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09
Gennaio 2013

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Esperienza e rappresentazione

IL REALISMO MINIMALISTA DEI NOSTRI GIORNI

Mariano Mazzullo

 

Chi guarda al mondo con gli occhi della ragione ne è ricambiato con lo stesso sguardo,

l’uno e l’altra si determinano reciprocamente.

(Hegel, Lezioni sulla Filosofia della Storia)

 

Superata la soglia del terzo millennio, attraverso gli oceani e i naufragi delle dottrine, i campi di battaglia del Novecento e la deriva della filosofia, è riemersa l’antica tendenza, vecchia quanto il bisogno di certezze, a considerare il mondo degli oggetti come una realtà data, contrapposta a quella pensata, qualcosa di irriducibile alle interpretazioni, resistente all’“umanità” che gli vorremmo attribuire con il nostro modo di pensare. In questo nuovo e vecchio dualismo delle cose e dei pensieri, pensare e relativizzare si avvicinano fino a diventare sinonimi. È la riproposizione di una separazione dove l’intelligenza non fa alcuna differenza alla realtà dei fatti. In questo scolorito affresco dei nostri tempi, sembra proprio che il Cogito cartesiano, garanzia ultima dell’esistenza, sia diventato un edonismo liberale per chi non si accontenta del già dato, per chi artisticamente vuole arricchire o favoleggiare il mondo, un attributo certo utile, ma non necessario a comprendere la realtà. Come dire: «l’importante sono i fatti, poi si può pensare tutto ciò che si vuole». Se dal punto di vista umano l’esaltazione del fatto concreto a dispetto dell’evanescente è certamente un segno dei tempi senz’altro anche segno di paura e diffidenza nei confronti di tutto ciò che non si vede e non si tocca, di tutto ciò che non si può dominare nelle argomentazioni dei filosofi questa istintiva fede nel fatto si mostra in un profilo più lucido, un angolo neutrale che ci permette di giudicarla senza doverla comprendere, acquisendo così un posto “fuori” dal tempo, mostrandosi cioè come “teoria”. Nella recente opera di diffusione di alcuni filosofi, il realismo è tornato a fare i suoi zelanti proseliti (a dire il vero mai pochi) e la sua antica veste filosofica è tornata a riproporsi in tutta la sua asciuttezza. In verità il new realism è qualcosa di più del classico realismo (e non per l’aggettivo inglese modernizzante), con il suo taglio secco e avaro di riflessione si candida a essere una rappresentazione eloquente del nostro pensiero e della nostra società, qualcosa di diverso e drammaticamente simile al saggio consiglio del nonno di “stare ai fatti”.

La rivendicazione di questo new realism sembra risiedere nella riconquista dell’oggettività, nella presa di coscienza matura che è ora di smetterla di filosofeggiare con iperurani e dubbi cartesiani fini a se stessi. Nessuno può pensare il mondo senza che esso si offra precedentemente al suo pensiero, i fatti e le cose, da sempre e perfino per i “negazionisti” più estremi, vengono necessariamente prima delle idee e dei pensieri, qualunque sguardo della mente non potrà cambiare ciò che trae oggettività dal suo essere reale, dal suo essere ente irriducibile all’interpretazione. Come una voce che sorge dall’antichità e dalle profondità della coscienza, il new realism si mostra in questa luce di veneranda quanto fruibile sapienza, come i consigli del nonno appunto. Una tale prospettiva (ad essere sinceri non molto rigorosa) oggi è diventata un manifesto filosofico. La sua semplicità si amplifica ed echeggia proprio attraverso questo manifesto, dove il common sense di antichi natali pare abbia trovato la propria rappresentazione accademica nella rinuncia a formulare dubbi sul mondo.

Acquisiamo uno sguardo in più sulla natura di questo movimento guardando di sfuggita alla storia e alla funzione del “senso comune” nella filosofia, il common sense dei nostri giorni, per così dire, si distingue radicalmente dall’istanza a cui si richiamava l’Illuminismo, quell’atteggiamento di contrapporre la veracità del mondo all’astrattezza delle nozioni scolastiche. Forse oggi parlare di common sense è persino superfluo, data la scarsa distanza tra il mondo comune e quello intellettuale, o forse sociologicamente parlando il common sense è talmente tanto annacquato nelle stereotipate categorie dell’opinione pubblica, che sembra non sia rimasto che il “buon senso”, con tutta la sua contraddittorietà rinunciataria, a cui ricorrere per uno sbiadito saggio di Illuminismo. La funzione illuministica della realtà nella filosofia di Locke, Bacone e Hume, ad esempio, era quella di offrire istanze utili al ragionamento, di stimolare l’intelletto e indirizzarlo sulla retta via, il ruolo che la realtà sembra assumere nel nostro realismo è piuttosto quello di dare un freno al ragionamento, l’imposizione dell’inerte e riconoscimento di un ostacolo esterno, un “chi va là” che segna l’inizio della verità e la fine della finzione. Volendo essere profondi e ottimisti si potrebbe paragonare la nozione di realtà di questa filosofia al negativo hegeliano, un’opposizione che è causa del suo stesso superamento, qualcosa che porta l’umanità ad un’inarrestabile e progressiva conquista di se stessa. Purtroppo però temo che il livello speculativo del concetto di “realtà”, per come viene descritta ultimamente dalla filosofia di bandiera, sia molto più scarno e intuitivo del suo omologo romantico. Ad ogni modo, nel neorealismo filosofico di questi tempi la realtà continua ad essere comunque un “negativo”, almeno in due sensi: in primo luogo perché nella prospettiva pseudo-empirista in cui si pone, questa filosofia definisce il reale come ciò che si oppone a noi, non in sintesi, in relazione dialettica, in un qualche rapporto che potremmo definire “reciproco” o attivo, ma nella forma di un bivio, di un aut-aut, di un univoco e afasico faccia a faccia. Il rapporto di scambio tra la realtà e l’umanità (o interiorità) è abolito completamente, come se la realtà fosse completata esclusivamente dal suo lato esteriore e comprendesse solamente quest’ultimo in quanto esaustivo al suo concetto. In un secondo senso questa proposta di realtà ha la forma del negativo poiché non è definibile in se stessa, di per sé non ha un significato proprio, essendo piuttosto un sostrato semplicemente esistente.

Senza ricorrere a paradigmi “troppo umani”, quel mondo indipendente dall’uomo, per cui sembrano battersi i realisti, resta un terreno asettico e informe se viene preso in sé stesso, e in tal senso sarebbe certo più appropriato definirlo neutrale, se la neutralità stessa fosse a sua volta qualcosa di informe o preesistente, ma anche la neutralità non è mai completamente neutrale. Probabilmente è più corretto parlare di vuotezza o insensatezza, ma sarebbe sicuramente ozioso sottilizzare. Quel che importa ribadire è che una tale neutralità del reale, può piacere o non piacere, è certamente innaturale.

Simpatie a parte, volgere lo sguardo alla visione del mondo di una tale filosofia è molto più di una semplice valutazione critica, un pensiero che si definisce realista proprio adesso, in un mondo dove la concretezza sfuma e sfugge sempre di più nella temporaneità della società virtuale, nel diradare quotidiano e incomprensibile dei confini identitari, politici, nazionali. In un mondo che sembra somatizzare come una malattia il detto eracliteo: «non c’è nulla di eterno tranne il divenire» – una filosofia realista può essere una risposta utile in molti sensi, principalmente nella misura in cui aiuta a definire ciò che è soggetto a mutare irrefrenabilmente e ciò che si sottrae al gioco perverso della sostituzione dei significati. In effetti c’è un bisogno estremo di realtà in questo video game in cui si è trasformato il mondo. L’economia, la cultura, la scienza, sembrano non saper più funzionare senza cancellare la differenza tra il reale e il fantastico, tra la teoria e la prassi, senza aborrire la realtà della speculazione. In questo solco in cui ci troviamo, un medioevo tecnologico dove i tempi sembrano ormai troppo maturi per riproporre una nuova divisione mosaica tra il sacro e il profano, tra il reale e il non reale, e troppo ingenui per una nuova sintesi, il new realism può rappresentare un momento di riflessione unica, aiutando ad auto-comprenderci, esprimendo tutta la timidezza e l’aggressività di oggi. Tuttavia, riflettendo su questo tentativo neorealista di isolamento e autonomizzazione della realtà, credo che la sua principale lacuna sia il misconoscimento totale della relazione tra realtà e ragione, uno scambio che, a differenza del banale intellettualismo, difficilmente può venire zittito dal radicalismo oggettivista, poiché si tratta di un nesso strutturale, le cui tracce si perdono nella notte dei tempi. Da un punto di vista razionale o filosofico, non è facile riconoscersi nel realismo, vecchio o nuovo, come non lo è riconoscersi in un qualunque idealismo: entrambe le cose, infatti, sono altrettanto lacunose, e lasciano il retrogusto di ideologia, l’agrodolce di tutto il loro essere Ismo.

