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09
Gennaio 2013

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Transizione

LA DECRESCITA È UNA SOLUZIONE ALLA CRISI?

Serge Latouche

(traduzione a cura di Giovanna Caiazzo)

Trascrizione di un intervento dell’autore tenuto a Marseille nel Marzo del 2010.

 

Oggi abbiamo lo straordinario privilegio di assistere in diretta a niente di meno che il crollo della civiltà occidentale. Non abbiamo avuto la possibilità di assistere a quello dell’Isola di Pasqua e dei Vichinghi della Groenlandia, né a quello dell’Impero romano, tutti perfettamente descritti in Collapse[1], il libro culto – peraltro molto documentato – dell’americano Jared Diamond. Ma viviamo il crollo dell’impero occidentale-americano, che somiglia molto a quello dell’Impero romano, con la differenza che quest’ultimo si è protratto per diversi secoli mentre il “nostro” crollo finale viene predetto per il periodo 2030-2070.

 

Nell’agosto 2007 è apparsa – “finalmente apparsa” dicono i vecchi marxisti – una crisi che, se fu immediatamente classificata dai nostri governanti come “finanziaria e americana”, non ha mancato di aggravarsi soltanto un anno dopo. Con la bancarotta della Lehman Brothers, una delle più grandi banche mondiali, il 16 settembre 2008, non era più possibile nascondere che la crisi era contemporaneamente mondiale, finanziaria ed economica. La situazione di crisi non era nuova. Era ecologica almeno dal 1972 con il primo rapporto al Club di Roma, sociale con la fine del fordismo e la prima crisi petrolifera nel 1973-74, e poi negli anni ’80 con la controrivoluzione neoliberale dell’epoca Reagan-Thatcher – dove la società dei consumi non funzionava che in modo fittizio e virtuale – e infine culturale dal maggio 1968. Ma arriviamo oggi ad un momento in cui tutte queste crisi si scontrano fino a dar vita ad una crisi antropologica, cioè decisamente una crisi di civiltà.

 

Di fronte ad una crisi di questa ampiezza, non è più sufficiente essere un economista; e qui insisterei su una riflessione di Woody Allen, uno dei più grandi filosofi dei nostri tempi. Dice: «Siamo arrivati all’incrocio di due strade, una porta alla scomparsa della specie, l’altra alla disperazione totale. Spero che l’umanità faccia la scelta giusta». Bisogna prenderla molto sul serio. La prima di queste vie è stata quella di una società della crescita con la crescita, quella degli anni d’oro del capitalismo, di cui sappiamo che si va diritti verso la catastrofe a forza di irregolarità climatiche, di scomparsa delle specie, di sfruttamento delle risorse delle energie fossili, etc. Una prima via che abbiamo saggiamente, e fortunatamente, abbandonato dall’agosto del 2007 per imboccare la seconda, quella della disperazione: quella di una società della crescita senza crescita, in crisi, in recessione. È preferibile essere disperati piuttosto che sparire? Ecco un bel tema di riflessione filosofica...

È importante percorrere queste due strade per arrivare a capire che forse ce n’è una terza: una strada di speranza, quella di un altro mondo possibile, vale a dire quella della decrescita. Per comprendere le ragioni che renderebbero possibile questa terza via, cominciamo col capire perché sembriamo bloccati nell’impasse tra una società della crescita con la crescita, che porta alla scomparsa della specie, e il mondo disperato e terrificante di una società della crescita senza crescita.

Sebbene la situazione sia catastrofica, non si è avviato nessun cambiamento reale. Persino le piccole ripuliture del programma Grenelle Environnement (abbandono dei pesticidi, introduzione di una tassa sulle emissioni di carbonio) sono finite nel dimenticatoio post-elettorale. Si è tornati al buon programma della crescita dura e pura, del rilancio delle industrie più inquinanti: automobili, edilizia, agricoltura produttivistica. Per uscire da questa logica dobbiamo compiere il percorso inverso: capire come ci siamo entrati, decolonizzare il nostro immaginario, sgonfiare la bolla speculativa della grande recita trionfalista della crescita industriale occidentale.

