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09
Gennaio 2013

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DEMOCRAZIA DI OGGI E NUOVE FORME DELLA POLITICA

A cura della Redazione

 

L’articolo seguente è il riporto dei tre interventi introduttivi all’assemblea “Democrazia di oggi e nuove forme della politica”, tenutasi al Dada (Dipartimento Autogestito Dell’Alternativa), spazio occupato nella Federico II di Napoli, il 23 Marzo 2012, alla quale abbiamo partecipato come rivista.

 

Giulio Trapanese

Pensavo di incentrare il mio intervento su tre questioni. La prima che presta attenzione alla svolta epocale di questi nostri tempi, legata alla nuova rivoluzione industriale e cioè alle nuove tecnologie informatiche; la seconda che riguarda la discussione vera e propria sulla democrazia in relazione a ciò che si può imparare dai movimenti del 2011, la primavera araba, Indignados, Occupy; ed in fine la terza che riguarda lo sforzo di individuare, in base a quanto detto nelle prime due parti, se esista una possibilità per una nuova forma di democrazia nelle condizioni odierne in cui questi stessi movimenti si stanno manifestando.

Mi sto occupando delle trasformazioni che negli ultimi decenni subisce la percezione temporale della nostra esperienza; si tratta d’un tema non originale, visto che sono in parecchi che si stanno ponendo queste tipo di domande a diversi livelli e in particolare su di un piano storico-antropologico. Cito a tal proposito un’intervista a Marc Augé, uscita recentemente sulla Repubblica, che si pone la domanda sulla prospettiva temporale nella nostra percezione, la scomparsa del futuro e del passato, e la stazionarietà della nostra esperienza in un perpetuo presente. Per quanto il suo articolo non pervenga a conclusioni propositive condivisibili, esso tratta un tema di ricerca che probabilmente sarà proficuo anche per i prossimi anni.

In questo capitolo rientra il tema della natura dell’evoluzione delle nostra società capitalistica negli ultimi anni. In altre discussioni ho provato a definire la fase attuale come quella del “capitalismo post-umano”, fondato cioè sul rapporto mutato, negli ultimi vent’anni, fra l’uomo, la natura e la tecnica. Uno degli aspetti fondamentali della mutazione di questo rapporto riguarda il tempo. L’accelerazione impressa dai nuovi mezzi di comunicazione elettronici (informazione, comunicazione, lavoro), sta conducendo alle estreme conseguenze un fenomeno, per altro già innescato da tempo, che è quello della perdita della memoria (dei fatti storici e di noi stessi), perché in sintesi per quanto possiamo illuderci che la moltiplicazione dell’esperienza che noi viviamo tutti i giorni, attraverso l’utilizzo dell’informatica in senso lato, rappresenti un allargamento delle possibilità, in realtà essa costituisce piuttosto un impoverimento dell’esperienza sensibile, anche in termini corporali. Legherei questo aspetto del tempo alla questione della memoria: l’assenza di una capacità ritentiva della realtà nel soggetto. Credo che la memoria ci consenta di oggettivarci e fondare, in qualche modo, la nostra identità. Nel momento in cui la memoria, invece, è affidata ad elementi terzi, come le macchine, la nostra individualità finisce per rapportarsi temporalmente in modo assolutamente diverso alla realtà. Credo che la scomparsa della memoria, abbia a che fare, come scrivono Augé ed altri, sia con la scomparsa della dimensione del passato che con quella del futuro. D’altro canto a questo tipo di scomparsa del tempo è legata anche la trasformazione della nostra esperienza dello spazio, anche qui connessa ad un’illusione di estensione dello spazio, l’illusione di Google che amplia la mappatura e la disponibilità del campo che noi abbiamo in ogni istante a disposizione per individuare e collocare i fatti del mondo, contrapposta ad una realtà in cui l’esperienza dello spazio è profondamente deformata dal fatto di non essere più radicata in un luogo preciso. Venendo meno lo spazio in cui si manifesta la nostra fisicità, viene meno la possibilità quantitativamente limitata ma qualitativamente proficua di esperienza.

Credo che questi aspetti di spazio e tempo, per come si sono modificati e come si andranno a modificare per almeno i prossimi 15-20 anni, portino sicuramente a cambiare il nostro concetto di appartenenza, che rappresenta il primo di due poli della trasformazione degli individui rispetto alla società e quindi della possibilità stessa oggi di parlare di democrazia. Perché senza memoria e senza possibilità di circoscrivere un’esperienza in una dimensione spaziale definita, diventa impossibile parlare di appartenenza allo stesso modo di come se ne parlava prima. Non c’è più la capacità di consolidare una proiezione di sé in un arco temporale e di sentirsi legati e dipendenti ad un certo ambiente.

 

L’altro polo della questione che ha subito forti cambiamenti è quello che riguarda la trasformazione del lavoro e del concetto stesso di lavoro. Non parliamo tanto del fatto che la disoccupazione stia aumentando, ma di un cambiamento inerente proprio la natura del lavoro nella terza rivoluzione industriale, in cui, sostanzialmente, si tratta di un lavoro con la macchina informatica, che non trasforma più la materia lavorata, ma che semplicemente relega il ruolo umano alla gestione e controllo di un lavoro fatto da macchine informatiche.

