TRANSITION TOWNS, LE CITTÀ DI
TRANSIZIONE
Massimo Ammendola
Premessa
Nell’epoca della
crisi perenne, è difficile comprendere ciò che sta avvenendo nel mondo.
Ed è ancor più faticoso e terribile individuare una via d’uscita,
un’alternativa. Potrebbe arrivare un momento in cui però saremo
costretti a cambiare, violentemente, dato che la crisi attuale è una
crisi relativa, non ancora assoluta. E ripenseremo ad oggi con
rimpianto. Quando potevamo cambiare, effettuare una transizione, e non
abbiamo avuto il coraggio di farlo, per paura, e non sapendo cosa fare.
Negli anni del possibile collasso della società dei consumi, il ritorno
alla terra sta diventando una necessità. Speculazioni finanziarie sui
prezzi degli alimenti, aumento delle coltivazioni
no-food, desertificazione dei
terreni, inquinamento di acqua, terra ed aria, produzione industriale a
base di concimi chimici ed ogm,
privatizzazione dei semi, crisi energetiche e climatiche, dipendenza dal
petrolio: questi sono alcuni ingredienti che potrebbero portare nel
futuro prossimo a spaventose crisi alimentari, che nei decenni passati
lambivano soltanto l’occidente industrializzato. Pensiamo di poter tutti
continuare a lavorare, a fare
shopping, a vivere in città? Ma ciò non può più avvenire: il sistema
non drena più tutte queste risorse. Non è possibile la crescita continua
su di un pianeta finito, con un sistema che crea infelicità, distruzione
di risorse, creazione di bisogni e di rifiuti. Una strada necessaria è
senz’altro il tornare ad amare e vivere la terra e noi stessi, e
produrre ciò che davvero ci serve localmente, sul territorio, a partire
dal cibo. L’economia parte, alla base, da un’eccedenza di energia
fornita dal sole. Da lì inizia tutto: il cibo nasce combinando l’azione
di sole, acqua e terra. Per tornare all’unità: umanità e natura sono
falsamente scissi, da troppo tempo. Per tornare ad esser i veri creatori
della nostra vita, per non esser più schiavi e distruttori.
Una risposta pratica
Se per alcuni la
risposta teorica alle crisi è la decrescita, lanciata da Serge Latouche,
una risposta pratica è sicuramente quella che ha dato Rob Hopkins, il
fondatore del movimento della Transizione, detto pure delle Transition
Towns[1],
nato in Inghilterra, nella città di Totnes. Tutto è partito dalle
riflessioni sulle possibilità di riorganizzare la vita senza petrolio,
dato che siamo giunti al cosiddetto “picco”, ovvero il punto nel quale
il consumo di petrolio supera la scoperta di nuovi giacimenti di facile
sfruttamento. Questo picco è stato già superato e la conseguenza è che i
prezzi saliranno sempre di più, indipendentemente dalla speculazione.
In risposta alla
doppia pressione del “picco del petrolio” e dei cambiamenti climatici,
visti da Hopkins e compagni come un unico problema, alcune comunità del
Regno Unito, d’Irlanda e di altre nazioni stanno adottando un approccio
integrato a tutto campo per tentare di recuperare il rapporto con la
terra, e creare un’autosufficienza alimentare ed energetica, per
staccarsi dalla grande distribuzione, specialmente partendo dai piccoli
centri, verso un futuro a più basso consumo di energia ed ad una
maggiore “resilienza”: ovvero la capacità di un sistema, di una specie,
di una organizzazione, di adattarsi ai cambiamenti, anche traumatici,
che provengono dall’esterno, senza degenerare, una sorta di flessibilità
rispetto alle sollecitazioni, ripristinando l’omeostasi, ovvero la
condizione di equilibrio del sistema, a seguito di un intervento esterno
(come quello dell’uomo) che può provocare un deficit ecologico.
