L’IMMAGINARIO
SESSUALIZZATO COME COSTRUZIONE MEDIATICA
Cenni sul sessismo
cognitivo nei media
Eugenio Maddalena
La puttana è una
regina, il suo trono
è un rudere, la sua
terra un pezzo
di merdoso prato,
il suo scettro
una borsetta di
vernice rossa:
abbaia nella notte,
sporca e feroce
come un'antica
madre: difende
il suo possesso e
la sua vita.
(Pier Paolo Pasolini,
La religione del mio tempo,
1961)
Premessa
Quando pensiamo al
termine “società” immediatamente ci balena alla mente l’immagine di un
corpus organico, funzionale,
che scorre nei suoi meccanismi e ingranaggi in maniera fluida: ogni
tassello è necessario ad un altro come un puzzle che alla fine mostra
una figura ben definita. Questo tipo di ragionamento, come è ovvio, è
assolutamente semplicistico e fuorviante ma non è una “colpa” pensare in
questi termini. È piuttosto una “modalità” di rappresentare le cose che
ci è stata messa davanti attraverso la creazione e la diffusione di una
serie di stereotipi vuoti.
Per spiegarmi meglio
non posso fare a meno di riportare quanto scrivevano negli anni settanta
Berger e Berger sul processo di socializzazione:
la
socializzazione è un processo attraverso il quale l’individuo giunge ad
una maturazione umana completa e alla realizzazione del suo massimo
potenziale. La socializzazione è un processo di iniziazione ad un mondo
sociale, con le sue forme di interazione ed i suoi numerosi significati[1].
Qui gli autori si
concentravano soprattutto sulla formazione del “bambino”, della sua
crescita e maturazione, di come sarebbero venute fuori le sue categorie
interpretative, di come avrebbe compreso il mondo circostante e, come lo
avrebbe esteriorizzato.
Gli autori fanno
riferimento ad un universo simbolico in cui il “bambino” agisce,
analizza, tocca, annusa, osserva, dialoga, immagina… in due parole
“interpreta attivamente”.
È proprio sul
concetto di interpretazione che voglio porre l’attenzione. Il nostro
“leggere” le cose avviene attraverso una sorta di corridoio che ci porta
in varie direzioni, creato da pareti che altri hanno edificato per noi
(o meglio che altri hanno imposto che ci costruissimo in un dato modo),
pareti che nemmeno ci accorgiamo di avere grazie al bombardamento che
riceviamo dal mondo dell’infosfera
dal quale attingiamo quotidianamente. La tesi che riporto in questo
elaborato è proprio questa: il nostro modo di introiettare – e poi di
esteriorizzare – la sessualità, il mondo definito astrattamente come
“femminile”[2],
le relazioni con l’altro sesso e la sua monodimensionalità in un quadro
di dominio maschile sono prodotti creati da noi e per noi[3],
da un’esigenza che risponde ai bisogni di riproduzione del capitale.
Devo necessariamente
specificare cosa si intende qui per “capitale” per evitare spiacevoli
fraintendimenti: ciò che intendo è
l’insieme totale di valore di
tutte le merci determinato dal valore reale (di scambio) di una merce e
dal suo plus-valore. Il plus-valore di una merce è immediatamente
collegato alla costruzione dell’immagine stereotipata della donna
nell’era mediale contemporanea attraverso quello che viene chiamato –
con toni incomprensibilmente referenziali – “marketing”, ma a questo ci
arriveremo tra poco. Prima dobbiamo necessariamente passare per il
concetto di “fruizione mediale” che non subirà una trattazione
antropologica (come ben dovrebbe in altre sedi), ma piuttosto si
focalizzerà su come esso viene strumentalizzato in senso performativo da
un certo tipo di classe, che impone i propri valori e – per quel che
concerne l’elaborato – i propri gusti.
Il ruolo della
percezione e in particolare della fruizione delle immagini
Franco “Bifo”
Berardi nel 2006, nell’ ambito di un’introduzione ad una ricerca sul
mediattivismo affermava che
chi intende
comunicare con la nuova generazione videoelettronica deve tener conto di
come funziona il cervello collettivo post-alfabetico, tenendo conto
dell’avvertimento di McLuhan: nella formazione culturale il pensiero
mitico tende a prendere il posto principale rispetto alle forme del
pensiero logico-critico[4].
