LA DECRESCITA È UNA
SOLUZIONE ALLA CRISI?
Serge Latouche
(traduzione a cura di
Giovanna Caiazzo)
Trascrizione di un
intervento dell’autore tenuto a Marseille nel Marzo del 2010.
Oggi abbiamo lo
straordinario privilegio di assistere in diretta a niente di meno che il
crollo della civiltà occidentale. Non abbiamo avuto la possibilità di
assistere a quello dell’Isola di Pasqua e dei Vichinghi della
Groenlandia, né a quello dell’Impero romano, tutti perfettamente
descritti in Collapse[1],
il libro culto – peraltro molto documentato – dell’americano Jared
Diamond. Ma viviamo il crollo dell’impero occidentale-americano, che
somiglia molto a quello dell’Impero romano, con la differenza che
quest’ultimo si è protratto per diversi secoli mentre il “nostro” crollo
finale viene predetto per il periodo 2030-2070.
Nell’agosto 2007 è
apparsa – “finalmente apparsa” dicono i vecchi marxisti – una crisi che,
se fu immediatamente classificata dai nostri governanti come
“finanziaria e americana”, non ha mancato di aggravarsi soltanto un anno
dopo. Con la bancarotta della Lehman Brothers, una delle più grandi
banche mondiali, il 16 settembre 2008, non era più possibile nascondere
che la crisi era contemporaneamente mondiale, finanziaria ed economica.
La situazione di crisi non era nuova. Era
ecologica almeno dal 1972 con
il primo rapporto al Club di Roma,
sociale con la fine del fordismo e la prima crisi petrolifera nel
1973-74, e poi negli anni ’80 con la controrivoluzione neoliberale
dell’epoca Reagan-Thatcher – dove la società dei consumi non funzionava
che in modo fittizio e virtuale – e infine
culturale dal maggio 1968. Ma
arriviamo oggi ad un momento in cui tutte queste crisi si scontrano fino
a dar vita ad una crisi antropologica, cioè decisamente una crisi di
civiltà.
Di fronte ad una crisi
di questa ampiezza, non è più sufficiente essere un economista; e qui
insisterei su una riflessione di Woody Allen, uno dei più grandi
filosofi dei nostri tempi. Dice: «Siamo arrivati all’incrocio di due
strade, una porta alla scomparsa della specie, l’altra alla disperazione
totale. Spero che l’umanità faccia la scelta giusta». Bisogna prenderla
molto sul serio. La prima di queste vie è stata quella di una società
della crescita con la crescita, quella degli anni d’oro del capitalismo,
di cui sappiamo che si va diritti verso la catastrofe a forza di
irregolarità climatiche, di scomparsa delle specie, di sfruttamento
delle risorse delle energie fossili, etc. Una prima via che abbiamo
saggiamente, e fortunatamente, abbandonato dall’agosto del 2007 per
imboccare la seconda, quella della disperazione: quella di una società
della crescita senza crescita, in crisi, in recessione. È preferibile
essere disperati piuttosto che sparire? Ecco un bel tema di riflessione
filosofica...
È importante percorrere
queste due strade per arrivare a capire che forse ce n’è una terza: una
strada di speranza, quella di un altro mondo possibile, vale a dire
quella della decrescita. Per comprendere le ragioni che renderebbero
possibile questa terza via, cominciamo col capire perché sembriamo
bloccati nell’impasse tra una
società della crescita con la crescita, che porta alla scomparsa della
specie, e il mondo disperato e terrificante di una società della
crescita senza crescita.
Sebbene la situazione
sia catastrofica, non si è avviato nessun cambiamento reale. Persino le
piccole ripuliture del programma
Grenelle Environnement (abbandono dei pesticidi, introduzione di una
tassa sulle emissioni di carbonio) sono finite nel dimenticatoio
post-elettorale. Si è tornati al buon programma della crescita dura e
pura, del rilancio delle industrie più inquinanti: automobili, edilizia,
agricoltura produttivistica. Per uscire da questa logica dobbiamo
compiere il percorso inverso: capire come ci siamo entrati,
decolonizzare il nostro immaginario, sgonfiare la bolla speculativa
della grande recita trionfalista della crescita industriale occidentale.