Tutto è cominciato nel xviii secolo con la nascita del capitalismo e dell’economia politica, che situeremo simbolicamente nel 1776, l’anno dell’apparizione del saggio sulla ricchezza delle nazioni di Adam Smith[2], fondatore dell’economia politica e riferimento essenziale degli ultraliberisti. Rappresentativa del movimento dei Lumi, del pensiero illuminato del xvii secolo, l’utopia liberale di Adam Smith è quella dell’arricchimento di tutti per la liberazione dalle passioni (ivi compresi l’avidità, l’egoismo e la ricerca degli interessi più sordidi). Egli afferma che grazie al meraviglioso meccanismo della “mano invisibile” sarà assicurata la felicità dei più. È lo slogan della modernità: “maggiore felicità per il maggior numero”, che gli economisti hanno elaborato, teorizzato nella loro lingua sacra (l’inglese), fino a diventare poeti a forza di metafore, con il nome di trickle-down-effect.

La metafora più in uso è quella della marea: quando il livello del mare si alza, tutte le barche salgono, grandi e piccole. Quando c’è la crescita tutti ne beneficiano: i ricchi si arricchiscono, ma anche i poveri, un po’... È il grande mito occidentale dell’economia, della crescita e dello sviluppo.

Tuttavia nel xviii secolo, quando il capitalismo comincia ad apprestarsi, non si tratta ancora d’altro che d’un mito. Non ha niente a che vedere con la realtà. Certo la borghesia inglese si arricchisce (molto), ma i popoli, quello inglese come quello europeo, sono proletari. I contadini vengono allontanati dalle loro terre per ammassarsi nelle periferie insalubri di Liverpool o Manchester. Gli artigiani sono rovinati, fanno parte di un immenso proletariato di disoccupati, senza tetto, mendicati, senza fissa dimora, lavoratori immigrati.

Non mancano le testimonianze che denunciano la spaventosa miseria, sconosciuta allo schema evoluzionista della crescita illimitata, degli inizi dell’industrializzazione; abbiamo quelle di Dickens, Marx e Engels. Marx citava anche i tessitori indiani condannati dal capitalismo, le cui ossa (e quelle delle loro immense famiglie) imbiancavano le pianure del Gange! Nel corso di un secolo il sogno di Adam Smith si è rivelato un vero e proprio incubo. Eppure accade che le utopie prendano corpo: dopo un secolo il sistema capitalista si è trasformato grazie alla via termo-industriale basata sulle macchine a fuoco, come le macchine a vapore che permettono l’utilizzo delle energie fossili.

 

La straordinaria potenza della macchina a vapore (che funziona a carbone) permette una demoltiplicazione dello sforzo e un aumento importante della produzione intorno al 1850. Marx scrive allora che il capitalismo si annuncia come una immensa accumulazione di merce. Ora, siccome queste merci non possono essere tutte consumate, il sistema ogni dieci anni va incontro ad una spaventosa crisi di sovrapproduzione. Milioni di persone vengono licenziate, ancora più brutalmente che ai giorni nostri; poi c’è la ripresa, e , due o tre anni dopo, il sistema riparte per un nuovo decennio di crescita.

 

È stato necessario attendere ancora un altro secolo perché il mito di Adam Smith divenisse realtà, e che lo fosse per trent’anni (1945-1975). L’arma assoluta diventa allora il motore a scoppio e il suo carburante, il petrolio. Grazie a queste nuove meccaniche ognuno dispone di un’energia equivalente a quella da 50 a 150 schiavi (ciò che solo i romani più ricchi potevano permettersi). Bisogna sapere che trenta litri di benzina nel nostro motore corrispondono al lavoro di un operaio nel corso di cinque anni (per qualche decina di euro!). È assolutamente favoloso, ma non può durare a lungo: oggi siamo arrivati al picco di Hubbert[3].

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La festa è finita già dal 1975, ma il genio della finanza Alan Greenspan, presidente della banca americana dal 1987 al 2006, è riuscito a prolungare di trent’anni, virtualmente, l’illusione della crescita. Sebbene negli Stati Uniti si stimi una crescita continua del prodotto interno lordo (pil) per abitante, anche ben oltre i livelli dei Gloriosi Trenta (1945-1975), questi risultati non tengono conto dell’aumento dei costi della crescita: costi di riparazioni (trattamenti conseguenti agli effetti nefasti dei pesticidi, dei concimi, inquinamento dell’aria, etc.) e costi di risarcimento (suicidi sul lavoro, consumo di ansiolitici e antidepressivi). Herman Daly ha mostrato che sottraendo questi costi (in aumento dal 1972) al Prodotto Nazionale Lordo (pnl), l’indicatore di benessere, che lui chiama Genuine Progress Indicator, ristagna, per poi diminuire inesorabilmente.