Questo fenomeno a cui non voglio dare un segno necessariamente positivo o negativo (certamente ha anche risvolti positivi), cambia in effetti la natura della discussione di cosa sia stato tradizionalmente il lavoro e quello che ha significato come attività trasformatrice, cioè come quella capacità della società in genere di rapportarsi alla natura riuscendo, in qualche modo, a comprenderla. Tanto in epoca pre-industriale, quanto in epoca industriale, in ogni caso, riusciamo a riconoscere un atteggiamento trasformativo del lavoro rispetto alla natura. Questo è importante non tanto per fare un’analisi del lavoro in quanto tale, ma per riconoscere nel lavoro, inteso come attività, la possibilità di una storicità delle nostre azioni in una società. Perché essere stati capaci di “dominare” in qualche modo la natura ci ha dato la capacità di immaginare di poter trasformare la società stessa. In quest’ottica diventa interessante focalizzare l’attenzione sulle trasformazioni del lavoro negli ultimi anni, trasformazioni per cui adesso il lavoro non riesce più a riconoscersi come attività trasformatrice e, di conseguenza, l’individuo più che come produttore è costretto ad identificarsi quale semplice consumatore. Il consumatore non trasforma ciò che utilizza, ma semplicemente lo consuma, nel senso che il proprio rapporto con la realtà diventa passivo e non più attivo e allo stesso tempo legato tutto al presente, all’immediatezza del consumo e dell’espressione di una pulsione.

 

Questi due poli, quello dell’appartenenza, o meglio della rottura di un legame di appartenenza (tanto l’appartenenza ad un contesto di classe, quanto quella ad un contesto politico) e l’altro della storicità, sono approdati oggi ad una rottura, producendo l’individualizzazione della soggettività, che risulta altresì disgregata. Detto meglio, la scomparsa dell’appartenenza, da un lato, e della storicità, dall’altro, strutturano un Io contemporaneo fondato su un egocentrismo pulsionale. L’Io di oggi, non riuscendo ad oggettivarsi in nulla fuori di sé, è dominato dagli istinti del momento, incapace di consolidare un progetto trasformativo o un progetto collettivo di partecipazione e di impegno in quello che sta vivendo.

Parlare di democrazia può diventare ancora più astratto se il discorso non si colloca nella società reale, in quello che accade nel presente, al di là delle forme delle istituzioni politiche, presente che è, tra l’altro, esso stesso in rivoluzione accelerata.

Ci sono delle cose interessanti che stanno uscendo su questi aspetti fin qui analizzati, la posizione di Marc Augé, il libro di Diego Fusaro (Essere senza tempo). Io credo, però, che questo stato delle cose da cui possiamo partire per discutere della possibilità di nuove forme di democrazia, ci metta abbastanza in guardia dal poter credere che la democrazia possa essere oggi semplicemente restaurata. Penso che bisogni imparare da ciò che sta accadendo, dalla nostra esperienza politica in particolare, partendo da quello che politicamente e socialmente è accaduto negli ultimi anni. Lo sfondo al quale mi riferisco è quello dei movimenti del 2011, quello degli studenti, ma anche quello dei referendum, quello degli Indignados e degli Occupy che è ancora attivo. Perché questi movimenti ci segnalano delle trasformazioni che non sono superficiali e che ci pongono, a mio parere, tre domande, alle quali adesso cercherò di dare delle risposte.

 

La prima domanda è se su questa base in cui si sono disarticolate le forme di aggregazione, le ideologie tradizionali e le forme politiche come quelle dei partiti (processo che utilizzando un termine alla moda si può schematicamente descrivere come la liquefazione della società) sia ancora possibile immaginare una possibilità concreta per la democrazia. Se da un lato è vero che il nichilismo in cui è piombata la società a partire dal post anni settanta, apre delle possibilità positive, liberando energie, è anche vero che non c’è speranza, dal mio punto di vista, di riformare un’idea di adesione e partecipazione ad un qualcosa che ci contiene senza immaginare nuovi collanti fra gli individui. Nuovi collanti, nuovi valori o nuove forme di condivisione sociale tali per cui gli individui siano in grado di superare se stessi, di trascendersi in un’opera più grande, al di là del proprio Io.

 

La seconda delle domande che propongo riguarda le forme in cui si sono manifestati i movimenti che si sono visti in questi anni, forme che rappresentano un tentativo di compensazione della disgregazione della società, mediante strumenti tecnici quali la rete, considerata come il tentativo di ricostituire forme di comunità, di comunione, condivisione e organizzazione. Esse, tuttavia, vanno a sostituire le forme tradizionali di aggregazione che sono nel frattempo venute completamente a mancare. In passato avevo pensato ad internet come a qualcosa che si andasse semplicemente ad aggiungere a quanto c’era già in campo, mentre ora sembra evidente che internet si pone quale surrogato delle forme tradizionali attraverso le quali la politica si praticava. Questo fatto, l’irruzione di internet in sostituzione di ogni altra forma determina un cambiamento nella qualità dei rapporti umani. Dunque la domanda se internet può riunire ciò che è stato separato, dal mio punto di vista, ha una risposta negativa. Questo perché internet esprime comunque una preminenza della rappresentazione sull’esperienza della vita sociale che ognuno di noi può fare.

 

La terza domanda è, invece, se sia ancora possibile la democrazia rappresentativa in questa società.

La questione si fa complessa. Penso che quando parliamo di democrazia sia necessario contestualizzare ciò di cui si parla. La democrazia che esiste oggi in Italia, e in altre società occidentali, è di tipo rappresentativo, con tutto ciò che questo può significare in termini sia positivi che negativi. Nei fatti però questa democrazia nasceva in un momento in cui c’era una possibilità di rappresentatività. La rappresentatività ha senso se esiste, in qualche modo, un’appartenenza ad un’ideologia, ad un partito, ad una corrente culturale definita con una sua solidità, tale per cui io possa sentirmi rappresentato. Questa forma democratica è dunque legata ad una certa struttura sociale nella quale esistono legami oggettivi fra rappresentati e rappresentanti. Nel momento in cui la società, come fin qui descritta, subisce trasformazioni che fanno saltare certe corrispondenze è difficile immaginare che la democrazia nella sua vecchia forma possa ancora conservare un senso. Da questo punto di vista non si può più parlare di rappresentatività ma solo di pura rappresentazione, in un contesto in cui la politica è separata dalla società e autonomamente professionalizzata. In più aggiungo che c’è una questione strutturale, in quanto la democrazia ha bisogno di una sua architettura, ha bisogno di forme concrete. Ad esempio la revocabilità delle cariche, così come la turnazione dei soggetti, vanno architettate e necessariamente formalizzate. Così come bisogna avere un’idea di come possa svilupparsi il dibattito pubblico, la circolazione delle informazioni, la possibilità sociale di avere i medesimi mezzi per partecipare alla politica. E va pensato il modo in cui possa esserci il tempo per poter discutere delle questioni che attengono la vita associata.