Tutto è cominciato nel
xviii secolo con la nascita
del capitalismo e dell’economia politica, che situeremo simbolicamente
nel 1776, l’anno dell’apparizione del saggio sulla ricchezza delle
nazioni di Adam Smith[2],
fondatore dell’economia politica e riferimento essenziale degli
ultraliberisti. Rappresentativa del movimento dei Lumi, del pensiero
illuminato del xvii secolo,
l’utopia liberale di Adam Smith è quella dell’arricchimento di tutti per
la liberazione dalle passioni (ivi compresi l’avidità, l’egoismo e la
ricerca degli interessi più sordidi). Egli afferma che grazie al
meraviglioso meccanismo della “mano invisibile” sarà assicurata la
felicità dei più. È lo slogan della modernità: “maggiore felicità per il
maggior numero”, che gli economisti hanno elaborato, teorizzato nella
loro lingua sacra (l’inglese), fino a diventare poeti a forza di
metafore, con il nome di trickle-down-effect.
La metafora più in uso
è quella della marea: quando il livello del mare si alza, tutte le
barche salgono, grandi e piccole. Quando c’è la crescita tutti ne
beneficiano: i ricchi si arricchiscono, ma anche i poveri, un po’... È
il grande mito occidentale dell’economia, della crescita e dello
sviluppo.
Tuttavia nel
xviii secolo, quando il
capitalismo comincia ad apprestarsi, non si tratta ancora d’altro che
d’un mito. Non ha niente a che vedere con la realtà. Certo la borghesia
inglese si arricchisce (molto), ma i popoli, quello inglese come quello
europeo, sono proletari. I contadini vengono allontanati dalle loro
terre per ammassarsi nelle periferie insalubri di Liverpool o
Manchester. Gli artigiani sono rovinati, fanno parte di un immenso
proletariato di disoccupati, senza tetto, mendicati, senza fissa dimora,
lavoratori immigrati.
Non mancano le
testimonianze che denunciano la spaventosa miseria, sconosciuta allo
schema evoluzionista della crescita illimitata, degli inizi
dell’industrializzazione; abbiamo quelle di Dickens, Marx e Engels. Marx
citava anche i tessitori indiani condannati dal capitalismo, le cui ossa
(e quelle delle loro immense famiglie) imbiancavano le pianure del
Gange! Nel corso di un secolo il sogno di Adam Smith si è rivelato un
vero e proprio incubo. Eppure accade che le utopie prendano corpo: dopo
un secolo il sistema capitalista si è trasformato grazie alla via
termo-industriale basata sulle macchine a fuoco, come le macchine a
vapore che permettono l’utilizzo delle energie fossili.
La straordinaria
potenza della macchina a vapore (che funziona a carbone) permette una
demoltiplicazione dello sforzo e un aumento importante della produzione
intorno al 1850. Marx scrive allora che il capitalismo si annuncia come
una immensa accumulazione di merce. Ora, siccome queste merci non
possono essere tutte consumate, il sistema ogni dieci anni va incontro
ad una spaventosa crisi di sovrapproduzione. Milioni di persone vengono
licenziate, ancora più brutalmente che ai giorni nostri; poi c’è la
ripresa, e , due o tre anni dopo, il sistema riparte per un nuovo
decennio di crescita.
È stato necessario
attendere ancora un altro secolo perché il mito di Adam Smith divenisse
realtà, e che lo fosse per trent’anni (1945-1975). L’arma assoluta
diventa allora il motore a scoppio e il suo carburante, il petrolio.
Grazie a queste nuove meccaniche ognuno dispone di un’energia
equivalente a quella da 50 a 150 schiavi (ciò che solo i romani più
ricchi potevano permettersi). Bisogna sapere che trenta litri di benzina
nel nostro motore corrispondono al lavoro di un operaio nel corso di
cinque anni (per qualche decina di euro!). È assolutamente favoloso, ma
non può durare a lungo: oggi siamo arrivati al picco di Hubbert[3].
La festa è finita già
dal 1975, ma il genio della finanza Alan Greenspan, presidente della
banca americana dal 1987 al 2006, è riuscito a prolungare di trent’anni,
virtualmente, l’illusione della crescita. Sebbene negli Stati Uniti si
stimi una crescita continua del prodotto interno lordo (pil)
per abitante, anche ben oltre i livelli dei
Gloriosi Trenta (1945-1975),
questi risultati non tengono conto dell’aumento dei costi della
crescita: costi di riparazioni (trattamenti conseguenti agli effetti
nefasti dei pesticidi, dei concimi, inquinamento dell’aria, etc.) e
costi di risarcimento (suicidi sul lavoro, consumo di ansiolitici e
antidepressivi). Herman Daly ha mostrato che sottraendo questi costi (in
aumento dal 1972) al Prodotto Nazionale Lordo (pnl),
l’indicatore di benessere, che lui chiama
Genuine Progress Indicator,
ristagna, per poi diminuire inesorabilmente.
