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09
Gennaio 2013

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PAMPHLET SULLA RIVOLUZIONE. Perché non accade?

 

Massimo Ammendola

Abbiamo introiettato l’impossibilità di cambiare le cose, di modificare la società. E questa convinzione forse ci fa comodo. Quanto davvero siamo disponibili a metterci in gioco?

Nell’idea di rivoluzione è implicito lo stravolgimento di ciò che è. E forse noi stessi siamo i difensori dello status quo. In fin dei conti quasi nessuno è disposto al sacrificio: anche se non sarà una vita di lusso, nessuno vuole perdere o comunque mettere in gioco i propri comfort, i propri affetti, il proprio piccolo giardino.

È faticoso pensare la rivoluzione, è faticoso studiare. Oltre ad esser complicato, dato che buona parte del nostro tempo siamo costretti ad impiegarlo per lavorare. Con il poco tempo libero che resta, tutto ci spinge ad un nonpensante svago, durante il quale siamo comunque produttori di profitto.

La grande vittoria del capitalismo è stata la creazione del sistema dei consumi e desideri, tramite l’aumento degli stipendi, dopo la crisi del ‘29, che ha permesso il graduale accesso a tutta la popolazione a beni che erano inaccessibili, che psicologicamente innalzavano il tenore di vita, essendo degli “status-symbol”, espressione d’appartenenza a una più elevata classe sociale. Oggi ne vediamo l’esasperazione: cellulari, auto, e altre chincaglierie tecnologiche di massa, condite dal sistema di svago e intrattenimento che contorna ogni istante della nostra esistenza... L’essere umano è abituato a tutto questo, e abituato a lavorare tutto il giorno, tutti i giorni. Inizia a sorgere il dubbio che davvero non voglia cambiare il modo in cui vive, almeno inconsciamente. Non saprebbe neanche cosa fare se avesse buona parte della giornata a disposizione!

L’uomo è sempre contento di demandare a qualcun altro. Lo sappiamo bene qui nel Meridione, siamo sempre stati pronti a delegare all’invasore di turno la gestione delle nostre vite.

Ci siamo abituati a come va il mondo, ci si lamenta, ci si indigna, ma in fin dei conti tutti pensiamo che sia sempre girato così, e che nulla cambierà. Comodo!

Chi si impegna nella teoria e nella pratica di cambiamento, è spesso solo, isolato. La grande debolezza è rappresentata dalla frammentazione. Esistono miriadi di gruppi, con finalità simili, ma che si muovono in maniera disorganica, con un basso livello di comunicazione e sinergia collettiva. E si moltiplicano così centinaia di minimovimenti, impegnati sui più disparati temi, in maniera settaria e miope, occupandosi di problemi senz’altro importanti, ma che non possono risolversi in un mondo che pensa solo al profitto. C’è un problema generale alle spalle, ovvero il nostro caro sistema capitalistico, fonte di tutti i problemi e le ingiustizie, che non possiamo dimenticare. Quasi mai si riesce ad avere un’analisi globale, generale, della realtà.

Infine, ciò che manca è un progetto, una direzione. Non si sa qual è l’alternativa. Non riusciamo neanche ad immaginarlo un mondo diverso, dato che il nostro immaginario è stato manipolato profondamente. Inoltre, il nemico è immateriale. Il capitalismo globalizzato è incorporeo, è fatto da marchi, che ci sono simpatici o antipatici, ma non li pensiamo come se fossero esseri umani. È un nemico onnipresente e allo stesso tempo invisibile. Combattere contro un nemico che pervade tutto, ma che non posso prendere a calci, è cosa alquanto singolare e complicata.

 

Rivoluzione sistemica

Pier Luigi Fagan

Rivoluzione è un concetto assai indeterminato. Ai tempi di Copernico era un lungo giro per tornare al punto di partenza. Nel periodo romantico a rivoluzione si diede il significato di repentina e radicale rottura trasformativa, ma anche radicale è un termine ambiguo poiché alla sua origine (xvii secolo) significava un ritorno all’origine, alla radice.