La questione del tempo ritorna, perché nella società dell’accelerazione elettronica, di fatto non è previsto il tempo necessario alla discussione e la formazione di opinioni sui fatti. Abbiamo visto come nell’economia globalizzata e finanziarizzata dello spread, in realtà si sia sospesa qualsiasi forma di rappresentatività sociale delle istituzioni che, a livello centralizzato, determinano le politiche economiche degli stati, senza che sia possibile nessuna elezione e nessuna discussione. Se tutto è così veloce ed instabile la democrazia semplicemente non è possibile. Essa ha bisogno di stabilità.

 

In questo quadro mi chiedo quali possono essere i punti di fuga possibili. E penso che la storia possa ripartire solo a costo di un rallentamento della velocità complessiva con la quale ormai percepiamo una realtà (letteralmente) sempre più sfuggente. Questa necessità di rallentamento potrebbe significare tante cose. Tuttavia la possibilità della democrazia, se questa possibilità ancora esiste, deve passare attraverso una base strutturale differente. In questo contesto di sviluppo del capitalismo, con una tecnicizzazione dell’esperienza umana, non c’è democrazia se non rallentando, decomplessificando la realtà, trasformando, cioè, il regime imposto dal commercio mondiale.

 

Questa decomplessificazione significa decostruire la provincializzazione del mondo per cui tutto ha una sua funzione specifica in relazione ad un centro, che solo essendo immateriale, può essere un centro per tutti. E questo possibilità della democrazia potrà darsi solo passando attraverso un nuovo rapporto con la natura, che equivale a dire un nuovo rapporto con noi stessi, come parte della natura, nel senso di una società capace di ridiscutere il proprio tipo di uso di risorse energetiche, di interconnessione, di accelerazione, nella coscienza che questa tipologia di società non può essere considerata come durevole e quindi come la società del futuro. Si tratta di cercare di essere generosi con il nostro futuro così come il nostro passato lo è stato con noi, immaginando come potrà essere il futuro di una società siffatta, in modo da poter capire come evitare questo futuro, facendo un passo indietro rispetto alla situazione attuale e le sue possibili proiezioni. Lavorare ad un diverso rapporto fra l’individuo e la società e l’uomo e la natura che sono fondamentalmente le due questioni cardine di tutto il discorso della rivista Città Future.

(torna su)

Eleonora de Conciliis

Anzitutto vi ringrazio dell’invito che mi avete rivolto per intervenire qui al Dada e discutere di democrazia: per me questa è un’occasione di confronto con una generazione che non è più la mia, essendomi io laureata esattamente venti anni fa; non sono nemmeno precaria, per cui quasi quasi mi vergogno a trovarmi qui con voi che dovete ancora affrontare il problema dell’occupazione. Poiché Giulio, che così caramente mi ha invitato, e con il quale ho avuto anche modo di confrontarmi su questi temi, mi ha fatto praticamente da sponda con il suo intervento, comincerò con una questione schiettamente politica, presentandovi poi brevemente la mia posizione sociologica rispetto alla democrazia, e in particolare rispetto alla democrazia partecipata. Credo infatti che si possa parlare di democrazia quando tutti quelli che partecipano alla vita politica di un paese sono dei soggetti in grado di partecipare. Dico questo in quanto non mi occupo di filosofia politica, né della democrazia come tecnica di governo, ma di filosofia morale e sociologia storico-processuale, per cui m’interessa molto capire come (e se) oggi diventano soggetti quelli che dovrebbero fare la democrazia, costituirla come cittadini e parteciparvi. Senza questa premessa, cade qualunque discorso proviamo a fare di carattere politico sulla democrazia, e tra i discorsi ci metto anche quello dei movimenti, cioè il vostro qui al Dada, quello della cosiddetta “generazione zero”.

Innanzitutto, si può dire che la democrazia, come oggetto storico, è un mito. In Grecia infatti, nell’Atene del v e iv secolo a.C., essa non è mai esistita nelle forme in cui la filosofia politica l’ha voluta successivamente identificare e intronizzare come modello – si trattava piuttosto, nel migliore dei casi, di un’oligarchia allargata. D’altra parte la democrazia parlamentare moderna, a cui ha accennato problematicamente Giulio, è l’altra faccia del capitalismo, per come si è costituita ideologicamente (in senso marxiano) e storicamente come macchina complessa, come potere-sapere procedurale di governance della popolazione. Ebbene, in Italia questa democrazia ha cominciato ad andare in crisi a partire dagli anni ottanta del novecento; si è trattato di una crisi non solo politica, ma anche procedurale, che oggi si manifesta in tutta la sua virulenza socioeconomica, a livello dei soggetti. Il politologo Giovanni Sartori, in un libro molto popperiano ma molto profetico degli anni novanta, Homo videns (edito dalla Laterza), aveva annunciato che la crisi della democrazia di cui noi oggi vediamo la manifestazione più dolorosa, esiste perché c’è una crisi che riguarda le soggettività, vale a dire che i soggetti che dovrebbero far funzionare la democrazia non ne sono più realmente in grado. Soffermiamoci su questo problema. È evidente che in Italia esiste una crisi parlamentare, che è anche crisi dei costumi e della cultura politica dei parlamentari, come ha dimostrato negli ultimi anni il trionfo della Lega, che ha espropriato e trascinato a destra il concetto di comunitarismo, ma come pure hanno evidenziato gli altri partiti (anche quelli di centrosinistra), che non hanno saputo opporre nulla alla deriva populista di Berlusconi. A ciò dobbiamo aggiungere il degrado culturale bipartisan e il fenomeno, altrettanto trasversale, della corruzione. Se ciò è stato possibile in Italia, dove vige una democrazia biparlamentare virtualmente perfetta, dobbiamo indagare sulla struttura economica che ha deformato questa costruzione politica emersa dalla Resistenza, e cioè al capitalismo maturo degli anni sessanta, che oggi ha lasciato il posto alla cosiddetta terza fase del capitalismo, il capitalismo finanziario.