Il periodo dei
Gloriosi Trenta è quello detto
della società dei consumi, dell’opulenza, basato sulla triade
«pubblicità, credito e obsolescenza programmata». La società dei consumi
non è quella del benessere e della felicità, ma quella della
frustrazione. La pubblicità ci rende insoddisfatti di quello che
abbiamo: siamo spinti a desiderare ciò che non possediamo e consumiamo
di conseguenza. Il credito ce ne dà i mezzi, talvolta oltre ogni misura,
come dimostrano i crediti ninjna negli Stati Uniti (No incom, No job, No asset – nessun reddito, nessun lavoro, nessun
patrimonio) che hanno portato decine di milioni di americani ad
indebitarsi sconsideratamente comprando case mono-familiari. La
speculazione era tale che il plus-valore delle case così acquistate
garantiva i rimborsi. Non volendo gli economisti ammettere che gli
alberi non crescono fino a toccare il cielo, il sistema è crollato
nell’agosto del 2008. Ma la ripresa questa volta non sarà di lunga
durata: il pianeta non può sopravvivere ad una nuova fase di forte
crescita.
Il credito ha portato
alla cosiddetta crisi dei subprimes, dal nome dei prestiti di rifinanziamento accordati in
maniera sconsiderata a delle famiglie insolventi a tassi usurai. Questi
crediti a tassi d’interesse molto elevati sono stati mischiati ad altri
crediti non tossici, ma con tassi d’interesse a basso rendimento, per
formare dei titoli molto attraenti, chiamati prodotti derivati. Ne
sarebbero stati emessi per 600.000 miliardi di dollari, cioè sedici
volte il prodotto dell’intero pianeta! E le alcune migliaia di miliardi
di dollari messi a disposizione per salvare le banche non sono che una
goccia d’acqua, ecco perché ci sarà certamente una nuova ricaduta molto
più grave.
Ultimo elemento di
questa triade: l’obsolescenza programmata di tutti i prodotti, in
particolare gli elettrodomestici, che è diventato ormai più caro
riparare che sostituire. Fabbricati in Cina da persone sottopagate,
vengono gettati al minimo guasto. Avviene
così che, ogni mese, 800 navi partono dagli Stati Uniti cariche
di computer di scarto contenenti metalli ora preziosi, ora tossici – il
cui sfruttamento ha un prezzo umano enorme
(le guerre nel Congo). Invece che essere riciclati, questi
metalli, che verranno ben presto a mancare, vanno ad inquinare le falde
freatiche e a provare il cancro ai bambini in Nigeria, e in Ghana dove
vengono selvaggiamente scaricati.
Siamo sopraffatti da
una forma di totalitarismo non violento come nella Germania nazista o in
Unione sovietica, ma soft,
della quale siamo tutti complici e che ci porta difilato alla sesta
estinzione delle specie. Questa sesta estinzione si differenzia dalla
quinta, che ha avuto luogo 65 milioni di anni fa e ha visto la scomparsa
dei dinosauri, per il ritmo molto accelerato (diverse migliaia di volte
più rapida della quinta, con l’estinzione ogni giorno di un numero di
specie che va da 150 a 200) e perché tocca degli attori fondamentali
della biodiversità, alla maniera delle api, che soccombono a causa delle
onde magnetiche e dei pesticidi.
Per fortuna – questa è
una buona notizia – la crisi rallenta il nostro consumo di petrolio (e
l’inquinamento ad esso associato). Ci concede una proroga supplementare.
«La decrescita, ci siamo già e non è divertente» affermava
Pierre-Antoine Delhommais, cronista economico del quotidiano
Le Monde.
Adesso, ciò che «non è
divertente» – Delhommais sarà stato vittima di confusione – non è la
decrescita, ma la recessione, ovvero la situazione di una società di
crescita senza crescita; situazione della quale sappiamo da Hannah
Arendt che non può che generare disoccupazione, povertà e bilanci
pubblici esangui (educazione, salute, cultura).