Il periodo dei Gloriosi Trenta è quello detto della società dei consumi, dell’opulenza, basato sulla triade «pubblicità, credito e obsolescenza programmata». La società dei consumi non è quella del benessere e della felicità, ma quella della frustrazione. La pubblicità ci rende insoddisfatti di quello che abbiamo: siamo spinti a desiderare ciò che non possediamo e consumiamo di conseguenza. Il credito ce ne dà i mezzi, talvolta oltre ogni misura, come dimostrano i crediti ninjna negli Stati Uniti (No incom, No job, No asset – nessun reddito, nessun lavoro, nessun patrimonio) che hanno portato decine di milioni di americani ad indebitarsi sconsideratamente comprando case mono-familiari. La speculazione era tale che il plus-valore delle case così acquistate garantiva i rimborsi. Non volendo gli economisti ammettere che gli alberi non crescono fino a toccare il cielo, il sistema è crollato nell’agosto del 2008. Ma la ripresa questa volta non sarà di lunga durata: il pianeta non può sopravvivere ad una nuova fase di forte crescita.

Il credito ha portato alla cosiddetta crisi dei subprimes, dal nome dei prestiti di rifinanziamento accordati in maniera sconsiderata a delle famiglie insolventi a tassi usurai. Questi crediti a tassi d’interesse molto elevati sono stati mischiati ad altri crediti non tossici, ma con tassi d’interesse a basso rendimento, per formare dei titoli molto attraenti, chiamati prodotti derivati. Ne sarebbero stati emessi per 600.000 miliardi di dollari, cioè sedici volte il prodotto dell’intero pianeta! E le alcune migliaia di miliardi di dollari messi a disposizione per salvare le banche non sono che una goccia d’acqua, ecco perché ci sarà certamente una nuova ricaduta molto più grave.

Ultimo elemento di questa triade: l’obsolescenza programmata di tutti i prodotti, in particolare gli elettrodomestici, che è diventato ormai più caro riparare che sostituire. Fabbricati in Cina da persone sottopagate, vengono gettati al minimo guasto. Avviene  così che, ogni mese, 800 navi partono dagli Stati Uniti cariche di computer di scarto contenenti metalli ora preziosi, ora tossici – il cui sfruttamento ha un prezzo umano enorme (le guerre nel Congo). Invece che essere riciclati, questi metalli, che verranno ben presto a mancare, vanno ad inquinare le falde freatiche e a provare il cancro ai bambini in Nigeria, e in Ghana dove vengono selvaggiamente scaricati.

Siamo sopraffatti da una forma di totalitarismo non violento come nella Germania nazista o in Unione sovietica, ma soft, della quale siamo tutti complici e che ci porta difilato alla sesta estinzione delle specie. Questa sesta estinzione si differenzia dalla quinta, che ha avuto luogo 65 milioni di anni fa e ha visto la scomparsa dei dinosauri, per il ritmo molto accelerato (diverse migliaia di volte più rapida della quinta, con l’estinzione ogni giorno di un numero di specie che va da 150 a 200) e perché tocca degli attori fondamentali della biodiversità, alla maniera delle api, che soccombono a causa delle onde magnetiche e dei pesticidi.

Per fortuna – questa è una buona notizia – la crisi rallenta il nostro consumo di petrolio (e l’inquinamento ad esso associato). Ci concede una proroga supplementare. «La decrescita, ci siamo già e non è divertente» affermava Pierre-Antoine Delhommais, cronista economico del quotidiano Le Monde.

Adesso, ciò che «non è divertente» – Delhommais sarà stato vittima di confusione – non è la decrescita, ma la recessione, ovvero la situazione di una società di crescita senza crescita; situazione della quale sappiamo da Hannah Arendt che non può che generare disoccupazione, povertà e bilanci pubblici esangui (educazione, salute, cultura).

