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09
Gennaio 2013

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TRANSITION TOWNS, LE CITTÀ DI TRANSIZIONE

Massimo Ammendola

 Transizione

Premessa

Nell’epoca della crisi perenne, è difficile comprendere ciò che sta avvenendo nel mondo. Ed è ancor più faticoso e terribile individuare una via d’uscita, un’alternativa. Potrebbe arrivare un momento in cui però saremo costretti a cambiare, violentemente, dato che la crisi attuale è una crisi relativa, non ancora assoluta. E ripenseremo ad oggi con rimpianto. Quando potevamo cambiare, effettuare una transizione, e non abbiamo avuto il coraggio di farlo, per paura, e non sapendo cosa fare. Negli anni del possibile collasso della società dei consumi, il ritorno alla terra sta diventando una necessità. Speculazioni finanziarie sui prezzi degli alimenti, aumento delle coltivazioni no-food, desertificazione dei terreni, inquinamento di acqua, terra ed aria, produzione industriale a base di concimi chimici ed ogm, privatizzazione dei semi, crisi energetiche e climatiche, dipendenza dal petrolio: questi sono alcuni ingredienti che potrebbero portare nel futuro prossimo a spaventose crisi alimentari, che nei decenni passati lambivano soltanto l’occidente industrializzato. Pensiamo di poter tutti continuare a lavorare, a fare shopping, a vivere in città? Ma ciò non può più avvenire: il sistema non drena più tutte queste risorse. Non è possibile la crescita continua su di un pianeta finito, con un sistema che crea infelicità, distruzione di risorse, creazione di bisogni e di rifiuti. Una strada necessaria è senz’altro il tornare ad amare e vivere la terra e noi stessi, e produrre ciò che davvero ci serve localmente, sul territorio, a partire dal cibo. L’economia parte, alla base, da un’eccedenza di energia fornita dal sole. Da lì inizia tutto: il cibo nasce combinando l’azione di sole, acqua e terra. Per tornare all’unità: umanità e natura sono falsamente scissi, da troppo tempo. Per tornare ad esser i veri creatori della nostra vita, per non esser più schiavi e distruttori.

 

Una risposta pratica

Se per alcuni la risposta teorica alle crisi è la decrescita, lanciata da Serge Latouche, una risposta pratica è sicuramente quella che ha dato Rob Hopkins, il fondatore del movimento della Transizione, detto pure delle Transition Towns[1], nato in Inghilterra, nella città di Totnes. Tutto è partito dalle riflessioni sulle possibilità di riorganizzare la vita senza petrolio, dato che siamo giunti al cosiddetto “picco”, ovvero il punto nel quale il consumo di petrolio supera la scoperta di nuovi giacimenti di facile sfruttamento. Questo picco è stato già superato e la conseguenza è che i prezzi saliranno sempre di più, indipendentemente dalla speculazione.

In risposta alla doppia pressione del “picco del petrolio” e dei cambiamenti climatici, visti da Hopkins e compagni come un unico problema, alcune comunità del Regno Unito, d’Irlanda e di altre nazioni stanno adottando un approccio integrato a tutto campo per tentare di recuperare il rapporto con la terra, e creare un’autosufficienza alimentare ed energetica, per staccarsi dalla grande distribuzione, specialmente partendo dai piccoli centri, verso un futuro a più basso consumo di energia ed ad una maggiore “resilienza”: ovvero la capacità di un sistema, di una specie, di una organizzazione, di adattarsi ai cambiamenti, anche traumatici, che provengono dall’esterno, senza degenerare, una sorta di flessibilità rispetto alle sollecitazioni, ripristinando l’omeostasi, ovvero la condizione di equilibrio del sistema, a seguito di un intervento esterno (come quello dell’uomo) che può provocare un deficit ecologico.