Dal quadro storico-sociale dei nostri tempi – soprattutto alla luce del disastro in cui versa la relazione economica tra l’uomo e il mondo – non è difficile comprendere che il bisogno di questo mondo nuovo, confusamente postmoderno, sorto al tramonto delle filosofie epocali, non è l’ennesima separazione tra intelletto e realtà, quanto un risveglio interiore, un’opposizione del senso umano all’esteriorità dominante e alla contingenza delle spiegazioni, l’attitudine al logos, la capacità di scomporre e articolare il sempre più istantaneo e preconfezionato, il dato compresso usa e getta, la capacità di trovare il termine medio tra porzioni discontinue dello stesso mondo, quel tipo di pensiero che senza numeri sa accorgersi che qualcosa non torna o che il “qualcosa” non basta. Il logos non è solo la platonica moltiplicazione dei perché, il discorso senza fine sulle cause ultime o l’alternativa speculativa alla risposta lineare e sufficiente del quotidiano, il logos è la matrice semplice e profonda della realtà, la consistenza della dimensione in cui ci troviamo a vivere, senza la quale il mondo non avrebbe la realtà che possiede, niente potrebbe avere un senso, una storia, niente si distinguerebbe dal regno naturale, dove tutto scorre senza differenza alcuna, in un alternarsi identico di alba e tramonto, vita e morte. Cercando di avvicinarci alle ragioni più intellettuali del new realism, al di là della sintomatologia industriale che si rispecchia nella sua posizione – carica di tutta quella fede vittoriana nel mondo dei fatti e delle cose – quel che più stupisce sul piano prettamente teoretico è da una parte l’ambigua semplicità delle argomentazioni a suo sostegno – si deve ammettere, infatti, che inspiegabilmente questo movimento intellettuale presta con troppa facilità il fianco alla confutazione spicciola – dall’altra l’alquanto incomprensibile auto-definizione di “realismo”.

Prima di inquadrare più precisamente i singoli punti di forza esposti nel Manifesto del new realism, quegli stessi che a mio avviso sono i suoi stessi punti di debolezza, sarà meglio riassumere grosso modo la posizione generale di questa filosofia, affinché il lettore comprenda appieno la sua discussione e la molteplicità degli argomenti appaia visibile in semplici punti decisivi. Il suo assunto principale, come già accennato, è l’irriducibilità della realtà esterna al pensiero, la sua assolutezza, il suo essere anfibia ad ogni tentativo di negazione, in buona sostanza l’essere indipendente da ogni forma di interpretazione. La realtà e l’interpretazione vengono così distinte come il sogno dalla veglia, il vero dal falso, attraverso la riproposizione dell’antica dicotomia tra fisico e metafisico e della rinata opposizione positivista tra fantasticherie culturali e scienza dei fatti.

Se escludiamo così dal campo del reale l’interpretazione, come fa il new realism, la prima evidenza teorica a saltare all’occhio è che l’oggetto fisico rimane l’unico tipo di cosa definibile come reale, descrivendo un quadro della realtà come cornice di pure cose, un insieme di oggetti fisici dove tutto ciò che riempie e colora è una mera aggiunta ad un disegno inalterabile nei suoi tratti essenziali. Il corollario più grande, che segue questa tesi generale del dualismo cose/pensiero, è la separazione della realtà dalla nostra capacità di comprenderla, il self-help del mondo, la sua autosufficienza, una rottura tra l’io e le cose in cui del resto si rispecchia il (ri)sentimento narcisistico dei nostri tempi.

La seconda argomentazione del new realism, forte ma carente, è la netta eliminazione della differenza tra fatti e cose, sebbene questi due concetti non siano immediatamente sostituibili, poiché non esiste una cosa che sia al contempo un fatto senza possedere un contenuto di senso, senza cioè possedere una natura non più semplicemente fisica. Anche un fatto fisico in quanto fatto non è solo fisico. Con questo secondo punto si entra inoltre nel delicato terreno dell’assolutezza storica, nel regno dove i fatti non sono dominabili come la reificazione realista vorrebbe, ma neppure revocabili dall’interpretazione. Un fatto storico ha un suo senso univoco alla stregua di un oggetto fisico e della sua consistenza? Cercheremo di rispondere a questa e ad altre domande simili.

In terzo luogo, un’affermazione implicita compiuta dal new realism con estrema disinvoltura, forse quella più eloquente dal punto di vista filosofico, è la tendente assimilazione del significato di reale con quello ben diverso di vero. Il potenziale trasformativo del pensiero, l’unico aspetto in cui l’interpretazione non si sovrappone alla realtà, ma la crea nel momento stesso in cui la definisce, viene fatto ricadere dal new realism nel grande calderone degli oggetti sociali, cose che prive del loro secondo termine, rappresentato dalla mente che li plasma, non possederebbero neppure l’esistenza come predicato comune. Ho così elencato in linea di massima i punti che, di questa altisonante proposta filosofica, ritengo siano i più critici, non solo perché razionalmente deboli o parziali, ma anche per via del loro scarso confronto umano e sociale. Ne propongo di seguito una discussione più estesa, cosicché sia possibile coglierne tutto il senso, quello visibile e quello non immediatamente visibile del loro contenuto, anche alla luce, perché no, di un po’ di sana scolastica.

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1. Esperienza e realtà

Sebbene la nostra esperienza sia soggetta alle aberrazioni dei sensi, quello che inevitabilmente ci testimonia, al di là del “significato” che si accompagna alla percezione di un oggetto (mentale o materiale), è la sua esistenza, dentro o fuori di noi. È risaputo: non bisogna fidarsi troppo dei propri sensi, ciò della cui esistenza siamo convinti, mentre lo percepiamo, può benissimo essere frutto di qualcos’altro, di un desiderio, di una convinzione, di un difetto. Ma se dovessimo ridurre al minimo il potere conoscitivo della percezione, isolandola cioè da tutto il resto dei significati aggiuntivi, cioè da informazioni, emozioni, rappresentazioni, associazioni, il suo contenuto informativo si ridurrebbe esclusivamente all’esistenza dell’oggetto percepito, di questo potremmo andare certi, se non altro accontentandoci di non dubitare troppo. Ciò che si sente e si annuncia con una sensazione, sia materia o pensiero, è ciò che ci avverte di questi oggetti, un’avvertenza che è come la forma minima della loro esistenza, in senso etimologico potremmo dire: il loro apparire. Senza questa base percettiva elementare, tutte le forme di conoscenza superiore sarebbero infondate, l’esperienza, infatti, possiede un valore fondativo rispetto alle elaborazioni mentali più complesse e fantasiose, un valore proveniente dalla garanzia per noi di essere in un vero rapporto con qualcosa, di trovarci di fronte a qualcosa che, indipendentemente dal suo valore, possiede la basilare rassicurazione di esistere, una presenza che è dunque già un valore, solo in quanto essente. Sapere che c’è qualcosa, percepire la sua presenza, rappresenta un livello conoscitivo quasi nullo dal punto di vista delle qualità proprie del fenomeno, per questa stessa ragione una tale esperienza assume maggior significato a livello psicologico. La relazione al fenomeno dell’esistenza è solamente e completamente psicologica e morale. Per non uscire fuori strada, evitiamo di svolgere adeguatamente questo interessante intreccio di concetti, riservandoci di sottolineare che i due livelli dell’esperienza, quello qualitativo e quello esistenziale, per così dire, non possono mai darsi separatamente: alla percezione di un oggetto si accompagna sempre il senso della sua esistenza, sebbene quest’ultima sia subordinata all’esperienza delle sue qualità sensibili. Distinguerli è possibile solo a livello teorico, una distinzione preliminare utile, fintanto che ci aiuta in quanto propedeutica alla definizione della realtà e non in quanto si propone essa stessa come distinzione tra reale e non reale.