Oggi siamo in una
condizione di crescita negativa che, a termine, non potrà essere gestita
che da una dittatura. In alcune istanze (il gruppo di Bilderberg, per
esempio), si pensa che, se il livello di vita degli Americani non è
negoziabile, bisognerà cominciare a ridurre seriamente le dimensioni
dell’umanità. Per mantenere questo livello di vita sulla Terra al suo
stato attuale bisognerebbe eliminare i 9/10 dell’umanità. Dei 500
milioni di persone restanti, bisognerebbe infine asservirne 490 milioni
per permettere ai 10 milioni restanti di continuare a viaggiare nelle
4x4, di bruciare la candela ai due lati.
Far funzionare il
nostro pianeta malato con lo stesso programma di società della crescita,
vale a dire il sistema capitalistico, non sarà possibile che con una
nuova mutazione sottoforma di un eco-totalitarismo, di un eco-fascismo,
di cui la fantascienza ci ha dato talvolta delle visioni molto
realistiche, come in 2022: i
sopravvissuti[4].
Molto fortunatamente –
e il grande filosofo Woody Allen è senza dubbio troppo americano per
considerarlo – esiste un’altra possibilità, c’è una scappatoia: la
società della decrescita (da non confondere con la crescita negativa).
“La decrescita” in sé per sé è uno slogan; una decrescita generalizzata
sarebbe di fatto un’assurdità, un’aberrazione masochista. Al contrario,
il nostro progetto è di far aumentare la gioia di vivere[5]
allo stesso modo della qualità dell’acqua, dell’aria, della vita animale
o vegetale; tutto ciò che la crescita fa venir meno.
Ma la crescita stessa è
affetta da assurdità. Così, se la si prolungasse ad un tasso del 2%
annuo nel corso di duemila anni, il prodotto sarebbe moltiplicato per
160.000 milioni di miliardi... Questa è la conseguenza di ciò che il mio
amico Giorgio Ruffolo, che è stato ministro dell’Ambiente in Italia,
chiamava giustamente «il terrorismo degli interessi composti». I
matematici sono terrificanti, terroristi; e per fortuna la realtà
sociale non gli obbedisce! Adesso rifacciamo il calcolo con un tasso di
crescita minuscolo, quasi inesistente, del 7/1000e: in
duemila anni il prodotto sarebbe moltiplicato di un milione – il che è
già delirante – e raddoppierebbe in un secolo. Viviamo su un pianeta
delimitato di 55 miliardi di ettari, che non sono tutti bio-produttivi,
e superiamo già del 50% la capacità di rigenerazione della biosfera:
questa situazione non può durare.
Dobbiamo uscire dalla
società della crescita e creare una società della
a-crescita. Si tratta di venir
fuori dalla religione della crescita, professarci agnostici di questo
progresso illimitato, atei della religione economica e dell’economia
politica, per raggiungere un sistema sostenibile; una società
“dell’abbondanza frugale” nella quale le persone, sapendo limitare i
propri bisogni, possano soddisfarli ampiamente.
“Abbondanza”, perché
avremo più beni del necessario per soddisfare i nostri bisogni;
“frugale”, perché il soddisfacimento si otterrà non attraverso una fuga
dal consumo, ma con un’autolimitazione dei bisogni.
Tutto questo presuppone
un altro tipo di produzione e soprattutto un altro tipo di
distribuzione. Gandhi diceva: «il pianeta è abbastanza grande e fecondo
per soddisfare i bisogni di tutti, ma sarà sempre troppo piccolo per
soddisfare l’avidità di qualcuno». Bisogna ritornare ai fondamenti del
socialismo: dividere più equamente una torta meno tossica.
Non esiste una ricetta.
La “società della decrescita” non è un’alternativa, un modello chiavi in
mano, un nuovo organismo internazionale composto da esperti; non ci
saranno dei Fondi internazionali di decrescita al posto del
fmi. La società della
decrescita è una matrice di alternative: non si realizzerà nello stesso
modo in Texas o in Chiapas. Quando verrà sollevata la cappa di piombo
dell’imperialismo economico si riaprirà la storia della diversità
culturale. Poiché ogni popolo, ogni cultura ha il diritto di trovare la
propria via per realizzare una società dell’abbondanza frugale. Lo
spazio è nuovamente aperto alla politica, alla storia; è compito degli
uomini prendere in mano il proprio destino.
