Esperienza e rappresentazione
IL REALISMO MINIMALISTA DEI NOSTRI GIORNI
Mariano Mazzullo
Chi
guarda al mondo con gli occhi della ragione ne è ricambiato con lo
stesso sguardo,
l’uno
e l’altra si determinano reciprocamente.
(Hegel, Lezioni sulla Filosofia della Storia)
Superata la soglia del terzo millennio, attraverso gli oceani e i
naufragi delle dottrine, i campi di battaglia del Novecento e la deriva
della filosofia, è riemersa l’antica tendenza, vecchia quanto il bisogno
di certezze, a considerare il mondo degli oggetti come una realtà
data, contrapposta a quella pensata, qualcosa di irriducibile
alle interpretazioni, resistente all’“umanità” che gli vorremmo
attribuire con il nostro modo di pensare. In questo nuovo e vecchio
dualismo delle cose e dei pensieri, pensare e relativizzare si
avvicinano fino a diventare sinonimi. È la riproposizione di una
separazione dove l’intelligenza non fa alcuna differenza alla realtà dei
fatti. In questo scolorito affresco dei nostri tempi, sembra proprio che
il Cogito cartesiano, garanzia ultima dell’esistenza, sia
diventato un edonismo liberale per chi non si accontenta del già dato,
per chi artisticamente vuole arricchire o favoleggiare il mondo, un
attributo certo utile, ma non necessario a comprendere la realtà. Come
dire: «l’importante sono i fatti, poi si può pensare tutto ciò che si
vuole». Se dal punto di vista umano l’esaltazione del fatto concreto a
dispetto dell’evanescente è certamente un segno dei tempi
–
senz’altro anche segno di paura e diffidenza nei confronti di tutto ciò
che non si vede e non si tocca, di tutto ciò che non si può dominare
–
nelle argomentazioni dei filosofi questa istintiva fede nel fatto si
mostra in un profilo più lucido, un angolo neutrale che ci permette di
giudicarla senza doverla comprendere, acquisendo così un posto “fuori”
dal tempo, mostrandosi cioè come “teoria”. Nella recente opera di
diffusione di alcuni filosofi, il realismo è tornato a fare i suoi
zelanti proseliti (a dire il vero mai pochi) e la sua antica veste
filosofica è tornata a riproporsi in tutta la sua asciuttezza. In verità
il new realism è qualcosa di più del classico realismo (e non per
l’aggettivo inglese modernizzante), con il suo taglio secco e avaro di
riflessione si candida a essere una rappresentazione eloquente del
nostro pensiero e della nostra società, qualcosa di diverso e
drammaticamente simile al saggio consiglio del nonno di “stare ai
fatti”.
La rivendicazione di questo new realism sembra risiedere
nella riconquista dell’oggettività, nella presa di coscienza matura che
è ora di smetterla di filosofeggiare con iperurani e dubbi cartesiani
fini a se stessi. Nessuno può pensare il mondo senza che esso si offra
precedentemente al suo pensiero, i fatti e le cose, da sempre e perfino
per i “negazionisti” più estremi, vengono necessariamente prima delle
idee e dei pensieri, qualunque sguardo della mente non potrà cambiare
ciò che trae oggettività dal suo essere reale, dal suo essere ente
irriducibile all’interpretazione. Come una voce che sorge
dall’antichità e dalle profondità della coscienza, il new realism
si mostra in questa luce di veneranda quanto fruibile sapienza, come i
consigli del nonno appunto. Una tale prospettiva (ad essere sinceri non
molto rigorosa) oggi è diventata un manifesto filosofico. La sua
semplicità si amplifica ed echeggia proprio attraverso questo manifesto,
dove il common sense di antichi natali pare abbia trovato la
propria rappresentazione accademica nella rinuncia a formulare dubbi sul
mondo.
Acquisiamo uno sguardo in più sulla natura di questo movimento
guardando di sfuggita alla storia e alla funzione del “senso comune”
nella filosofia, il common sense dei nostri giorni, per così
dire, si distingue radicalmente dall’istanza a cui si richiamava
l’Illuminismo, quell’atteggiamento di contrapporre la veracità del mondo
all’astrattezza delle nozioni scolastiche. Forse oggi parlare di
common sense è persino superfluo, data la scarsa distanza tra il
mondo comune e quello intellettuale, o forse sociologicamente parlando
il common sense è talmente tanto annacquato nelle stereotipate
categorie dell’opinione pubblica, che sembra non sia rimasto che il
“buon senso”, con tutta la sua contraddittorietà rinunciataria, a cui
ricorrere per uno sbiadito saggio di Illuminismo. La funzione
illuministica della realtà nella filosofia di Locke, Bacone e
Hume, ad esempio, era quella di offrire istanze utili al ragionamento,
di stimolare l’intelletto e indirizzarlo sulla retta via, il ruolo che
la realtà sembra assumere nel nostro realismo è piuttosto quello di dare
un freno al ragionamento, l’imposizione dell’inerte e riconoscimento di
un ostacolo esterno, un “chi va là” che segna l’inizio della verità e la
fine della finzione. Volendo essere profondi e ottimisti si potrebbe
paragonare la nozione di realtà di questa filosofia al negativo
hegeliano, un’opposizione che è causa del suo stesso superamento,
qualcosa che porta l’umanità ad un’inarrestabile e progressiva conquista
di se stessa. Purtroppo però temo che il livello speculativo del
concetto di “realtà”, per come viene descritta ultimamente dalla
filosofia di bandiera, sia molto più scarno e intuitivo del suo omologo
romantico. Ad ogni modo, nel neorealismo filosofico di questi tempi la
realtà continua ad essere comunque un “negativo”, almeno in due sensi:
in primo luogo perché nella prospettiva pseudo-empirista in cui si pone,
questa filosofia definisce il reale come ciò che si oppone a noi,
non in sintesi, in relazione dialettica, in un qualche rapporto che
potremmo definire “reciproco” o attivo, ma nella forma di un bivio, di
un aut-aut, di un univoco e afasico faccia a faccia. Il rapporto
di scambio tra la realtà e l’umanità (o interiorità) è abolito
completamente, come se la realtà fosse completata esclusivamente dal suo
lato esteriore e comprendesse solamente quest’ultimo in quanto esaustivo
al suo concetto. In un secondo senso questa proposta di realtà ha la
forma del negativo poiché non è definibile in se stessa, di per sé non
ha un significato proprio, essendo piuttosto un sostrato
semplicemente esistente.
