovete ancora affrontare il problema dell’occupazione. Poiché
Giulio, che così caramente mi ha invitato, e con il quale ho avuto anche
modo di confrontarmi su questi temi, mi ha fatto praticamente da sponda
con il suo intervento, comincerò con una questione schiettamente
politica, presentandovi poi brevemente la mia posizione sociologica
rispetto alla democrazia, e in particolare rispetto alla democrazia
partecipata. Credo infatti che si possa parlare di democrazia quando
tutti quelli che partecipano alla vita politica di un paese sono dei
soggetti in grado di partecipare. Dico questo in quanto non mi occupo di
filosofia politica, né della democrazia come tecnica di governo, ma di
filosofia morale e sociologia storico-processuale, per cui m’interessa
molto capire come (e se) oggi diventano soggetti quelli che dovrebbero
fare la democrazia, costituirla come cittadini e parteciparvi. Senza
questa premessa, cade qualunque discorso proviamo a fare di carattere
politico sulla democrazia, e tra i discorsi ci metto anche quello dei
movimenti, cioè il vostro qui al Dada, quello della cosiddetta
“generazione zero”.
Innanzitutto, si può dire che la
democrazia, come oggetto storico, è un mito. In Grecia infatti,
nell’Atene del v e
iv secolo a.C., essa non è
mai esistita nelle forme in cui la filosofia politica l’ha voluta
successivamente identificare e intronizzare come modello – si trattava
piuttosto, nel migliore dei casi, di un’oligarchia allargata. D’altra
parte la democrazia parlamentare moderna, a cui ha accennato
problematicamente Giulio, è l’altra faccia del capitalismo, per come si
è costituita ideologicamente (in senso marxiano) e storicamente come
macchina complessa, come potere-sapere procedurale di governance
della popolazione. Ebbene, in Italia questa democrazia ha cominciato ad
andare in crisi a partire dagli anni ottanta del novecento; si è
trattato di una crisi non solo politica, ma anche procedurale, che oggi
si manifesta in tutta la sua virulenza socioeconomica, a livello dei
soggetti. Il politologo Giovanni Sartori, in un libro molto popperiano
ma molto profetico degli anni novanta,
Homo videns (edito dalla Laterza), aveva annunciato che la crisi della
democrazia di cui noi oggi vediamo la manifestazione più dolorosa,
esiste perché c’è una crisi che riguarda le soggettività, vale a dire
che i soggetti che dovrebbero far funzionare la democrazia non ne sono
più realmente in grado. Soffermiamoci su questo problema. È evidente che
in Italia esiste una crisi parlamentare, che è anche crisi dei costumi e
della cultura politica dei parlamentari, come ha dimostrato negli ultimi
anni il trionfo della Lega, che ha espropriato e trascinato a destra il
concetto di comunitarismo, ma come pure hanno evidenziato gli altri
partiti (anche quelli di centrosinistra), che non hanno saputo opporre
nulla alla deriva populista di Berlusconi. A ciò dobbiamo aggiungere il
degrado culturale bipartisan e il fenomeno, altrettanto trasversale,
della corruzione. Se ciò è stato possibile in Italia, dove vige una
democrazia biparlamentare virtualmente perfetta, dobbiamo indagare sulla
struttura economica che ha deformato questa costruzione politica emersa
dalla Resistenza, e cioè al capitalismo maturo degli anni sessanta, che
oggi ha lasciato il posto alla cosiddetta terza fase del capitalismo, il
capitalismo finanziario.
Il capitalismo è una struttura
produttiva che nel giro di alcuni secoli ha colonizzato le menti degli
uomini, oltre che le relazioni sociali – una struttura che, in termini
marxiani, ha sussunto realmente le vite psichiche degli individui, le
loro soggettività, andando ben oltre l’organizzazione e la divisione del
lavoro. Da questo punto di vista, il capitalismo non è e non può essere
democratico, è piuttosto un potere-sapere governamentale, una forma
metamorfica di pastorato che produce e si prende cura dei soggetti: un
potere pastorale ma acefalo (si tratta, com’è noto, di concetti
foucaultiani) che innesca processi di soggettivazione conformi alla sua
stessa struttura, e in grado di riprodurla in modo del tutto inconscio.