Gli Illuministi avevano
il (nobilissimo) progetto di emancipare l’umanità. Ma una volta caduta
nella trappola dell’economia, la società degli uomini è stata sottomessa
alla dittatura dei mercati finanziari. La Grecia, alla quale dobbiamo
l’invenzione della democrazia, oggi è condannata a passare sotto le
forche caudine dei truffatori della Banca centrale europea. A dispetto
del loro voto socialista, i Greci sono – tradimento totale – condannati
ad una spaventosa austerità. Come loro, anche noi siamo sottomessi alla
tirannia della mano invisibile. Mentre un tempo, sotto l’Ancien
Régime, potevamo tagliare la
testa al re, adesso non sappiamo come prendercela con la Borsa. Come
dare la caccia ad una mano per definizione “invisibile”?
Il programma della
decrescita mira a farci riappropriare del nostro destino, a rifare
politica, a prendere in mano il nostro avvenire, in una parola a
decidere. Cosa produrre? Il nucleare? Le biotecnologie? Come produrre?
Attualmente non veniamo consultati; tutto viene deciso per noi, senza di
noi.
Non c’è un modello già
dato per i progetti di costruzione di società dell’abbondanza frugale,
ma tutti obbediscono all’imperativo di rompere con la logica della
crescita. Il progetto si situa su due livelli: quello d’inizio, della
concezione, cioè l’utopia concreta, l’orizzonte, l’obbiettivo che ci si
prefigge, poi, in un secondo tempo, quello della realizzazione, della
messa in opera.
Quanto all’utopia
concreta di ciò che dovrebbe e potrebbe essere una società della
decrescita, possiamo dare delle indicazioni “al negativo”. La
realizzazione dipende di certo dal luogo, dal contesto: siamo condannati
ad essere molto limitati, e il nostro potrebbe essere un progetto per
uno Stato, una regione, una città, un quartiere. Ma qualunque sia la sua
localizzazione, il progetto politico è fortemente
rivoluzionario: si tratta di
una rottura con la logica della società della crescita e la sua
pesantezza; e la sua realizzazione è necessariamente
riformatrice: si realizza
localmente attraverso una serie di modifiche concrete di certi tipi di
funzionamento.
Negli anni sessanta, i
miei maestri, economisti, si riempivano la bocca dei “circoli virtuosi
della crescita” il cui guadagno di produttività consentiva l’aumento dei
profitti, dei salari, delle imposte. Però questo significava dimenticare
due grandi perdenti. La natura da una parte: i cambiamenti climatici
attuali sono il risultato delle combustioni di ieri (sono necessari da
50 a 70 anni perché il diossido di carbonio si dissipi nella
stratosfera); e i paesi del Sud dall’altra parte, che sono passati dalla
povertà alla miseria, e sono sprofondati nel sottosviluppo. Eppure ho
conservato la nostalgia di quest’idea di circoli “virtuosi”, cioè di
interazioni positive, felici, tra diverse azioni e diverse tappe.
Come pensare una
società della decrescita sostenibile, auspicabile? Una società di
non-crescita, di sobrietà scelta, volontaria e tuttavia allegra o
felice? Come concepirla “al negativo” in relazione alla società della
crescita?
Tra i primi assi
fondamentali di questo cambiamento di società figura l’ordine dei
valori. La società della crescita si basa sulla guerra economica
generalizzata, la consacrazione dell’egoismo, la ricerca del massimo
profitto, la distruzione senza limiti della natura; bisogna reintrodurre
“un po’ di dolcezza in questo mondo di bruti” sviluppandovi la
cooperazione, l’altruismo, il senso dell’umano e il rispetto della
natura – condannati a vivere nella natura, dobbiamo comportarci come dei
giardinieri, non come dei predatori.
E se cambiamo i valori,
saremo portati a modificare i concetti con cui viene colta la realtà; a
«riconsiderare la ricchezza» come dice Patrick Viveret, ma anche la
povertà che, sebbene a lungo vissuta come virtuosa (con il nome di
“frugalità”), è diventata indegna, trasformata dall’economia in miseria
materiale e morale. Bisogna sviluppare concetti di ricchezza diversi da
quello dell’accumulazione illimitata, altri tipi di ricchezze che quelle
economiche, e rimettere in discussione il binomio infernale, fondatore
dell’economia, di scarsità e abbondanza.
La scarsità non è un
dato di natura, che è feconda, ma una costruzione sociale.
Monsanto si spinge
infatti fino ad “espropriare” la natura, ad appropriarsi della
straordinaria fecondità delle specie e a trasformarle in profitto
vendendo ai contadini delle specie geneticamente modificate, dai semi
non-riproducibili.