Evoluzione è un termine non meno scivoloso. Nell’evoluzionismo si confrontano due idee della dinamica del cambiamento: quella darwiniana della lenta e progressiva collezione di mutazioni e quella del nuovo paradigma saltazionista (S.J. Gould, N. Eldredge) per il quale il processo è a scalini con qualche esplosione di “nuovo” che intervalla lunghi periodi di stasi. Sulla concezione occidentale del mutamento a lungo ha dominato la concezione medioevale, ripresa poi da Leibniz, del Natura non fecit saltus. Poi è arrivato M.Plank ed ha scoperto che gli elettroni possono collocarsi solo a certi livelli di energia a cui “saltano” solo dopo aver immagazzinato certe quantità di energia necessaria. Da qui la teoria dei quanti.

In epistemologia, T. Khun (La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi) propone un sistema di comprensione di come funziona il vecchio ed il nuovo in termini di teoria scientifica, ma più in generale, di pensiero. Il vecchio domina attraverso il dominio che esercita un paradigma, monarca del pensiero. Piano, piano, l’osservazione di fatti e gli esperimenti collezionano una serie di fatti “fuori paradigma”. Similmente ai quanti di Plank, quando queste incongruenze creano una massa critica si forma un paradigma nuovo che supera inglobandolo il vecchio. Il nuovo ordina tutto quello che già ordinava il vecchio ma anche quello che il vecchio non ordinava più. La rivoluzione è questa sostituzione matura di un vecchio paradigma ormai non più adatto.

Potremmo cominciare a vedere la teoria del cambiamento sociale in maniera kuhniana. L’essenza del capitalismo non è economica ma sociale, è l’affermazione del paradigma economico come ordinatore della società, dei suoi fini, delle sue relazione interne, dei suoi valori e gerarchie. Una rivoluzione di paradigma nel senso di una totale sostituzione di ciò che produce l’ordine del sistema umano non credo vada ricercata nelle forme economiche inizialmente, ma nella forma politica. Il movente c’è. I fatti fuori teoria (la diseguaglianza crescente, il nuovo disordine geopolitico multipolare, l’esaurimento dell’euforia da doping finanziario, il collasso economico degli Stati, la dittatura dei debiti, l’anomia delle società individualizzate ed altro) dicono che è urgente la ricerca di un nuovo modo di stare al mondo. Soprattutto in Occidente.

Se il vecchio ordine, vecchio di millenni, è stato quello dei Pochi che subordinano i Molti (con aristocrazie, stratocrazie, teocrazie, econocrazie), il nuovo dovrebbe essere quello dei Molti che si governano da soli, il passaggio dall’eteronomia all’autonomia, la sostituzione dell’oligarchia con la democrazia. Una democrazia integrale, diffusa, partecipata, non delegata. Fare delle comunità, quello che le comunità vogliono essere.

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Alessandro D’Aloia

Parto da un concetto di rivoluzione come grosso taglio storico, volendo significare che il termine “rivoluzione” non può non implicare cambiamenti storici dotati di una certa stabilità, non solo nelle strutture economiche e sociali ma proprio nel modo di essere della gente. Nella società odierna la forma mentale dominante o egemonica è quella individuale. Vorrei analizzarne la radice.

Si dà freudianamente per scontato che il soggetto sia dotato di un’identità definita. Il corollario dell’esistenza di un è quello dell’esistenza dell’altro. Il sé e l’altro sono separati, isolati e in rapporto conflittuale. L’altro è il pericolo rispetto al quale salvaguardare la propria individualità. Vale a dire che l’affermazione del sé implica la soppressione dell’altro.

Lo schema sociale che ne deriva è intimamente conflittuale e animato da lotte perenni fra simili, percepiti reciprocamente come pericoli. Il motore dell’agire quotidiano diventa il terrore: la paura di soccombere rispetto agli altri. Essendo la paura una “passione” e non un’idea razionale, per quanto possa essere razionalizzata e teorizzata, ne consegue che la vita è effetto di ciechi istinti, indistinti ed inespressi, piuttosto che di scelte consapevoli e critiche. Se l’individuo è costituito come isolato esso è facile preda di istinti paranoici che lo portano ad agire come un animale braccato.