Il capitalismo è una struttura produttiva che nel giro di alcuni secoli ha colonizzato le menti degli uomini, oltre che le relazioni sociali – una struttura che, in termini marxiani, ha sussunto realmente le vite psichiche degli individui, le loro soggettività, andando ben oltre l’organizzazione e la divisione del lavoro. Da questo punto di vista, il capitalismo non è e non può essere democratico, è piuttosto un potere-sapere governamentale, una forma metamorfica di pastorato che produce e si prende cura dei soggetti: un potere pastorale ma acefalo (si tratta, com’è noto, di concetti foucaultiani) che innesca processi di soggettivazione conformi alla sua stessa struttura, e in grado di riprodurla in modo del tutto inconscio. Il capitalismo, dunque, non è (più) solo un modo di produzione economica che ‘cala’ sugli individui, ma produce soggettività completamente naturalizzate dall’industria culturale e dalla culturalizzazione della merce, ovvero soggettività inconsciamente conformi al consumo come natura. Giulio ha accennato a tutto ciò parlando della destoricizzazione che noi stiamo vivendo, per la quale le nuove generazioni vivono nella convinzione che il capitalismo sia un fenomeno naturale, un fenomeno esistente da sempre. Non si riesce a trascendere a livello psichico il quadro del capitalismo, perché si è prodotti da questo sistema e se ne è figli; noi siamo intimamente legati alle forme di vita del tardo capitalismo e non riusciamo a prescinderne: è questo il problema da cui bisogna partire.

Ora, che tipo di soggettività produce il capitalismo? Innanzitutto produce soggettività deboli, nel senso che in queste soggettività, ad esempio, la prima topica freudiana non funziona più, non si costruiscono più delle personalità forti, capaci di percepire un senso nel proprio passato, quindi di percepire il proprio passato in continuità con il proprio presente e dunque in grado di progettare il proprio futuro. Inoltre, anche quando tali soggettività cercano di ribellarsi, o comunque di fare qualcosa contro il ‘sistema’ capitalistico, il senso che attribuiscono a queste azioni di contestazione non fuoriesce effettivamente dal quadro del sistema stesso. La spinta etica alla contestazione del capitalismo, che si presenta e si vuole spontanea, democratica, innovativa, creativa, diventa inefficace se non impossibile, nonché aleatoria, proprio a causa della globalizzazione telematica di cui si serve per mobilitarsi (e che investe anche il problema del coordinamento dei movimenti a livello internazionale): il fatto che siano immersi in una realtà virtuale globale (la rete) impedisce che i movimenti riescano a produrre un oltrepassamento ‘alternativo’, incisivo e a lungo termine di questa stessa globalità, da cui sono profondamente, inconsciamente condizionati, ed espone i cosiddetti ‘antagonisti’ allo sfruttamento mediatico del loro spontaneismo politico. Il potere acefalo del tardo capitalismo, del capitalismo finanziario slegato dall’economia reale, il potere del turbo-capitalismo o comunque lo si voglia chiamare, quello che muove il Fondo Monetario Internazionale e al cui rimorchio si muovono ormai come fantasmi le potenze europee, ha buon gioco nel far sì che i media condannino le manifestazioni violente dei movimenti, o le esaltino se pacifiche – cioè innocue. Da questo punto di vista, a me sembra che i movimenti facciano un po’ il gioco del sistema, nel senso che sono facilmente addomesticabili o facilmente demonizzabili, in entrambi i casi sono mitizzabili, vengono cioè ‘gonfiati’ ad hoc e per questa ragione sono neutralizzati – sgonfiati altrettanto velocemente dai media.

C’è poi un altro problema che andrebbe analizzato, e che riguarda la partecipazione dei giovani alla politica. Io (che sono nata nel 1969) appartengo alla prima generazione ‘individualista’ che negli anni ottanta, dopo l’iper-politicizzazione dei settanta, ha cominciato a non fare politica, a non iscriversi alla fgci o ad altre sigle di partito senza perciò vergognarsene, anzi disinteressandosene, nel mio caso con un certo snobismo intellettuale e anarcoide. Noi appartenevamo però ancora alla civiltà del libro. Purtroppo oggi la massa dei cosiddetti “nativi digitali” è completamente indifferente alla politica e alla cultura storica necessaria per farsi un’idea esatta della politica italiana; insegno da quattordici anni e ho una percezione ormai chiara della parabola che ha portato sia il liceo che l’università alla depoliticizzazione come privatizzazione (economica ed esistenziale, intimistica), all’indebolimento della curiosità per le forme politiche di discussione e di crescita, in una parola all’apatia politico-culturale prodotta dall’istruzione di massa, addormentata prima dalla tv commerciale, poi dai computer, oggi dagli i-phone e dai social network. I giovani, che vengono enfaticamente definiti il futuro, il possibile futuro della democrazia, sono sempre più politicamente ignoranti e sempre meno interessati al confronto politico. Se qui ad esempio, al Dada, ci fossero mille persone informate e pronte al dibattito, allora cominceremmo a ragionare, ma siamo in dieci: la massa degli adolescenti è inebetita dal consumismo, e non è affatto ricettiva verso i problemi di cui stiamo parlando in questa mini-assemblea.