Hopkins viveva a Kinsale, in Irlanda, dove insegnava permacoltura[2], quando ascolta una conferenza sul “picco petrolifero”. E così elabora un piano, insieme ai suoi studenti, per la riduzione graduale dei consumi energetici di Kinsale. Era il 2003 ed era solo un’esercitazione: come si riorganizzerebbe una città in un mondo con poco petrolio?

Finita l’esercitazione, le persone continuarono a lavorarci. Attraverso il passaparola, si crea un movimento dal basso, di città in città, quartiere dopo quartiere.

Strada dopo strada, per capire, appunto, come si possono realizzare dei cambiamenti partendo proprio dalla persona. Osservando il passato, quando il sistema alimentare aveva più radici nel territorio.

Secondo il piano tutta la vita si articola in categorie – energia, alimentazione, casa, trasporti – per ciascuna delle quali si deve trovare una soluzione. Insomma ci vuole un Piano B, dato che il Piano A è destinato a fallire.

Alla ricerca di una cittadina di dimensioni sufficienti per sperimentare gli effetti del piano, Hopkins torna così a Totnes, 8.000 abitanti circa, insieme alla moglie e ai quattro figli, puntando sull’ingegno collettivo della comunità locale, e su un’azione capillare, casa per casa, per costruire la resilienza attraverso un processo di riorganizzazione, ove possibile, di tutti gli aspetti della vita.

Ci si aiuta a vicenda, per raggiungere l’autonomia energetica e alimentare[3]: se una signora anziana ha un bel giardino, ma non ha le forze per fare l’orto e quindi prodursi il cibo, la aiutano i vicini, e dividono i frutti; se hai il tetto, ma non hai i soldi, si comprano collettivamente i pannelli solari, per produrre energia pulita; e si studiano insieme come rendere le case più sostenibili e meglio coibentate. Ad esempio, una casa esemplare di Totnes, ha muri di paglia molto spessi, ed ha l’isolamento fatto di pelle di pecora, in modo che d’inverno i costi di riscaldamento sono minimi, utilizzando rigorosamente materiali della zona. E a chiudere il cerchio, è stata promossa una valuta locale per favorire gli scambi economici sul posto.

Il ragionamento alla base della ttt (Transition Town Totnes) è semplicemente quello che una città usi molta meno energia e risorse di quelle attualmente consumate, per essere, se opportunamente progettata e disegnata, più resiliente, più ricca e più piacevole di oggi. Per meglio comprendere i campi d’azione di quella che è stata la prima città del Transition network, che oggi conta circa 500 iniziative di Transizione (in Italia il primo comune è Monteveglio, in provincia di Bologna), ecco l’elenco dei gruppi di studio sempre attivi: Energia, Sanità, Alimentazione umana, Attività artistica, Cuore e anima (la psicologia del cambiamento), Amministrazione locale, Economia, Mezzi di sussistenza.

La ricetta per diventare «Città di Transizione» non è unica e vincolante, va adattato uno schema alle realtà locali, tutte diverse tra loro, ma di certo il modello di transizione si basa su alcune consapevolezze: uno stile di vita che faccia uso di meno energia è inevitabile ed è meglio pianificarlo che essere colti di sorpresa, dato che la società industriale ha perso la capacità di adattamento per far fronte alla crisi energetica; per questo dobbiamo agire insieme e dobbiamo agire ora. Per quanto riguarda l’economia mondiale e i suoi schemi consumistici, se vengono applicate le leggi della fisica, la crescita infinita semplicemente è impossibile all’interno di un sistema finito come è il pianeta Terra. Quindi, avendo dimostrato fenomenali livelli di inventiva e di intelligenza incrementando la produzione energetica nel corso degli ultimi 150 anni, non abbiamo motivo di dubitare di essere in grado di utilizzare queste qualità, insieme ad altre, nel gestire in modo non traumatico la nostra discesa dal picco energetico: se pianificheremo ed agiremo con un anticipo sufficiente, se useremo la nostra creatività e la cooperazione per liberare l’ingegno all’interno delle nostre comunità locali, potremo allora costruire un futuro che risulterà molto più soddisfacente e ricco, più interconnesso e gentile nei confronti della Terra rispetto agli stili di vita odierni[4].