Senza ricorrere a paradigmi “troppo umani”, quel mondo indipendente
dall’uomo, per cui sembrano battersi i realisti, resta un terreno
asettico e informe se viene preso in sé stesso, e in tal senso sarebbe
certo più appropriato definirlo neutrale, se la neutralità stessa fosse
a sua volta qualcosa di informe o preesistente, ma anche la neutralità
non è mai completamente neutrale. Probabilmente è più corretto parlare
di vuotezza o insensatezza, ma sarebbe sicuramente ozioso sottilizzare.
Quel che importa ribadire è che una tale neutralità del reale, può
piacere o non piacere, è certamente innaturale.
Simpatie a parte,
volgere lo sguardo alla visione del mondo di una tale filosofia è molto
più di una semplice valutazione critica, un pensiero che si definisce
realista proprio adesso, in un mondo dove la concretezza sfuma e sfugge
sempre di più nella temporaneità della società virtuale, nel diradare
quotidiano e incomprensibile dei confini identitari, politici,
nazionali. In un mondo che sembra somatizzare come una malattia il detto
eracliteo: «non c’è nulla di eterno tranne il divenire» – una filosofia
realista può essere una risposta utile in molti sensi, principalmente
nella misura in cui aiuta a definire ciò che è soggetto a mutare
irrefrenabilmente e ciò che si sottrae al gioco perverso della
sostituzione dei significati. In effetti c’è un bisogno estremo di
realtà in questo video game in cui si è trasformato il mondo.
L’economia, la cultura, la scienza, sembrano non saper più funzionare
senza cancellare la differenza tra il reale e il fantastico, tra la
teoria e la prassi, senza aborrire la realtà della speculazione. In
questo solco in cui ci troviamo, un medioevo tecnologico dove i tempi
sembrano ormai troppo maturi per riproporre una nuova divisione mosaica
tra il sacro e il profano, tra il reale e il non reale, e troppo ingenui
per una nuova sintesi, il new realism può rappresentare un
momento di riflessione unica, aiutando ad auto-comprenderci, esprimendo
tutta la timidezza e l’aggressività di oggi. Tuttavia, riflettendo su
questo tentativo neorealista di isolamento e autonomizzazione della
realtà, credo che la sua principale lacuna sia il misconoscimento totale
della relazione tra realtà e ragione, uno scambio che, a differenza del
banale intellettualismo, difficilmente può venire zittito dal
radicalismo oggettivista, poiché si tratta di un nesso strutturale, le
cui tracce si perdono nella notte dei tempi. Da un punto di vista
razionale o filosofico, non è facile riconoscersi nel realismo,
vecchio o nuovo, come non lo è riconoscersi in un qualunque idealismo:
entrambe le cose, infatti, sono altrettanto lacunose, e lasciano il
retrogusto di ideologia, l’agrodolce di tutto il loro essere Ismo.
Dal quadro
storico-sociale dei nostri tempi – soprattutto alla luce del disastro in
cui versa la relazione economica tra l’uomo e il mondo – non è difficile
comprendere che il bisogno di questo mondo nuovo, confusamente
postmoderno, sorto al tramonto delle filosofie epocali, non è l’ennesima
separazione tra intelletto e realtà, quanto un risveglio interiore,
un’opposizione del senso umano all’esteriorità dominante e alla
contingenza delle spiegazioni, l’attitudine al logos, la capacità
di scomporre e articolare il sempre più istantaneo e preconfezionato, il
dato compresso usa e getta, la capacità di trovare il termine medio tra
porzioni discontinue dello stesso mondo, quel tipo di pensiero che senza
numeri sa accorgersi che qualcosa non torna o che il “qualcosa” non
basta. Il logos non è solo la platonica moltiplicazione dei
perché, il discorso senza fine sulle cause ultime o l’alternativa
speculativa alla risposta lineare e sufficiente del quotidiano, il
logos è la matrice semplice e profonda della realtà, la consistenza
della dimensione in cui ci troviamo a vivere, senza la quale il mondo
non avrebbe la realtà che possiede, niente potrebbe avere un senso, una
storia, niente si distinguerebbe dal regno naturale, dove tutto scorre
senza differenza alcuna, in un alternarsi identico di alba e tramonto,
vita e morte. Cercando di avvicinarci alle ragioni più intellettuali del
new realism, al di là della sintomatologia industriale che si
rispecchia nella sua posizione – carica di tutta quella fede vittoriana
nel mondo dei fatti e delle cose – quel che più stupisce sul piano
prettamente teoretico è da una parte l’ambigua semplicità delle
argomentazioni a suo sostegno – si deve ammettere, infatti, che
inspiegabilmente questo movimento intellettuale presta con troppa
facilità il fianco alla confutazione spicciola – dall’altra l’alquanto
incomprensibile auto-definizione di “realismo”.
Prima di
inquadrare più precisamente i singoli punti di forza esposti nel
Manifesto del new realism, quegli stessi che a mio avviso sono i
suoi stessi punti di debolezza, sarà meglio riassumere grosso modo la
posizione generale di questa filosofia, affinché il lettore comprenda
appieno la sua discussione e la molteplicità degli argomenti appaia
visibile in semplici punti decisivi. Il suo assunto principale, come già
accennato, è l’irriducibilità della realtà esterna al pensiero, la sua
assolutezza, il suo essere anfibia ad ogni tentativo di negazione, in
buona sostanza l’essere indipendente da ogni forma di interpretazione.