Potremmo ipotizzare perfino che: quanto più numerose sono le diverse qualità sensibili di un oggetto di percezione, tanto più ridotta sarà la coscienza della sua esistenza, ma non vogliamo generalizzare e prolungare troppo, o almeno troppo presto, contenuti che emergeranno dalla discussione stessa. Usiamo questa breve parentesi psicologica per quello che è, cioè un’introduzione all’argomento fallace del new realism preso in esame per primo, l’assimilazione della sensazione al livello della realtà. Nella comune esperienza di tutti giorni siamo indotti a scambiare con facilità il significato di esperienza con quello di esistenza, fino a dire che abbiamo percepito qualcosa perché ne abbiamo avvertito l’esistenza, o nel caso contrario andiamo certi dell’esistenza di qualcosa per il semplice fatto di averla percepita. Sebbene le due cose siano solo sottilmente separate, non sono automaticamente la stessa cosa. Fare esperienza di qualcosa, infatti, vuol dire certamente conoscerlo nella sua generalità, più o meno bene, a partire dalla sua esistenza. In questo senso l’esperienza possiede il significato volgare e comune di sensazione, il suo oggetto è il ‘percetto’ e la sua “realtà” è unicamente una natura sensibile. Fare esperienza di qualcosa nel suo significato pieno, tuttavia, vuol dire invece attingere la sua realtà, dimensione che non si identifica pienamente con la sensazione. Il punto centrale di critica al new realism si trova proprio in questa sottile differenza, apparentemente di poco conto, da cui segue che la realtà non è un oggetto percepibile per via di sensazione: non si può definire reale qualcosa per il semplice fatto di essere percepibile. Per percezione, come ho cercato di chiarire poco prima, si deve più correttamente intendere l’esistenza di qualcosa, la cui realtà non è affatto in discussione, se intendiamo il concetto di realtà nel modo usuale di «ciò che si percepisce». Ma vale la pena di ripeterlo: la realtà non è semplicemente ciò che si percepisce. Certo il linguaggio non ci aiuta, si tratta sempre di una percezione sia nel caso dell’esistenza sia nel caso della realtà, sebbene in questo secondo caso il senso del termine percezione non aderisca alla propria accezione tipica. Se fosse utile a seguire il ragionamento, si potrebbe ricorrere alla vecchia distinzione terminologica tra sensazione e percezione, per distinguere la sensazione della semplice esistenza del ‘percetto’ da quella della realtà complessa, ma non è questione di termini. Non vogliamo dare adito ad anti-filosofie impelagate in noiose argomentazioni sull’inesistenza della realtà, ma questo non vuol dire accettare una visione piatta delle cose come quella proposta dall’attuale realismo materialista. Compito della filosofia non è quello di allargare il piano dell’analisi e la superficie del tavolo anatomico, ma di auscultare l’interno delle cose stesse, approfondire più che espandere i contenuti, l’espansione dei concetti è infatti una semplice conseguenza della loro profondità. Ultimamente sembra che la filosofia, almeno quella alla ribalta, si preoccupi più di garantire un ordine di base, una visione concreta, che non di verificare l’autenticità della propria proposta. Essere realisti, come avremo modo di vedere, conduce esattamente alle conclusioni opposte a quelle del new realism, pertanto ben venga il richiamo ad un approccio realista, che poi vuol dire autenticamente filosofico, purché le conclusioni non siano quelle della banale ammissione della realtà come ciò che ci sta di fronte. Conoscere la realtà è il momento stesso della sua definizione, il momento in cui ci si accorge che essa non ci precede ma ci accompagna, è per questo che il pensiero non può accontentarsi di organizzare la realtà e imbastire una critica ad essa, ma deve definirla rigorosamente, in prima battuta e non solo a posteriori, non prendendo atto della sua esistenza ex post come avviene nelle scienze sociali. Conoscere la realtà vuol dire riconoscerla, non percepirla. La ragione per cui tiriamo in ballo la Filosofia nella sua nobile causa, non è velleità intellettuale o settarismo, né solo una questione di principio, il motivo è più semplice e più importante ad un tempo. La questione della realtà è un tema estremamente filosofico, potremmo dire il tema filosofico per eccellenza, certo definitivo per valutare la visione del mondo che una data civiltà ha prodotto. Dal modo in cui definiamo la realtà, infatti, discende il tipo di società e il livello di umanità storicamente prodotto, ma nella specifica definizione della realtà, anche se non ce ne accorgiamo, è ancor più la nostra stessa vita ad essere coinvolta, il futuro della nostra quotidiana esistenza e non semplicemente le sorti lontane e impersonali del genere umano. La realtà si realizza a partire dalla sua definizione, il mondo si trasforma continuamente attorno all’algoritmo culturale con cui definiamo il reale, fino a prendere la forma del modello prodotto. I mezzi di produzione, l’organizzazione sociale, la fruizione e produzione di sapere, l’accesso alle risorse, la scoperta scientifica ecc., non sono dimensioni pre-formate, ma si plasmano a seconda del diverso schema di realtà diffuso. Certamente la realtà non è tutto un discorso artificiale, ha una sua consistenza, un quid che tuttavia non risiede nella sua presenza empirica. Il reale è qualcosa di inesauribile alla percezione, il mondo è reale non perché lo percepiamo ma perché lo comprendiamo, la percezione di per sé non ha alcun significato, poiché il suo potere conoscitivo si ferma all’esistenza del qualcosa, che come abbiamo visto ha un significato non qualitativo, la realtà del fenomeno resta inaccessibile alla sensazione. Dal momento in cui la conoscenza comincia invece ad investire gli aspetti peculiari dell’oggetto, la sua forma, la sua consistenza, la sua realtà si rende intelligibile solo ad un’intelligenza comprensiva. Siamo pertanto giunti alla conclusione, di per sé non molto profonda, che il reale non è un ente percepibile ma una conoscenza intelligibile, cerchiamo di capire adesso non tanto perché questa deduzione abbozzata velocemente sia in contraddizione con la visione comune della realtà, quanto perché si trovi in contrasto con la versione filosofica del new realism, raggiunta nell’inspiegabile e profonda semplicità di un ventennio di riflessione, stando alle parole del suo divulgatore. È incredibile come pochi anni di riflessione possano produrre la Critica della ragion pura, mentre vent’anni abbiano generato il new realism.