Questo modo di agire trova consonanza con il sistema economico che si configura come la somma della lotta degli interessi privati per la propria affermazione. Per di più la paura rende i soggetti molto esposti alla manipolazione ed in effetti la politica, per quanto rappresentata come lotta di idee razionali, come ideologie più o meno contrapposte, è in realtà l’arte del governo delle passioni umane. Si de-razionalizza l’uomo per renderlo governabile. La ragione politica trova piuttosto applicazione in questo fine, quello cioè di rendere istintuale il comportamento sociale dell’individuo massificato.

La domanda è allora se l’uomo corrisponde naturalmente a questa impostazione, oppure se questa sua presunta natura non sia una mera rappresentazione funzionale alla struttura economica e alla sovrastruttura politica del potere. In altri termini se la sua identità possa essere considerata come fatta e formata una volta per sempre e bisognosa di salvaguardia o se essa non sia invece il prodotto di una continua dialettica fra il sé e l’altro. Nel primo caso l’altro è veicolo di paura, nel secondo è veicolo di desiderio.

Sconfiggere definitivamente la paura dell’altro, la solitudine dell’io e l’ansia del futuro, sarebbe il grosso taglio storico auspicato in partenza. Potrebbe essere definito un evento rivoluzionario. Ma la seconda domanda è se una politica fondata solo su buone ragioni abbia il potere di scalfire una coscienza sociale governata dagli istinti, dall’egoismo individualista e da un desiderio tanto castrato quanto pervertito. Una rivoluzione senza capacità di appassionare la moltitudine, può realmente accadere? Non si tratta piuttosto di partire da una diversa considerazione dell’uomo e cercare di valorizzarne gli istinti sociali? In fondo l’uomo si realizza solo insieme agli altri. La politica rivoluzionaria ha senso al di fuori di una propria capacità di fascinazione collettiva?

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Giovanna Callegari

La Rivoluzione oggi è seduta al tavolo di mediazione presieduto dal Potere.

La mediazione non è altro che un modo di riprodurre sistemi di forza consolidati, preservando l’onore del/la rivoluzionario/a in potenza, sconfitto/a sì dalla scarsità di viveri e tempo, ma anche dal misconoscimento della sua stessa capacità di creare alterazioni dell’esistente. Penso ai rapporti familiari, alla relazione d’amore, alle lotte per affermare diritti costituzionali. Con le dovute sfumature, la forza rivoluzionaria, riesce ormai ad essere sempre più integrata da sistemi di controllo e “cura” in grado di riassorbire e razionalizzare l’anomalia imprevista, di farla rientrare nell’economia dell’apparato, di sottrarle energia e dignità.

La mediazione narcotizza ogni spinta rivoluzionaria potenzialmente trasformativa. La paura dell’altro/a, della sua capacità immaginativa, generata dalla tendenza, non sempre naturale, alla ricerca di vie di fuga dal dolore, produce tavoli di discussione circolari solo all’apparenza, proposti generalmente da chi il potere sa di detenerlo ed è, inoltre, capace di gestirlo. Il potere affettivo, economico o culturale che sia, è quanto di meno rivoluzionario esista, a volte può essere il prodotto di una rivoluzione, ma il volto che assume dal primo istante in cui si celebra la cerimonia del suo riconoscimento è quello della tradizione: monosemico e banale, eppure seducente e pervasivo. La capacità di mediazione del Potere è illimitata.

Le Rivoluzioni falliscono perché chi è in rivolta chiede ancora riconoscimenti da parte del Potere, chiede Potere al Potere e quindi, riconoscendolo, cade nella trappola dialettica che destina il/la rivoluzionario/a alla definitiva invisibilità o alla silenziosa connivenza.

Anche le donne che hanno attraversato la radicalità della riflessione femminista sul Potere hanno ancora, prevalentemente, come modello relazionale da sconfiggere quello hegeliano del servo-padrone.