Sicuramente più complesso è applicare questi discorsi a centri più grandi, a vere e proprie città, che sono in effetti il modello urbano del paradigma dello sviluppo infinito, che hanno un inquinamento elevato e un’ormai endemica carenza di terra, oppresse dal cemento come sono. Fatto sta, una transizione verso un altro modello di società ci dovrà essere per forza; sta a noi scegliere se provare a attuarla dolcemente, o subirla violentemente[5].

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Il collasso delle società complesse

In Italia, interessanti riflessioni teorico-pratiche sul tema della transizione e della trasformazione della società in chiave decrescista, le hanno portate avanti Luca Mercalli[6], Maurizio Pallante[7], Paolo Ermani e Simone Perotti[8], ma soprattutto Guido Cosenza[9], che ha il merito di citare e riflettere sulle basi teoriche della transizione, ovvero sullo studio storico del collasso dei sistemi e delle società complesse, portato avanti da Joseph Tainter[10] al Santa Fé Institute, che ha mostrato come i declini sociali in risposta alla complessità, spesso conducono a un collasso che si risolve in forme più semplici di società.

Come afferma Cosenza, la società umana ha seguito sempre lo stesso schema. Un modello esemplificativo del collasso è quello delle bolle che si staccano: ad esempio il distacco delle città coloniali dalle città madre nell’epoca antica. Quando il sistema delle città-stato greche si approssimava al proprio limite, una parte di esse si staccava e colonizzava altri territori.

Collasso e transizione sono due termini in relazione, il cui approssimarsi è desumibile da alcuni sintomi come oscillazione di grandezze, instabilità, aumento delle distanze nelle interrelazioni. Più precisamente il presentarsi di questi tre indizi, indica l’approssimarsi della transizione. Mentre fattori quali l’esaurimento delle risorse, l’elevarsi del grado di inquinamento e l’aumento del costo della macchina sociale, sono indizi del collasso incipiente.

In base a questi criteri Cosenza conduce l’analisi storica sullo sfaldamento dell’Impero romano distinguendo la diversità della transizione avutasi con l’Impero romano d’Occidente e con l’Impero romano d’Oriente, il primo imploso completamente e concluso con l’ascesa dei “barbari”, il secondo capace di reinventarsi e resistere per altri mille anni, in forme diverse dall’originaria, ad esempio decidendo di affidare le terre ai soldati rientrati dalle zone di confine.

In base ad alcuni studi e calcoli condotti sui modelli di produzione e consumo attuali, si è stabilito che negli Usa il consumo di energia procapite è di 10 kW al giorno, di cui 9 sono assorbiti dalla macchina statale, in varie forme. Questo modello energetico è chiaramente insostenibile. Servono quindi proposte concrete per un’alternativa, rappresentate dalla necessità di spostare la circolazione della merce dal globale al locale. E diventa quindi centrale il concetto di resilienza, riportato in auge dalle Transition Towns, che implica la riscoperta della capacità di vivere più con l’ausilio di risorse locali che con l’ausilio di risorse provenienti da lontano. La prospettiva del Transition Network è infatti quella di mettere al centro i piccoli paesi, le comunità locali, ripensare la struttura edilizia, con le case passive, materiali ecologici locali, decentralizzare la produzione energetica mediante eolico e fotovoltaico in rete, accorciare la filiera alimentare basandola sul concetto di “cibo locale”, eliminando tutti gli spazi verdi ornamentali, oltre ad aumentare le capacità locali di curare le malattie, secondo un concetto di autonomia rispetto ai grandi centri urbani e alla grande distribuzione organizzata.

