PAMPHLET SULLA RIVOLUZIONE.
Perché non accade?
Massimo Ammendola
Abbiamo
introiettato l’impossibilità di cambiare le cose, di modificare la
società. E questa convinzione forse ci fa comodo. Quanto davvero siamo
disponibili a metterci in gioco?
Nell’idea di
rivoluzione è implicito lo stravolgimento di ciò che è. E forse noi
stessi siamo i difensori dello
status quo. In fin dei conti quasi nessuno è disposto al sacrificio:
anche se non sarà una vita di lusso, nessuno vuole perdere o comunque
mettere in gioco i propri comfort, i propri affetti, il proprio piccolo
giardino.
È faticoso
pensare la rivoluzione, è faticoso studiare. Oltre ad esser complicato,
dato che buona parte del nostro tempo siamo costretti ad impiegarlo per
lavorare. Con il poco tempo libero che resta, tutto ci spinge ad un
nonpensante svago, durante il quale siamo comunque produttori di
profitto.
La grande
vittoria del capitalismo è stata la creazione del sistema dei consumi e
desideri, tramite l’aumento degli stipendi, dopo la crisi del ‘29, che
ha permesso il graduale accesso a tutta la popolazione a beni che erano
inaccessibili, che psicologicamente innalzavano il tenore di vita,
essendo degli “status-symbol”, espressione d’appartenenza a una più
elevata classe sociale. Oggi ne vediamo l’esasperazione: cellulari,
auto, e altre chincaglierie tecnologiche di massa, condite dal sistema
di svago e intrattenimento che contorna ogni istante della nostra
esistenza... L’essere umano è abituato a tutto questo, e abituato a
lavorare tutto il giorno, tutti i giorni. Inizia a sorgere il dubbio che
davvero non voglia cambiare il modo in cui vive, almeno inconsciamente.
Non saprebbe neanche cosa fare se avesse buona parte della giornata a
disposizione!
L’uomo è sempre
contento di demandare a qualcun altro. Lo sappiamo bene qui nel
Meridione, siamo sempre stati pronti a delegare all’invasore di turno la
gestione delle nostre vite.
Ci siamo abituati
a come va il mondo, ci si lamenta, ci si indigna, ma in fin dei conti
tutti pensiamo che sia sempre girato così, e che nulla cambierà. Comodo!
Chi si impegna
nella teoria e nella pratica di cambiamento, è spesso solo, isolato. La
grande debolezza è rappresentata dalla frammentazione. Esistono miriadi
di gruppi, con finalità simili, ma che si muovono in maniera
disorganica, con un basso livello di comunicazione e sinergia
collettiva. E si moltiplicano così centinaia di minimovimenti, impegnati
sui più disparati temi, in maniera settaria e miope, occupandosi di
problemi senz’altro importanti, ma che non possono risolversi in un
mondo che pensa solo al profitto. C’è un problema generale alle spalle,
ovvero il nostro caro sistema capitalistico, fonte di tutti i problemi e
le ingiustizie, che non possiamo dimenticare. Quasi mai si riesce ad
avere un’analisi globale, generale, della realtà.
Infine, ciò che
manca è un progetto, una direzione. Non si sa qual è l’alternativa. Non
riusciamo neanche ad immaginarlo un mondo diverso, dato che il nostro
immaginario è stato manipolato profondamente. Inoltre, il nemico è
immateriale. Il capitalismo globalizzato è incorporeo, è fatto da
marchi, che ci sono simpatici o antipatici, ma non li pensiamo come se
fossero esseri umani. È un nemico onnipresente e allo stesso tempo
invisibile. Combattere contro un nemico che pervade tutto, ma che non
posso prendere a calci, è cosa alquanto singolare e complicata.
Rivoluzione sistemica
Pier Luigi Fagan
Rivoluzione è un concetto assai
indeterminato. Ai tempi di Copernico era un lungo giro per tornare al
punto di partenza. Nel periodo romantico a rivoluzione si diede il
significato di repentina e radicale rottura trasformativa, ma anche
radicale è un termine ambiguo poiché alla sua origine (xvii
secolo) significava un ritorno all’origine, alla radice.