Il capitalismo, dunque, non è (più) solo un modo di produzione economica
che ‘cala’ sugli individui, ma produce soggettività completamente
naturalizzate dall’industria culturale e dalla culturalizzazione della
merce, ovvero soggettività inconsciamente conformi al consumo
come natura. Giulio ha accennato a tutto ciò parlando della
destoricizzazione che noi stiamo vivendo, per la quale le nuove
generazioni vivono nella convinzione che il capitalismo sia un fenomeno
naturale, un fenomeno esistente da sempre. Non si riesce a trascendere a
livello psichico il quadro del capitalismo, perché si è prodotti da
questo sistema e se ne è figli; noi siamo intimamente legati alle forme
di vita del tardo capitalismo e non riusciamo a prescinderne: è questo
il problema da cui bisogna partire.
Ora, che tipo di soggettività produce il
capitalismo? Innanzitutto produce soggettività deboli, nel senso che in
queste soggettività, ad esempio, la prima topica freudiana non funziona
più, non si costruiscono più delle personalità forti, capaci di
percepire un senso nel proprio passato, quindi di percepire il proprio
passato in continuità con il proprio presente e dunque in grado di
progettare il proprio futuro. Inoltre, anche quando tali soggettività
cercano di ribellarsi, o comunque di fare qualcosa contro il ‘sistema’
capitalistico, il senso che attribuiscono a queste azioni di
contestazione non fuoriesce effettivamente dal quadro del sistema
stesso. La spinta etica alla contestazione del capitalismo, che si
presenta e si vuole spontanea, democratica, innovativa, creativa,
diventa inefficace se non impossibile, nonché aleatoria, proprio a causa
della globalizzazione telematica di cui si serve per mobilitarsi (e che
investe anche il problema del coordinamento dei movimenti a livello
internazionale): il fatto che siano immersi in una realtà virtuale
globale (la rete) impedisce che i movimenti riescano a produrre un
oltrepassamento ‘alternativo’, incisivo e a lungo termine di questa
stessa globalità, da cui sono profondamente, inconsciamente
condizionati, ed espone i cosiddetti ‘antagonisti’ allo sfruttamento
mediatico del loro spontaneismo politico. Il potere acefalo del tardo
capitalismo, del capitalismo finanziario slegato dall’economia reale, il
potere del turbo-capitalismo o comunque lo si voglia chiamare, quello
che muove il Fondo Monetario Internazionale e al cui rimorchio si
muovono ormai come fantasmi le potenze europee, ha buon gioco nel far sì
che i media condannino le manifestazioni violente dei movimenti, o le
esaltino se pacifiche – cioè innocue. Da questo punto di vista, a me
sembra che i movimenti facciano un po’ il gioco del sistema, nel senso
che sono facilmente addomesticabili o facilmente demonizzabili, in
entrambi i casi sono mitizzabili, vengono cioè ‘gonfiati’ ad hoc e per
questa ragione sono neutralizzati – sgonfiati altrettanto velocemente
dai media.
C’è poi un altro problema che andrebbe
analizzato, e che riguarda la partecipazione dei giovani alla politica.
Io (che sono nata nel 1969) appartengo alla prima generazione
‘individualista’ che negli anni ottanta, dopo l’iper-politicizzazione
dei settanta, ha cominciato a non fare politica, a non iscriversi alla
fgci o ad altre sigle di
partito senza perciò vergognarsene, anzi disinteressandosene, nel mio
caso con un certo snobismo intellettuale e anarcoide. Noi appartenevamo
però ancora alla civiltà del libro. Purtroppo oggi la massa dei
cosiddetti “nativi digitali” è completamente indifferente alla politica
e alla cultura storica necessaria per farsi un’idea esatta della
politica italiana; insegno da quattordici anni e ho una percezione ormai
chiara della parabola che ha portato sia il liceo che l’università alla
depoliticizzazione come privatizzazione (economica ed esistenziale,
intimistica), all’indebolimento della curiosità per le forme politiche
di discussione e di crescita, in una parola all’apatia
politico-culturale prodotta dall’istruzione di massa, addormentata prima
dalla tv commerciale, poi
dai computer, oggi dagli i-phone e dai
social network. I giovani, che
vengono enfaticamente definiti il futuro, il possibile futuro
della democrazia, sono sempre più politicamente ignoranti e sempre meno
interessati al confronto politico. Se qui ad esempio, al Dada, ci
fossero mille persone informate e pronte al dibattito, allora
cominceremmo a ragionare, ma siamo in dieci: la massa degli adolescenti
è inebetita dal consumismo, e non è affatto ricettiva verso i problemi
di cui stiamo parlando in questa mini-assemblea.