La realtà e l’interpretazione vengono così distinte come il sogno dalla
veglia, il vero dal falso, attraverso la riproposizione dell’antica
dicotomia tra fisico e metafisico e della rinata opposizione positivista
tra fantasticherie culturali e scienza dei fatti.
Se escludiamo
così dal campo del reale l’interpretazione, come fa il new realism,
la prima evidenza teorica a saltare all’occhio è che l’oggetto fisico
rimane l’unico tipo di cosa definibile come reale, descrivendo un
quadro della realtà come cornice di pure cose, un insieme di
oggetti fisici dove tutto ciò che riempie e colora è una mera aggiunta
ad un disegno inalterabile nei suoi tratti essenziali. Il corollario più
grande, che segue questa tesi generale del dualismo cose/pensiero, è la
separazione della realtà dalla nostra capacità di comprenderla, il
self-help del mondo, la sua autosufficienza, una rottura tra l’io e
le cose in cui del resto si rispecchia il (ri)sentimento narcisistico
dei nostri tempi.
La seconda
argomentazione del new realism, forte ma carente, è la netta
eliminazione della differenza tra fatti e cose, sebbene questi
due concetti non siano immediatamente sostituibili, poiché non esiste
una cosa che sia al contempo un fatto senza possedere un contenuto di
senso, senza cioè possedere una natura non più semplicemente fisica.
Anche un fatto fisico in quanto fatto non è solo fisico. Con questo
secondo punto si entra inoltre nel delicato terreno dell’assolutezza
storica, nel regno dove i fatti non sono dominabili come la reificazione
realista vorrebbe, ma neppure revocabili dall’interpretazione. Un fatto
storico ha un suo senso univoco alla stregua di un oggetto fisico e
della sua consistenza? Cercheremo di rispondere a questa e ad altre
domande simili.
In terzo luogo,
un’affermazione implicita compiuta dal new realism con estrema
disinvoltura, forse quella più eloquente dal punto di vista filosofico,
è la tendente assimilazione del significato di reale con quello
ben diverso di vero. Il potenziale trasformativo del pensiero,
l’unico aspetto in cui l’interpretazione non si sovrappone alla realtà,
ma la crea nel momento stesso in cui la definisce, viene fatto ricadere
dal new realism nel grande calderone degli oggetti sociali, cose
che prive del loro secondo termine, rappresentato dalla mente che li
plasma, non possederebbero neppure l’esistenza come predicato comune. Ho
così elencato in linea di massima i punti che, di questa altisonante
proposta filosofica, ritengo siano i più critici, non solo perché
razionalmente deboli o parziali, ma anche per via del loro scarso
confronto umano e sociale. Ne propongo di seguito una discussione più
estesa, cosicché sia possibile coglierne tutto il senso, quello visibile
e quello non immediatamente visibile del loro contenuto, anche alla
luce, perché no, di un po’ di sana scolastica.
1. Esperienza
e realtà
Sebbene la nostra esperienza sia soggetta alle aberrazioni dei
sensi, quello che inevitabilmente ci testimonia, al di là del
“significato” che si accompagna alla percezione di un oggetto (mentale o
materiale), è la sua esistenza, dentro o fuori di noi. È risaputo: non
bisogna fidarsi troppo dei propri sensi, ciò della cui esistenza siamo
convinti, mentre lo percepiamo, può benissimo essere frutto di
qualcos’altro, di un desiderio, di una convinzione, di un difetto. Ma se
dovessimo ridurre al minimo il potere conoscitivo della percezione,
isolandola cioè da tutto il resto dei significati aggiuntivi, cioè da
informazioni, emozioni, rappresentazioni, associazioni, il suo contenuto
informativo si ridurrebbe esclusivamente all’esistenza dell’oggetto
percepito, di questo potremmo andare certi, se non altro accontentandoci
di non dubitare troppo. Ciò che si sente e si annuncia con
una sensazione, sia materia o pensiero, è ciò che ci avverte di
questi oggetti, un’avvertenza che è come la forma minima della loro
esistenza, in senso etimologico potremmo dire: il loro apparire. Senza
questa base percettiva elementare, tutte le forme di conoscenza
superiore sarebbero infondate, l’esperienza, infatti, possiede un valore
fondativo rispetto alle elaborazioni mentali più complesse e fantasiose,
un valore proveniente dalla garanzia per noi di essere in un vero
rapporto con qualcosa, di trovarci di fronte a qualcosa che,
indipendentemente dal suo valore, possiede la basilare rassicurazione di
esistere, una presenza che è dunque già un valore, solo in quanto
essente. Sapere che c’è qualcosa, percepire la sua presenza, rappresenta
un livello conoscitivo quasi nullo dal punto di vista delle qualità
proprie del fenomeno, per questa stessa ragione una tale esperienza
assume maggior significato a livello psicologico. La relazione al
fenomeno dell’esistenza è solamente e completamente psicologica e
morale. Per non uscire fuori strada, evitiamo di svolgere adeguatamente
questo interessante intreccio di concetti, riservandoci di sottolineare
che i due livelli dell’esperienza, quello qualitativo e quello
esistenziale, per così dire, non possono mai darsi separatamente: alla
percezione di un oggetto si accompagna sempre il senso della sua
esistenza, sebbene quest’ultima sia subordinata all’esperienza delle sue
qualità sensibili. Distinguerli è possibile solo a livello teorico, una
distinzione preliminare utile, fintanto che ci aiuta in quanto
propedeutica alla definizione della realtà e non in quanto si propone
essa stessa come distinzione tra reale e non reale.