Evoluzione è un termine non meno
scivoloso. Nell’evoluzionismo si confrontano due idee della dinamica del
cambiamento: quella darwiniana della lenta e progressiva collezione di
mutazioni e quella del nuovo paradigma saltazionista (S.J. Gould, N.
Eldredge) per il quale il processo è a scalini con qualche esplosione di
“nuovo” che intervalla lunghi periodi di stasi. Sulla concezione
occidentale del mutamento a lungo ha dominato la concezione medioevale,
ripresa poi da Leibniz, del Natura
non fecit saltus. Poi è arrivato M.Plank ed ha scoperto che gli
elettroni possono collocarsi solo a certi livelli di energia a cui
“saltano” solo dopo aver immagazzinato certe quantità di energia
necessaria. Da qui la teoria dei quanti.
In epistemologia, T. Khun (La
struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi) propone un
sistema di comprensione di come funziona il vecchio ed il nuovo in
termini di teoria scientifica, ma più in generale, di pensiero. Il
vecchio domina attraverso il dominio che esercita un paradigma, monarca
del pensiero. Piano, piano, l’osservazione di fatti e gli esperimenti
collezionano una serie di fatti “fuori paradigma”. Similmente ai quanti
di Plank, quando queste incongruenze creano una massa critica si forma
un paradigma nuovo che supera inglobandolo il vecchio. Il nuovo ordina
tutto quello che già ordinava il vecchio ma anche quello che il vecchio
non ordinava più. La rivoluzione è questa sostituzione matura di un
vecchio paradigma ormai non più adatto.
Potremmo cominciare a vedere la teoria
del cambiamento sociale in maniera kuhniana. L’essenza del capitalismo
non è economica ma sociale, è l’affermazione del paradigma economico
come ordinatore della società, dei suoi fini, delle sue relazione
interne, dei suoi valori e gerarchie. Una rivoluzione di paradigma nel
senso di una totale sostituzione di ciò che produce l’ordine del sistema
umano non credo vada ricercata nelle forme economiche inizialmente, ma
nella forma politica. Il movente c’è. I fatti fuori teoria (la
diseguaglianza crescente, il nuovo disordine geopolitico multipolare,
l’esaurimento dell’euforia da
doping finanziario, il collasso economico degli Stati, la dittatura
dei debiti, l’anomia delle società individualizzate ed altro) dicono che
è urgente la ricerca di un nuovo modo di stare al mondo. Soprattutto in
Occidente.
Se il vecchio ordine, vecchio di
millenni, è stato quello dei Pochi che subordinano i Molti (con
aristocrazie, stratocrazie, teocrazie, econocrazie), il nuovo dovrebbe
essere quello dei Molti che si governano da soli, il passaggio
dall’eteronomia all’autonomia, la sostituzione dell’oligarchia con la
democrazia. Una democrazia integrale, diffusa, partecipata, non
delegata. Fare delle comunità, quello che le comunità vogliono essere.
Alessandro D’Aloia
Parto da un concetto di rivoluzione come
grosso taglio storico, volendo significare che il termine “rivoluzione”
non può non implicare cambiamenti storici dotati di una certa stabilità,
non solo nelle strutture economiche e sociali ma proprio nel modo di
essere della gente. Nella società odierna la forma mentale dominante o
egemonica è quella individuale. Vorrei analizzarne la radice.
Si dà freudianamente per scontato che il
soggetto sia dotato di un’identità definita. Il corollario
dell’esistenza di un sé è
quello dell’esistenza dell’altro.
Il sé e l’altro sono separati, isolati e in rapporto conflittuale.
L’altro è il pericolo rispetto al quale salvaguardare la propria
individualità. Vale a dire che l’affermazione del sé implica la
soppressione dell’altro.
Lo schema sociale che ne deriva è
intimamente conflittuale e animato da lotte perenni fra simili,
percepiti reciprocamente come pericoli. Il motore dell’agire quotidiano
diventa il terrore: la paura di soccombere rispetto agli altri. Essendo
la paura una “passione” e non un’idea razionale, per quanto possa essere
razionalizzata e teorizzata, ne consegue che la vita è effetto di ciechi
istinti, indistinti ed inespressi, piuttosto che di scelte consapevoli e
critiche. Se l’individuo è costituito come isolato esso è facile preda
di istinti paranoici che lo portano ad agire come un animale braccato.