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Fin qui abbiamo volutamente presentato le cose in modo estremamente schematico, distinguendo una sensazione dell’esistenza da una percezione della realtà, prima di andare avanti dobbiamo comunque fare una precisazione di passaggio, per non tradire lo spirito illuministico che guida questa critica essenziale. Anche l’esistenza non è qualcosa di cui andare così certi tramite la percezione. L’oggetto di cui la sensazione ci informa, non è di per sé esistente, in quanto “sentito” è certamente “presente” alla nostra attenzione e ai nostri sensi, ma la sua esistenza, se vogliamo essere certi di essa, è accertabile con un approfondimento che inevitabilmente supera le funzioni dei sensi. A proposito di esistenza percepita, infatti, sarebbe corretto fare un’ulteriore distinzione tra esistenza e semplice presenza, coscienti di attirarci onorevolmente addosso l’accusa di sottilizzare, dobbiamo necessariamente fare distinzioni particolari per giungere al concetto generale di realtà, se è vero, come è vero, che la filosofia deve riflettere la realtà senza inventare niente. A questo punto possiamo chiudere questa parentesi di rapide considerazioni concentrate principalmente sul soggetto, ritorniamo piuttosto alla differenza generale tra esperienza e realtà, continuando tranquillamente, per comodità e senso comune, a usare la nozione utile di “sensazione dell’esistenza di qualcosa” quando parliamo in generale di sensazione. Tutta la difficoltà della filosofia teoretica e il paradosso del realismo che in essa si inscrive, è che lo strato percettivo superficiale, la sensazione, tende a confondersi con il senso più profondo degli oggetti e dei pensieri, tanto che quando avvertiamo il “qualcosa” testimoniato dalla sensazione, siamo portati a credere di aver percepito la sua realtà, anzi ne siamo assolutamente certi. Durante la sua esperienza quotidiana il soggetto è perso nella percezione della cosa, si identifica con essa e perde completamente di vista l’esistenza della differenza tra il pensiero e la percezione, una differenza non percepita poiché assorbita dagli oggetti, costitutiva della realtà stessa. La realtà è carica di pensiero, da una parte perché fisiologicamente la percezione di un oggetto è inevitabilmente la traduzione elettrico-cerebrale della sua esistenza fisica, dall’altra perché ciascun ente, naturale o artificiale, possiede un posto nell’ordine delle cose solo grazie alla categoria di relazione e alla visione globale del mondo in cui l’intelligenza lo inserisce. Attraverso una semplice sensazione possiamo percepire solo l’esistenza, l’elemento neutrale o “invariante” della realtà, qualcosa che, mutatis mutandis, non cambia modo di presentarsi a noi qualunque sia l’oggetto che testimonia, poiché la sua modalità di apparizione è univoca, senza scelta, uguale a quella di tutti gli altri enti. L’esistenza si predica degli enti ma non è di per sé un’entità. Se esistono oggetti reali, conosciuti attraverso la sensazione, o per dirla attraverso gli slogan: se esistano fatti senza interpretazioni, allora tutti gli oggetti o fatti sono identici.

La sensazione rileva un quid resistente alla negazione, sia per i pensieri che per gli oggetti, qualcosa che baconianamente possiamo anche indicare, in un senso nuovo, con il desueto termine “impenetrabilità”. Ciò che è sentito può esistere o meno, ma la sua presenza ai sensi, la sua impenetrabilità, la sua irriducibilità a qualsiasi volontà di negarlo, rappresenta la sua proprietà essenziale. Questo quid opponente è una ragion sufficiente della realtà secondo il new realism. Per via di sensazione però non si può dire altro tranne che c’è qualcosa, ogni altra determinazione è per forza di cose la conseguenza di un processo conoscitivo, un’elaborazione che coinvolge molti aspetti dell’umanità, in primis la storia, storia delle idee e storia dei fatti, due realtà che si completano a vicenda, basta pensare al significato ontologico che possiede la croce dopo la crocifissione di Cristo, oppure la luce, il sole, le stelle, le pietre, tutti enti naturali il cui significato entra da subito in contatto con l’umanità in genere non appena li consideriamo non come puri oggetti di sensazione. Come puri oggetti di sensazione, vale la pena ripeterlo, sono tutti uguali, forse diversi solo per grandezza. Ho voluto fare degli esempi riguardanti gli enti naturali per evidenziare come sia una divisione della realtà ed una falsa comprensione quella che relega il pensiero, la storia dei significati, in generale la presenza del livello interpretativo, nei cosiddetti oggetti sociali, come fa il new realism appunto. Se non corressimo il rischio di venire etichettati con una qualunque definizione di idealismo, altrettanto liceale di quella di realismo, ci sarebbero tutte le ragioni di rispolverare il vecchio detto hegeliano, senza per ciò stesso essere hegeliani, utile se non altro a rendere subito l’idea che: nihil est in sensu, quod non fuerit in intellectu. Al mutare di colore, consistenza, odore, un oggetto non smette di essere oggetto, la sua oggettività ci è testimoniata da una percezione elementare che riguarda l’identità della cosa, la sua “presenza” in sé, il significato che possiede solo rispetto a se stessa, è l’oggetto privo di qualità ad essere una tabula rasa non la mente che lo comprende, la mente compone la sua trasparenza realizzandolo. Vista la grande parte giocata dalla mente nella percezione delle qualità degli oggetti, riavvolgendo il nastro della storia fino ai primordi della conoscenza umana del mondo esterno, avremmo addirittura ragione di credere che all’origine dei significati fondamentali delle cose vi sia una specie di “feticismo dei concetti”, una deprivazione dell’intuizione a scapito di un ordine di significati generali, per forza di cose sclerotizzati dalla tradizione rispetto all’intuizione immediata. È quel fenomeno cui la verità più che mai è soggetta, descritto da Nietzsche in Su verità e menzogna. Ma lasciamo da parte Nietzsche, che potrebbe dar adito a posizioni di principio tanto quanto Hegel, e riprendiamo le fila del nostro discorso. Rispetto a quanto detto sull’esistenza e sulla percezione oggettiva, abbiamo visto come “l’oggettività” del reale sia un’informazione priva di contenuto, una conoscenza talmente universale da essere valida per qualunque tipo di ente, una conoscenza identica a quella di ciascun altro ente. Rispetto a questa sua astrattezza, la conoscenza oggettiva finisce per essere un tipo di informazione talmente particolare da essere indifferente. L’insieme di conoscenze con cui riusciamo a distinguere gli oggetti tra loro, quella conoscenza che fa la differenza tra cose identiche, appartiene ad un livello diverso di esperienza, per il quale non è più appropriato parlare di sensazione, un livello in cui è già presente il ruolo dell’intelletto anche se non chiaramente riconoscibile. Si tratta di una forma di pensiero generalissima che possiamo ricercare nella categoria di relazione, che Kant e Locke hanno giustamente lodato, o in mille altri tentativi di definizione, il ground di Pierce, la libertà dello spirito di Hegel e via dicendo. Qualunque cosa sia, la sua attività nella percezione rende superata e infondata la distinzione dualistica fatta dal realismo (sia new o non new).

 

Tra la sensazione dell’oggettività e la percezione delle qualità c’è più differenza che tra l’esistenza e l’inesistenza. Il materiale percettivo primario non è composto da alcunché, non si può dire alcunché di esso se non il fatto che lo sentiamo, il fatto che «sentiamo la sua esistenza o la sua presenza» per così dire. Se dovessimo parlare di un oggetto, senza disporre di una conoscenza delle sue qualità, non saremmo capaci di descrivere qualcosa di specifico, descriveremmo quell’oggetto con delle frasi altrettanto perfette a descriverne un altro completamente diverso, esprimendo concetti universali e allo stesso tempo particolari, come le presunte informazioni particolari dell’oroscopo. I due livelli “conoscitivi”, quello percettivo-esistentivo e quello informativo, con cui ci è possibile dire che colore e che consistenza abbia un oggetto, pur essendo assolutamente distinti tra loro, durante la percezione dell’oggetto sono indistinguibili, è propriamente da questo nodo che trae vita tutto il fraintendimento teoretico-realista. Non per noi che ci ragioniamo su. Mentre la sensazione costituisce un mondo di oggetti indifferenti, poiché la loro unica comunanza è il fatto di risiedere nello spazio e nel tempo – dimensioni del resto non assolute – la realtà è costituita da differenze incolmabili. Se dovessimo scindere le qualità della materia dalla materia stessa, non potremmo neppure percepire qualcosa di essa, e chissà se continuerebbe ad esistere. Adesso abbiamo dunque qualche buon elemento in più per asserire che la realtà non è un fatto percettivo, si accompagna alla percezione ed è difficilmente distinguibile da essa, ma non può identificarsi in alcun modo con la materia o la percezione della presenza in generale. Rispetto alla materia o alla coscienza di qualcosa ogni percezione è identica, mentre la realtà è fatta di differenze, molteplicità in cui l’uomo si orienta e sceglie. Il senso della realtà non ha niente a che fare con la sensazione della materia, esperienza e realtà si accompagnano perché la seconda è la lettura esplicativa e la comprensione della prima, ma non si identificano per lo stesso motivo, poiché ciò che è sentito o avvertito non è di per se stesso reale e spesso neppure esistente. Fatte queste precisazioni da manuale, è interessante notare come ogni forma di scetticismo tradizionale, che si basa sul classico argomento degli scettici antichi, secondo cui non è possibile predicare l’esistenza di qualcosa se non possiamo distinguere l’oggetto dalle sue proprietà sensibili, si fondi in realtà sullo stesso presupposto ambiguo del realismo. Il realismo, infatti, proprio a partire dall’indistinzione tra reale ed empirico, afferma l’irriducibiità del mondo, la sua realtà. Due conclusioni opposte a partire dallo stesso assunto. C’è evidentemente qualcosa che non va in questo schema classico, e non va da una parte perché queste opposte filosofie sono dottrinarie, tendono cioè a dimostrare quello che esse sono e non quello che il mondo è, dall’altra perché non può esistere un realismo che non ricada a sua volta nello scetticismo o nell’idealismo, manifestando la sua matrice contraddittoria. Il realismo per definizione deve opporsi allo scetticismo, ma se la sua posizione non è conseguita su base razionale l’unica conclusione logica cui può approdare sarà proprio quello scetticismo che si propone di confutare. Realismo è un atteggiamento di fronte al mondo non meno che di fronte alla ragione, chi lo approva non può che rimettersi al giudizio della seconda per giungere alla comprensione della prima.