Facciamo allora un po’ di fenomenologia della de-soggettivazione contemporanea. Il capitalismo ha prodotto infatti nel corso della storia moderna forme assai complesse di soggettività, che però negli ultimi anni si stanno de-soggettivando, si stanno manifestamente indebolendo (tant’è che molti parlano di personalità nevrotiche prodotte dal tardo capitalismo). Marc Augé ha ragione, gli antropologi e i sociologi hanno ragione: si tratta di un processo di mutazione, siamo di fronte a una mutazione psicosociale e antropologica dell’homo oeconomicus, che equivale ad un inquietante processo di de-soggettivazione. I soggetti, gli individui non sono più quelli che erano quaranta, cinquant’anni fa; assistiamo a una profonda infantilizzazione della popolazione e ad un’inesorabile diffusione del qualunquismo e dell’antipolitica, cioè a fenomeni di regressione e ignoranza (perciò la rivista Kainos, di cui sono caporedattrice, ha dedicato un intero numero, il n. 11, al problema dell’ignoranza in Italia, ignoranza nel senso non cognitivo ma sociale, culturale e politico del termine). Dal punto di vista delle pratiche e degli atteggiamenti, in Italia e in gran parte d’Europa si oscilla spesso tra una sorta di conformismo gregario (che si manifesta talvolta anche nei movimenti), e forme di individualità narcisistiche che rasentano la patologia, con strategie di distinzione sociale sempre più effimere e legate al corpo o al reddito. Le soggettività sono state portate dal tardo capitalismo a forme involutive di individualismo che non hanno più i caratteri edipici del soggetto borghese dei primi decenni del Novecento, e neppure quelli del soggetto produttivo del boom economico. L’individualismo ha ormai assunto caratteristiche diverse: basta scorrere le pagine di cronaca o guardare la tv in un pomeriggio domenicale per avere un’idea del tasso di follia che circola nella società tardo-capitalistica. Alcuni li definiscono ancora fenomeni di nevrosi, io li considererei psicotici, cioè riferiti a soggetti nei quali, come dicevo, non si è mai costituita la prima topica freudiana, né si è mai imposto il principio di realtà, ma solo una sorta di coazione pulsionale e ottusa al consumo e al godimento narcisistico. Cioè nulla di democratico: questi individui non sanno assolutamente che cos’è la democrazia. Prendiamo ad esempio i reality o il mercato del porno su internet: ritornando ad un lessico foucaultiano, la sessualità oggi funziona come un dispositivo pastorale di controllo; il dispositivo di sessualità, completamente trasferito sull’estetica del corpo (chirurgicamente perfezionato, modellato, ecc.), funziona come un’ulteriore, sorprendente metamorfosi del potere pastorale. Infine non è vero, come sostengono alcuni, che oggi noi viviamo in un’epoca di diffusione e addirittura di strapotere della scrittura: noi non viviamo affatto in una nuova dimensione scritturale e comunicativa della soggettività. Bisogna piuttosto avere il coraggio di vedere come scrivono, come usano poveramente la scrittura gli individui ormai prodotti dal consumismo mediatico. Con una notevole dose di sofferenza psichica (poiché non sono più in grado di dare adeguata forma linguistica alle loro esperienze), essi appaiono oggi sempre più de-alfabetizzati. Il medium della scrittura si è indebolito, perché completamente agganciato ai dispositivi iconici che lo hanno egemonizzato, ed anche qui non faccio riferimento solo ai meritevoli campanelli d’allarme lanciati da Tullio De Mauro, ma mi riferisco alla mia pratica quotidiana di lavoro nella scuola.

In questa situazione, molte persone ritengono a buon diritto che lo stato in cui versa la politica in Italia ci deve far seriamente domandare se ci sia (ancora) una democrazia in Italia, e non solo a causa del fenomeno Berlusconi. Bisogna guardare al fenomeno in una prospettiva storica più ampia. Secondo la maggior parte degli analisti politici, siamo in piena crisi del modello di governance del sistema democratico-parlamentare nato dopo la Seconda Guerra Mondiale; in questo desolante quadro italiano, l’unico movimento progressivo che sembra aver avuto una sua incisività storica è stato quello del ’68. Chi il ’68 l’ha fatto, tende a credere che la democrazia in Italia, in un senso partecipato, ci sia stata solo nel ‘68. Io invece penso (e forse Pasolini sarebbe stato d’accordo), che questo sia stato un movimento politico solo superficiale, che non ha smosso la profonda apatia della società italiana. E questo è un primo termine di dibattito. Sicuramente negli ultimi trent’anni (cioè dopo il ’68) il potere governamentale è riuscito a produrre un benessere ergonomico con finalità determinate di de-politicizzazione dei singoli. In altri termini, le singolarità si sono addormentate durante il riflusso, si sono staccate dall’attivismo politico per dedicarsi alla cura di sé (ma in un senso assolutamente non foucaultiano). Avvicinandoci all’analisi del berlusconismo, alcuni ritengono (ad esempio Gianfranco Borrelli) che il populismo mediatico abbia prodotto modalità di crescente de-sublimazione, di distruzione dell’attività libidica dei soggetti rivolta ad altri soggetti (in grado cioè di innescare legami, di fare comunità), rafforzando tendenze narcisistiche. A mio giudizio, proprio il fatto che sia stata potenziata consumisticamente la libido dei soggetti ci ha portato a una situazione di narcisismo generalizzato e infantilistico, che ha disinnescato la partecipazione politica e indebolito la cosiddetta ‘voglia di comunità’ (Bauman), fino all’isolamento patologico. L’angoscia nevrotica sembra oggi a molti la cifra caratteristica della società italiana, ma come ho detto, si dovrebbe parlare piuttosto di un’angoscia psicotica. Come docente, assisto ad una preoccupante infantilizzazione dei ruoli parentali, alla diffusione isterica del counseling e alla massiccia prescrizione agli adolescenti di psicofarmaci, che sono la negazione di un Io forte, e che escludono allo stesso tempo la possibilità di una decostruzione autenticamente terapeutica dell’Io come difesa, cioè un’analisi linguistica che parta dalla sofferenza psichica dell’adolescente per capire quali siano le motivazioni profonde del disagio. Noi viviamo in una società che fa un uso epidemico di psicofarmaci, perché epidemico è il disagio psichico ed endemica l’incapacità di affrontare un percorso di rafforzamento identitario ‘adulto’, cioè in grado di sostenere il dolore dell’esistenza. L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima non a caso che depressione, disturbi borderline, ecc., aumenteranno del 20% nei prossimi anni. Stiamo andando verso una deriva psicotica della società occidentale, e per questo mi chiedo chi siano i soggetti che dovrebbero comporre, realizzare la democrazia futura.