Hopkins viveva a
Kinsale, in Irlanda, dove insegnava permacoltura[2],
quando ascolta una conferenza sul “picco petrolifero”. E così elabora un
piano, insieme ai suoi studenti, per la riduzione graduale dei consumi
energetici di Kinsale. Era il 2003 ed era solo un’esercitazione: come si
riorganizzerebbe una città in un mondo con poco petrolio?
Finita
l’esercitazione, le persone continuarono a lavorarci. Attraverso il
passaparola, si crea un movimento dal basso, di città in città,
quartiere dopo quartiere.
Strada dopo
strada, per capire, appunto, come si possono realizzare dei cambiamenti
partendo proprio dalla persona. Osservando il passato, quando il sistema
alimentare aveva più radici nel territorio.
Secondo il piano
tutta la vita si articola in categorie – energia, alimentazione, casa,
trasporti – per ciascuna delle quali si deve trovare una soluzione.
Insomma ci vuole un Piano B, dato che il Piano A è destinato a fallire.
Alla ricerca di
una cittadina di dimensioni sufficienti per sperimentare gli effetti del
piano, Hopkins torna così a Totnes, 8.000 abitanti circa, insieme alla
moglie e ai quattro figli, puntando sull’ingegno collettivo della
comunità locale, e su un’azione capillare, casa per casa, per costruire
la resilienza attraverso un processo di riorganizzazione, ove possibile,
di tutti gli aspetti della vita.
Ci si aiuta a
vicenda, per raggiungere l’autonomia energetica e alimentare[3]:
se una signora anziana ha un bel giardino, ma non ha le forze per fare
l’orto e quindi prodursi il cibo, la aiutano i vicini, e dividono i
frutti; se hai il tetto, ma non hai i soldi, si comprano collettivamente
i pannelli solari, per produrre energia pulita; e si studiano insieme
come rendere le case più sostenibili e meglio coibentate. Ad esempio,
una casa esemplare di Totnes, ha muri di paglia molto spessi, ed ha
l’isolamento fatto di pelle di pecora, in modo che d’inverno i costi di
riscaldamento sono minimi, utilizzando rigorosamente materiali della
zona. E a chiudere il cerchio, è stata promossa una valuta locale per
favorire gli scambi economici sul posto.
Il ragionamento
alla base della ttt
(Transition Town Totnes) è semplicemente quello che una città usi molta
meno energia e risorse di quelle attualmente consumate, per essere, se
opportunamente progettata e disegnata, più resiliente, più ricca e più
piacevole di oggi. Per meglio comprendere i campi d’azione di quella che
è stata la prima città del
Transition network, che oggi conta circa 500 iniziative di
Transizione (in Italia il primo comune è Monteveglio, in provincia di
Bologna), ecco l’elenco dei gruppi di studio sempre attivi: Energia,
Sanità, Alimentazione umana, Attività artistica, Cuore e anima (la
psicologia del cambiamento), Amministrazione locale, Economia, Mezzi di
sussistenza.
La ricetta per
diventare «Città di Transizione» non è unica e vincolante, va adattato
uno schema alle realtà locali, tutte diverse tra loro, ma di certo il
modello di transizione si basa su alcune consapevolezze: uno stile di
vita che faccia uso di meno energia è inevitabile ed è meglio
pianificarlo che essere colti di sorpresa, dato che la società
industriale ha perso la capacità di adattamento per far fronte alla
crisi energetica; per questo dobbiamo agire insieme e dobbiamo agire
ora. Per quanto riguarda l’economia mondiale e i suoi schemi
consumistici, se vengono applicate le leggi della fisica, la crescita
infinita semplicemente è impossibile all’interno di un sistema finito
come è il pianeta Terra. Quindi, avendo dimostrato fenomenali livelli di
inventiva e di intelligenza incrementando la produzione energetica nel
corso degli ultimi 150 anni, non abbiamo motivo di dubitare di essere in
grado di utilizzare queste qualità, insieme ad altre, nel gestire in
modo non traumatico la nostra discesa dal picco energetico: se
pianificheremo ed agiremo con un anticipo sufficiente, se useremo la
nostra creatività e la cooperazione per liberare l’ingegno all’interno
delle nostre comunità locali, potremo allora costruire un futuro che
risulterà molto più soddisfacente e ricco, più interconnesso e gentile
nei confronti della Terra rispetto agli stili di vita odierni[4]
Sicuramente più
complesso è applicare questi discorsi a centri più grandi, a vere e
proprie città, che sono in effetti il modello urbano del paradigma dello
sviluppo infinito, che hanno un inquinamento elevato e un’ormai endemica
carenza di terra, oppresse dal cemento come sono. Fatto sta, una
transizione verso un altro modello di società ci dovrà essere per forza;
sta a noi scegliere se provare a attuarla dolcemente, o subirla
violentemente[5].