Oggi siamo in una condizione di crescita negativa che, a termine, non potrà essere gestita che da una dittatura. In alcune istanze (il gruppo di Bilderberg, per esempio), si pensa che, se il livello di vita degli Americani non è negoziabile, bisognerà cominciare a ridurre seriamente le dimensioni dell’umanità. Per mantenere questo livello di vita sulla Terra al suo stato attuale bisognerebbe eliminare i 9/10 dell’umanità. Dei 500 milioni di persone restanti, bisognerebbe infine asservirne 490 milioni per permettere ai 10 milioni restanti di continuare a viaggiare nelle 4x4, di bruciare la candela ai due lati.

Far funzionare il nostro pianeta malato con lo stesso programma di società della crescita, vale a dire il sistema capitalistico, non sarà possibile che con una nuova mutazione sottoforma di un eco-totalitarismo, di un eco-fascismo, di cui la fantascienza ci ha dato talvolta delle visioni molto realistiche, come in 2022: i sopravvissuti[4].

Molto fortunatamente – e il grande filosofo Woody Allen è senza dubbio troppo americano per considerarlo – esiste un’altra possibilità, c’è una scappatoia: la società della decrescita (da non confondere con la crescita negativa). “La decrescita” in sé per sé è uno slogan; una decrescita generalizzata sarebbe di fatto un’assurdità, un’aberrazione masochista. Al contrario, il nostro progetto è di far aumentare la gioia di vivere[5] allo stesso modo della qualità dell’acqua, dell’aria, della vita animale o vegetale; tutto ciò che la crescita fa venir meno.

Ma la crescita stessa è affetta da assurdità. Così, se la si prolungasse ad un tasso del 2% annuo nel corso di duemila anni, il prodotto sarebbe moltiplicato per 160.000 milioni di miliardi... Questa è la conseguenza di ciò che il mio amico Giorgio Ruffolo, che è stato ministro dell’Ambiente in Italia, chiamava giustamente «il terrorismo degli interessi composti». I matematici sono terrificanti, terroristi; e per fortuna la realtà sociale non gli obbedisce! Adesso rifacciamo il calcolo con un tasso di crescita minuscolo, quasi inesistente, del 7/1000e: in duemila anni il prodotto sarebbe moltiplicato di un milione – il che è già delirante – e raddoppierebbe in un secolo. Viviamo su un pianeta delimitato di 55 miliardi di ettari, che non sono tutti bio-produttivi, e superiamo già del 50% la capacità di rigenerazione della biosfera: questa situazione non può durare.

Dobbiamo uscire dalla società della crescita e creare una società della a-crescita. Si tratta di venir fuori dalla religione della crescita, professarci agnostici di questo progresso illimitato, atei della religione economica e dell’economia politica, per raggiungere un sistema sostenibile; una società “dell’abbondanza frugale” nella quale le persone, sapendo limitare i propri bisogni, possano soddisfarli ampiamente.

“Abbondanza”, perché avremo più beni del necessario per soddisfare i nostri bisogni; “frugale”, perché il soddisfacimento si otterrà non attraverso una fuga dal consumo, ma con un’autolimitazione dei bisogni.

Tutto questo presuppone un altro tipo di produzione e soprattutto un altro tipo di distribuzione. Gandhi diceva: «il pianeta è abbastanza grande e fecondo per soddisfare i bisogni di tutti, ma sarà sempre troppo piccolo per soddisfare l’avidità di qualcuno». Bisogna ritornare ai fondamenti del socialismo: dividere più equamente una torta meno tossica.

Non esiste una ricetta. La “società della decrescita” non è un’alternativa, un modello chiavi in mano, un nuovo organismo internazionale composto da esperti; non ci saranno dei Fondi internazionali di decrescita al posto del fmi. La società della decrescita è una matrice di alternative: non si realizzerà nello stesso modo in Texas o in Chiapas. Quando verrà sollevata la cappa di piombo dell’imperialismo economico si riaprirà la storia della diversità culturale. Poiché ogni popolo, ogni cultura ha il diritto di trovare la propria via per realizzare una società dell’abbondanza frugale. Lo spazio è nuovamente aperto alla politica, alla storia; è compito degli uomini prendere in mano il proprio destino.