Facciamo allora
un po’ di fenomenologia della de-soggettivazione contemporanea. Il
capitalismo ha prodotto infatti nel corso della storia moderna forme
assai complesse di soggettività, che però negli ultimi anni si stanno
de-soggettivando, si stanno manifestamente indebolendo (tant’è che molti
parlano di personalità nevrotiche prodotte dal tardo
capitalismo). Marc Augé ha ragione, gli antropologi e i sociologi hanno
ragione: si tratta di un processo di mutazione, siamo di fronte a una
mutazione psicosociale e antropologica dell’homo oeconomicus,
che equivale ad un inquietante processo di de-soggettivazione. I
soggetti, gli individui non sono più quelli che erano quaranta,
cinquant’anni fa; assistiamo a una profonda infantilizzazione della
popolazione e ad un’inesorabile diffusione del qualunquismo e
dell’antipolitica, cioè a fenomeni di regressione e ignoranza (perciò la
rivista Kainos, di cui sono caporedattrice, ha dedicato un intero
numero, il n. 11, al problema dell’ignoranza in Italia, ignoranza nel
senso non cognitivo ma sociale, culturale e politico del termine). Dal
punto di vista delle pratiche e degli atteggiamenti, in Italia e in gran
parte d’Europa si oscilla spesso tra una sorta di conformismo gregario
(che si manifesta talvolta anche nei movimenti), e forme di
individualità narcisistiche che rasentano la patologia, con strategie di
distinzione sociale sempre più effimere e legate al corpo o al reddito.
Le soggettività sono state portate dal tardo capitalismo a forme
involutive di individualismo che non hanno più i caratteri edipici del
soggetto borghese dei primi decenni del Novecento, e neppure quelli del
soggetto produttivo del boom economico. L’individualismo ha ormai assunto caratteristiche
diverse: basta scorrere le pagine di cronaca o guardare la
tv in un pomeriggio
domenicale per avere un’idea del tasso di follia che circola nella
società tardo-capitalistica. Alcuni li definiscono ancora fenomeni di
nevrosi, io li considererei psicotici, cioè riferiti a soggetti
nei quali, come dicevo, non si è mai costituita la prima topica
freudiana, né si è mai imposto il principio di realtà, ma solo una sorta
di coazione pulsionale e ottusa al consumo e al godimento narcisistico.
Cioè nulla di democratico: questi individui non sanno assolutamente che
cos’è la democrazia. Prendiamo ad esempio i
reality o il mercato del porno
su internet: ritornando ad un lessico foucaultiano, la sessualità oggi
funziona come un dispositivo pastorale di controllo; il dispositivo di
sessualità, completamente trasferito sull’estetica del corpo
(chirurgicamente perfezionato, modellato, ecc.), funziona come
un’ulteriore, sorprendente metamorfosi del potere pastorale. Infine non
è vero, come sostengono alcuni, che oggi noi viviamo in un’epoca di
diffusione e addirittura di strapotere della scrittura: noi non viviamo
affatto in una nuova dimensione scritturale e comunicativa della
soggettività. Bisogna piuttosto avere il coraggio di vedere come
scrivono, come usano poveramente la scrittura gli individui ormai
prodotti dal consumismo mediatico. Con una notevole dose di sofferenza
psichica (poiché non sono più in grado di dare adeguata forma
linguistica alle loro esperienze), essi appaiono oggi sempre più
de-alfabetizzati. Il medium
della scrittura si è indebolito, perché completamente agganciato ai
dispositivi iconici che lo hanno egemonizzato, ed anche qui non faccio
riferimento solo ai meritevoli campanelli d’allarme lanciati da Tullio
De Mauro, ma mi riferisco alla mia pratica quotidiana di lavoro nella
scuola.