Rispetto alla presentazione del Dada, leggo: «se l’Università si astiene dall’offrirci un’alternativa di uscita dalla crisi dobbiamo essere noi a produrre… discorsi volti all’uscita della crisi». Poi c’è un auspicio: «noi vorremmo diventare uno sprone per l’Accademia». Secondo me, e così mi avvio a concludere, l’Università che si spera reagisca ad un’iniziativa di questo genere, ebbene, questa Università è già morta, ed è in fase di decomposizione sia culturale che economica. L’Università non farà mai quello che dovrebbe fare politicamente, perché ormai troppo impegnata nello sforzo di sopravvivere all’attacco economico cui da anni l’ha sottoposta lo stato; in questa situazione va distrutto completamente il senso della ricerca, in particolare quella delle facoltà umanistiche e ancora più in particolare quella, profondamente critica, che dovrebbe animare la facoltà di filosofia. In queste facoltà non c’è più nemmeno l’ombra di uno spirito di lotta, non dico un profilo schiettamente politico, e stenta ad emergere un punto di vista culturale di alto livello. A proposito di attacco alla cultura attraverso il taglio dei fondi, qualcuno giorni fa mi ha parlato dell’occupazione del teatro Valle di Roma come forma di protesta. Quello che viene fatto in contesti come questo, sicuramente è meritevole, ma, ripeto, fa sistema con il capitalismo: le azioni di protesta estemporanee e simboliche, le pratiche di lotta locali, le politiche dei movimenti, non hanno come finalità un’azione rivoluzionaria nel senso forte del termine. Di questo ho discusso qualche mese fa con alcuni redattori di Città Future: nessuno sarebbe oggi disposto a rischiare la vita, nel senso letterale del termine, per distruggere i centri del potere che impongono determinate politiche culturali, fiscali, belliche, ecc. Avete visto cosa è accaduto negli ultimi anni rispetto alla riforma del lavoro: siamo di fronte a un tentativo su vasta scala, a un tentativo globale (pensate a Marchionne) di cancellare la contrattazione. Da questo punto di vista, l’attacco all’articolo 18 è solo uno specchio per le allodole: il vero obiettivo è avere le mani libere sulle condizioni di lavoro, sui contratti, ecc. D’altra parte, nell’Italia della crisi la difesa del posto di lavoro coincide con una sacralizzazione del medesimo che è abbastanza disperata, perché corrisponde a un orizzonte hegelo-marxiano, a un modello sociale-identitario (quello fondato appunto sul lavoro come Wesen, essenza sociale dell’uomo) che è stato ormai ampiamente scavalcato dal capitalismo finanziario: tutti vogliono il lavoro come diritto, ma nella sostanza il loro bisogno disperato di reddito fa il gioco di coloro che detengono il potere di assumere e licenziare in nome del profitto. In altri, più marxiani termini, lottare per il lavoro significa lottare solo per il lavoro, non per modificare la struttura dei rapporti di produzione: la ricerca/difesa disperata del lavoro è, insomma, l’altra faccia del consumismo. Non mi sembra che oggi i movimenti antagonisti, nel loro spontaneismo un po’ adolescenziale, facciano questo discorso. Prendiamo ad esempio la pratica protestataria del flash mob in luoghi pubblici o istituzionali. Questa pratica ricorda un po’ il situazionismo di Debord negli anni sessanta, ma non ha nessuna ricaduta forte nella realtà in cui viviamo, mentre invece i teorici della decrescita (ad esempio Latouche, Gorz, in Italia Bontempelli, gli ultimi due recentemente scomparsi) insistono sul fatto che, finché le persone credono che il successo e il benessere di un Paese dipende dal suo pil, non s’arresta e tantomeno si inverte la soggettivazione degli individui in un senso consumistico. È come se si continuasse a dire: dateci il lavoro perché vogliamo consumare. In tal senso il lavoro non serve solo a sopravvivere, né ad esprimere la propria creatività o a valorizzare le proprie competenze (altro termine che meriterebbe un’analisi a sé): nella mentalità di un Monti, di un Bernanke, di un Draghi, ecc., il lavoro non serve a chi lavora (il lavoratore del tardo capitalismo non può mai diventare signore, anche quando è ben retribuito), serve a consumare per alimentare il sistema bancario meta-nazionale.

In sintesi, non credo che ci troviamo in una fase socio-politica dell’occidente, in cui la democrazia possa essere pensata come forma di partecipazione di soggetti coscienti di quello che fanno, perché cominciano a scarseggiare i soggetti. D’altra parte, il capitalismo sta senz’altro morendo, ma la sua è una morte lentissima, che secondo me durerà secoli e non avverrà grazie a scossoni etico-politici paragonabili a una rivoluzione ‘esplosiva’. Avete presente il passo della Gaia scienza di Nietzsche relativo alla morte di Dio? La decomposizione del divino è una delle metafore più impressionanti di Nietzsche. Ebbene, oggi sulla scorta di un frammento benjaminiano del 1921 fioriscono interpretazioni che paragonano la religione al capitalismo. Andiamo oltre, e ipotizziamo che il capitalismo, come la società in Durkheim, sia più di un culto (come pensava Benjamin): che sia Dio stesso. In una prospettiva nietzscheana, la morte di Dio è qualcosa che dura molto tempo. Questo sistema, che per tutti noi è completamente naturalizzato, non morirà velocemente. Il capitalismo è ancora caldo: siamo nella fase iniziale della morte, che assomiglia a una fase convulsiva, a uno spasmo di agonia, ma a un certo punto il capitalismo comincerà a puzzare. Per il filosofo inattuale, emette già un fetore insopportabile.