Questo modo di agire trova consonanza
con il sistema economico che si configura come la somma della lotta
degli interessi privati per la propria affermazione. Per di più la paura
rende i soggetti molto esposti alla manipolazione ed in effetti la
politica, per quanto rappresentata come lotta di idee razionali, come
ideologie più o meno contrapposte, è in realtà l’arte del governo delle
passioni umane. Si de-razionalizza l’uomo per renderlo governabile. La
ragione politica trova piuttosto applicazione in questo fine, quello
cioè di rendere istintuale il comportamento sociale dell’individuo
massificato.
La domanda è allora se l’uomo
corrisponde naturalmente a questa impostazione, oppure se questa sua
presunta natura non sia una mera rappresentazione funzionale alla
struttura economica e alla sovrastruttura politica del potere. In altri
termini se la sua identità possa essere considerata come fatta e formata
una volta per sempre e bisognosa di salvaguardia o se essa non sia
invece il prodotto di una continua dialettica fra il sé e l’altro. Nel
primo caso l’altro è veicolo di paura, nel secondo è veicolo di
desiderio.
Sconfiggere definitivamente la paura
dell’altro, la solitudine dell’io e l’ansia del futuro, sarebbe il
grosso taglio storico auspicato in partenza. Potrebbe essere definito un
evento rivoluzionario. Ma la seconda domanda è se una politica fondata
solo su buone ragioni abbia il
potere di scalfire una coscienza sociale governata dagli istinti,
dall’egoismo individualista e da un desiderio tanto castrato quanto
pervertito. Una rivoluzione senza capacità di appassionare la
moltitudine, può realmente accadere? Non si tratta piuttosto di partire
da una diversa considerazione dell’uomo e cercare di valorizzarne gli
istinti sociali? In fondo l’uomo si realizza solo insieme agli altri. La
politica rivoluzionaria ha senso al di fuori di una propria capacità di
fascinazione collettiva?
Giovanna Callegari
La Rivoluzione oggi è seduta al tavolo
di mediazione presieduto dal Potere.
La mediazione non è altro che un modo di
riprodurre sistemi di forza consolidati, preservando l’onore del/la
rivoluzionario/a in potenza, sconfitto/a sì dalla scarsità di viveri e
tempo, ma anche dal misconoscimento della sua stessa capacità di creare
alterazioni dell’esistente. Penso ai rapporti familiari, alla relazione
d’amore, alle lotte per affermare diritti costituzionali. Con le dovute
sfumature, la forza rivoluzionaria, riesce ormai ad essere sempre più
integrata da sistemi di controllo e “cura” in grado di riassorbire e
razionalizzare l’anomalia imprevista, di farla rientrare nell’economia
dell’apparato, di sottrarle energia e dignità.
La mediazione narcotizza ogni spinta
rivoluzionaria potenzialmente trasformativa. La paura dell’altro/a,
della sua capacità immaginativa, generata dalla tendenza, non sempre
naturale, alla ricerca di vie di fuga dal dolore, produce tavoli di
discussione circolari solo all’apparenza, proposti generalmente da chi
il potere sa di detenerlo ed è, inoltre, capace di gestirlo. Il potere
affettivo, economico o culturale che sia, è quanto di meno
rivoluzionario esista, a volte può essere il prodotto di una
rivoluzione, ma il volto che assume dal primo istante in cui si celebra
la cerimonia del suo riconoscimento è quello della tradizione:
monosemico e banale, eppure seducente e pervasivo. La capacità di
mediazione del Potere è illimitata.
Le Rivoluzioni falliscono perché chi è
in rivolta chiede ancora riconoscimenti da parte del Potere, chiede
Potere al Potere e quindi, riconoscendolo, cade nella trappola
dialettica che destina il/la rivoluzionario/a alla definitiva
invisibilità o alla silenziosa connivenza.
Anche le donne che hanno attraversato la
radicalità della riflessione femminista sul Potere hanno ancora,
prevalentemente, come modello relazionale da sconfiggere quello
hegeliano del servo-padrone.