Nel 1970 Carla Lonzi scriveva che l’oppressione della donna «non si risolve nella rivoluzione, ma prosegue nella rivoluzione» e che le esigenze dell’oppressa non «implicano un’antitesi, ma un muoversi su un altro piano». Ed è proprio questa incapacità di produrre alterazioni nelle relazioni, è la difficoltà di “alterarsi” che impedisce le Rivoluzioni oggi, che non crea comunità rivoluzionaria, politica. L’esercizio dovrebbe partire dalla sottrazione delle relazioni di forza che agiscono nel privato.

Io chiamerei tutto questo incapacità immaginativa.

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Giulio Trapanese

Uno degli ostacoli odierni della rivoluzione, per quanto forse non quello determinante, è costituito dal concetto stesso di rivoluzione. Il concetto stesso di rivoluzione proveniente dalla scuola marxista, di cui noi tutti siamo figli, volenti o nolenti, è un concetto interno al quadro di un periodo storico ben definito, inaugurato con le rivoluzioni del xviii e xix secolo, in cui la linearità della storia costituiva un’idea accettata, più o meno, unanimemente da tutti.

Fare la rivoluzione poteva ancora significare, allora, accelerare il parto della storia nella direzione del progresso.

La stessa rivoluzione marxista veniva concepita da molti come il processo successivo a quello del farsi borghese del mondo, processo che avrebbe sviluppato le forze di produzione e i rapporti sociali in un senso ulteriore, conseguendo la rottura delle forme di dominio e oppressione della classe borghese sulle altre.

D’altra parte, la storia alla base delle rivoluzioni borghesi non era ancora la società accelerata e disintegrata che ci troviamo a vivere noi. Società, questa, in cui si esprime la piena realizzazione del dominio della borghesia e del suo modo astratto di intendere la vita.

In sintesi, voglio dire: le forme sociali e culturali dei tempi di Marx e del xix sec. permettevano ancora la possibilità di pensare il cambiamento rivoluzionario perché si trovavano all’interno di un quadro in cui sviluppo tecnico, culturale e ideologico, nella loro permanenza o nel loro lento cambiamento, erano ancora in grado di costituire lo sfondo per un possibile cambiamento di altra natura; oggi, invece, la ristrutturazione e il cambiamento continuo dell’architettura della vita e della cultura da parte del sistema dominante, mina alla stessa radice la possibilità che “la rivoluzione sia rivoluzionaria”. Il nostro sistema è già un sistema produttivo e dei consumi basata sulla trasformazione e sulla volatilità dei riferimenti e delle forme.

Bisognerebbe davvero, allora, capire oggi cosa può voler dire rivoluzionario, in un sistema che per sopravvivere ha bisogno continuamente di rinnovare se stesso. Forse rivoluzionare il sistema della rivoluzione e della distruzione permanenti potrà significare ricostruire nuovi ordini di senso per la comunità umana, in grado di resistere alla destrutturazione che è in atto di ogni senso, di ogni aggregazione, e di ogni significato. Immaginare un futuro, che vada mantenuto almeno per un paio di generazioni, e che non si volatilizzi nel giro di qualche manciata di anni

Creare un nuovo ordine, quindi, non capovolgerlo. Perché viviamo in un mondo che è ben in grado di spacciare per proprio sia se stesso che il suo opposto.

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Giulia Inverardi

La rivoluzione oggi è soprattutto la fine dell’innocenza. Per la generazione a cui appartengo, nata negli anni ‘80, penso che questo sia lo scoglio principale perché, venuti al mondo nel cuore del capitalismo già finanziario, già alla seconda, tutta la strada risultava tracciata: «Non c’è alternativa», ripeteva ossessivamente Mario Monti al suo primo discorso da premier. E anche se per certi aspetti la società di cui oggi siamo a discutere è effettivamente intrisa di egoismo e violenza (ma individuali), essa punta anzitutto ad evitare una certa violenza, la violenza collettiva, quella dell’alternativa. Ciò che intendo dire è: la strada che ci siamo trovati davanti era senza dubbio battuta nel segno del moralismo, di un’etica dei “bravi bambini” che al presente ammorba più che mai qualsiasi dibattito e tentativo di avanzamento e di proposta politica.