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2. I fatti e le cose

Di fronte ai fatti chi non metterebbe da parte le proprie idee e credenze? Come si può continuare ad essere scettici di fronte ad un ben preciso senso delle cose, riassunto ed espresso appunto dalla categoria dei fatti? Per il new realism solo gli ostinati vagheggiatori, quei dubbiosi incontentabili, quegli scettici dissolventi, quella incontentabile classe di occhialuti perdigiorno. Vediamo se questi uomini senza senso pratico sono davvero i sognatori da cui il new realism sarebbe venuto finalmente a liberarci o se invece questo cavalleresco filosofare rigoroso non sia piuttosto un minimalismo senza molto da dire e da insegnare. Nonostante nell’uso comune il termine “fatto” esprima in modo particolarmente diretto il senso di concretezza e materialità, nella sua accezione specifica il termine non corrisponde immediatamente alla nozione di cosa. Sembra che, per il riduzionismo acritico di questi tempi, il motto di Wittgenstein per cui «il mondo non è la totalità delle cose, ma la totalità dei fatti» sia passato del tutto inosservato. Distinguere un fatto da una cosa, in realtà non è un’operazione da astratti trattati logico-filosofici, è un atto comune che tutti facciamo. Paragonare un fatto ad una cosa sarebbe come mettere a confronto una scena con gli oggetti che la compongono, una fotografia con o svolgimento del fatto che essa fotografa, in buona sostanza l’unica circostanza che i fatti e le cose condividono è la datità, l’essere presenti e percepibili. Per quanto riguarda il loro significato individuale costituiscono invece due sfere ontologiche ben distinte, al punto che definire un fatto come una cosa sarebbe avvertito da chiunque come uno stridente contrasto. Il motivo per cui quando si parla di fatti ci troviamo ad un livello di realtà superiore a quello delle cose è il rimando immediato alla sfera del fare, il termine stesso in lingua italiana è participio del verbo fare, contiene perciò il rimando implicito al contesto dell’azione di cui esso rappresenta la compiutezza. Un’opera, qualcosa di compiuto, che può essere benissimo anche un qualcosa di incompiuto purché riassuma l’azione che l’ha prodotto, a differenza di una cosa – lo si coglie come prima differenza specifica – possiede uno svolgimento nel tempo, una propria vita ed un significato acquisito lungo il suo corso, sia pure una volta per tutte e inderogabilmente. Mentre una cosa è natura morta, indifferenza universale del significato, generalità astratta senza alcun senso preciso, i fatti sono l’articolazione delle cose, la rappresentazione della loro oggettività mediante la loro messa in comune in una rete di rimandi, l’atto creativo con cui una cosa acquisisce storicità e verità, rendendosi perciò passibile di un maggiore livello di realtà. Le cose non sono né vere né false, tantomeno reali o irreali, esse sono solo percepite, soltanto i fatti rendono il mondo delle cose intellegibile. L’essere dei fatti rappresenta a buon diritto la mediazione delle cose, espressione di movimento in cui si realizza l’interoggettività, il mondo comune in cui le cose ci appiano nella loro relazione naturale come date immediatamente. L’immediatezza in cui le percepiamo è in realtà una loro seconda natura, solo in quanto entrata nella spirale evolutiva di un fatto la cosa può giungere ad acquisire realtà diretta ed esplicativa, acquisire mondanità. Ma cerchiamo di andare con ordine. La prima cosa da dire a proposito del collegamento del fatto con il fare è la sua appartenenza ad una dimensione temporale, dimensione che è allo stesso tempo di relazione all’uomo, anzi possiede una sua temporalità solo in quanto è in relazione all’uomo. Il fare istituisce una differenza tra il tempo e l’immobilità delle cose, poiché il mutamento, che è un indice del tempo, è a sua volta una funzione del fare. Il tempo delle cose, sia esso esistente solo in relazione al movimento o meno, è indistinguibile e indefinibile a prescindere dall’essere in relazione con l’uomo. Su questo non c’è bisogno di essere realisti per concordare. Con questa distinzione classica tra tempo naturale e temporalità possiamo giustamente affermare che i fatti appartengono all’ambito della Storia, un luogo in cui è molto più difficile che le cose subiscano l’aberrazione dei sensi o la relativizzazione dell’intelletto, anche qualora si tratti della storia del giorno prima. Un fatto è inscritto nella grande tela del mondo, è eternamente differenziabile dai suoi analoghi, perché la Storia, l’insieme dei fatti compiuti, è il regno delle differenze. Certo i fatti sono molto più soggetti all’interpretazione di quanto non siano le semplici cose, ma è così proprio in quanto sono molteplici, articolati, complessi al loro interno, tuttavia è allo stesso tempo la loro complessità a renderli più interpretabili e più veritieri delle cose. Verità del fatto non vuol dire affatto esperibilità, infatti essere vero comporta proprio non essere cosa. Poiché si tratta di un oggetto sottratto all’immediatezza in cui si presentano le semplici cose sentite, un fatto è allo stesso tempo vero ma non immediatamente. Mi rendo conto che insistere ancora sulla distinzione tra cose e fatti potrebbe essere ozioso e arido (e a mio avviso lo è) costringendo la riflessione ad affrontare un disquisire elementare, ma nel contesto in cui ci troviamo a discuterne, la rubrica filosofica del new realism, è di vitale importanza sottolineare come l’accomunamento indebito di questi due concetti sia alla base della maggiore confusione possibile a proposito di realismo, oltre a produrre posizioni di principio che si precludono la comprensione stessa della realtà. Per afferrare appieno cosa si intende dire quando si parla di fatti, dovremo istituire un confronto con il concetto di azione, confronto che solamente ci permetterà di focalizzare meglio perché un fatto non sia una cosa e allo stesso tempo sia più vero di essa. Ma prima di introdurre un secondo termine di paragone, parlando di azioni e fatti, per non perdere d’occhio la posizione neorealista in esame, alla luce di quanto già detto in merito alla storicità dei fatti e al loro contenuto di verità (“compiuto”, ma non immediato), credo sia il momento di parlare un po’ di Nietzsche e della sua tanto discussa posizione per cui: «non ci sono fatti ma solo interpretazioni». Dato il polverone sollevato dal detto nietzschiano, nuvola grigia in cui ognuno vede ciò che vuole, sembra necessaria un po’ di pedante filologia. Letteralmente la frase di Nietzsche in lingua originale dice: «non ci sono Tatsachen, ma solo Interpretationen», sulla traduzione di Interpretationen è inutile soffermarsi perché il senso è, anche solo intuitivamente, identico all’italiano. Per quanto riguarda Tatsachen, invece, le cose non stanno come sembra a prima vista, secondo la traduzione comune. Se Nietzsche per dire fatti avesse adoperato il termine Dinge o anche solo Sache, non ci resterebbe che avanzare tutta quella sequela di argomenti classici contro l’idealità della realtà, come tradizionalmente fa chi voglia fare una confutazione dell’idealismo. Il new realism, sebbene con scarsità di argomenti, sarebbe qui in piena legittimità critica, avrebbe centrato pienamente il suo campo di analisi, e non troverebbe proposizione migliore cui contrapporre la propria visione del mondo di quella nietzschiana. Il fatto è che Nietzsche non dice: «non ci sono cose, ma solo interpretazioni», se così fosse non sarebbe altro che un ulteriore epigono, sia pure molto meno clericale, del simpatico abate Berkeley. Nietzsche però non è un “idealista” ma neppure un “realista”. In Nietzsche il soggetto non è il potente Io conoscente e cosciente kantiano, ma neppure una pura passività di fronte al reale, già compiuto e pienamente significante nella sua reperibilità. In Su verità e menzogna Nietzsche ha fugato per sempre ogni dubbio sulle accuse di minimalismo materialista, con la Genealogia della Morale ha mostrato cosa intendesse per filosofare con senso storico. Perciò accusare Nietzsche di idealismo sarebbe come accusare Hegel di materialismo, allo stesso modo in cui trovo completamente fuorviante la definizione neorealista della filosofia trascendentale come di un soggettivismo alienato dalla realtà. Ma chiudiamo volentieri questa parentesi storiografica, laddove ciascuno può farsi la sua idea di Filosofia senza che alla Filosofia succeda realmente niente di significativo, e torniamo alla frase di Nietzsche. Il termine Tatsachen adoperato dal filosofo non significa “cose”, né materiali né immateriali, “affari” come potremmo tradurre in francese o in italiano il tedesco Sache. Tatschen è termine composto da Tat, che rimanda al fare (taten) e Sache, che costituisce la cosa come oggetto di rappresentazione. Si dirà che sono sfumature di significato filosoficamente poco determinanti, ma si tratta di quelle parole scelte con cura – attività di cui Nietzsche, filologo serio, non disdegnava certo l’uso – che fanno la differenza in filosofia tra realismo e idealismo. In buona sostanza, quello che Nietzsche ci vuole dire non è: «i dati della percezione umana non esistono, si tratta solo di interpretazioni della mente», il suo detto in un improponibile italiano speculativo suonerebbe piuttosto così: «la realtà delle cose non è oggettiva, ma in quanto fatto e non cosa è un’interpretazione». La traduzione corrente, per giuste ragione editoriali, non sottolinea mai abbastanza la differenza di significato che Tatsachen possiede rispetto a “cose”. Abbiamo già abbondantemente parlato della differenza tra esperienza dell’esistenza e senso della realtà delle cose, mostrando come la realtà non sia assolutamente implicata dalla sensazione in sé, ma implichi al contrario il coglimento dei significati differenziali della cosa, significati incomprensibili senza un’attività intellettuale di decifrazione. Adesso, per chiudere i conti con questo secondo fraintendimento del new realism, l’attribuzione del significato di cosa a quello ben diverso di fatto, dobbiamo spiegare in primo luogo perché un fatto pur restando una semplice interpretazione non è meno vero di una cosa, e perché l’interpretazione non è a sua volta infinita. Il senso comune parla di interpretazione come di qualcosa di puramente arbitrario, dettato dalle inclinazioni soggettive o da gusti condivisibili solo su una base soggettiva, insomma nella vita comune, e anche in qualche ambiente poco scientifico, si nega all’interpretazione ogni valore di verità. Parliamo di interpretazione come di giudizio di gusto, quel giudizio variabile con cui uno storico dell’arte conferisce ad una data opera un certo valore. In realtà l’ambito dell’interpretazione non è limitato esclusivamente alla formazione di una personale visione del mondo, ci sono numerose discipline, come la Storia, l’Archeologia, la Paleontologia, ma la stessa Medicina o la Fisica, in cui l’interpretazione rappresenta un momento strutturale dell’operare scientifico. In questi casi si parla a ragione di giusta interpretazione, nel cui concetto in realtà è contraddetto quello di interpretazione tout court, poiché una giusta interpretazione smette con la sua esclusività di essere interpretazione. Tuttavia, per quanto auto-rimossa dalla sua esattezza, la giusta interpretazione è pur sempre frutto di un’attività interpretativa. C’è quindi una sfera logica in cui l’interpretazione non è sinonimo di soggettivismo e relatività.

