OGNI RESIDENZA È
INFIAMMATA
Franco Arminio
Bisogna prendere la propria anima e portarla lontano dove non passano
esseri umani: gli abissi marini, le vette più impervie, i boschi più
cupi. In ogni caso è possibile essere qualcosa, sentire qualcosa di sé e
del mondo solo nell’eccesso. L’equilibrio è saltato, non lo ha deciso
nessuno, ma è come se ormai l’isteria nichilista avesse vanificato ogni
solidità, ogni appoggio nel reale. Quelle che ascoltiamo sono notizie
dall’irreale, non c’è più una verità striata da finzioni, ma una
finzione striata da verità sempre più sfilacciate e sconnesse. Stiamo in
una casa dove al posto del lavandino c’è una finestra, il televisore fa
da pavimento, il nostro lampadario è la paura. Siamo illuminati quando
ci accade qualcosa di brutto, siamo in piedi quando tremiamo, altrimenti
ci accatastiamo come vermi in un letamaio depressivo in cui ognuno
compiange la scomparsa di qualcosa, la mancanza, la non coincidenza.
Siamo gli attori di un tempo aggrovigliato e non poteva essere
altrimenti visto che siamo ormai molti miliardi e stiamo tutti su un
balconcino, protesi a vedere o a farci vedere. Ha poco senso ormai
definirci persone, siamo corpi dilaniati dall’esplosione dei segni, la
comunicazione deflagra ogni giorno dentro di noi, siamo brandelli, siamo
rovine che si spacciano per sontuose dimore, siamo dei che trafficano
con le pulci pur di essere presenti, pur di godersi questo prolungato
finale. Il nostro film è fatto solo di titoli di coda, scorrono nomi che
non hanno partecipato ad alcuna storia, compariamo alla fine senza che
ci sia mai stato un inizio. Non c’è gloria o miseria che siano poi
veramente tali, tutto si ribalta, si piega nel suo opposto, la dolcezza
e il rancore si mischiano e producono un prodotto emotivo neutro, a
somma zero, non ci spostiamo, non avanziamo, non è possibile neppure
arretrare, c’è solo, ma ancora per poco, l’illusione di nascere e
morire, di arrivare e andarsene, in realtà c’è un permanere nella
palude, c’è la palude della residenza, non c’è più viaggio, spostamento,
siamo in un disco che gira, una voce registrata, un vetro appannato, un
fuoco spento.
Se ti nascondi nessuno ti viene a cercare, questa non è una società
seria, è un mercato in cui ognuno espone la sua merce mentre è in corso
un urgano e volano stracci e ti ritrovi con un imbuto in bocca. Non ci
sono incontri umani, non si arriva all’altro e l’altro non arriva a noi,
diamo una sbirciata al catalogo, vediamo le merci dell’altro e proviamo
a vendere le nostre. Vedere, vendere, sono due verbi pilastro del nostro
tempietto. Bisogna rischiare la confusione, il marasma per acciuffare
qualcosa, il telaio della scrittura deve fare la spola dal corpo
all’infinito e non stazionare nello spazio vuoto del mondo, nel punto
morto in cui di solito ci affolliamo, il punto in cui andiamo a fare la
spesa: nel carrello può finire di tutto: occhi, mandorle, bottiglie,
paura, ambizione, desiderio, insalata, nostalgia, birra, carta igienica.
Fare un giro nella nostra testa significa visitare uno scaffale da
supermercato, non si può tenere in ordine la propria anima, bisogna
buttarla nel marasma, buttarla sul fondo e lasciare che ci passi sopra
ogni cosa, il piede d’una vacca, la pioggia, le macchine, i tacchi delle
signore.
Qualche tempo fa mi era venuta l’immagine di un blog letterario come di
una strada a luci rosse. Ognuno sta in vetrina a esporre la sua merce.
Chi mostra i glutei, chi spalanca le cosce. Tutto un susseguirsi di
merci che cercano acquirenti nella scabrosa condizione in cui i
produttori di merce sono assai di più rispetto ai possibili compratori.