La scarsità comincia
nel xvi secolo con le
“enclosures”, ossia con l’appropriazione e la recinzione dei prati
comunali, che misero fine al tradizionale diritto di pascolo. Mentre
fino ad allora i proprietari terrieri avevano l’obbligo di lasciar
pascolare il bestiame liberamente nei loro campi dopo i raccolti, con la
recinzione dei campi privarono i più poveri (gli allevatori senza terre)
dei loro mezzi di sopravvivenza. Questo movimento di enclosures fu una vera catastrofe per i poveri in Inghilterra, e un’occasione
per i ricchi che non fecero che arricchirsi ancora di più.
L’appropriazione del
vivente è tuttora in corso: quella delle specie, del corpo umano. La
realizzazione del profitto non ha etica né limite ed è per questo che è
così importante lottare contro gli
ogm. È un’altra forma di battaglia contro le enclosures.
Rimettere in
discussione i concetti, cambiare i valori equivale a modificare il
programma, il software. A ciò
deve corrispondere un cambiamento dell’hardware,
nello specifico del sistema e dei rapporti di produzione. Bisogna
produrre altro e in modo diverso, questo implica un’immensa
riconversione del sistema e pone la questione dell’uscita dal
capitalismo. Crescita e capitalismo sono sinonimi. «Accumulare,
accumulare, questa è la legge e i profeti», ha detto Marx.
L’accumulazione del capitale è l’essenza del capitalismo, dunque
nient’altro che la denominazione marxista della crescita. Ed è perché
non ha mai rinunciato all’accumulazione del capitale che l’Unione
Sovietica non è mai veramente uscita dal capitalismo.
Non esiste una ricetta
miracolosa, e l’idea non è quella di abolire la proprietà privata dei
beni di produzione. Ciò che conta è allontanarsi dallo spirito del
capitalismo; realizzare una rivoluzione culturale. Occorre andare in
questa direzione, conservare questa rotta. Una ristrutturazione di tal
tipo permetterà una ridistribuzione tra Nord e Sud, e tra generazioni,
della ricchezza, dell’impronta ecologica, della terra, del lavoro.
Una delle forme
possibili di questa “rivoluzione” – che integra
la maggior parte di questi cambiamenti – è la “rilocalizzazione”,
l’antiglobalizzazione. La globalizzazione è un eccezionale trasloco
planetario: accade così che migliaia di camion si incrocino lungo il
tunnel del Monte Bianco, alcuni trasportano l’acqua San Pellegrino verso
la Francia, altri l’acqua Evian verso l’Italia. Peggio ancora: è
previsto un raddoppiamento dei flussi per il 2020 – che non può aversi
senza distruggere territori, creare nuove autostrade, nuove linee di
treni ad alta velocità. È il delirio assoluto con, alla fine, la
distruzione del pianeta. Per contrastare questo trasferimento
planetario, bisogna rilocalizzare.
La soluzione è nella reintroduzione di monete locali e
contemporaneamente nella ri-territorializzazione dell’economia, della
politica e della cultura. Ma andare controcorrente rispetto alla
de-territorializzazione accelerata alla quale assistiamo è un progetto
complesso.
La sfida è ridurre
l’impronta ecologica, i rifiuti, i trasporti, il consumo eccessivo, gli
sprechi, i consumi energetici, la pubblicità e, soprattutto, ridurre gli
orari di lavoro.
Sconfesso lo slogan che
ha avuto successo nel 2007: «lavorare di più per guadagnare di più». È
un raggiro che tutti gli economisti avrebbero dovuto denunciare. Un
aumento dell’offerta di lavoro in una società in recessione (dove la
domanda di lavoro ristagna, anzi diminuisce) non può, in effetti, che
condurre al crollo del prezzo del lavoro, cioè del salario. Ed è
esattamente ciò a cui abbiamo assistito.
Il motto dei
sostenitori della decrescita potrebbe essere: «lavorare meno per
guadagnare di più», ma soprattutto «lavorare meno per lavorare tutti»,
il programma (purtroppo abbandonato) dei socialisti nel 1981. Non sono
stati abbastanza audaci: bisognava trasformare i guadagni di
produttività in riduzione del tempo di lavoro (a quindici o venti ore) e
non nell’aumento della produzione di gadget. Noi, che sosteniamo la
decrescita, andiamo ancora oltre: «lavorare meno per vivere meglio»,
vale a dire ritrovare le dimensioni schiacciate dell’esistenza... anche
se, incredibilmente, lavorare meno non è un auspicio condiviso da tutti
– il sistema è sufficientemente perverso da aver fatto dei lavoratori i
suoi agenti, ciò che gli Americani chiamano
workalcoholics, work addicts,
“drogati di lavoro”.