Ma torniamo a Nietzsche. La metafora dell’arte è quanto mai utile al nostro scopo, perché ad utilizzarla a proposito di realtà e finzione è Nietzsche stesso in Umano troppo umano. Grossomodo il testo dice questo: il mondo è come un dipinto, una tela su cui sono tratteggiate solo le linee essenziali, l’uomo aggiunge i colori, le sfumature, apporta i tratti decisivi, conferendo in tal modo la forma al suo proprio mondo. Certo in Nietzsche è presente anche un’interessante argomentazione del rapporto cognitivo tra stimolo e risposta da parte della coscienza soggettiva, tuttavia quando si parla di interpretazione della realtà non si fa riferimento alla singola risposta soggettiva ad un determinato stimolo esterno, ma del modo di intendere i concetti comuni da parte del genere umano intero. Nietzsche intende riferirsi all’interpretazione della tradizione, quell’immagine del mondo che si è andata costruendo e stratificando attraverso i secoli giungendo fino a noi, formando una griglia di concetti comuni attraverso i quali, senza neppure accorgercene, guardiamo ad esso e gli attribuiamo un certo significato. Avere interpretazioni anziché fatti, non vuol dire che ciascun uomo ne possiede una diversa rispetto all’identico fatto, quanto bensì che gli uomini intendono i concetti comuni a partire da interpretazioni consolidate dalla storia. Per essere chiari, non si tratta di negare l’esistenza della “foglia”, dicendo che per la libertà dell’interpretazione essa può essere benissimo anche una “stella”, bensì di comprendere che quanto di concettuale si collega all’immagine della foglia non è frutto della sensazione corrispondente, ma di una mediazione di concetti acquisiti, introiettati attraverso la storia. Quel che è più importante, per molteplici aspetti, è che i contenuti storici sono attivi inconsciamente in noi. Non vuol dire che la foglia non esista o la sua interpretazione non sia vera o reale, solo che si tratta di una conoscenza mediata attraverso la realtà storico-concettuale della foglia, in quello stesso oggetto che ci appare immediatamente reale risiede invece una storia senza origine. Certamente l’interpretazione umana è libera e non conosce limiti, se non fosse libera e illimitata non sarebbe perciò stesso interpretazione come abbiamo accennato poco prima, tuttavia il nostro rapporto col mondo, e la conoscenza che ne deriviamo, non avviene mediante un libero arbitrio dell’interpretazione, si muove al contrario in un terreno già interpretato, laddove i singoli non fanno che riprodurre i significati statuiti. Quel che vuole dire Nietzsche non è tanto che percepire il mondo è una questione di punti di vista e divergenze praticamente senza fine, quanto che nel rapportarci al presente immediato e a quanto è reputato maggiormente vero dal genere umano, non abbiamo a che fare con la verità assoluta o con una realtà da sempre aderente al suo significato attuale, ma siamo in presenza della Storia, il campo di formazione dei significati, quel luogo in cui la verità e la menzogna possono scambiarsi di posto continuamente, a seconda dell’interpretazione dominante. Non è la realtà dell’istante percettivo ad essere priva di significato oggettivo, anche se la sua oggettività è mediatamente storica, è la società in cui viviamo – in cui gli stessi oggetti vivono, oggetti sociali o naturali – ad attribuire diverso significato alla medesima percezione. Dire che il tavolo o la più radical chic neorealistica “ciabatta” fuori di me esiste, perché è percepibile da chiunque, non è un’obiezione molto sensata al pensiero di Nietzsche, tantomeno una prova dell’esistenza del mondo esterno. Fare esempi del processo di stratificazione-imposizione dei significati, nel senso in cui Nietzsche lo intende, sarebbe solo ripetitivo, le opere del filosofo sono straripanti di questi esempi. Il punto cruciale è stabilire cosa rientra nella Storia e cosa cade fuori di essa, noi stessi infatti possiamo reputarci esclusi dal processo di formazione del mondo oppure rientriamo ancora nell’opificio invisibile del tempo storico, dove vengono prodotti e riciclati i concetti dell’umanità? È questa una questione aperta, di dirompente urgenza e attualità, cui non possiamo dedicare che un accenno in questa sede. È soprattutto sul terreno della Storia che possiamo cogliere meglio quale siano le derive riduzioniste del new realism. L’equazione neorealista che semplifica i fatti e le cose, considerando i due termini sinonimi, sostiene implicitamente un’idea storicista e fondazionista della storia, un’affermazione del fatto e del suo valore a partire da un preciso momento storico, per cui basterebbe ritrovare le condizioni di verità all’insorgere del fatto per coglierne completamente il significato. Parlare del fatto come di una cosa vuol dire difendere la sua origine precisa, laddove si trova fondato il suo valore, come se il valore del fatto fosse sorto insieme al fatto stesso, come se il valore dell’oro sorgesse assieme al metallo. Se Nietzsche sosteneva la teoria che abbiamo richiamato, non era per dire che i fatti, la cui verità è storicamente sottratta all’intuizione, siano relativi e revocabili, quanto per sottolineare come non esista un Grund che sia Anfang di qualsiasi cosa esperibile, si tratta sempre di una Herkunft, sempre di una tradizione dove i significati vengono attribuiti. Non vedo cosa si possa dire di più realista di questo, per quanto risulti sgradevolmente irriducibile e ci ponga nel reale come pedine della Storia, privi della vera libertà di cogliere il mondo. Ciò non significa che non vi sia corrispondenza tra eventi e significati, il monito nietzschiano è volto a non riconoscere nella Rivoluzione francese l’inizio della libertà, nel fascismo la sua fine, nel platonismo l’inizio del razionalismo e nel new realism la fine della filosofia, a non vedere nel futuro un progresso necessario e nel passato un necessario arretramento. Insomma è un invito a non confondere la verità con i fatti, a considerare che è l’uomo la potenza del significante, e che in questa potenza consiste più propriamente la libertà: un dare significato al mondo e non un ricevere. Il new realism, ponendosi di fronte alla realtà come al cospetto di una creazione compiuta e immodificabile, sembra collocarsi piuttosto in quell’epoca storica che Foucault definisce classica, dove la rappresentazione delle cose è prodotta dalle cose stesse, nature mute su cui il marchio del creatore ha apposto il proprio nome. L’uomo moderno del new realism è una specie di Michelangelo poco creativo di fronte al colossale Mosè, opera di cui non si riconosce più autore, tanto è perfetta e somigliante alla realtà, un trionfo del realismo a cui tuttavia manca la parola, qualcosa che oltre alla propria presenza scenica non può dire niente di sé. Vorrei svolgere meglio e con più attenzione al problema della Storia la questione del rapporto tra fatti e cose, ma spero che la mia breve analisi, con il richiamo alla lettera di Nietzsche, sia quantomeno sufficiente a mostrare il terreno malfermo su cui il new realism accampa le sue pretese, soprattutto in aperto contrasto con Nietzsche, padre di un presunto atteggiamento relativista. Ci sarebbero ben altri epigoni, se proprio volessimo andare alla ricerca degli apostoli del relativismo, specie nella filosofia contemporanea, in cui si sostengono assunti assolutamente acritici mentre si nega l’oggettività dei significati, ma temo che questo tentativo sia ostile al new realism per filiazione intellettuale da quel mondo.