Gli Illuministi avevano il (nobilissimo) progetto di emancipare l’umanità. Ma una volta caduta nella trappola dell’economia, la società degli uomini è stata sottomessa alla dittatura dei mercati finanziari. La Grecia, alla quale dobbiamo l’invenzione della democrazia, oggi è condannata a passare sotto le forche caudine dei truffatori della Banca centrale europea. A dispetto del loro voto socialista, i Greci sono – tradimento totale – condannati ad una spaventosa austerità. Come loro, anche noi siamo sottomessi alla tirannia della mano invisibile. Mentre un tempo, sotto l’Ancien Régime, potevamo tagliare la testa al re, adesso non sappiamo come prendercela con la Borsa. Come dare la caccia ad una mano per definizione “invisibile”?

Il programma della decrescita mira a farci riappropriare del nostro destino, a rifare politica, a prendere in mano il nostro avvenire, in una parola a decidere. Cosa produrre? Il nucleare? Le biotecnologie? Come produrre? Attualmente non veniamo consultati; tutto viene deciso per noi, senza di noi.

Non c’è un modello già dato per i progetti di costruzione di società dell’abbondanza frugale, ma tutti obbediscono all’imperativo di rompere con la logica della crescita. Il progetto si situa su due livelli: quello d’inizio, della concezione, cioè l’utopia concreta, l’orizzonte, l’obbiettivo che ci si prefigge, poi, in un secondo tempo, quello della realizzazione, della messa in opera.

Quanto all’utopia concreta di ciò che dovrebbe e potrebbe essere una società della decrescita, possiamo dare delle indicazioni “al negativo”. La realizzazione dipende di certo dal luogo, dal contesto: siamo condannati ad essere molto limitati, e il nostro potrebbe essere un progetto per uno Stato, una regione, una città, un quartiere. Ma qualunque sia la sua localizzazione, il progetto politico è fortemente rivoluzionario: si tratta di una rottura con la logica della società della crescita e la sua pesantezza; e la sua realizzazione è necessariamente riformatrice: si realizza localmente attraverso una serie di modifiche concrete di certi tipi di funzionamento.

Negli anni sessanta, i miei maestri, economisti, si riempivano la bocca dei “circoli virtuosi della crescita” il cui guadagno di produttività consentiva l’aumento dei profitti, dei salari, delle imposte. Però questo significava dimenticare due grandi perdenti. La natura da una parte: i cambiamenti climatici attuali sono il risultato delle combustioni di ieri (sono necessari da 50 a 70 anni perché il diossido di carbonio si dissipi nella stratosfera); e i paesi del Sud dall’altra parte, che sono passati dalla povertà alla miseria, e sono sprofondati nel sottosviluppo. Eppure ho conservato la nostalgia di quest’idea di circoli “virtuosi”, cioè di interazioni positive, felici, tra diverse azioni e diverse tappe.

Come pensare una società della decrescita sostenibile, auspicabile? Una società di non-crescita, di sobrietà scelta, volontaria e tuttavia allegra o felice? Come concepirla “al negativo” in relazione alla società della crescita?

Tra i primi assi fondamentali di questo cambiamento di società figura l’ordine dei valori. La società della crescita si basa sulla guerra economica generalizzata, la consacrazione dell’egoismo, la ricerca del massimo profitto, la distruzione senza limiti della natura; bisogna reintrodurre “un po’ di dolcezza in questo mondo di bruti” sviluppandovi la cooperazione, l’altruismo, il senso dell’umano e il rispetto della natura – condannati a vivere nella natura, dobbiamo comportarci come dei giardinieri, non come dei predatori.

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E se cambiamo i valori, saremo portati a modificare i concetti con cui viene colta la realtà; a «riconsiderare la ricchezza» come dice Patrick Viveret, ma anche la povertà che, sebbene a lungo vissuta come virtuosa (con il nome di “frugalità”), è diventata indegna, trasformata dall’economia in miseria materiale e morale. Bisogna sviluppare concetti di ricchezza diversi da quello dell’accumulazione illimitata, altri tipi di ricchezze che quelle economiche, e rimettere in discussione il binomio infernale, fondatore dell’economia, di scarsità e abbondanza.

La scarsità non è un dato di natura, che è feconda, ma una costruzione sociale.

Monsanto si spinge infatti fino ad “espropriare” la natura, ad appropriarsi della straordinaria fecondità delle specie e a trasformarle in profitto vendendo ai contadini delle specie geneticamente modificate, dai semi non-riproducibili.