Per “pensiero
mitico” qui si intende l’astrazione non ragionata e cristallizzata di
ciò di cui fruiamo attraverso il
visibile contrapposto all’intellegibile,
ovvero il processo della mitizzazione in quanto tale. In altre parole,
quando ci troviamo di fronte ad un testo scritto il nostro cervello
elabora le informazioni in modo critico, le confronta con le altre
conoscenze di cui fa parte il “tipo scritto” e le interpreta in quella
particolare funzione; nel momento in cui, invece, ci troviamo di fronte
ad immagini, che ci scorrono davanti costantemente e le recepiamo in
modo passivo (esempio su tutti il rotocalco televisivo dei consigli per
gli acquisti) la nostra mente crea delle categorie, le modella e le
relega nel “magazzino” dei meccanismi interpretativi.
Le “immagini” con
cui ci troviamo a rapportarci tutti i giorni, penso in modo particolare
alle pubblicità, ma anche ad alcuni servizi o programmi televisivi,
radiofonici, ad alcune canzoni o ai videoclip delle stesse, hanno un
valore performativo, per non dire didascalico. Gli input – in particolar
modo quelli visivi – a cui siamo sottoposti quotidianamente
contribuiscono a formare le nostre rappresentazioni collettive e il
nostro senso comune.
Laura Corradi, nel
suo recente libro “Specchio delle sue brame” ci fornisce una descrizione
dell’invasività quotidiana di input, riferita alle pubblicità:
Siamo
esposti ogni giorno a messaggi commerciali su giornali, riviste,
televisione, radio, strade, autobus, stazioni; coprono edifici,
tabelloni e negozi; entrano nelle nostre case, in volantini, dépliant,
computer, cellulari. Permangono
nelle nostre menti come residenti particolari, si annidano nei nostri
ricordi. Nessuno/a è esente dallo show[5].
Il problema è di
carattere semiotico. Gli input che riceviamo sono sostanzialmente
sistemi di segni che
divengono “icone” interpretabili. Il pubblicitario che concepisce queste
icone sa bene l’effetto che crea – ad esempio in una pubblicità – se
pone un’automobile in un contesto di campagna (target: famiglie) o la
stessa in uno scenario di fulmini e tempeste in cui l’autovettura
resiste al clima impervio (target: i giovani). Il carattere
cognitivo della visualità è
ben spiegato da Marina Ciampi nel suo recente lavoro sulla sociologia
visuale:
Nella cultura
occidentale moderna vedere
vuol dire sapere, conoscere: è ormai indiscusso che vi sia stata e vi
sia ancora una forte egemonia dello sguardo nella costruzione della
conoscenza. L’uomo mediante il complesso sistema visivo interagisce con
il mondo esterno: tutto ciò che lo circonda e viene mediato dalla
percezione visiva lo modifica, ma nel contempo egli condiziona il
proprio ambiente nel continuo rapporto comunicativo con gli altri
individui[6].
Proprio in questo
rapporto comunicativo/dialettico ritroviamo il valore performativo: le
immagini “annidate” stanno lì nascoste, a fare il loro lavoro e cioè a
modellare “i gusti” e a introiettare un certo tipo di immaginario. Se io
decido di comprare quell’automobile di certo non penserò esplicitamente
“quella macchina resiste ai fulmini quindi sono
cool”, ma qualcosa dentro di
me mi porterà a quella scelta perché sono “cognitivamente” (leggi:
inconsciamente) sensibile a quel tipo di input.