E questo i compratori lo sanno e da lì nasce la figura del compratore
sadico, colui che entra nel box, gira intorno alla merce e magari se ne
va lasciando semplicemente un commento sarcastico.
Alle nove del mattino
sono salito sulla giostra delle spedizioni e delle risposte. Adesso sono
le sette di sera e ancora giro, mendicante tra mendicanti. Non c’è
differenza tra chi esibisce la sua gamba monca, l’occhio in cui cigola
il delirio e quelli che fanno finta di stare qui perché vogliono
cambiare il mondo, fanno finta di indignarsi, insomma fanno finta di
essere scrittori. Torniamo all’immagine iniziale. Il risultato è che si
sbandierano cosce e culi e quasi si finisce col dimenticare che in fondo
il pensiero è la cosa più eccitante ed è per esprimere i pensieri e le
emozioni più difficili che è nata la letteratura. Per il resto ci sono
tanti strumenti, da quelli antichi come la musica, a quelli nuovi come
il cinema e la televisione.
Lo scrittore sbatte con il bastone del cieco contro le vetrate
dell’infinito. Prega, balbetta, cade nel suo tentativo di annusare la
rosa che non c’è. E questo tentativo viene ripreso da un altro e poi da
un altro ancora. Insomma, la letteratura è una catena di preziosi
fallimenti. Il cinema e la televisione non potranno mai attingere alla
dimensione sacrale che è propria della scrittura. I blog sono creature
biforcute perché portano la scrittura, ma la portano in un clima che
sembra quello televisivo. Chi scrive, chi commenta, deve ogni volta
decidere da che parte stare sapendo che da quando abbiamo smesso di
credere all’invisibile e al sacro tutto il visibile e il profano non ci
basta più e ci basterà sempre meno.
Le cose finiscono subito, hanno perso l’eco. Anche i baci, non solo gli
eventi culturali. Le cose hanno perso l’eco perché siamo in guerra. Uno
contro l’altro. Sempre e comunque. La rete è una trincea. Rubare il
fiato degli altri. Uno spazio che accoglie tutti senza poter accogliere
nessuno. Siamo in trappola. Ti incontri con una persona, pare che hai
trovato un filo. E invece no. La persona è altrove. Non hai incontrato
una persona, hai incontrato un luogo della rete che aveva una faccia e
un nome, hai incontrato una rappresentazione. Oggi non ci sono persone
in giro, siamo tutti figuranti della comunicazione.
Siamo immersi nella finzione e chi approda a un pezzo di verità deve
affondare nel silenzio. L’autismo corale ha distrutto la comunità e ha
distrutto la forma delle persone. Le persone esistono ma molto spesso
non hanno più forma, non hanno più lingua. Puoi entrare in loro e
trovare un giorno una rosa e un giorno un lampadario. L’irreale e
l’inconsistenza hanno preso il centro della scena sociale e di ogni
individuo. Esiste un patto per non dare conseguenze a nulla. Parlo di
pale eoliche col ministro Barca, sembra che tutti siano d’accordo con le
cose che dico, ma il giorno dopo nessuno mi dice: e allora? Che
facciamo?. Il discorso è una tavola apparecchiata. Il giorno dopo si
sparecchia e via, tutti a casa. Siamo in un videogioco. Quello che
rimane vivo è lo spavento quando c’è. Quello che rimane è uno spaventoso
senso di solitudine. Ognuno ha il suo, uno dichiara la sua spaventosa
solitudine e non succede niente, come se fosse un politicante qualsiasi.
Siamo abituati a dire una cosa e farne un’altra, siamo abituati a fare
una cosa e a dirne un’altra.
Il nostro corpo è in offerta speciale, lo offriamo scontato, siamo il
discount di noi stessi. Bisogna vendersi prima che altri si vendano al
posto nostro. Scriviamo una mail a qualcuno che sta scrivendo una mail a
qualcun altro.