La scarsità comincia nel xvi secolo con le “enclosures”, ossia con l’appropriazione e la recinzione dei prati comunali, che misero fine al tradizionale diritto di pascolo. Mentre fino ad allora i proprietari terrieri avevano l’obbligo di lasciar pascolare il bestiame liberamente nei loro campi dopo i raccolti, con la recinzione dei campi privarono i più poveri (gli allevatori senza terre) dei loro mezzi di sopravvivenza. Questo movimento di enclosures fu una vera catastrofe per i poveri in Inghilterra, e un’occasione per i ricchi che non fecero che arricchirsi ancora di più.

L’appropriazione del vivente è tuttora in corso: quella delle specie, del corpo umano. La realizzazione del profitto non ha etica né limite ed è per questo che è così importante lottare contro gli ogm. È un’altra forma di battaglia contro le enclosures.

Rimettere in discussione i concetti, cambiare i valori equivale a modificare il programma, il software. A ciò deve corrispondere un cambiamento dell’hardware, nello specifico del sistema e dei rapporti di produzione. Bisogna produrre altro e in modo diverso, questo implica un’immensa riconversione del sistema e pone la questione dell’uscita dal capitalismo. Crescita e capitalismo sono sinonimi. «Accumulare, accumulare, questa è la legge e i profeti», ha detto Marx. L’accumulazione del capitale è l’essenza del capitalismo, dunque nient’altro che la denominazione marxista della crescita. Ed è perché non ha mai rinunciato all’accumulazione del capitale che l’Unione Sovietica non è mai veramente uscita dal capitalismo.

Non esiste una ricetta miracolosa, e l’idea non è quella di abolire la proprietà privata dei beni di produzione. Ciò che conta è allontanarsi dallo spirito del capitalismo; realizzare una rivoluzione culturale. Occorre andare in questa direzione, conservare questa rotta. Una ristrutturazione di tal tipo permetterà una ridistribuzione tra Nord e Sud, e tra generazioni, della ricchezza, dell’impronta ecologica, della terra, del lavoro.

Una delle forme possibili di questa “rivoluzione” – che integra  la maggior parte di questi cambiamenti – è la “rilocalizzazione”, l’antiglobalizzazione. La globalizzazione è un eccezionale trasloco planetario: accade così che migliaia di camion si incrocino lungo il tunnel del Monte Bianco, alcuni trasportano l’acqua San Pellegrino verso la Francia, altri l’acqua Evian verso l’Italia. Peggio ancora: è previsto un raddoppiamento dei flussi per il 2020 – che non può aversi senza distruggere territori, creare nuove autostrade, nuove linee di treni ad alta velocità. È il delirio assoluto con, alla fine, la distruzione del pianeta. Per contrastare questo trasferimento planetario, bisogna rilocalizzare. La soluzione è nella reintroduzione di monete locali e contemporaneamente nella ri-territorializzazione dell’economia, della politica e della cultura. Ma andare controcorrente rispetto alla de-territorializzazione accelerata alla quale assistiamo è un progetto complesso.

La sfida è ridurre l’impronta ecologica, i rifiuti, i trasporti, il consumo eccessivo, gli sprechi, i consumi energetici, la pubblicità e, soprattutto, ridurre gli orari di lavoro.

Sconfesso lo slogan che ha avuto successo nel 2007: «lavorare di più per guadagnare di più». È un raggiro che tutti gli economisti avrebbero dovuto denunciare. Un aumento dell’offerta di lavoro in una società in recessione (dove la domanda di lavoro ristagna, anzi diminuisce) non può, in effetti, che condurre al crollo del prezzo del lavoro, cioè del salario. Ed è esattamente ciò a cui abbiamo assistito.

 

Il motto dei sostenitori della decrescita potrebbe essere: «lavorare meno per guadagnare di più», ma soprattutto «lavorare meno per lavorare tutti», il programma (purtroppo abbandonato) dei socialisti nel 1981. Non sono stati abbastanza audaci: bisognava trasformare i guadagni di produttività in riduzione del tempo di lavoro (a quindici o venti ore) e non nell’aumento della produzione di gadget. Noi, che sosteniamo la decrescita, andiamo ancora oltre: «lavorare meno per vivere meglio», vale a dire ritrovare le dimensioni schiacciate dell’esistenza... anche se, incredibilmente, lavorare meno non è un auspicio condiviso da tutti – il sistema è sufficientemente perverso da aver fatto dei lavoratori i suoi agenti, ciò che gli Americani chiamano workalcoholics, work addicts, “drogati di lavoro”.