Il collasso delle società complesse
In Italia,
interessanti riflessioni teorico-pratiche sul tema della transizione e
della trasformazione della società in chiave decrescista, le hanno
portate avanti Luca Mercalli[6],
Maurizio Pallante[7], Paolo Ermani e Simone Perotti[8],
ma soprattutto Guido Cosenza[9],
che ha il merito di citare e riflettere sulle basi teoriche della
transizione, ovvero sullo studio storico del collasso dei sistemi e
delle società complesse, portato avanti da Joseph Tainter[10]
al Santa Fé Institute, che ha mostrato come i declini sociali in
risposta alla complessità, spesso conducono a un collasso che si risolve
in forme più semplici di società.
Come afferma
Cosenza, la società umana ha seguito sempre lo stesso schema. Un modello
esemplificativo del collasso è quello delle bolle che si staccano: ad
esempio il distacco delle città coloniali dalle città madre nell’epoca
antica. Quando il sistema delle città-stato greche si approssimava al
proprio limite, una parte di esse si staccava e colonizzava altri
territori.
Collasso e
transizione sono due termini in relazione, il cui approssimarsi è
desumibile da alcuni sintomi come oscillazione di grandezze,
instabilità, aumento delle distanze nelle interrelazioni. Più
precisamente il presentarsi di questi tre indizi, indica l’approssimarsi
della transizione. Mentre fattori quali l’esaurimento delle risorse,
l’elevarsi del grado di inquinamento e l’aumento del costo della
macchina sociale, sono indizi del collasso incipiente.
In base a questi
criteri Cosenza conduce l’analisi storica sullo sfaldamento dell’Impero
romano distinguendo la diversità della transizione avutasi con l’Impero
romano d’Occidente e con l’Impero romano d’Oriente, il primo imploso
completamente e concluso con l’ascesa dei “barbari”, il secondo capace
di reinventarsi e resistere per altri mille anni, in forme diverse
dall’originaria, ad esempio decidendo di affidare le terre ai soldati
rientrati dalle zone di confine.
In base ad alcuni
studi e calcoli condotti sui modelli di produzione e consumo attuali, si
è stabilito che negli Usa il consumo di energia procapite è di 10 kW al
giorno, di cui 9 sono assorbiti dalla macchina statale, in varie forme.
Questo modello energetico è chiaramente insostenibile. Servono quindi
proposte concrete per un’alternativa, rappresentate dalla necessità di
spostare la circolazione della merce dal globale al locale. E diventa
quindi centrale il concetto di resilienza, riportato in auge dalle
Transition Towns, che implica
la riscoperta della capacità di vivere più con l’ausilio di risorse
locali che con l’ausilio di risorse provenienti da lontano. La
prospettiva del Transition Network
è infatti quella di mettere al centro i piccoli paesi, le comunità
locali, ripensare la struttura edilizia, con le case passive, materiali
ecologici locali, decentralizzare la produzione energetica mediante
eolico e fotovoltaico in rete, accorciare la filiera alimentare
basandola sul concetto di “cibo locale”, eliminando tutti gli spazi
verdi ornamentali, oltre ad aumentare le capacità locali di curare le
malattie, secondo un concetto di autonomia rispetto ai grandi centri
urbani e alla grande distribuzione organizzata.