I giudizi piovono come mannaie, e troncano qualsiasi sviluppo, quando di mezzo c’è la rivolta collettiva e la possibilità di sovvertimento dell’ordine; i se e i ma innalzano mura e scavano fossi, tagliano la strada a ogni senso e impediscono ramificazioni di discorsi e alternative. Bisogna protestare nel rispetto, nella tranquillità, bisogna evitare di creare disagio (figurarsi danno), bisogna controllarsi, e se c’è rabbia, anche giustificata, non è giustificato esprimerla; bisogna moderarsi, bisogna seguire il percorso concordato, bisogna essere concilianti, bisogna aspettare e “lasciar lavorare” chi ne sa più di noi, prima di dare giudizi. Questa è l’etica della responsabilità passiva e volta al futuro (un futuro sempre rimandato, naturalmente), un’etica che vuole fare piazza pulita della storia e dell’accumulo di ingiustizie.

Al contrario credo anch’io fermamente, come scriveva Sanguineti a proposito della rivoluzione, che noi siamo tenuti anzitutto a vendicare i nostri padri, a rendere giustizia alla storia, a quello che è già stato ed è rimasto impunito: tutto ciò che ha ormai definitivamente dimostrato che non esiste il capitalismo buono, moderato, tutto ciò che ha definitivamente dimostrato che bisogna prendere posizione, che essere moderati e concilianti con chi schiaccia o ha schiacciato gli oppressi è un abominio.

Perdere l’innocenza non significa passare tutti su due piedi alla lotta armata. Significa capire (sentire scendere nelle nostre fibre, nei fondamenti più profondi di ogni nostro pensiero) una cosa: a questo mondo l’innocenza non esiste, il buono e bravo non esiste, l’incolpevole non è possibile. Non si può salvare capra e cavoli, ed è pressoché sicuro che la capra mangerà i cavoli, perché così ha sempre fatto, perché è una capra!

Credo che la rivoluzione oggi sia questo: capire che prendere posizione non è mai indolore, che qualsiasi cambiamento costa caro, ma che più caro e salato è il debito che chi opprime ha nei confronti di chi è stato oppresso, e di chi è oppresso ora. Oltre ai padri, tocca a noi vendicare anche i nostri fratelli, coloro che oggi crepano di inedia, stenti, discriminazione e leggi, coloro che stentano nell’ombra delle nostre città, quelli che non hanno nessuno a cui chiedere consiglio o protezione, che non hanno la rete della famiglia più o meno amorevole, quelli che sono caduti nel fondo di un vizio iniziato solo per correggere un po’ una vita troppo dura da assumere liscia, un vizio indispensabile per proteggersi, quelli che stanno scivolando sotto la soglia della dignità e a cui questo brucia di più, perché gliela stanno scucendo via dalla pelle.

Innocenti non lo siamo comunque, io credo che si debba tentare almeno di essere “non innocenti” utilmente. Non per forza violenti, ma nemmeno ciechi alla storia, alle proporzioni, al contesto, e in ogni situazione pronti a prendere una posizione coerente. Mediazione e conciliazione non sono negative in quanto tali, anzi, sono il tessuto che dovrebbe supportare un’avanzata degli intenti, che dovrebbe fare da base alla difesa e al progresso, all’avvicinamento e all’unità fondamentale delle parti sane della società, ma non possono diventare scusanti per un violentissimo ritiro, per un sottrarsi allo scontro, per un giudizio a freddissimo dettato da un moralismo perverso e castrante, maliziosamente autorevole.

Rivoluzione è diventare abbastanza grandi da essere pronti a sbagliare, pur di muoversi in nome di chi è oppresso, abbastanza forti da sopportare i dubbi e i dolori, gli scotti personali e di gruppo, abbastanza calmi da superare se stessi, gl’imprinting educativi che ci hanno forgiato come responsabili nullità inoffensive, muti, amabili, colpevoli.

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Nota in margine al tema Rivoluzione

Guido Cosenza

Cari amici di Città Future, bisogna fare molta attenzione riguardo alla categoria rivoluzione.