Se fai un miracolo non
va bene, non va bene niente. Se stai zitto hai torno, se parli non hai
ragione. Ormai siamo al pettegolezzo di massa, eremiti del chiasso nella
bacinella della rete, pesce già pescato. Non c’è scampo, non c’è un
mondo reale a cui approdare. Usiamo parole imprecise. Io dico che vorrei
unire amore, politica e poesia. Ecco uno su
facebook che dissente, dice
che l’ho perso perché per lui la politica non c’entra niente con l’amore
e la poesia. Magari ha ragione, magari lui si riferisce alla politica
politicante e io alla politica che aveva in mente Tolstoj, ma il punto è
quella parola: perso. Il tipo mi dice che va in un altro partito, che mi
toglie il consenso. E chi glielo aveva chiesto? Quello che scrivono “mi
piace” si sentono in potere di ricattarti. Non te lo scrivo più, lo
scrivo ad un altro. Non parli più a persone ma a compratori. Ogni frase
è una ciuccia vecchia e il mondo della comunicazione è una fiera. Ecco
quello che fa finta di ignorare la tua ciuccia e si interessa al cavallo
del vicino. La fiera mischia tutto, una ti racconta i suoi esaurimenti,
una rivela che ha un tumore, una annuncia il suo ritiro da
facebook. E poi le citazioni,
la musica, annunci di eventi, venite da me dice un altro, poi compaiono
le foto davanti a una torta o le foto di un convegno. Ma tutto questo
non è in un cassetto separato, dentro questo cassetto c’è Ballarò, ci
sono le telefonate, c’è perfino quello che incontri per strada. È uno
spazio unico, sembra una tela fiamminga, sembra un sogno dove il
dettaglio è più importante della scena centrale. La verità è una
finzione impiallacciata. Vendere, comprare. Vendere la crisi, parlare
dello sviluppo senza vedere cosa fanno le persone quando hanno i soldi,
comprano porcherie, comprano le macchine, i gioielli, bevono vini
costosi, sporcano il mare con le barche. Aveva ragione Berlinguer,
bisognava seguire il suo discorso sull’austerità. Invece dobbiamo
riprendere a crescere. Nessuno ha fame di povertà e di silenzio, nessuno
vuole essere accantonato, nessuno gode del fatto di non essere notato.
Una società di egoisti è condannata alla crescita perché il principio
guida è l’invidia. Alcuni hanno smesso di leggermi quando si sono
accorti che non erano solo loro a leggermi. In rete si capisce benissimo
la guerra che è in corso. Molti amici scrittori da mesi non si fanno più
sentire, mi rimproverano di aver scritto troppi libri, di aver avuto
troppe recensioni. E poi ho una moglie e due figli, non si hanno notizie
di un mio tumore o di un ricovero in una clinica psichiatrica. Sto nel
mondo e pretendo di raccontarlo da fuori. Parlo con Milo De Angelis e
Fabrizio Barca, con Mariangela Gualtieri e Franco Farinelli, con Sergio
Gioia e Vito De Filippo. Gioia non lo conoscete, è un disoccupato
napoletano che viene a tutti i miei incontri. Non ho capito se è meglio
o peggio degli altri. Siamo tutti in una condizione indefinita,
difficile collocarci, il mondo presente ha abolito il pavimento, siamo
tutti appoggiati su un tappeto volante. Siamo attori di una fiaba
scialba in cui non accade niente, in cui ognuno prova a raccontare
quello che accade e ovviamente non ci riesce.