Potremmo
ipotizzare perfino che: quanto più numerose sono le diverse qualità
sensibili di un oggetto di percezione, tanto più ridotta sarà la
coscienza della sua esistenza, ma non vogliamo generalizzare e
prolungare troppo, o almeno troppo presto, contenuti che emergeranno
dalla discussione stessa. Usiamo questa breve parentesi psicologica per
quello che è, cioè un’introduzione all’argomento fallace del new
realism preso in esame per primo, l’assimilazione della sensazione
al livello della realtà. Nella comune esperienza di tutti giorni siamo
indotti a scambiare con facilità il significato di esperienza con quello
di esistenza, fino a dire che abbiamo percepito qualcosa perché ne
abbiamo avvertito l’esistenza, o nel caso contrario andiamo certi
dell’esistenza di qualcosa per il semplice fatto di averla percepita.
Sebbene le due cose siano solo sottilmente separate, non sono
automaticamente la stessa cosa. Fare esperienza di qualcosa, infatti,
vuol dire certamente conoscerlo nella sua generalità, più o meno bene, a
partire dalla sua esistenza. In questo senso l’esperienza possiede il
significato volgare e comune di sensazione, il suo oggetto è il
‘percetto’ e la sua “realtà” è unicamente una natura sensibile.
Fare esperienza di qualcosa nel suo significato pieno, tuttavia, vuol
dire invece attingere la sua realtà, dimensione che non si
identifica pienamente con la sensazione. Il punto centrale di critica al
new realism si trova proprio in questa sottile differenza,
apparentemente di poco conto, da cui segue che la realtà non è un
oggetto percepibile per via di sensazione: non si può definire reale
qualcosa per il semplice fatto di essere percepibile. Per percezione,
come ho cercato di chiarire poco prima, si deve più correttamente
intendere l’esistenza di qualcosa, la cui realtà non è affatto in
discussione, se intendiamo il concetto di realtà nel modo usuale di «ciò
che si percepisce». Ma vale la pena di ripeterlo: la realtà non è
semplicemente ciò che si percepisce. Certo il linguaggio non ci aiuta,
si tratta sempre di una percezione sia nel caso dell’esistenza sia nel
caso della realtà, sebbene in questo secondo caso il senso del termine
percezione non aderisca alla propria accezione tipica. Se fosse utile a
seguire il ragionamento, si potrebbe ricorrere alla vecchia distinzione
terminologica tra sensazione e percezione, per distinguere la sensazione
della semplice esistenza del ‘percetto’ da quella della realtà
complessa, ma non è questione di termini. Non vogliamo dare adito ad
anti-filosofie impelagate in noiose argomentazioni sull’inesistenza
della realtà, ma questo non vuol dire accettare una visione piatta delle
cose come quella proposta dall’attuale realismo materialista. Compito
della filosofia non è quello di allargare il piano dell’analisi e la
superficie del tavolo anatomico, ma di auscultare l’interno delle cose
stesse, approfondire più che espandere i contenuti, l’espansione dei
concetti è infatti una semplice conseguenza della loro profondità.
Ultimamente sembra che la filosofia, almeno quella alla ribalta, si
preoccupi più di garantire un ordine di base, una visione concreta, che
non di verificare l’autenticità della propria proposta. Essere realisti,
come avremo modo di vedere, conduce esattamente alle conclusioni opposte
a quelle del new realism, pertanto ben venga il richiamo ad un
approccio realista, che poi vuol dire autenticamente filosofico,
purché le conclusioni non siano quelle della banale ammissione della
realtà come ciò che ci sta di fronte. Conoscere la realtà è il momento
stesso della sua definizione, il momento in cui ci si accorge che essa
non ci precede ma ci accompagna, è per questo che il pensiero non può
accontentarsi di organizzare la realtà e imbastire una critica ad essa,
ma deve definirla rigorosamente, in prima battuta e non solo a
posteriori, non prendendo atto della sua esistenza ex post come
avviene nelle scienze sociali. Conoscere la realtà vuol dire
riconoscerla, non percepirla. La ragione per cui tiriamo in ballo la
Filosofia nella sua nobile causa, non è velleità intellettuale o
settarismo, né solo una questione di principio, il motivo è più semplice
e più importante ad un tempo. La questione della realtà è un tema
estremamente filosofico, potremmo dire il tema filosofico per
eccellenza, certo definitivo per valutare la visione del mondo che una
data civiltà ha prodotto. Dal modo in cui definiamo la realtà, infatti,
discende il tipo di società e il livello di umanità storicamente
prodotto, ma nella specifica definizione della realtà, anche se non ce
ne accorgiamo, è ancor più la nostra stessa vita ad essere coinvolta, il
futuro della nostra quotidiana esistenza e non semplicemente le sorti
lontane e impersonali del genere umano. La realtà si realizza a
partire dalla sua definizione, il mondo si trasforma continuamente
attorno all’algoritmo culturale con cui definiamo il reale, fino a
prendere la forma del modello prodotto. I mezzi di produzione,
l’organizzazione sociale, la fruizione e produzione di sapere, l’accesso
alle risorse, la scoperta scientifica ecc., non sono dimensioni
pre-formate, ma si plasmano a seconda del diverso schema di realtà
diffuso. Certamente la realtà non è tutto un discorso artificiale, ha
una sua consistenza, un quid che tuttavia non risiede nella sua
presenza empirica. Il reale è qualcosa di inesauribile alla percezione,
il mondo è reale non perché lo percepiamo ma perché lo comprendiamo,
la percezione di per sé non ha alcun significato, poiché il suo potere
conoscitivo si ferma all’esistenza del qualcosa, che come abbiamo visto
ha un significato non qualitativo, la realtà del fenomeno resta
inaccessibile alla sensazione. Dal momento in cui la conoscenza comincia
invece ad investire gli aspetti peculiari dell’oggetto, la sua forma, la
sua consistenza, la sua realtà si rende intelligibile solo ad
un’intelligenza comprensiva. Siamo pertanto giunti alla conclusione, di
per sé non molto profonda, che il reale non è un ente percepibile ma una
conoscenza intelligibile, cerchiamo di capire adesso non tanto perché
questa deduzione abbozzata velocemente sia in contraddizione con la
visione comune della realtà, quanto perché si trovi in contrasto con la
versione filosofica del new realism, raggiunta nell’inspiegabile
e profonda semplicità di un ventennio di riflessione, stando alle parole
del suo divulgatore. È incredibile come pochi anni di riflessione
possano produrre la Critica della ragion pura, mentre vent’anni
abbiano generato il new realism.