Su questo principio
si basa il marketing contemporaneo, sull’ “immagine che rimane”, sul
logo che crea un’ideale nel quale rispecchiarsi – si registrano casi di
persone che negli anni novanta si sono tatuate il logo dell’azienda
“Nike” perché li faceva “sentire sportivi”[7]
– e altre retoriche similari. Cosa ha a che fare tutto questo con la
creazione della “femminilità”, o meglio di ciò che è comunemente sentito
come “femminile”, relegato alla sfera del “gentil” sesso o di certe
tipizzazioni? Cosa ha a che fare questo con il sessismo e con
l’accettazione comune del “dominio maschile”? E cosa c’entra con il
plus-valore accennato nella premessa? Ancora una volta trovo comodo,
oltre che opportuno, far rispondere a Laura Corradi:
Curve
femminili, sospiri voluttuosi, sguardi intriganti sono adoperati per
pubblicizzare sigarette, alcolici, automobili e via via per tutti gli
oggetti, dai più esclusivi ai più accessibili. […] Da corpi
completamente vestiti fino ai nudi, da posture tradizionali fino a
quelle oscene, dall’esposizione di gambe e scollature fino alle
angolature più rilevanti: l’intimità femminile ha perso ogni segreto ed
è stata riscoperta come
valore aggiunto per la merce[8].
Se le categorie che
ci fanno da modello (che prendiamo come simbolo e ideale da imitare), se
ne facciamo un habitus e se
esse si insinuano inconsciamente attraverso processi di medializzazione
servi del marketing, non siamo forse “educati” da quel modello?
L’educazione del visivo passa anche attraverso la sessualità, o meglio
in quello che pensiamo debba essere: una sessualità arbitrariamente
canonica e non esente da “perversioni” (in senso lato), etero-normata
dove il dominio maschile regna incontrastato. Prima di passare ad una
breve rassegna di casi concreti, è bene specificare che la questione del
“valore aggiunto” all’interno della merce è insita nel concetto di
marketing definito come:
l’insieme
delle attività e dei metodi volti a una migliore commercializzazione dei
beni e dei servizi prodotti da una società, basati su ricerche di
mercato che consentono di determinare le politiche più opportune di
prezzo, distribuzione, vendita, pubblicità, ecc.[9].
Come è ovvio questo
tipo di attività ha un costo, che comporta un aumento del prezzo del
bene in termini di “valore di scambio”. Non è solo una questione di
prezzo tangibile, ma anche di “valore d’uso”: dato che la pubblicità
imprime un’ideale alla merce, chi ne usufruisce non penserà solo
all’utilità oggettiva ma anche a quella simbolica infusa dal
brand (ad esempio «stile,
tecnologia e libertà» della pubblicità della
Hyundai ix35[10],
oppure, per rimanere in tema di sessismo, lo spot della
Renaul Twingo Miss Sixty[11]
in cui si proclama che la «competizione è femmina»), il quale si sentirà
legittimato ad alzare il prezzo e – quindi – a destinare il prodotto a
questa o a quella classe sociale.
Un paio di esempi
concreti
Qui di seguito verrà
proposta un’immagine pubblicitaria che non è particolare o diversa dalle
altre, anzi rappresenta proprio una tipica sponsorizzazione – in questo
caso della marca Sisley – per il vestiario (ma potrebbe essere di
qualunque altra cosa, dal caffè alle saponette, dal dentifricio a un
portasigari):
Lo studio della
dimensione denotativa, unita a quella connotativa, in un’immagine passa
per il linguaggio iconico: cioè i singoli elementi presenti nella foto
che possono rimandarci a significati non “altri” rispetto al
significante (ad esempio la giacca elegante può darci l’idea del
“lusso”). Oltre all’analisi iconica bisognerà provvedere a quella
iconografica, cioè allo studio del significato generale dell’immagine,
una volta messi insieme i vari elementi iconici (ad esempio, l’idea del
lusso unito a un’idea di sfruttamento del corpo femminile ci da l’idea
di una casa chiusa).