Non sappiamo mai come si sente veramente un altro, non lo sappiamo
perché ognuno vive dentro un corpo che è unico e irripetibile, tra un
corpo e un altro c’è la distanza che c’è tra due stelle. L’unica cosa
che da vivi ci può congiungere è il sentimento della morte, la morte che
ci circola dentro, che ci fa sentire la vita sul punto di finire, la
vita è quella cosa che è sempre sul punto di finire. E anche l’amore è
così. E allora mirare nella vita all’assoluto è l’unica cosa decente, ma
bisogna sapere che pure l’assoluto è assolutamente singolare, ognuno ha
il suo. Ora il mio assoluto è stare solo a scrivere nel cuore della
notte, scrivere per sfollare il cuore, perché la vita e gli incontri del
giorno raramente ce la fanno a sfollare il cuore, la vita e gli incontri
del giorno ci costringono a stare su una giostra rotta. Di giorno
abbiamo un imbuto al posto del cuore, di giorno abbiamo un cuore che ci
serve per mangiare, per guidare la macchina, per dire che Berlusconi è
uno stronzo, ma poi non basta, poi arriva la notte e il cuore vuole la
vita, vuole la carne, e ti dice che vuole aspettare l’alma assieme a
qualcuno e siccome non c’è nessuno, allora devi fargli compagnia, noi
siamo per il nostro cuore i supplenti di qualcuno che non c’è.
Quando il corpo si sveglia in mezzo alla notte, in mezzo al corpo c’è la
morte e in mezzo alla morte c’è il cuore che batte come un mulo che
scende verso la campagna di una nuova giornata. Chi scrive ara il suo
corpo, trasforma un lampadario, un imbuto, in un orto.
Il tuo corpo magro, qualcosa che guizza dentro il corpo e non riusciamo
a fermare, la lingua non è altro che un temporale che avviene dentro il
corpo.
I paesi sono morti, ma di notte dentro le case chiuse qualche morto si
risveglia, prende sua moglie da dietro o riaccende il fuoco nel cammino,
si siede insieme a un altro morto venuto da una casa vicina, si bevono
assieme mezzo bicchiere di vino.
Mai una tregua, mai una tregua con nessuno. Se provi a darti rigore
sembra che stai dietro solo ai fatti tuoi. E se vai dietro agli altri
pare che non hai rigore. Ci vuole una tregua in mezzo al mondo, ci vuole
una grande resa, ma non vuole arrendersi nessuno.
Ieri sera a Caposele c’era poca gente, assai meno di quella che c’era
quando ho presentato i miei libri. Il partito tira meno dei libri,
questo ieri sera era evidente. A un certo punto del mio intervento mi
sono alzato in piedi, mi sono messo a parlare in dialetto, ho sentito
che l’attenzione si è fatta acuta, ho buttato la mia lingua e ne ho
trovata una giusta per quel momento, una lingua per baciare, per
mordere, per piangere, per gridare, per ridere. Ero in scaletta l’ultimo
a parlare e ho riaperto la serata e l’assemblea è arrivata al suo fuoco
dopo la sua fine.
Lavoro di notte, metto sulle gambe gli stracci del giorno e provo a
farne un vestito.
Uno sta in un punto, uno in un altro, i tuoi occhiali, il modo come
tieni un libro in mano, la discesa per arrivare a casa tua, la casa dove
ti fai la cucina, la casa senza la moglie, col figlio che studia fuori,
coi quadri che hai dipinto in un’altra epoca e quelle tue poesie
cordiali, pudiche, silenziose...
A un certo punto bisogna spezzare la lingua che stiamo parlando,
mostrare il suo interno, aprirla come si apre un’arancia. Oggi la
politica deve essere un gesto umile, qualcosa da fare in ginocchio.
Quelle persone che sai bene come sono dentro e che hai guardato solo una
volta di fuori, quelle persone che trovano parole in giro e te le
mandano, come una madre manda qualcosa da mangiare al figlio che è
fuori.
Il giro del mondo ha infinite persone e infiniti impicci per ognuno,
trascurarsi è facile. Non viviamo l’epoca della comunicazione ma quella
della trascurazione.
Il tuo lavoro, il mio, dentro la fabbrica delle parole. Non c’è più
un’ora muta...
Noi che crediamo ai luoghi forse siamo gli ultimi che ancora credono a
qualcosa.
Mi sono fatto un’altra notte di scrittura e questo è tutto.