Siamo diventati
tossicodipendenti non solo da consumo, ma anche da lavoro. Eppure
sarebbero praticabili ben altre attività intelligenti. Le società umane
consacravano infatti molto tempo alla vita contemplativa, considerata
superiore alla vita attiva, produttiva: una vita di meditazione, di
riflessione, che permetteva di ritirarsi per pensare, per sognare; e
d’altronde anche nella vita attiva ci sono cose migliori da fare che
lavorare per un padrone quotidianamente, ad ore fisse. Si può fare del
bricolage, della musica, danzare, scolpire, dipingere... o fare politica
– la democrazia ha bisogno che si consacri del tempo alla lettura dei
testi, alla discussione, alla contraddizione, al dibattito. Ridurre il
tempo di lavoro è fondamentale per riappropriarsi del tempo stesso.
Questa terza via,
quella della decrescita, è la sola che ci permetterà di evitare
l’eco-fascismo, la minaccia dell’eco-totalitarismo, per costruire un
futuro soddisfacente. Ma è una strada difficile. Nel mio libro
La scommessa della decrescita[6],
intendo il termine “scommessa” nel senso di Pascal: anche se non ci si
crede, bisogna tentare; non abbiamo niente da perdere e tutto da
guadagnare. Parto dall’idea che la natura umana obbedisce
fondamentalmente a due forze: una forza d’attrazione e una forza
d’impulso. La forza d’attrazione è “l’ideale”: anche i più folli
aspirano, nel profondo di se stessi, ad un mondo migliore – ma è
terribilmente difficile rinunciare ai bonus, alle
stock-options, alla propria
(tossico)dipendenza da consumo (ivi compresi i beni mediocri). La
seconda forza è quella della costrizione, della minaccia, che è ad un
passo dal prendere il sopravvento.
L’attrazione verso
l’ideale è un’assunzione di responsabilità dei sostenitori della
decrescita. È a loro che tocca il compito di far sì che si aneli alla
società dell’abbondanza frugale; sta a loro mostrarne la necessità, il
dovere, l’urgenza. Resta il fatto che, di fronte ad una massa di
tossicodipendenti, che non sceglieranno la disintossicazione se non nel
caso di una temibile minaccia, si trovano i trafficanti di droga, ossia
le due o tremila firme transazionali che dominano il mondo – e che non
vi rinunceranno. Ed è proprio qui l’importanza della crisi: è necessario
che sia sufficientemente forte e massiccia perché la loro potenza ne
esca, se non distrutta, quantomeno considerevolmente indebolita. In
questo senso il fallimento della General Motors è una buona notizia. E
aspetto con impazienza quello di Monsanto!
Scommettere sulla
decrescita significa che, in circostanze favorevoli al declino di coloro
che governano il mondo, gli uomini preferiranno la via della democrazia
ecologica a quella del suicidio collettivo. Ma non è che una scommessa.
DICEMBRE 2012
[1] J. Diamond, Effondrement, Comment les sociétés décident de leur disparition ou de leur survie (Collapse), Gallimard, « NRF Essais », 2006 (ed. it. Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere, Einaudi, Torino 2004).
[2] A. Smith, Recherche sur la nature et les causes de la richesse des nations [1776] (nouv. trad.), Économica, 2000 (ed. it. Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Utet, Torino 1996).
[3] Calcolato dal geofisico Marion King Hubbert negli anni quaranta, il picco di Hubbert designa il momento a partire dal quale il livello delle risorse di petrolio genera una riduzione ineluttabile della produzione.
[4] 2022 : i sopravvissuti (Soylent Green) è un film di fantascienza di Richard Fleischer (Stati Uniti, 1973), tratto dal romanzo eponimo di Harry Harrison [NdE].
[5]
Serge Latouche allude al giornale
La Décroissance,
il cui sottotitolo è « Il giornale della gioia di vivere »
[NdE].
[6]
S. Latouche, Le Pari de
la décroissance [2006],
Fayard, 2010 (ed. it.
La scommessa della decrescita,
Feltrinelli, 2007)