Fin qui abbiamo
volutamente presentato le cose in modo estremamente schematico,
distinguendo una sensazione dell’esistenza da una percezione della
realtà, prima di andare avanti dobbiamo comunque fare una precisazione
di passaggio, per non tradire lo spirito illuministico che guida questa
critica essenziale. Anche l’esistenza non è qualcosa di cui andare così
certi tramite la percezione. L’oggetto di cui la sensazione ci informa,
non è di per sé esistente, in quanto “sentito” è certamente “presente”
alla nostra attenzione e ai nostri sensi, ma la sua esistenza, se
vogliamo essere certi di essa, è accertabile con un approfondimento che
inevitabilmente supera le funzioni dei sensi. A proposito di esistenza
percepita, infatti, sarebbe corretto fare un’ulteriore distinzione tra
esistenza e semplice presenza, coscienti di attirarci onorevolmente
addosso l’accusa di sottilizzare, dobbiamo necessariamente fare
distinzioni particolari per giungere al concetto generale di realtà, se
è vero, come è vero, che la filosofia deve riflettere la realtà senza
inventare niente. A questo punto possiamo chiudere questa parentesi
di rapide considerazioni concentrate principalmente sul soggetto,
ritorniamo piuttosto alla differenza generale tra esperienza e realtà,
continuando tranquillamente, per comodità e senso comune, a usare la
nozione utile di “sensazione dell’esistenza di qualcosa” quando parliamo
in generale di sensazione. Tutta la difficoltà della filosofia teoretica
e il paradosso del realismo che in essa si inscrive, è che lo strato
percettivo superficiale, la sensazione, tende a confondersi con il senso
più profondo degli oggetti e dei pensieri, tanto che quando avvertiamo
il “qualcosa” testimoniato dalla sensazione, siamo portati a credere di
aver percepito la sua realtà, anzi ne siamo assolutamente certi. Durante
la sua esperienza quotidiana il soggetto è perso nella percezione della
cosa, si identifica con essa e perde completamente di vista l’esistenza
della differenza tra il pensiero e la percezione, una differenza non
percepita poiché assorbita dagli oggetti, costitutiva della realtà
stessa. La realtà è carica di pensiero, da una parte perché
fisiologicamente la percezione di un oggetto è inevitabilmente la
traduzione elettrico-cerebrale della sua esistenza fisica, dall’altra
perché ciascun ente, naturale o artificiale, possiede un posto
nell’ordine delle cose solo grazie alla categoria di relazione e alla
visione globale del mondo in cui l’intelligenza lo inserisce. Attraverso
una semplice sensazione possiamo percepire solo l’esistenza, l’elemento
neutrale o “invariante” della realtà, qualcosa che, mutatis mutandis,
non cambia modo di presentarsi a noi qualunque sia l’oggetto che
testimonia, poiché la sua modalità di apparizione è univoca, senza
scelta, uguale a quella di tutti gli altri enti. L’esistenza si
predica degli enti ma non è di per sé un’entità. Se esistono oggetti
reali, conosciuti attraverso la sensazione, o per dirla attraverso gli
slogan: se esistano fatti senza interpretazioni, allora tutti gli
oggetti o fatti sono identici.
La sensazione
rileva un quid resistente alla negazione, sia per i pensieri che
per gli oggetti, qualcosa che baconianamente possiamo anche indicare, in
un senso nuovo, con il desueto termine “impenetrabilità”. Ciò che è
sentito può esistere o meno, ma la sua presenza ai sensi, la sua
impenetrabilità, la sua irriducibilità a qualsiasi volontà di negarlo,
rappresenta la sua proprietà essenziale. Questo quid opponente è
una ragion sufficiente della realtà secondo il new realism. Per
via di sensazione però non si può dire altro tranne che c’è qualcosa,
ogni altra determinazione è per forza di cose la conseguenza di un
processo conoscitivo, un’elaborazione che coinvolge molti aspetti
dell’umanità, in primis la storia, storia delle idee e storia dei
fatti, due realtà che si completano a vicenda, basta pensare al
significato ontologico che possiede la croce dopo la crocifissione di
Cristo, oppure la luce, il sole, le stelle, le pietre, tutti enti
naturali il cui significato entra da subito in contatto con l’umanità in
genere non appena li consideriamo non come puri oggetti di sensazione.
Come puri oggetti di sensazione, vale la pena ripeterlo, sono tutti
uguali, forse diversi solo per grandezza. Ho voluto fare degli esempi
riguardanti gli enti naturali per evidenziare come sia una divisione
della realtà ed una falsa comprensione quella che relega il pensiero, la
storia dei significati, in generale la presenza del livello
interpretativo, nei cosiddetti oggetti sociali, come fa il new
realism appunto. Se non corressimo il rischio di venire etichettati
con una qualunque definizione di idealismo, altrettanto liceale di
quella di realismo, ci sarebbero tutte le ragioni di rispolverare il
vecchio detto hegeliano, senza per ciò stesso essere hegeliani, utile se
non altro a rendere subito l’idea che: nihil est in sensu, quod non
fuerit in intellectu. Al mutare di colore, consistenza, odore, un
oggetto non smette di essere oggetto, la sua oggettività ci è
testimoniata da una percezione elementare che riguarda l’identità della
cosa, la sua “presenza” in sé, il significato che possiede solo rispetto
a se stessa, è l’oggetto privo di qualità ad essere una tabula rasa
non la mente che lo comprende, la mente compone la sua trasparenza
realizzandolo. Vista la grande parte giocata dalla mente nella
percezione delle qualità degli oggetti, riavvolgendo il nastro della
storia fino ai primordi della conoscenza umana del mondo esterno,
avremmo addirittura ragione di credere che all’origine dei significati
fondamentali delle cose vi sia una specie di “feticismo dei concetti”,
una deprivazione dell’intuizione a scapito di un ordine di significati
generali, per forza di cose sclerotizzati dalla tradizione rispetto
all’intuizione immediata. È quel fenomeno cui la verità più che mai è
soggetta, descritto da Nietzsche in Su verità e menzogna. Ma
lasciamo da parte Nietzsche, che potrebbe dar adito a posizioni di
principio tanto quanto Hegel, e riprendiamo le fila del nostro discorso.