Tutti questi sono
alcuni esempi di diversità di approccio fra il metodo preso in
considerazione dalla transizione e l’ambientalismo tradizionale, che
forse è una delle intuizioni migliori del movimento: il primo è un
metodo olistico (soluzioni collettive), il secondo guarda i problemi
singolarmente (soluzioni individuali); l’ambientalismo tradizionale
punta sulla paura, su gruppi di pressione sul potere, e l’uomo della
strada è un problema; la transizione sulla speranza, sul consenso dal
basso, e l’uomo della strada è una risorsa.
Il metodo della
transizione sembra capace, per ora, di creare un certo consenso, basato
sulla coscienza dei problemi, e il profilo locale serve sostanzialmente
a cercare di capire quali alternative sono possibili, partendo dai
bisogni primari delle persone, in primis il cibo e l’energia, visto che
in questo momento il sistema si mantiene proprio perché non si sa bene
con cosa sostituirlo. A partire da questo poi si spera sarà possibile
espandere l’esperienza a tutti gli altri ambiti.
È forse questo il
vero elemento di novità di quest’epoca post-lavoro, che sta favorendo la
sperimentazione di nuove forme di vita comunitaria. Sperimentate gente,
sperimentate!
GENNAIO 2012
[1]
Per info sulla transizione, anche in Italia:
transitionitalia.wordpress.com
[2]
«La Permacultura è un processo integrato di progettazione che dà
come risultato un ambiente sostenibile, equilibrato ed estetico.
Applicando i principi e le strategie ecologiche si può
ripristinare l’equilibrio di quei sistemi che sono alla base
della vita. La Permacultura è la progettazione, la conservazione
consapevole ed etica di ecosistemi produttivi che hanno la
diversità, la stabilità e la flessibilità degli ecosistemi
naturali. La Permacultura è essenzialmente pratica e si può
applicare a un balcone, a un piccolo orto, a un grande
appezzamento o a zone naturali, così come ad abitazioni isolate,
villaggi rurali e insediamenti urbani. Allo stesso modo si
applica a strategie economiche e alle strutture sociali. La
Permacultura si può definire una sintesi di ecologia, geografia,
antropologia, sociologia e progettazione». Dal sito
dell’Accademia Italiana di Permacultura, www.permacultura.it
[3]
Per vedere ciò di cui parliamo, consigliamo la puntata di
Report, «Consumatori difettosi»:
http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-ddeadc45-dffd-40cc-8214-dc46888d6182.html#p=0
[5]
Mauro Corona, La fine del mondo storto, Mondadori, Milano
2010.
[6]
Luca Mercalli, Prepariamoci. A vivere in un mondo con meno
risorse, meno energia, meno abbondanza... e forse più felicità,
Chiarelettere, Milano 2011.
[7]
Maurizio Pallante, La decrescita felice. La qualità della
vita non dipende dal PIL, Edizioni per la decrescita, Roma
2011.
[8]
Paolo Ermani e Simone Perotti, Ufficio di scollocamento. Una
proposta per ricominciare a vivere, Chiarelettere, Milano
2012.
[9]
Guido Cosenza, La Transizione. Analisi del processo di
transizione a una società postindustriale ecocompatibile,
Feltrinelli, Milano 2008; Il nemico insidioso. Lo squilibrio
dell’ecosistema e il fallimento della politica,
Manifestolibri, Roma 2010; oltre ai contributi pubblicati sulla
nostra rivista:
http://www.cittafuture.org/06/05-La-transizione-al-tempo-della-crisi.html;
http://www.cittafuture.org/07/03-Origine-e-prospettive-della-crisi-economica.html;
http://www.cittafuture.org/08/13-La-Costituzione-antidoto-contro-la-transizione.html;
http://www.cittafuture.org./09/11-Città-Future-ovvero-il-futuro-della-città.html.
[10]
Joseph A. Tainter, The Collapse of Complex
Societies,