Nel 1970 Carla Lonzi scriveva che
l’oppressione della donna «non si risolve nella rivoluzione, ma prosegue
nella rivoluzione» e che le esigenze dell’oppressa non «implicano
un’antitesi, ma un muoversi su un altro piano». Ed è proprio questa
incapacità di produrre alterazioni nelle relazioni, è la difficoltà di
“alterarsi” che impedisce le Rivoluzioni oggi, che non crea comunità
rivoluzionaria, politica. L’esercizio dovrebbe partire dalla sottrazione
delle relazioni di forza che agiscono nel privato.
Io chiamerei tutto questo incapacità
immaginativa.
Giulio Trapanese
Uno degli ostacoli odierni della
rivoluzione, per quanto forse non quello determinante, è costituito dal
concetto stesso di rivoluzione. Il concetto stesso di rivoluzione
proveniente dalla scuola marxista, di cui noi tutti siamo figli, volenti
o nolenti, è un concetto interno al quadro di un periodo storico ben
definito, inaugurato con le rivoluzioni del
xviii e
xix secolo, in cui la
linearità della storia costituiva un’idea accettata, più o meno,
unanimemente da tutti.
Fare la rivoluzione poteva ancora
significare, allora, accelerare il parto della storia nella direzione
del progresso.
La stessa rivoluzione marxista veniva
concepita da molti come il processo successivo a quello del farsi
borghese del mondo, processo che avrebbe sviluppato le forze di
produzione e i rapporti sociali in un senso ulteriore, conseguendo la
rottura delle forme di dominio e oppressione della classe borghese sulle
altre.
D’altra parte, la storia alla base delle
rivoluzioni borghesi non era ancora la società accelerata e disintegrata
che ci troviamo a vivere noi. Società, questa, in cui si esprime la
piena realizzazione del dominio della borghesia e del suo modo astratto
di intendere la vita.
In sintesi, voglio dire: le forme
sociali e culturali dei tempi di Marx e del
xix sec. permettevano
ancora la possibilità di pensare il cambiamento rivoluzionario perché si
trovavano all’interno di un quadro in cui sviluppo tecnico, culturale e
ideologico, nella loro permanenza o nel loro lento cambiamento, erano
ancora in grado di costituire lo sfondo per un possibile cambiamento di
altra natura; oggi, invece, la ristrutturazione e il cambiamento
continuo dell’architettura della vita e della cultura da parte del
sistema dominante, mina alla stessa radice la possibilità che “la
rivoluzione sia rivoluzionaria”. Il nostro sistema è già un sistema
produttivo e dei consumi basata sulla trasformazione e sulla volatilità
dei riferimenti e delle forme.
Bisognerebbe davvero, allora, capire
oggi cosa può voler dire rivoluzionario, in un sistema che per
sopravvivere ha bisogno continuamente di rinnovare se stesso. Forse
rivoluzionare il sistema della rivoluzione e della distruzione
permanenti potrà significare ricostruire nuovi ordini di senso per la
comunità umana, in grado di resistere alla destrutturazione che è in
atto di ogni senso, di ogni aggregazione, e di ogni significato.
Immaginare un futuro, che vada mantenuto almeno per un paio di
generazioni, e che non si volatilizzi nel giro di qualche manciata di
anni
Creare un nuovo ordine, quindi, non
capovolgerlo. Perché viviamo in un mondo che è ben in grado di spacciare
per proprio sia se stesso che il suo opposto.
Giulia Inverardi
La rivoluzione oggi è soprattutto la
fine dell’innocenza. Per la generazione a cui appartengo, nata negli
anni ‘80, penso che questo sia lo scoglio principale perché, venuti al
mondo nel cuore del capitalismo già finanziario, già alla seconda, tutta
la strada risultava tracciata: «Non c’è alternativa», ripeteva
ossessivamente Mario Monti al suo primo discorso da premier. E anche se
per certi aspetti la società di cui oggi siamo a discutere è
effettivamente intrisa di egoismo e violenza (ma individuali), essa
punta anzitutto ad evitare una certa violenza, la violenza collettiva,
quella dell’alternativa. Ciò che intendo dire è: la strada che ci siamo
trovati davanti era senza dubbio battuta nel segno del moralismo, di
un’etica dei “bravi bambini” che al presente ammorba più che mai
qualsiasi dibattito e tentativo di avanzamento e di proposta politica.