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3. Realtà e verità

Per tutta una serie di ragioni pratiche e funzionali, ad esempio l’abitudine a pensare la verità come coerente allo stato delle cose o la tendenza a vedere nella realtà una dimensione verace, è per noi scontato ritenere la realtà una cosa vera, altrettanto lo è viceversa vedere nella verità qualcosa di reale. Si potrebbe anche concedere che le cose stiano effettivamente così, ma solo prendendo i termini realtà e verità ad un livello molto poco preciso e rispondente del loro significato pieno. Tutti noi riconosciamo immediatamente alla realtà effettiva una sua verità, appena svegli, dopo una notte di sogni intricati, tiriamo un sospiro di sollievo dicendoci: «per fortuna era solo un sogno, qualcosa di falso», esattamente nello stesso modo in cui intendiamo dire che il sogno non è reale. Ma non è tutto fumo quello che sembra e non sempre sbagliamo quando parliamo in gergo, ci sono diversi livelli di realtà e diversi modi di intendere la verità, in tal senso dovremmo distinguere ad esempio la verità della logica dalla verità di una testimonianza, la realtà della veglia da quella virtuale di un video game o di un social network. Quel che conta è che tra le diverse categorie in cui si articolano, realtà e verità vengono comunque prese l’una accanto all’altra, chiunque pensa vi sia una coerenza tra ciò che è vero e ciò che è reale, che la verità sia confermabile e la realtà verificabile. A dire il vero una corrispondenza tra realtà e verità, in effetti, esiste, se così non fosse i calcoli della matematica sarebbero veri solo in teoria e le conseguenze della logica non sarebbero le conseguenze del mondo, ma esiste un legame diretto tra queste due sfere solo ad un livello molto basso di verità e realtà. Quando, infatti, la matematica o la filosofia si fanno astratte, cioè raggiungono maggiori livelli di verità, la corrispondenza con la realtà diminuisce o per lo meno si rende difficile da rintracciare, tutti possono verificare il teorema di Pitagora o il sillogismo, non altrettanto chiaramente si può fare per i numeri razionali o le antinomie kantiane. Certo dipende tutto, ancora una volta, dal modo in cui si intende il termine realtà. Come abbiamo visto nei due precedenti paragrafi, la tendenza filosofica odierna è quella della reificazione della realtà, del resto unica via per dimostrare che la realtà è qualcosa di oggettivo, univoco, identico per tutti, anche se si tratta di un’identità afasica, amorfa, atomica. Stiamo cercando di dimostrare perché non sia possibile considerare reale soltanto uno dei due termini in gioco nel nesso tra mente e mondo, propensi piuttosto a riconoscere il titolo di realtà al nesso stesso più che ad una sua singola parte. È  banale ridurre la realtà all’esteriorità, non per motivi di affetto verso il cuore umano, ma perché molte delle cose reali, di cui non possiamo negare l’esistenza, la concretezza, la complessità, esistono solo nella mente, il mondo onirico, le figure mitologiche, le astrazioni scientifiche e quelle artistiche, oltretutto molte delle cose esteriormente reali sono a loro volta solo un prodotto della mente: l’intera società umana, se facessimo a meno di considerare il potere creativo della mente, si ritroverebbe ancora a vivere in uno stato di natura, circondata da enti che possiedono di per sé soltanto un significato naturale e intuitivo. Il dilemma in questione non è il vetusto dualismo mente-corpo o quello natura-cultura, come saremmo portati a credere, ma comunque qualcosa di simile. Si tratta di capire cosa abbia il diritto di precedenza tra verità e realtà, se sia la realtà ad avere forma logica, da cui il nostro pensiero astrae e formalizza le leggi generali, o viceversa se la verità sia un elemento puramente mentale, successivamente riscontrato nel mondo empirico. Si sa che il mondo è un ricettacolo di irrazionalità, contingenza, irregolarità, illogicità, ma allo stesso tempo offre conferma alle leggi della fisica, ottenute mediante astrazione intellettuale. Pare pertanto che la mente possieda una priorità rispetto al mondo, e cioè che la verità sia principalmente un fatto mentale, per lo meno riconoscibile solo attraverso l’intelletto. Si potrebbe parlare di una sorta di “irrealtà della verità”, un grattacapo un po’ scolastico, ma con una sua legittimità. Platone, ad esempio, si chiedeva come fosse possibile giudicare qualsiasi cosa come giusta, uguale, vera in assoluto, senza l’esistenza reale di queste idee veritative, adoperate inconsciamente in funzione di parametri di giudizio. Concludeva perciò che dovessero esistere in un mondo “intellettuale”, dove hanno una loro propria consistenza alla stregua degli enti fisici, in cui la nostra anima in un tempo ignoto deve averle viste. Non è molto diversa l’operazione con cui la coscienza religiosa reifica il regno dello spirito oltremondano, ci si figura un mondo “concreto”, in buona sostanza immaginiamo che addirittura lo spirituale abbia una sua forma fisica. C’è quindi una forma di debolezza intellettuale, un antropomorfismo che si sposa spesso con la scienza della tecnica, da cui viene la tendenza ad identificare il vero con il reale, non considerando che la realtà, come si è cercato di dire in precedenza, è ben più del semplicemente esistente fuori di noi. La più grande banalità che la filosofia potesse avanzare su questo delicato rapporto tra esteriorità e verità è stata enunciata dal cosiddetto neopositivismo logico, utopia riduzionista che si proponeva addirittura di distinguere la scienza dalla metafisica in base alla riscontrabilità degli enunciati, in base alla loro osservabilità. Si sa come sono andate le cose, come ci sia voluto poco perché questo proposito verificazionista si sgretolasse dietro poche obiezioni realmente filosofiche. Anche se dubito se ne siano accorti, i nuovi alfieri del new realism non stanno avanzando una teoria molto diversa da quella fiera trovata neopositivista, quel che è peggio è che molti neopositivisti erano ingegneri, mentre i nostri realisti sono filosofi d’estrazione e di professione. Se c’è qualcosa di veramente paradossale nel richiamo realista alla veridicità del reale, è il modo in cui il new realism non si accorge di antropomorfizzare la scienza nel momento stesso in cui rivendica un oggettivismo scientifico. Questi realisti si chiedono se la verità sia una nozione davvero utile, se non sia più utile stare ai fatti, se quel che conta nell’approccio scientifico sia un sano realismo anziché un cavillare sulla relatività della verità, in pratica prendono la scienza e la filosofia per una questione di metodo e non di contenuti. Il problema di questo nostro new realism non è tanto il realismo, un sempreverde richiamo alla veracità del metodo, quanto l’utilizzo scorretto del concetto di realismo per propugnare un empirismo acritico, un’ideologia molto poco filosofica. L’errore principale del realismo contemporaneo, un realismo all’italiana con una dicitura inglese, è quella connivenza con l’antropomorfismo e le semplificazioni che aveva evidenziato il principale antagonista di questo movimento, F. Nietzsche, notando come lo stare ai fatti non è altro che un dar credito alle interpretazioni consolidate. Ritornando alla relazione tra realtà esterna e verità, entrambi i fronti hanno ragione di sentirsi sufficientemente accreditati, quello fisicista che riconosce la presenza della verità e della legalità nella natura, e quello soggettivista che individua nella mente umana il luogo di nascita e di appartenenza della verità. Non a caso E. Husserl, nella sua Crisi delle scienze europee, parlava dell’oggettivismo fisicista e del soggettivismo trascendentale come delle due grandi idee a confronto nella storia del pensiero, specialmente di quello contemporaneo.