In questa
situazione, molte persone ritengono a buon diritto che lo stato in cui
versa la politica in Italia ci deve far seriamente domandare se ci sia
(ancora) una democrazia in Italia, e non solo a causa del fenomeno
Berlusconi. Bisogna guardare al fenomeno in una prospettiva storica più
ampia. Secondo la maggior parte degli analisti politici, siamo in piena
crisi del modello di governance del sistema
democratico-parlamentare nato dopo la Seconda Guerra Mondiale; in questo
desolante quadro italiano, l’unico movimento progressivo che sembra aver
avuto una sua incisività storica è stato quello del ’68. Chi il ’68 l’ha
fatto, tende a credere che la democrazia in Italia, in un senso
partecipato, ci sia stata solo nel ‘68. Io invece penso (e forse
Pasolini sarebbe stato d’accordo), che questo sia stato un movimento
politico solo superficiale, che non ha smosso la profonda apatia della
società italiana. E questo è un primo termine di dibattito. Sicuramente
negli ultimi trent’anni (cioè dopo il ’68) il potere governamentale è
riuscito a produrre un benessere ergonomico con finalità determinate di
de-politicizzazione dei singoli. In altri termini, le singolarità si
sono addormentate durante il riflusso, si sono staccate dall’attivismo
politico per dedicarsi alla cura di sé (ma in un senso assolutamente non
foucaultiano). Avvicinandoci all’analisi del berlusconismo, alcuni
ritengono (ad esempio Gianfranco Borrelli) che il populismo mediatico
abbia prodotto modalità di crescente de-sublimazione, di distruzione
dell’attività libidica dei soggetti rivolta ad altri soggetti (in grado
cioè di innescare legami, di fare comunità), rafforzando tendenze
narcisistiche. A mio giudizio, proprio il fatto che sia stata potenziata
consumisticamente la libido dei soggetti ci ha portato a una situazione
di narcisismo generalizzato e infantilistico, che ha disinnescato la
partecipazione politica e indebolito la cosiddetta ‘voglia di comunità’
(Bauman), fino all’isolamento patologico. L’angoscia nevrotica sembra
oggi a molti la cifra caratteristica della società italiana, ma come ho
detto, si dovrebbe parlare piuttosto di un’angoscia psicotica. Come
docente, assisto ad una preoccupante infantilizzazione dei ruoli
parentali, alla diffusione isterica del
counseling e alla massiccia prescrizione agli adolescenti di
psicofarmaci, che sono la negazione di un Io forte, e che escludono allo
stesso tempo la possibilità di una decostruzione autenticamente
terapeutica dell’Io come difesa, cioè un’analisi linguistica che parta
dalla sofferenza psichica dell’adolescente per capire quali siano le
motivazioni profonde del disagio. Noi viviamo in una società che fa un
uso epidemico di psicofarmaci, perché epidemico è il disagio psichico ed
endemica l’incapacità di affrontare un percorso di rafforzamento
identitario ‘adulto’, cioè in grado di sostenere il dolore
dell’esistenza. L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima non a caso
che depressione, disturbi
borderline, ecc., aumenteranno del 20% nei prossimi anni. Stiamo
andando verso una deriva psicotica della società occidentale, e per
questo mi chiedo chi siano i soggetti che dovrebbero comporre,
realizzare la democrazia futura.
Rispetto alla presentazione del Dada,
leggo: «se l’Università si astiene dall’offrirci un’alternativa di
uscita dalla crisi dobbiamo essere noi a produrre… discorsi volti
all’uscita della crisi».