I giudizi piovono come mannaie, e
troncano qualsiasi sviluppo, quando di mezzo c’è la rivolta collettiva e
la possibilità di sovvertimento dell’ordine; i se e i ma innalzano mura
e scavano fossi, tagliano la strada a ogni senso e impediscono
ramificazioni di discorsi e alternative. Bisogna protestare nel
rispetto, nella tranquillità, bisogna evitare di creare disagio
(figurarsi danno), bisogna controllarsi, e se c’è rabbia, anche
giustificata, non è giustificato esprimerla; bisogna moderarsi, bisogna
seguire il percorso concordato, bisogna essere concilianti, bisogna
aspettare e “lasciar lavorare” chi ne sa più di noi, prima di dare
giudizi. Questa è l’etica della responsabilità passiva e volta al futuro
(un futuro sempre rimandato, naturalmente), un’etica che vuole fare
piazza pulita della storia e dell’accumulo di ingiustizie.
Al contrario credo anch’io fermamente,
come scriveva Sanguineti a proposito della rivoluzione, che noi siamo
tenuti anzitutto a vendicare i nostri padri, a rendere giustizia alla
storia, a quello che è già stato ed è rimasto impunito: tutto ciò che ha
ormai definitivamente dimostrato che non esiste il capitalismo buono,
moderato, tutto ciò che ha definitivamente dimostrato che bisogna
prendere posizione, che essere moderati e concilianti con chi schiaccia
o ha schiacciato gli oppressi è un abominio.
Perdere l’innocenza non significa
passare tutti su due piedi alla lotta armata. Significa capire (sentire
scendere nelle nostre fibre, nei fondamenti più profondi di ogni nostro
pensiero) una cosa: a questo mondo l’innocenza non esiste, il buono e
bravo non esiste, l’incolpevole non è possibile. Non si può salvare
capra e cavoli, ed è pressoché sicuro che la capra mangerà i cavoli,
perché così ha sempre fatto, perché è una capra!
Credo che la rivoluzione oggi sia
questo: capire che prendere posizione non è mai indolore, che qualsiasi
cambiamento costa caro, ma che più caro e salato è il debito che chi
opprime ha nei confronti di chi è stato oppresso, e di chi è oppresso
ora. Oltre ai padri, tocca a noi vendicare anche i nostri fratelli,
coloro che oggi crepano di inedia, stenti, discriminazione e leggi,
coloro che stentano nell’ombra delle nostre città, quelli che non hanno
nessuno a cui chiedere consiglio o protezione, che non hanno la rete
della famiglia più o meno amorevole, quelli che sono caduti nel fondo di
un vizio iniziato solo per correggere un po’ una vita troppo dura da
assumere liscia, un vizio indispensabile per proteggersi, quelli che
stanno scivolando sotto la soglia della dignità e a cui questo brucia di
più, perché gliela stanno scucendo via dalla pelle.
Innocenti non lo siamo comunque, io
credo che si debba tentare almeno di essere “non innocenti” utilmente.
Non per forza violenti, ma nemmeno ciechi alla storia, alle proporzioni,
al contesto, e in ogni situazione pronti a prendere una posizione
coerente. Mediazione e conciliazione non sono negative in quanto tali,
anzi, sono il tessuto che dovrebbe supportare un’avanzata degli intenti,
che dovrebbe fare da base alla difesa e al progresso, all’avvicinamento
e all’unità fondamentale delle parti sane della società, ma non possono
diventare scusanti per un violentissimo ritiro, per un sottrarsi allo
scontro, per un giudizio a freddissimo dettato da un moralismo perverso
e castrante, maliziosamente autorevole.
Rivoluzione è diventare abbastanza
grandi da essere pronti a sbagliare, pur di muoversi in nome di chi è
oppresso, abbastanza forti da sopportare i dubbi e i dolori, gli scotti
personali e di gruppo, abbastanza calmi da superare se stessi,
gl’imprinting educativi che ci hanno forgiato come responsabili nullità
inoffensive, muti, amabili, colpevoli.
Nota in margine al tema Rivoluzione
Guido Cosenza
Cari amici di Città Future, bisogna fare
molta attenzione riguardo alla categoria rivoluzione.