Tutti questi sono alcuni esempi di diversità di approccio fra il metodo preso in considerazione dalla transizione e l’ambientalismo tradizionale, che forse è una delle intuizioni migliori del movimento: il primo è un metodo olistico (soluzioni collettive), il secondo guarda i problemi singolarmente (soluzioni individuali); l’ambientalismo tradizionale punta sulla paura, su gruppi di pressione sul potere, e l’uomo della strada è un problema; la transizione sulla speranza, sul consenso dal basso, e l’uomo della strada è una risorsa.

Il metodo della transizione sembra capace, per ora, di creare un certo consenso, basato sulla coscienza dei problemi, e il profilo locale serve sostanzialmente a cercare di capire quali alternative sono possibili, partendo dai bisogni primari delle persone, in primis il cibo e l’energia, visto che in questo momento il sistema si mantiene proprio perché non si sa bene con cosa sostituirlo. A partire da questo poi si spera sarà possibile espandere l’esperienza a tutti gli altri ambiti.

È forse questo il vero elemento di novità di quest’epoca post-lavoro, che sta favorendo la sperimentazione di nuove forme di vita comunitaria. Sperimentate gente, sperimentate!

 

GENNAIO 2012

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[1] Per info sulla transizione, anche in Italia: transitionitalia.wordpress.com

[2] «La Permacultura è un processo integrato di progettazione che dà come risultato un ambiente sostenibile, equilibrato ed estetico. Applicando i principi e le strategie ecologiche si può ripristinare l’equilibrio di quei sistemi che sono alla base della vita. La Permacultura è la progettazione, la conservazione consapevole ed etica di ecosistemi produttivi che hanno la diversità, la stabilità e la flessibilità degli ecosistemi naturali. La Permacultura è essenzialmente pratica e si può applicare a un balcone, a un piccolo orto, a un grande appezzamento o a zone naturali, così come ad abitazioni isolate, villaggi rurali e insediamenti urbani. Allo stesso modo si applica a strategie economiche e alle strutture sociali. La Permacultura si può definire una sintesi di ecologia, geografia, antropologia, sociologia e progettazione». Dal sito dell’Accademia Italiana di Permacultura, www.permacultura.it

[3] Per vedere ciò di cui parliamo, consigliamo la puntata di Report, «Consumatori difettosi»:

http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-ddeadc45-dffd-40cc-8214-dc46888d6182.html#p=0

[5] Mauro Corona, La fine del mondo storto, Mondadori, Milano 2010.

[6] Luca Mercalli, Prepariamoci. A vivere in un mondo con meno risorse, meno energia, meno abbondanza... e forse più felicità, Chiarelettere, Milano 2011.

[7] Maurizio Pallante, La decrescita felice. La qualità della vita non dipende dal PIL, Edizioni per la decrescita, Roma 2011.

[8] Paolo Ermani e Simone Perotti, Ufficio di scollocamento. Una proposta per ricominciare a vivere, Chiarelettere, Milano 2012.

[9] Guido Cosenza, La Transizione. Analisi del processo di transizione a una società postindustriale ecocompatibile, Feltrinelli, Milano 2008; Il nemico insidioso. Lo squilibrio dell’ecosistema e il fallimento della politica, Manifestolibri, Roma 2010; oltre ai contributi pubblicati sulla nostra rivista:

http://www.cittafuture.org/05/05-Il-declino-dell%27attuale-modello-di-sviluppo-e-la-nascita-di-un-nuovo-tessuto-sociale.html;

http://www.cittafuture.org/06/05-La-transizione-al-tempo-della-crisi.html;

http://www.cittafuture.org/07/03-Origine-e-prospettive-della-crisi-economica.html;

http://www.cittafuture.org/08/13-La-Costituzione-antidoto-contro-la-transizione.html;

http://www.cittafuture.org./09/11-Città-Future-ovvero-il-futuro-della-città.html.

[10] Joseph A. Tainter, The Collapse of Complex Societies, New York & Cambridge, 2003.