Poi c’è un auspicio: «noi
vorremmo diventare uno sprone per l’Accademia». Secondo me, e
così mi avvio a concludere, l’Università che si spera reagisca ad
un’iniziativa di questo genere, ebbene, questa Università è già morta,
ed è in fase di decomposizione sia culturale che economica. L’Università
non farà mai quello che dovrebbe fare politicamente, perché ormai
troppo impegnata nello sforzo di sopravvivere all’attacco economico cui
da anni l’ha sottoposta lo stato; in questa situazione va distrutto
completamente il senso della ricerca, in particolare quella delle
facoltà umanistiche e ancora più in particolare quella, profondamente
critica, che dovrebbe animare la facoltà di filosofia. In queste facoltà
non c’è più nemmeno l’ombra di uno spirito di lotta, non dico un profilo
schiettamente politico, e stenta ad emergere un punto di vista culturale
di alto livello. A proposito di attacco alla cultura attraverso il
taglio dei fondi, qualcuno giorni fa mi ha parlato dell’occupazione del
teatro Valle di Roma come forma di protesta. Quello che viene fatto in
contesti come questo, sicuramente è meritevole, ma, ripeto, fa sistema
con il capitalismo: le azioni di protesta estemporanee e simboliche, le
pratiche di lotta locali, le politiche dei movimenti, non hanno come
finalità un’azione rivoluzionaria nel senso forte del termine. Di questo
ho discusso qualche mese fa con alcuni redattori di Città Future:
nessuno sarebbe oggi disposto a rischiare la vita, nel senso letterale
del termine, per distruggere i centri del potere che impongono
determinate politiche culturali, fiscali, belliche, ecc. Avete visto
cosa è accaduto negli ultimi anni rispetto alla riforma del lavoro:
siamo di fronte a un tentativo su vasta scala, a un tentativo globale
(pensate a Marchionne) di cancellare la contrattazione. Da questo punto
di vista, l’attacco all’articolo 18 è solo uno specchio per le allodole:
il vero obiettivo è avere le mani libere sulle condizioni di lavoro, sui
contratti, ecc. D’altra parte, nell’Italia della crisi la difesa del
posto di lavoro coincide con una sacralizzazione del medesimo che è
abbastanza disperata, perché corrisponde a un orizzonte hegelo-marxiano,
a un modello sociale-identitario (quello fondato appunto sul lavoro come
Wesen, essenza sociale dell’uomo) che è stato ormai ampiamente
scavalcato dal capitalismo finanziario: tutti vogliono il lavoro come
diritto, ma nella sostanza il loro bisogno disperato di reddito fa il
gioco di coloro che detengono il potere di assumere e licenziare in nome
del profitto. In altri, più marxiani termini, lottare per il lavoro
significa lottare solo per il lavoro, non per modificare la
struttura dei rapporti di produzione: la ricerca/difesa disperata del
lavoro è, insomma, l’altra faccia del consumismo. Non mi sembra che oggi
i movimenti antagonisti, nel loro spontaneismo un po’ adolescenziale,
facciano questo discorso. Prendiamo ad esempio la pratica protestataria
del flash mob in luoghi
pubblici o istituzionali. Questa pratica ricorda un po’ il situazionismo
di Debord negli anni sessanta, ma non ha nessuna ricaduta forte nella
realtà in cui viviamo, mentre invece i teorici della decrescita (ad
esempio Latouche, Gorz, in Italia Bontempelli, gli ultimi due
recentemente scomparsi) insistono sul fatto che, finché le persone
credono che il successo e il benessere di un Paese dipende dal suo
pil, non s’arresta e
tantomeno si inverte la soggettivazione degli individui in un senso
consumistico. È come se si continuasse a dire: dateci il lavoro perché
vogliamo consumare. In tal senso il lavoro non serve solo a
sopravvivere, né ad esprimere la propria creatività o a valorizzare le
proprie competenze (altro termine che meriterebbe un’analisi a sé):
nella mentalità di un Monti, di un Bernanke, di un Draghi, ecc., il
lavoro non serve a chi lavora (il lavoratore del tardo capitalismo non
può mai diventare signore, anche quando è ben retribuito), serve a
consumare per alimentare il sistema bancario meta-nazionale.