Entrando nello
specifico dell’immagine e volendo unire insieme la dimensione iconica
con quella iconografia, possiamo isolare alcuni elementi che ci
forniscono un’interpretazione classista e sessista dell’immagine: il
vestiario dell’uomo è elegante, di “classe”, impreziosito da gioielli
vari tra cui la croce – che qui non ha alcun valore religioso, semmai è
un richiamo ad un certo tipo di immaginario
hip hop proprio del “ghetto”
che è salito di classe diventando oggetto di lusso – e l’orecchino; la
donna indossa un “body” trasparente che non nasconde nulla, la testa
rivolta verso il basso e girata rispetto a “chi scatta la foto” (notiamo
che il fotografo è ben presente all’interno di questa narrazione grazie
al flash stampato sulla parete) è una posa di “vergogna per ciò che si
sta facendo”, una vergogna ovviamente solo femminile contro
l’ostentazione fiera del maschio dominante; la parete nera suggerisce
che non si tratta di un luogo domestico, sembrerebbe la parete di un
locale e quindi un momento di vita notturna e di trasgressione; l’azione
è che l’uomo tocca i glutei della donna con la compiacenza/vergogna di
quest’ultima e con la conseguente soddisfazione machista dell’uomo.
Cosa ci insegna
un’immagine di questo tipo? I messaggi che si insinuano nelle nostre
menti sono ovvi e lo sono proprio perché da anni subiamo
l’interiorizzazione di certi concetti eteronormativi, sessisti e in
questo caso anche classisti dato gli accessori (gioielli, etc) indicano
che il ceto elevato può permettersi “quella vita”, connotata da quel
vestiario. La donna che deve nascondere il volto dall’obiettivo è un
elemento, ovvio, di inferiorità nei confronti dell’uomo, che invece si
mostra fiero di ciò che sta facendo, di ciò che sta possedendo e che
addirittura si fa fotografare: l’uomo è orgoglioso, elegante, ricco,
curato contrapposto alla donna che è monda, impudica, colpevole e quindi
“clandestina”, nascosta, accusabile, inequivocabilmente inferiore.
L’antropologa Françoise Héritier, a questo proposito, ci ricorda che
Alla voce
Donna, il
Grand dictionaire du
xix siècle (1866-76), poco
più di un secolo fa, scriveva: «in che cosa consiste l’inferiorità
intellettuale della donna? […] Che cosa le manca? Il fatto di produrre
germi, ossia idee», assimilando, con un rapido giro di pensiero e di
scrittura, l’idea creatrice al seme riproduttore. L’inferiorità
intellettuale femminile è quindi postulata di primo acchito, senza che
la si debba indagare: niente seme, niente germi, niente idee,
ritrovando, senza doverla elaborare concettualmente, la nozione quasi
universale di una continuità tra materia celebrale e materia seminale[12].
Se consideriamo il
mezzo stampa del
Grand dictionaire
come mezzo mediatico e di modellamento culturale (delle élite, al
tempo), sembra che non sia cambiato molto: l’inferiorità femminile è
riprodotta ossessivamente dalle pubblicità, dai giornali e telegiornali,
da un certo tipo di immaginario legato alla musica pop – che di fatti è
più marketing che cultura, più “hype” che sostanza – attraverso un
linguaggio iconico per nulla subliminale. Propongo al lettore di provare
a fare analisi di questo genere (sulla dimensione iconica/iconografica)
in tutti i luoghi pubblici in cui gli capiti di incontrare cartelloni
pubblicitari o qualunque altra cosa abbia un rilevanza mediatica. Si
stupirà delle innumerevoli volte che incontrerà messaggi classisti,
razzisti e soprattutto sessisti.
Prendiamo ora in
considerazione un articolo
on-line[13]
(a firma di Franco Bechis) del noto quotidiano Libero, in particolare
l’immagine ad esso associata:
L’immagine fa da
corredo al titolo La culona
Merkel ha distrutto l’euro. Anche questo articolo non sfugge alle
logiche di mercato dato che il titolo stesso – con immagine annessa – fa
da auto-marketing in termini di “visualizzazioni” e perpetua e riproduce
esattamente la stessa logica della pubblicità commerciale. Non vi era
infatti alcuna necessità del termine “culona” (se non forse quella di
appoggiare il termine usato anche da Berlusconi qualche giorno prima per
descrivere il cancelliere tedesco) che diventa ancora una volta
didascalico: infatti la “culona”, con il suo peso e con le sue mutandine
con bandiera tedesca, ha distrutto la moneta unica. Addirittura si
associa il peso della donna (dal sedere grosso e “ridicolo”, ci tengo a
sottolinearlo) alla crisi economica come se ne fosse una causa, in un
paese nel quale fenomeni come l’anoressia e il vomito auto-indotto sono
in costante aumento.