Con questo termine io intendo il confronto duro, generalmente violento, ben programmato, fra, da un lato il gruppo che detiene il potere nella società in cui si svolge il conflitto, e dall’altro un insieme di componenti legate da interessi comuni divergenti da quelli dei circoli dominanti.

Durante la prima fase dell’affermazione del modo di produzione capitalista si è trattato di lotta di classe.

Lo scontro presuppone il confronto fra forze organizzate.

Al momento attuale esistono inconciliabili divergenze fra gli attuali circoli dominanti del potere e la stragrande maggioranza dei cittadini, che però non costituisce una classe [altrove ho discusso in dettaglio il quadro sociale: G.C. - La transizione e G.C. Il nemico insidioso].

Lo scontro di classe è avvenuto nel passato recente e ha avuto momenti decisivi, ma il punto di rottura è stato superato.

L’insieme dei cittadini i cui interessi divergono sempre più da quelli del gruppo dominante esercitano forze disperse e una loro riorientazione comune in grado di competere con i mezzi offensivi di cui dispongono gli avversari non è ragionevolmente prevedibile.

La classe operaia dell’occidente, cioè dei paesi a lunga tradizione industriale, a causa di molteplici fattori fra cui la modifica delle condizioni di lavoro, è stata assorbita nel più ampio schieramento della cosiddetta classe media, vale a dire dell’insieme dei cittadini a cui si è accennato e non contesta più il sistema, salvo avanzare richieste di accesso a un maggior volume del prodotto sociale.

Le sacche sempre più ampie di indigenza acuta presenti nel mondo cosiddetto occidentale sono tenute sotto controllo con ingenti mezzi repressivi e un perfezionato sistema di droghe o strumenti ad esse assimilabili. Né d’altra parte tali strati sociali sarebbero in condizione di gestire una rivoluzione, al più si abbandonano a rivolte facilmente reprimibili.

I paesi del terzo mondo al momento non sono candidati ad essere protagonisti del rovesciamento dell’attuale modello sociale, al loro interno è tuttora dominante il miraggio di partecipazione in un futuro non lontano alle presunte meraviglie del mondo capitalista che loro si affaccia attraverso gli inganni telematici.

La transizione – se transizione ci sarà – cioè una modifica decisiva dell’ordinamento sociale, non potrà che avvenire attraverso la costruzione dal basso di una diversa struttura sociale in grado di dilagare nell’intero corpo della società, il che implica tagliare l’erba sotto i piedi agli attuali detentori del potere, oppure avverrà a causa di un devastante collasso dovuto all’inesorabile, inevitabile montare delle contraddizioni strutturali del sistema.

Ma tutto ciò non è tema da poter esaurire in trenta righe.

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Rivoluzione

Daniele Pugliese

Occhi chiusi, orecchie tappate! La percezione delle cose non esiste più! Tutto ci interessa e nulla ci appartiene! Siamo tutti sullo stesso binario: lavoro per vivere… Non ho tempo per me e la domenica devo lavorare… L’aperitivo si fa a mezzogiorno… Devo mangiare perché è l’una e mezza… La messa è alle sei… Dopo le superiori voglio “prendere” ingegneria perché lì si lavora… Prima del matrimonio, la macchina si lava! Siamo incatenati a un sistema che non ci lascia liberi di pensare! Troppa confusione, troppo materialismo attorno a noi! Non siamo minimamente lucidi da capire che tutto è già fallito! Nel passato, prima di qualsiasi rivoluzione si nascondevano anni e anni di incontri in luoghi nascosti, dove col tempo si maturava la consapevolezza che l’unico modo di cambiare le cose era opporsi al sistema e ripartire con nuove regole! Oggi ci lasciamo scorrere tutto addosso e sono in pochi ad aver capito che non esiste alcuna crisi economica, ma la vera crisi è quella psicologica! Davanti a un tramonto ci domandiamo economicamente quanto può valere una vista del genere, invece di soffermarci a pensare che tale vista potrebbe emozionarci talmente da poter stare anche digiuni per giorni! Ci siamo fatti contaminare! Ormai siamo spacciati al nostro destino, e l’unico modo per svegliarci è sperare che qualcuno faccia una rivoluzione contro di noi!