 

Siamo diventati tossicodipendenti non solo da consumo, ma anche da lavoro. Eppure sarebbero praticabili ben altre attività intelligenti. Le società umane consacravano infatti molto tempo alla vita contemplativa, considerata superiore alla vita attiva, produttiva: una vita di meditazione, di riflessione, che permetteva di ritirarsi per pensare, per sognare; e d’altronde anche nella vita attiva ci sono cose migliori da fare che lavorare per un padrone quotidianamente, ad ore fisse. Si può fare del bricolage, della musica, danzare, scolpire, dipingere... o fare politica – la democrazia ha bisogno che si consacri del tempo alla lettura dei testi, alla discussione, alla contraddizione, al dibattito. Ridurre il tempo di lavoro è fondamentale per riappropriarsi del tempo stesso.

 

Questa terza via, quella della decrescita, è la sola che ci permetterà di evitare l’eco-fascismo, la minaccia dell’eco-totalitarismo, per costruire un futuro soddisfacente. Ma è una strada difficile. Nel mio libro La scommessa della decrescita[6], intendo il termine “scommessa” nel senso di Pascal: anche se non ci si crede, bisogna tentare; non abbiamo niente da perdere e tutto da guadagnare. Parto dall’idea che la natura umana obbedisce fondamentalmente a due forze: una forza d’attrazione e una forza d’impulso. La forza d’attrazione è “l’ideale”: anche i più folli aspirano, nel profondo di se stessi, ad un mondo migliore – ma è terribilmente difficile rinunciare ai bonus, alle stock-options, alla propria (tossico)dipendenza da consumo (ivi compresi i beni mediocri). La seconda forza è quella della costrizione, della minaccia, che è ad un passo dal prendere il sopravvento.

L’attrazione verso l’ideale è un’assunzione di responsabilità dei sostenitori della decrescita. È a loro che tocca il compito di far sì che si aneli alla società dell’abbondanza frugale; sta a loro mostrarne la necessità, il dovere, l’urgenza. Resta il fatto che, di fronte ad una massa di tossicodipendenti, che non sceglieranno la disintossicazione se non nel caso di una temibile minaccia, si trovano i trafficanti di droga, ossia le due o tremila firme transazionali che dominano il mondo – e che non vi rinunceranno. Ed è proprio qui l’importanza della crisi: è necessario che sia sufficientemente forte e massiccia perché la loro potenza ne esca, se non distrutta, quantomeno considerevolmente indebolita. In questo senso il fallimento della General Motors è una buona notizia. E aspetto con impazienza quello di Monsanto!

Scommettere sulla decrescita significa che, in circostanze favorevoli al declino di coloro che governano il mondo, gli uomini preferiranno la via della democrazia ecologica a quella del suicidio collettivo. Ma non è che una scommessa.

 

DICEMBRE 2012

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[1] J. Diamond, Effondrement, Comment les sociétés décident de leur disparition ou de leur survie (Collapse), Gallimard, « NRF Essais », 2006 (ed. it. Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere, Einaudi, Torino 2004).

[2] A. Smith, Recherche sur la nature et les causes de la richesse des nations [1776] (nouv. trad.), Économica, 2000 (ed. it. Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Utet, Torino 1996).

[3] Calcolato dal geofisico Marion King Hubbert negli anni quaranta, il picco di Hubbert designa il momento a partire dal quale il livello delle risorse di petrolio genera una riduzione ineluttabile della produzione.

[4] 2022 : i sopravvissuti (Soylent Green) è un film di fantascienza di Richard Fleischer (Stati Uniti, 1973), tratto dal romanzo eponimo di Harry Harrison [NdE].

[5] Serge Latouche allude al giornale La Décroissance, il cui sottotitolo è « Il giornale della gioia di vivere » [NdE].

[6] S. Latouche, Le Pari de la décroissance [2006], Fayard, 2010 (ed. it. La scommessa della decrescita, Feltrinelli, 2007)