Con questo termine io intendo il
confronto duro, generalmente violento, ben programmato, fra, da un lato
il gruppo che detiene il potere nella società in cui si svolge il
conflitto, e dall’altro un insieme di componenti legate da interessi
comuni divergenti da quelli dei circoli dominanti.
Durante la prima fase dell’affermazione
del modo di produzione capitalista si è trattato di lotta di classe.
Lo scontro presuppone il confronto fra
forze organizzate.
Al momento attuale esistono
inconciliabili divergenze fra gli attuali circoli dominanti del potere e
la stragrande maggioranza dei cittadini, che però non costituisce una
classe [altrove ho discusso in dettaglio il quadro sociale: G.C. -
La transizione e G.C.
Il nemico insidioso].
Lo scontro di classe è avvenuto nel
passato recente e ha avuto momenti decisivi, ma il punto di rottura è
stato superato.
L’insieme dei cittadini i cui interessi
divergono sempre più da quelli del gruppo dominante esercitano forze
disperse e una loro riorientazione comune in grado di competere con i
mezzi offensivi di cui dispongono gli avversari non è ragionevolmente
prevedibile.
La classe operaia dell’occidente, cioè
dei paesi a lunga tradizione industriale, a causa di molteplici fattori
fra cui la modifica delle condizioni di lavoro, è stata assorbita nel
più ampio schieramento della cosiddetta classe media, vale a dire
dell’insieme dei cittadini a cui si è accennato e non contesta più il
sistema, salvo avanzare richieste di accesso a un maggior volume del
prodotto sociale.
Le sacche sempre più ampie di indigenza
acuta presenti nel mondo cosiddetto occidentale sono tenute sotto
controllo con ingenti mezzi repressivi e un perfezionato sistema di
droghe o strumenti ad esse assimilabili. Né d’altra parte tali strati
sociali sarebbero in condizione di gestire una rivoluzione, al più si
abbandonano a rivolte facilmente reprimibili.
I paesi del terzo mondo al momento non
sono candidati ad essere protagonisti del rovesciamento dell’attuale
modello sociale, al loro interno è tuttora dominante il miraggio di
partecipazione in un futuro non lontano alle presunte meraviglie del
mondo capitalista che loro si affaccia attraverso gli inganni
telematici.
La transizione – se transizione ci sarà
– cioè una modifica decisiva dell’ordinamento sociale, non potrà che
avvenire attraverso la costruzione dal basso di una diversa struttura
sociale in grado di dilagare nell’intero corpo della società, il che
implica tagliare l’erba sotto i piedi agli attuali detentori del potere,
oppure avverrà a causa di un devastante collasso dovuto all’inesorabile,
inevitabile montare delle contraddizioni strutturali del sistema.
Ma tutto ciò non è tema da poter
esaurire in trenta righe.
Rivoluzione
Daniele Pugliese
Occhi chiusi, orecchie tappate! La
percezione delle cose non esiste più! Tutto ci interessa e nulla ci
appartiene! Siamo tutti sullo stesso binario: lavoro per vivere… Non ho
tempo per me e la domenica devo lavorare… L’aperitivo si fa a
mezzogiorno… Devo mangiare perché è l’una e mezza… La messa è alle sei…
Dopo le superiori voglio “prendere” ingegneria perché lì si lavora…
Prima del matrimonio, la macchina si lava! Siamo incatenati a un sistema
che non ci lascia liberi di pensare! Troppa confusione, troppo
materialismo attorno a noi! Non siamo minimamente lucidi da capire che
tutto è già fallito! Nel passato, prima di qualsiasi rivoluzione si
nascondevano anni e anni di incontri in luoghi nascosti, dove col tempo
si maturava la consapevolezza che l’unico modo di cambiare le cose era
opporsi al sistema e ripartire con nuove regole! Oggi ci lasciamo
scorrere tutto addosso e sono in pochi ad aver capito che non esiste
alcuna crisi economica, ma la vera crisi è quella psicologica! Davanti a
un tramonto ci domandiamo economicamente quanto può valere una vista del
genere, invece di soffermarci a pensare che tale vista potrebbe
emozionarci talmente da poter stare anche digiuni per giorni! Ci siamo
fatti contaminare! Ormai siamo spacciati al nostro destino, e l’unico
modo per svegliarci è sperare che qualcuno faccia una rivoluzione contro
di noi!