Rispetto a quanto detto sull’esistenza e sulla percezione oggettiva,
abbiamo visto come “l’oggettività” del reale sia un’informazione priva
di contenuto, una conoscenza talmente universale da essere valida per
qualunque tipo di ente, una conoscenza identica a quella di
ciascun altro ente. Rispetto a questa sua astrattezza, la conoscenza
oggettiva finisce per essere un tipo di informazione talmente
particolare da essere indifferente. L’insieme di conoscenze con cui
riusciamo a distinguere gli oggetti tra loro, quella conoscenza che fa
la differenza tra cose identiche, appartiene ad un livello diverso di
esperienza, per il quale non è più appropriato parlare di sensazione, un
livello in cui è già presente il ruolo dell’intelletto anche se non
chiaramente riconoscibile. Si tratta di una forma di pensiero
generalissima che possiamo ricercare nella categoria di relazione,
che Kant e Locke hanno giustamente lodato, o in mille altri tentativi di
definizione, il ground di Pierce, la libertà dello spirito
di Hegel e via dicendo. Qualunque cosa sia, la sua attività nella
percezione rende superata e infondata la distinzione dualistica fatta
dal realismo (sia new o non new).
Tra la sensazione
dell’oggettività e la percezione delle qualità c’è più differenza che
tra l’esistenza e l’inesistenza. Il materiale percettivo primario non è
composto da alcunché, non si può dire alcunché di esso se non il fatto
che lo sentiamo, il fatto che «sentiamo la sua esistenza o la sua
presenza» per così dire. Se dovessimo parlare di un oggetto, senza
disporre di una conoscenza delle sue qualità, non saremmo capaci di
descrivere qualcosa di specifico, descriveremmo quell’oggetto con delle
frasi altrettanto perfette a descriverne un altro completamente diverso,
esprimendo concetti universali e allo stesso tempo particolari, come le
presunte informazioni particolari dell’oroscopo. I due livelli
“conoscitivi”, quello percettivo-esistentivo e quello informativo, con
cui ci è possibile dire che colore e che consistenza abbia un oggetto,
pur essendo assolutamente distinti tra loro, durante la percezione
dell’oggetto sono indistinguibili, è propriamente da questo nodo che
trae vita tutto il fraintendimento teoretico-realista. Non per noi che
ci ragioniamo su. Mentre la sensazione costituisce un mondo di oggetti
indifferenti, poiché la loro unica comunanza è il fatto di risiedere
nello spazio e nel tempo – dimensioni del resto non assolute – la
realtà è costituita da differenze incolmabili. Se dovessimo scindere
le qualità della materia dalla materia stessa, non potremmo neppure
percepire qualcosa di essa, e chissà se continuerebbe ad esistere.
Adesso abbiamo dunque qualche buon elemento in più per asserire che la
realtà non è un fatto percettivo, si accompagna alla percezione ed è
difficilmente distinguibile da essa, ma non può identificarsi in alcun
modo con la materia o la percezione della presenza in generale. Rispetto
alla materia o alla coscienza di qualcosa ogni percezione è identica,
mentre la realtà è fatta di differenze, molteplicità in cui l’uomo si
orienta e sceglie. Il senso della realtà non ha niente a che fare con
la sensazione della materia, esperienza e realtà si accompagnano
perché la seconda è la lettura esplicativa e la comprensione della
prima, ma non si identificano per lo stesso motivo, poiché ciò che è
sentito o avvertito non è di per se stesso reale e spesso neppure
esistente. Fatte queste precisazioni da manuale, è interessante notare
come ogni forma di scetticismo tradizionale, che si basa sul classico
argomento degli scettici antichi, secondo cui non è possibile predicare
l’esistenza di qualcosa se non possiamo distinguere l’oggetto dalle sue
proprietà sensibili, si fondi in realtà sullo stesso presupposto ambiguo
del realismo. Il realismo, infatti, proprio a partire dall’indistinzione
tra reale ed empirico, afferma l’irriducibiità del mondo, la sua realtà.
Due conclusioni opposte a partire dallo stesso assunto. C’è
evidentemente qualcosa che non va in questo schema classico, e non va da
una parte perché queste opposte filosofie sono dottrinarie, tendono cioè
a dimostrare quello che esse sono e non quello che il mondo è,
dall’altra perché non può esistere un realismo che non ricada a sua
volta nello scetticismo o nell’idealismo, manifestando la sua matrice
contraddittoria. Il realismo per definizione deve opporsi allo
scetticismo, ma se la sua posizione non è conseguita su base razionale
l’unica conclusione logica cui può approdare sarà proprio quello
scetticismo che si propone di confutare. Realismo è un atteggiamento di
fronte al mondo non meno che di fronte alla ragione, chi lo approva non
può che rimettersi al giudizio della seconda per giungere alla
comprensione della prima.
2. I fatti e
le cose
Di fronte ai
fatti chi non metterebbe da parte le proprie idee e credenze? Come si
può continuare ad essere scettici di fronte ad un ben preciso senso
delle cose, riassunto ed espresso appunto dalla categoria dei fatti? Per
il new realism solo gli ostinati vagheggiatori, quei dubbiosi
incontentabili, quegli scettici dissolventi, quella incontentabile
classe di occhialuti perdigiorno. Vediamo se questi uomini senza senso
pratico sono davvero i sognatori da cui il new realism sarebbe
venuto finalmente a liberarci o se invece questo cavalleresco filosofare
rigoroso non sia piuttosto un minimalismo senza molto da dire e da
insegnare. Nonostante nell’uso comune il termine “fatto” esprima in modo
particolarmente diretto il senso di concretezza e materialità, nella sua
accezione specifica il termine non corrisponde immediatamente alla
nozione di cosa. Sembra che, per il riduzionismo acritico di questi
tempi, il motto di Wittgenstein per cui «il mondo non è la totalità
delle cose, ma la totalità dei fatti» sia passato del tutto inosservato.