In sintesi, non credo che ci troviamo in
una fase socio-politica dell’occidente, in cui la democrazia possa
essere pensata come forma di partecipazione di soggetti coscienti di
quello che fanno, perché cominciano a scarseggiare i soggetti. D’altra
parte, il capitalismo sta senz’altro morendo, ma la sua è una morte
lentissima, che secondo me durerà secoli e non avverrà grazie a scossoni
etico-politici paragonabili a una rivoluzione ‘esplosiva’. Avete
presente il passo della Gaia scienza di Nietzsche relativo alla
morte di Dio? La decomposizione del divino è una delle metafore più
impressionanti di Nietzsche. Ebbene, oggi sulla scorta di un frammento
benjaminiano del 1921 fioriscono interpretazioni che paragonano la
religione al capitalismo. Andiamo oltre, e ipotizziamo che il
capitalismo, come la società in Durkheim, sia più di un culto (come
pensava Benjamin): che sia Dio stesso. In una prospettiva nietzscheana,
la morte di Dio è qualcosa che dura molto tempo. Questo sistema, che per
tutti noi è completamente naturalizzato, non morirà velocemente. Il
capitalismo è ancora caldo: siamo nella fase iniziale della morte, che
assomiglia a una fase convulsiva, a uno spasmo di agonia, ma a un certo
punto il capitalismo comincerà a puzzare. Per il filosofo inattuale,
emette già un fetore insopportabile.
Le forme di lotta che avevano un senso
quando il capitalismo era ancora in una fase espansiva (negli anni
sessanta e settanta, incluso il terrorismo) non sono più praticabili in
questa fase così esasperante. Né d’altronde la democrazia si potrà
costruire in tempi brevi. Se ci dovessimo chiedere in che misura, in
quali forme sia possibile concepire un orizzonte rivoluzionario,
concepire nuove soggettività (si ricordi che costruire nuove
soggettività era l’obiettivo di Foucault), la risposta non può che
essere legata alla costruzione della cultura soggettiva: la lenta
rivoluzione democratica passa per l’innesco di nuove forme di
soggettivazione con una forte connotazione storica, cioè con una forte
coscienza storica delle mutazioni cui siamo andati incontro.
Ri-costruire soggettività per le quali abbia senso fare politica e
pensare nuove forme di democrazia è un compito arduo, ma ineludibile.
Bisogna approfittare del fatto che il capitalismo sta cominciando a
morire, e passare dal movimentismo alla progettazione politica a lungo
termine; al momento vedo però solo epifenomeni, la struttura è ancora lì
e non cadrà facilmente, in assenza di un’antistruttura che operi a
livello globale e non solo a livello territoriale. Le lotte
territoriali, i cosiddetti movimenti
glocal, sono tutte giuste ma
non riescono spesso a connettersi fra loro. Da questo punto di vista, i
localismi sono per le anime belle, come il multiculturalismo o la
sociologia post-socialista di Zygmunt Bauman quando teorizza la
comunità. È bello parlare di collante sociale, di comunità, ma dopo
quattro secoli di logica del profitto non vi è più alcun collante:
scusate la brutalità, ma in occidente o siamo individualisti, o siamo
pecore – la via di mezzo non la vedo quasi mai.
Leandro Sgueglia
Voglio premettere che intervengo dalla
mia prospettiva personale che però rispecchia un percorso condiviso dai
compagni con i quali abbiamo occupato questo spazio.
La mia prospettiva è anche quella di una
persona che è stata nei movimenti negli ultimi dieci anni, quindi con
una visione interna ai movimenti. Detto questo vi premetto che non è
proprio nostro stile difendere a spada tratta i movimenti, anzi siamo
critici con tante sfaccettature delle strutture di movimento.
Fatta questa premessa, dico di essere
completamente d’accordo con gli interventi che mi hanno preceduto sugli
aspetti che riguardano la cosiddetta liquefazione della società e la
frammentarietà del corpo sociale in quest’epoca, però non sono d’accordo
con l’analisi che legge la liquefazione sociale come un effetto della
caduta dei valori, vedendola piuttosto come una forma del presente,
l’unica forma necessaria per i tempi che viviamo. Non è che non ci
sforziamo di fare una filogenesi ma cerchiamo di evitare una ontogenesi,
non andando a leggere il processo storicistico ma fermandoci per
l’appunto ad un’analisi storica delle condizioni che determinano oggi la
nostra vita. Ci siamo resi conto che uno dei motivi per cui viviamo una
società liquefatta, che trova difficoltà ad individuare dei collanti
collettivi, deriva dal fallimento delle due dimensioni critiche della
vita associata: la dimensione pubblica, e in questo caso il fallimento
della democrazia rappresentativa è solo un aspetto particolare di un
fallimento di più ampia portata, che è quella del pubblico come
dimensione politica della realtà sociale; e, dall’altra parte, con la
crisi economica strutturale e dell’implicito modello economico, quella
privata. Questo fallimento dei due collanti tipici del Novecento, non
significano necessariamente un nichilismo generalizzato della realtà
attuale. Si può prendere atto della fase di scollamento sociale, ma
cercando di guardare alla parte piena del bicchiere, che ci parla della
spinta che si verifica in diverse parti del tessuto sociale a nuove
istituzioni, in base a nuove forme della vita associata e nuove
dimensioni politiche. Questo non significa che queste spinte siano già
una maggioranza, o abbiano già una qualche egemonia, si tratta
sicuramente di un discorso ancora minoritario, ma dove minoranza non sta
per residualità, anzi.