In verità si
potrebbero fare innumerevoli esempi: dalla “colonna della vergogna di la
Repubblica.it” sul lato destro che, tra foto di animaletti e foto di
sport, inserisce costantemente ritratti di modelle semi-anoressiche o
notizie gossippare corredate
da un certo immaginario maschilista, fino al vestiario e al
look scelto dalle
anchor-women dei vari
telegiornali sempre più assecondanti dello stereotipo di “donna in
carriera” (il cyborg Lilli
Gruber è un esempio su tutte), ma credo siano superflui dato
che il nocciolo di ciò che volevo evidenziare è
già stato disvelato con una certa ridondanza.
Breve conclusione
Quello che ho
cercato di far trasparire da queste poche pagine è il carattere
didascalico dei media e di come questo alimenti il sessismo, ogni
giorno, perpetuandolo ai fini della riproduzione del capitale:
pubblicità, visualizzazioni,
share e audience sono
tutti lati della stesso quadrato.
Lati che sono
costruttori della realtà sociale,
poiché rendono più visibili, e quindi rafforzano a livello simbolico,
determinati comportamenti sociali e categorie, così come ne celano e ne
mettono in secondo piano altri, decretando gerarchie e valori[14].
In particolare, i
valori posti gerarchicamente in alto riscontrati nei casi presi in
esame, a titolo di esempio, hanno un carattere etero-normativo,
orientati all’inferiorizzazione della donna e legati ad un sistema di
advertising che serve alla
produzione e riproduzione del capitale in termini di “visualizzazioni
web” e “marketing”/vendita della merce. Attraverso esso si muovono virtù
e gusti che sono di proprietà intellettuale di classi sociali dominanti
e cioè di chi ha il potere di influire nei media: una sorta di
“oligarchia della mal costume imprenditoriale” che non risparmia l’uso
del corpo della donna per trarne profitto e veicolare il “senso comune”
(in accezione gramsciana) in direzioni precise.
NOVEMBRE 2012
[1]
P.L. Berger, B. Berger,
Sociologia – la dimensione sociale della vita quotidiana, Il
Mulino, Bologna 1977, p. 74.
[2]
In contrasto con un altrettanto astratto mondo “maschile”.
[3]
Non intendo qui soffermarmi su retoriche deterministiche del
tipo “è nato prima l’uovo o la gallina”.
[4]
F. Berardi, Skizomedia:
tre decenni di mediattivismo, DeriveApprodi, Roma 2006, p.
8.
[5]
L. Corradi, Specchio
delle sue brame: analisi socio-politica delle pubblicità:
genere, classe, razza, età ed eterosessismo, Ediesse, Roma
2012, p. 26 [corsivo mio]
[6]
M. Ciampi, La Sociologia
Visuale in Italia. Vedere, Osservare, Analizzare, Bonanno
Editore, Roma 2007, p. 25.
[7]
Casi di questo genere sono narrati da Naomi Klein nel suo
fortunato No Logo.
[8]
Corradi, cit., pp. 28
e segg. [corsivo mio].
[9]
Definizione di “marketing” presa da De Mauro,
Il dizionario della lingua italiana, Paravia Bruno Mondadori
Editori, Milano 2000, p. 1467.
[10]
http://www.youtube.com/watch?v=sdmsQfzUBkM, url consultato
il 29/11/2012 alle ore 12:32.
[11]
http://www.youtube.com/watch?v=G9-n16CHxU4, url consultato
il 29/11/2012 alle ore 12:37.
[12]
F. Héritier, Maschile e
femminile, il pensiero della differenza, Editori Laterza,
Bari 2010, p. XI.
[13]
http://www.liberoquotidiano.it/news/1014562/La-culona-Merkel-ha-distrutto-l-euro.html,
url consultato il 05/12/2012 alle ore 20:24.
[14] S. Capecchi, Identità di genere e media, Carocci, Milano 2006, p. 9.