Distinguere un fatto da una cosa, in realtà non è un’operazione da
astratti trattati logico-filosofici, è un atto comune che tutti
facciamo. Paragonare un fatto ad una cosa sarebbe come mettere a
confronto una scena con gli oggetti che la compongono, una fotografia
con o svolgimento del fatto che essa fotografa, in buona sostanza
l’unica circostanza che i fatti e le cose condividono è la datità,
l’essere presenti e percepibili. Per quanto riguarda il loro significato
individuale costituiscono invece due sfere ontologiche ben distinte, al
punto che definire un fatto come una cosa sarebbe avvertito da chiunque
come uno stridente contrasto. Il motivo per cui quando si parla di fatti
ci troviamo ad un livello di realtà superiore a quello delle cose è il
rimando immediato alla sfera del fare, il termine stesso in lingua
italiana è participio del verbo fare, contiene perciò il rimando
implicito al contesto dell’azione di cui esso rappresenta la
compiutezza. Un’opera, qualcosa di compiuto, che può essere benissimo
anche un qualcosa di incompiuto purché riassuma l’azione che l’ha
prodotto, a differenza di una cosa – lo si coglie come prima differenza
specifica – possiede uno svolgimento nel tempo, una propria vita ed un
significato acquisito lungo il suo corso, sia pure una volta per tutte e
inderogabilmente. Mentre una cosa è natura morta, indifferenza
universale del significato, generalità astratta senza alcun senso
preciso, i fatti sono l’articolazione delle cose, la rappresentazione
della loro oggettività mediante la loro messa in comune in una rete di
rimandi, l’atto creativo con cui una cosa acquisisce storicità e verità,
rendendosi perciò passibile di un maggiore livello di realtà. Le cose
non sono né vere né false, tantomeno reali o irreali, esse sono solo
percepite, soltanto i fatti rendono il mondo delle cose intellegibile.
L’essere dei fatti rappresenta a buon diritto la mediazione delle
cose, espressione di movimento in cui si realizza l’interoggettività, il
mondo comune in cui le cose ci appiano nella loro relazione naturale
come date immediatamente. L’immediatezza in cui le percepiamo è in
realtà una loro seconda natura, solo in quanto entrata nella spirale
evolutiva di un fatto la cosa può giungere ad acquisire realtà diretta
ed esplicativa, acquisire mondanità. Ma cerchiamo di andare con ordine.
La prima cosa da dire a proposito del collegamento del fatto con il fare
è la sua appartenenza ad una dimensione temporale, dimensione che è allo
stesso tempo di relazione all’uomo, anzi possiede una sua temporalità
solo in quanto è in relazione all’uomo. Il fare istituisce una
differenza tra il tempo e l’immobilità delle cose, poiché il mutamento,
che è un indice del tempo, è a sua volta una funzione del fare. Il tempo
delle cose, sia esso esistente solo in relazione al movimento o meno, è
indistinguibile e indefinibile a prescindere dall’essere in relazione
con l’uomo. Su questo non c’è bisogno di essere realisti per concordare.
Con questa distinzione classica tra tempo naturale e temporalità
possiamo giustamente affermare che i fatti appartengono all’ambito della
Storia, un luogo in cui è molto più difficile che le cose subiscano
l’aberrazione dei sensi o la relativizzazione dell’intelletto, anche
qualora si tratti della storia del giorno prima. Un fatto è inscritto
nella grande tela del mondo, è eternamente differenziabile dai suoi
analoghi, perché la Storia, l’insieme dei fatti compiuti, è il regno
delle differenze. Certo i fatti sono molto più soggetti
all’interpretazione di quanto non siano le semplici cose, ma è così
proprio in quanto sono molteplici, articolati, complessi al loro
interno, tuttavia è allo stesso tempo la loro complessità a renderli più
interpretabili e più veritieri delle cose. Verità del fatto non vuol
dire affatto esperibilità, infatti essere vero comporta proprio non
essere cosa. Poiché si tratta di un oggetto sottratto all’immediatezza
in cui si presentano le semplici cose sentite, un fatto è allo stesso
tempo vero ma non immediatamente. Mi rendo conto che insistere ancora
sulla distinzione tra cose e fatti potrebbe essere ozioso e arido (e a
mio avviso lo è) costringendo la riflessione ad affrontare un disquisire
elementare, ma nel contesto in cui ci troviamo a discuterne, la rubrica
filosofica del new realism, è di vitale importanza sottolineare
come l’accomunamento indebito di questi due concetti sia alla base della
maggiore confusione possibile a proposito di realismo, oltre a produrre
posizioni di principio che si precludono la comprensione stessa della
realtà. Per afferrare appieno cosa si intende dire quando si parla di
fatti, dovremo istituire un confronto con il concetto di azione,
confronto che solamente ci permetterà di focalizzare meglio perché un
fatto non sia una cosa e allo stesso tempo sia più vero di essa. Ma
prima di introdurre un secondo termine di paragone, parlando di azioni e
fatti, per non perdere d’occhio la posizione neorealista in esame, alla
luce di quanto già detto in merito alla storicità dei fatti e al loro
contenuto di verità (“compiuto”, ma non immediato), credo sia il momento
di parlare un po’ di Nietzsche e della sua tanto discussa posizione per
cui: «non ci sono fatti ma solo interpretazioni». Dato il polverone
sollevato dal detto nietzschiano, nuvola grigia in cui ognuno vede ciò
che vuole, sembra necessaria un po’ di pedante filologia. Letteralmente
la frase di Nietzsche in lingua originale dice: «non ci sono
Tatsachen, ma solo Interpretationen», sulla traduzione di
Interpretationen è inutile soffermarsi perché il senso è, anche solo
intuitivamente, identico all’italiano. Per quanto riguarda Tatsachen,
invece, le cose non stanno come sembra a prima vista, secondo la
traduzione comune. Se Nietzsche per dire fatti avesse adoperato il
termine Dinge o anche solo Sache, non ci resterebbe che
avanzare tutta quella sequela di argomenti classici contro l’idealità
della realtà, come tradizionalmente fa chi voglia fare una confutazione
dell’idealismo. Il new realism, sebbene con scarsità di
argomenti, sarebbe qui in piena legittimità critica, avrebbe centrato
pienamente il suo campo di analisi, e non troverebbe proposizione
migliore cui contrapporre la propria visione del mondo di quella
nietzschiana. Il fatto è che Nietzsche non dice: «non ci sono cose,
ma solo interpretazioni», se così fosse non sarebbe altro che un
ulteriore epigono, sia pure molto meno clericale, del simpatico abate
Berkeley. Nietzsche però non è un “idealista” ma neppure un “realista”.