I territori con le loro lotte locali, ma
anche alcuni movimenti transnazionali, ci parlano di nuove prospettive
praticabili, che non ci precludono la visuale verso il futuro, pur nella
consapevolezza di estremo stallo e di crisi radicale delle mobilitazioni
sociali.
Il fallimento della dimensione del
pubblico non significa la immediata cessazione delle forme tradizionali
della democrazia rappresentativa, ma un aumento delle contraddizioni fra
politica e società reale, uno scollamento sempre maggiore tra le forme
di governamentalità e i flussi reali dei singoli paesi e territori. È
evidente che la governamentalità intesa come qualcosa di più complesso
del governo in sé, tocca aspetti che concernono il controllo capillare
del territorio. Il fallimento della politica della rappresentanza si
palesa anche attraverso l’emergere di un nuovo autoritarismo
tecnocratico, attraverso il feticcio dell’efficientismo e del
decisionismo, che viene interpretato bene in Italia da Monti in questo
momento, ma che è già presente a livello europeo da un po’ di tempo.
Tuttavia laddove una forma politica viene meno, si crea lo spazio
politico per le spinte di nuove pressioni istituenti. Non si può negare
il tentativo, da parte di intere comunità, di cercare nuove forme di
istituzioni, senza cadere nel semplice anti-istituzionalismo. E con
nuove comunità mi riferisco non alle strutture politiche già esistenti,
ma ai movimenti fatti di persone comuni che lottano per un protagonismo
diretto nella scena politica. C’è da fare una differenza fra spontaneità
e spontaneismo, dato che oggi la spontaneità riesce a diventare una
singolarità propositiva nel momento in cui si nutre di quel
general intellect formatosi
sul campo anche a partire da spinte
Nimby (non nel mio cortile),
ma che con il tempo, esercitando una militanza sul territorio,
acquisisce collettivamente una conoscenza e un sapere superiore a quella
dei cosiddetti tecnici, e che riesce a socializzare attraverso strumenti
di messa in rete delle conoscenze. L’esistenza di queste spinte
istituenti, ci fa mettere in discussione tutta una serie di leggi,
paradigmi e categorie affermate. Sicuramente lo sforzo di leggere lo
spazio e il tempo della politica secondo una chiave omogenea è uno
sforzo che non porta oggi a risultati soddisfacenti per l’analisi
stessa. Io penso che questo sia un tempo eterogeneo e uno spazio
eterogeneo, e che vada letto come tale, senza volontà di cercare il
soggetto, ma prendendo atto della pluralizzazione delle soggettività, e
della spinta al massimo di produzione della soggettivazione, dove per
soggettivazione non si intende necessariamente la ricomposizione del
soggetto, come può essere ad esempio il partito, ma piuttosto
soggettivazione intesa, foucaultianamente, come “presa di parola”,
capacità di mettere un paragrafo in un testo collettivo che è la realtà
sociale. Per questo motivo sono portato a mettere in discussione tutta
una serie di categorie, più classicamente binarie, che pure mi hanno
formato. Il problema è proprio questo: superare l’ottica binaria,
intrinseca nell’analisi politologica e filosofica. Questo tipo di
analisi infatti risente in modo limitativo dell’impostazione binaria.
Per ottica binaria intendo quell’ottica tutta orientata ad una lettura
dialettica della realtà, come può essere una lettura che giudica i
fenomeni come politici o pre-politici. Ad esempio sui
riot di Londra si sono consumati dibattiti tra chi li bollava come
pre-politica e chi invece li elevava a espressioni rivoluzionarie.