Ci troviamo in tempi difficili per il pensiero, sia per quello scientifico che per quello meno scientifico, la nostra scienza sembra prendere sempre più nettamente le distanze da tutto ciò che non abbia una consistenza esteriore, incapace di identificarsi con se stessa se privata dell’aggettivo “empirica”. Anche le più nobili tra le scienze esatte subiscono l’effetto deprimente di questo oggettivismo tecnico-scientifico. Con il suo richiamo all’incontrovertibilità del dato empirico, il new realism spaccia per reale ciò che è semplicemente empirico, ma soprattutto non interrompe questa univoca identificazione intuizione della materia con la scienza, aprendo una parentesi di riflessione, mostrando la complessità del reale e della sua scienza, compito di allargamento dell’orizzonte, a cui se si sottrae la filosofia non si sa bene cosa resti ad assolverlo. Al contrario esso intensifica la tendenza sostenendo l’estrema semplicità del reale, una stella che brilla di luce propria di cui la scienza sarebbe pertanto la semplice critica. La realtà è davanti ai nostri occhi, a noi non resta che descriverla, criticarla al massimo, ma non negarla. Le cose starebbero veramente così se la realtà, come abbiamo ripetuto fino all’eccesso, fosse in quanto tale completamente indipendente dall’uomo e dal suo sguardo, ma fortunatamente le cose non stanno proprio così, fortunatamente per la realtà più che per l’uomo. Così come la verità non ha bisogno della realtà per essere tale, a sua volta la realtà non ha bisogno di corrispondere ad uno schema di verità per corrispondere al proprio concetto. Il riconoscimento della verità nella realtà è un’operazione puramente mentale, senza una mente che interpreta il reale, la realtà non sarebbe né vera né falsa, parimenti senza una realtà il pensiero umano sarebbe solo un cervello in una vasca, non possederebbe la natura che ha, non sarebbe affatto pensiero, non darebbe luogo ad alcuna intuizione della realtà.

D’altro canto che cos’è la realtà è una domanda a cui non si può rispondere con una semplice recensione ad una filosofia dell’ultima ora, quello che si può dire con certezza restando in tema di new realism, è che il reale non può essere sottratto alla relazione di necessità che lo lega al pensiero umano, allo stesso modo in cui non si può prendere il pensiero, separarlo dalla realtà esterna, caricarlo delle medesime informazioni come un hardware, e tuttavia definirlo pensiero allo stesso modo, nel senso tipico del termine. Perché un’intelligenza artificiale non vivrebbe in un mondo reale? Perché sarebbe incapace di comprenderlo, giacché non farebbe alcuna differenza per questa forma di intelligenza vivere in una selva di circuiti o in un mondo esperienziale. Sono certo che dovremmo studiare di più l’esperienza interattiva delle macchine con il mondo per comprendere meglio cosa si intende esattamente per realtà, questo tipo di studio forse potrebbe condurre attraverso la scienza ad uscire un po’ dalla filosofia del dato reale, che estromette totalmente la funzione della coscienza nel processo di comprensione del mondo.

Sorvolando ampiamente sull’ampia discussione critica che meriterebbe un tema così determinante come quello della verità, è opportuno solamente sottolineare, prima di chiudere i conti con i punti deboli del new realism, come anche questa terza equazione sia in realtà indebita, fondata su una ragione di convenienza e semplicità del pensiero, l’identificazione del vero con il reale, quella del reale e dello storico con il semplicemente empirico. Le categorie che costituiscono il reale nel mondo umano non sono quelle dei sensi e della materia, in cui l’individuo si trova a vivere come un Adamo inconsapevole, ma quelle della Storia e dell’Esperienza, dove per Storia si intende il bagaglio di verità accumulate nel tempo, vissute, create, attraversate dal genere umano, una ricchezza che sempre lo coinvolge e lo investe come uno spettro di conoscenze, per Esperienza l’interazione della coscienza umana con il mondo della sensibilità, della riflessione, dell’intersoggettività. Solo il complesso di queste molteplici attività, irriducibili in ogni caso alla tavola degli elementi di Mendeleev, può candidarsi ad esprimere il complesso significato del termine reale, non solo coinvolgendo l’uomo ma ponendolo al posto che gli appartiene al centro della realtà stessa, reale è infatti il riconoscimento dell’uomo nel mondo, la comprensione che ciò che ci si oppone è in realtà concorde e da sempre legato all’uomo da un rimando di natura, un nesso che possiamo certo chiamare in molti modi ma mai, in nessun modo, rompere.

 

DICEMBRE 2012

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