Le forme di lotta che avevano un senso quando il capitalismo era ancora in una fase espansiva (negli anni sessanta e settanta, incluso il terrorismo) non sono più praticabili in questa fase così esasperante. Né d’altronde la democrazia si potrà costruire in tempi brevi. Se ci dovessimo chiedere in che misura, in quali forme sia possibile concepire un orizzonte rivoluzionario, concepire nuove soggettività (si ricordi che costruire nuove soggettività era l’obiettivo di Foucault), la risposta non può che essere legata alla costruzione della cultura soggettiva: la lenta rivoluzione democratica passa per l’innesco di nuove forme di soggettivazione con una forte connotazione storica, cioè con una forte coscienza storica delle mutazioni cui siamo andati incontro. Ri-costruire soggettività per le quali abbia senso fare politica e pensare nuove forme di democrazia è un compito arduo, ma ineludibile. Bisogna approfittare del fatto che il capitalismo sta cominciando a morire, e passare dal movimentismo alla progettazione politica a lungo termine; al momento vedo però solo epifenomeni, la struttura è ancora lì e non cadrà facilmente, in assenza di un’antistruttura che operi a livello globale e non solo a livello territoriale. Le lotte territoriali, i cosiddetti movimenti glocal, sono tutte giuste ma non riescono spesso a connettersi fra loro. Da questo punto di vista, i localismi sono per le anime belle, come il multiculturalismo o la sociologia post-socialista di Zygmunt Bauman quando teorizza la comunità. È bello parlare di collante sociale, di comunità, ma dopo quattro secoli di logica del profitto non vi è più alcun collante: scusate la brutalità, ma in occidente o siamo individualisti, o siamo pecore – la via di mezzo non la vedo quasi mai.

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Leandro Sgueglia

Voglio premettere che intervengo dalla mia prospettiva personale che però rispecchia un percorso condiviso dai compagni con i quali abbiamo occupato questo spazio.

La mia prospettiva è anche quella di una persona che è stata nei movimenti negli ultimi dieci anni, quindi con una visione interna ai movimenti. Detto questo vi premetto che non è proprio nostro stile difendere a spada tratta i movimenti, anzi siamo critici con tante sfaccettature delle strutture di movimento.

Fatta questa premessa, dico di essere completamente d’accordo con gli interventi che mi hanno preceduto sugli aspetti che riguardano la cosiddetta liquefazione della società e la frammentarietà del corpo sociale in quest’epoca, però non sono d’accordo con l’analisi che legge la liquefazione sociale come un effetto della caduta dei valori, vedendola piuttosto come una forma del presente, l’unica forma necessaria per i tempi che viviamo. Non è che non ci sforziamo di fare una filogenesi ma cerchiamo di evitare una ontogenesi, non andando a leggere il processo storicistico ma fermandoci per l’appunto ad un’analisi storica delle condizioni che determinano oggi la nostra vita. Ci siamo resi conto che uno dei motivi per cui viviamo una società liquefatta, che trova difficoltà ad individuare dei collanti collettivi, deriva dal fallimento delle due dimensioni critiche della vita associata: la dimensione pubblica, e in questo caso il fallimento della democrazia rappresentativa è solo un aspetto particolare di un fallimento di più ampia portata, che è quella del pubblico come dimensione politica della realtà sociale; e, dall’altra parte, con la crisi economica strutturale e dell’implicito modello economico, quella privata. Questo fallimento dei due collanti tipici del Novecento, non significano necessariamente un nichilismo generalizzato della realtà attuale. Si può prendere atto della fase di scollamento sociale, ma cercando di guardare alla parte piena del bicchiere, che ci parla della spinta che si verifica in diverse parti del tessuto sociale a nuove istituzioni, in base a nuove forme della vita associata e nuove dimensioni politiche. Questo non significa che queste spinte siano già una maggioranza, o abbiano già una qualche egemonia, si tratta sicuramente di un discorso ancora minoritario, ma dove minoranza non sta per residualità, anzi.

I territori con le loro lotte locali, ma anche alcuni movimenti transnazionali, ci parlano di nuove prospettive praticabili, che non ci precludono la visuale verso il futuro, pur nella consapevolezza di estremo stallo e di crisi radicale delle mobilitazioni sociali.