Questo tipo di interpretazioni finiscono sempre per essere troppo
ingenerose nei confronti della realtà, limitando le possibilità di
prospettiva del dibattito. Allo stesso modo si corre il medesimo rischio
nel momento che si pone una semplice dicotomia tra individualismo e
comunitarismo. È vero, l’individualismo ha rappresentato una svolta
paradigmatica, in fase ritardata, anche per il nostro paese, negli anni
sessanta e settanta. Sicuramente l’individualità è la singolarità di cui
prendere atto oggi per ripensare i modi di stare insieme, probabilmente
il tipo di comunitarismo o di collettività che si può auspicare nella
forma del pubblico oggi non è più praticabile. Oggi immagino una forma
sicuramente più reticolare dello stare insieme, una forma che nel
migliore degli auspici può essere quella della produzione di comune e
quando parlo di comune non ne parlo in una chiave prettamente negriana.
Sicuramente mi sono cimentato su questa parola-concetto a partire dalle
letture di Negri, ma oggi assumo una posizione critica nei confronti di
Negri, soprattutto per quanto riguarda la condivisione della sua agenda
politica in relazione all’analisi. Quindi quando parlo di comune mi
riferisco ad una ri-declinazione di questo termine a partire non dalla
fredda architettura del pensiero rivoluzionario ma da un’inchiesta
cronica, co-ricercata e quotidiana tra i tessuti sociali che abitiamo.
Un altro paradigma che risulta insufficiente è il paradigma della
rivoluzione. Noi oggi abbiamo preso la forza di dirci per nulla
rivoluzionari, ma non perché non siamo a favore di un cambiamento
radicale delle cose, o peggio perché abbiamo sposato una visione
riformista, ma perché non pensiamo più che la rivoluzione, intesa come
il capovolgimento dell’ora x, possa davvero rappresentare l’obiettivo a
cui mirare. Noi siamo inscindibili dalle contraddizioni del capitale, vi
siamo tutti dentro, e non siamo più paragonabili con i movimenti degli
anni sessanta e settanta e non possiamo neanche più ritenerci come la
coda di quelle generazioni. Per noi l’alternativa si dà tutta nella
dimensione del comune, anche se siamo consapevoli dell’inflazione che
sta subendo il termine di “beni comuni”.
Su internet preferisco non parlare di
quello che può fare in termini di aggregazione sociale ma preferisco
parlare di quello che ha fatto fin’ora. Certamente è stato tutto il
buono e tutto il negativo possibile, come specchio della nostra società.
Il concetto di rete in cui costruire nuove istituzioni non è tutto
riconducibile ad internet, anche se c’è nei movimenti chi pensa questo.
Per noi l’esigenza è quella di ri-territorializzare, di creare luoghi
laddove vi sono solo non-luoghi. L’occupazione del Dada è proprio lo
sforzo di ricreare un luogo. Sappiamo che l’Università è morta e come
sciacalli andiamo a prenderci le reliquie dell’Università, per creare la
nostra Università come piccolo tassello della produzione di sapere. I
movimenti dovrebbero non lasciarsi meccanizzare ma mediatizzarsi da
soli, auto-narrarsi, anche se non sempre ci riescono in modo non
autoreferenziale, così come dovrebbero abbandonare quegli elementi di
antagonismo ideologico, prendere atto della de-soggettivizzazione e
stare dentro questo tipo di linguaggi. A mio avviso anche la
patologizzazione dei fenomeni collettivi e sociali non rende giustizia
alla necessità di singolarizzare l’analisi.
La prospettiva è quella di sottrarre
quotidianamente al duopolio pubblico-privato, producendo nuova
cittadinanza in due modi, facendo micro-politica, con esperienza come il
Dada, e, quando c’è l’opportunità, facendola in modo moltitudinario con
una forte vocazione maggioritaria. Cioè se c’è un movimento diventa
necessario coltivare l’aspirazione di farlo diventare quanto più
possibile maggioritario possibile, anche se non nella partecipazione
quanto piuttosto nel lessico. Per noi esempi di movimenti maggioritari
sono quelli come il movimento di Chiaiano, del No-Tav, che hanno il
coraggio di proporre il proprio discorso come egemone.