Il fallimento della dimensione del pubblico non significa la immediata cessazione delle forme tradizionali della democrazia rappresentativa, ma un aumento delle contraddizioni fra politica e società reale, uno scollamento sempre maggiore tra le forme di governamentalità e i flussi reali dei singoli paesi e territori. È evidente che la governamentalità intesa come qualcosa di più complesso del governo in sé, tocca aspetti che concernono il controllo capillare del territorio. Il fallimento della politica della rappresentanza si palesa anche attraverso l’emergere di un nuovo autoritarismo tecnocratico, attraverso il feticcio dell’efficientismo e del decisionismo, che viene interpretato bene in Italia da Monti in questo momento, ma che è già presente a livello europeo da un po’ di tempo. Tuttavia laddove una forma politica viene meno, si crea lo spazio politico per le spinte di nuove pressioni istituenti. Non si può negare il tentativo, da parte di intere comunità, di cercare nuove forme di istituzioni, senza cadere nel semplice anti-istituzionalismo. E con nuove comunità mi riferisco non alle strutture politiche già esistenti, ma ai movimenti fatti di persone comuni che lottano per un protagonismo diretto nella scena politica. C’è da fare una differenza fra spontaneità e spontaneismo, dato che oggi la spontaneità riesce a diventare una singolarità propositiva nel momento in cui si nutre di quel general intellect formatosi sul campo anche a partire da spinte Nimby (non nel mio cortile), ma che con il tempo, esercitando una militanza sul territorio, acquisisce collettivamente una conoscenza e un sapere superiore a quella dei cosiddetti tecnici, e che riesce a socializzare attraverso strumenti di messa in rete delle conoscenze. L’esistenza di queste spinte istituenti, ci fa mettere in discussione tutta una serie di leggi, paradigmi e categorie affermate. Sicuramente lo sforzo di leggere lo spazio e il tempo della politica secondo una chiave omogenea è uno sforzo che non porta oggi a risultati soddisfacenti per l’analisi stessa. Io penso che questo sia un tempo eterogeneo e uno spazio eterogeneo, e che vada letto come tale, senza volontà di cercare il soggetto, ma prendendo atto della pluralizzazione delle soggettività, e della spinta al massimo di produzione della soggettivazione, dove per soggettivazione non si intende necessariamente la ricomposizione del soggetto, come può essere ad esempio il partito, ma piuttosto soggettivazione intesa, foucaultianamente, come “presa di parola”, capacità di mettere un paragrafo in un testo collettivo che è la realtà sociale. Per questo motivo sono portato a mettere in discussione tutta una serie di categorie, più classicamente binarie, che pure mi hanno formato. Il problema è proprio questo: superare l’ottica binaria, intrinseca nell’analisi politologica e filosofica. Questo tipo di analisi infatti risente in modo limitativo dell’impostazione binaria. Per ottica binaria intendo quell’ottica tutta orientata ad una lettura dialettica della realtà, come può essere una lettura che giudica i fenomeni come politici o pre-politici. Ad esempio sui riot di Londra si sono consumati dibattiti tra chi li bollava come pre-politica e chi invece li elevava a espressioni rivoluzionarie. Questo tipo di interpretazioni finiscono sempre per essere troppo ingenerose nei confronti della realtà, limitando le possibilità di prospettiva del dibattito. Allo stesso modo si corre il medesimo rischio nel momento che si pone una semplice dicotomia tra individualismo e comunitarismo. È vero, l’individualismo ha rappresentato una svolta paradigmatica, in fase ritardata, anche per il nostro paese, negli anni sessanta e settanta. Sicuramente l’individualità è la singolarità di cui prendere atto oggi per ripensare i modi di stare insieme, probabilmente il tipo di comunitarismo o di collettività che si può auspicare nella forma del pubblico oggi non è più praticabile. Oggi immagino una forma sicuramente più reticolare dello stare insieme, una forma che nel migliore degli auspici può essere quella della produzione di comune e quando parlo di comune non ne parlo in una chiave prettamente negriana. Sicuramente mi sono cimentato su questa parola-concetto a partire dalle letture di Negri, ma oggi assumo una posizione critica nei confronti di Negri, soprattutto per quanto riguarda la condivisione della sua agenda politica in relazione all’analisi. Quindi quando parlo di comune mi riferisco ad una ri-declinazione di questo termine a partire non dalla fredda architettura del pensiero rivoluzionario ma da un’inchiesta cronica, co-ricercata e quotidiana tra i tessuti sociali che abitiamo. Un altro paradigma che risulta insufficiente è il paradigma della rivoluzione. Noi oggi abbiamo preso la forza di dirci per nulla rivoluzionari, ma non perché non siamo a favore di un cambiamento radicale delle cose, o peggio perché abbiamo sposato una visione riformista, ma perché non pensiamo più che la rivoluzione, intesa come il capovolgimento dell’ora x, possa davvero rappresentare l’obiettivo a cui mirare. Noi siamo inscindibili dalle contraddizioni del capitale, vi siamo tutti dentro, e non siamo più paragonabili con i movimenti degli anni sessanta e settanta e non possiamo neanche più ritenerci come la coda di quelle generazioni. Per noi l’alternativa si dà tutta nella dimensione del comune, anche se siamo consapevoli dell’inflazione che sta subendo il termine di “beni comuni”.

Su internet preferisco non parlare di quello che può fare in termini di aggregazione sociale ma preferisco parlare di quello che ha fatto fin’ora. Certamente è stato tutto il buono e tutto il negativo possibile, come specchio della nostra società. Il concetto di rete in cui costruire nuove istituzioni non è tutto riconducibile ad internet, anche se c’è nei movimenti chi pensa questo. Per noi l’esigenza è quella di ri-territorializzare, di creare luoghi laddove vi sono solo non-luoghi. L’occupazione del Dada è proprio lo sforzo di ricreare un luogo. Sappiamo che l’Università è morta e come sciacalli andiamo a prenderci le reliquie dell’Università, per creare la nostra Università come piccolo tassello della produzione di sapere. I movimenti dovrebbero non lasciarsi meccanizzare ma mediatizzarsi da soli, auto-narrarsi, anche se non sempre ci riescono in modo non autoreferenziale, così come dovrebbero abbandonare quegli elementi di antagonismo ideologico, prendere atto della de-soggettivizzazione e stare dentro questo tipo di linguaggi. A mio avviso anche la patologizzazione dei fenomeni collettivi e sociali non rende giustizia alla necessità di singolarizzare l’analisi.

La prospettiva è quella di sottrarre quotidianamente al duopolio pubblico-privato, producendo nuova cittadinanza in due modi, facendo micro-politica, con esperienza come il Dada, e, quando c’è l’opportunità, facendola in modo moltitudinario con una forte vocazione maggioritaria. Cioè se c’è un movimento diventa necessario coltivare l’aspirazione di farlo diventare quanto più possibile maggioritario possibile, anche se non nella partecipazione quanto piuttosto nel lessico. Per noi esempi di movimenti maggioritari sono quelli come il movimento di Chiaiano, del No-Tav, che hanno il coraggio di proporre il proprio discorso come egemone.

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