In Nietzsche il soggetto non è il potente Io conoscente e cosciente
kantiano, ma neppure una pura passività di fronte al reale, già compiuto
e pienamente significante nella sua reperibilità. In Su verità e
menzogna Nietzsche ha fugato per sempre ogni dubbio sulle accuse di
minimalismo materialista, con la Genealogia della Morale ha
mostrato cosa intendesse per filosofare con senso storico. Perciò
accusare Nietzsche di idealismo sarebbe come accusare Hegel di
materialismo, allo stesso modo in cui trovo completamente fuorviante la
definizione neorealista della filosofia trascendentale come di un
soggettivismo alienato dalla realtà. Ma chiudiamo volentieri questa
parentesi storiografica, laddove ciascuno può farsi la sua idea di
Filosofia senza che alla Filosofia succeda realmente niente di
significativo, e torniamo alla frase di Nietzsche. Il termine
Tatsachen adoperato dal filosofo non significa “cose”, né materiali
né immateriali, “affari” come potremmo tradurre in francese o in
italiano il tedesco Sache. Tatschen è termine composto da Tat,
che rimanda al fare (taten) e Sache, che costituisce la
cosa come oggetto di rappresentazione. Si dirà che sono sfumature di
significato filosoficamente poco determinanti, ma si tratta di quelle
parole scelte con cura – attività di cui Nietzsche, filologo serio, non
disdegnava certo l’uso – che fanno la differenza in filosofia tra
realismo e idealismo. In buona sostanza, quello che Nietzsche ci vuole
dire non è: «i dati della percezione umana non esistono, si tratta solo
di interpretazioni della mente», il suo detto in un improponibile
italiano speculativo suonerebbe piuttosto così: «la realtà delle cose
non è oggettiva, ma in quanto fatto e non cosa è
un’interpretazione». La traduzione corrente, per giuste ragione
editoriali, non sottolinea mai
abbastanza la differenza di
significato che Tatsachen possiede rispetto a “cose”. Abbiamo già
abbondantemente parlato della differenza tra esperienza dell’esistenza e
senso della realtà delle cose, mostrando come la realtà non sia
assolutamente implicata dalla sensazione in sé, ma implichi al contrario
il coglimento dei significati differenziali della cosa, significati
incomprensibili senza un’attività intellettuale di decifrazione. Adesso,
per chiudere i conti con questo secondo fraintendimento del new
realism, l’attribuzione del significato di cosa a quello ben diverso
di fatto, dobbiamo spiegare in primo luogo perché un fatto pur restando
una semplice interpretazione non è meno vero di una cosa, e perché
l’interpretazione non è a sua volta infinita. Il senso comune parla di
interpretazione come di qualcosa di puramente arbitrario, dettato dalle
inclinazioni soggettive o da gusti condivisibili solo su una base
soggettiva, insomma nella vita comune, e anche in qualche ambiente poco
scientifico, si nega all’interpretazione ogni valore di verità. Parliamo
di interpretazione come di giudizio di gusto, quel giudizio variabile
con cui uno storico dell’arte conferisce ad una data opera un certo
valore. In realtà l’ambito dell’interpretazione non è limitato
esclusivamente alla formazione di una personale visione del mondo, ci
sono numerose discipline, come la Storia, l’Archeologia, la
Paleontologia, ma la stessa Medicina o la Fisica, in cui
l’interpretazione rappresenta un momento strutturale dell’operare
scientifico. In questi casi si parla a ragione di giusta
interpretazione, nel cui concetto in realtà è contraddetto quello di
interpretazione tout court, poiché una giusta interpretazione
smette con la sua esclusività di essere interpretazione. Tuttavia, per
quanto auto-rimossa dalla sua esattezza, la giusta interpretazione è pur
sempre frutto di un’attività interpretativa. C’è quindi una sfera logica
in cui l’interpretazione non è sinonimo di soggettivismo e relatività.
Ma torniamo a
Nietzsche. La metafora dell’arte è quanto mai utile al nostro scopo,
perché ad utilizzarla a proposito di realtà e finzione è Nietzsche
stesso in Umano troppo umano. Grossomodo il testo dice questo: il
mondo è come un dipinto, una tela su cui sono tratteggiate solo le linee
essenziali, l’uomo aggiunge i colori, le sfumature, apporta i tratti
decisivi, conferendo in tal modo la forma al suo proprio mondo. Certo in
Nietzsche è presente anche un’interessante argomentazione del rapporto
cognitivo tra stimolo e risposta da parte della coscienza soggettiva,
tuttavia quando si parla di interpretazione della realtà non si fa
riferimento alla singola risposta soggettiva ad un determinato stimolo
esterno, ma del modo di intendere i concetti comuni da parte del genere
umano intero. Nietzsche intende riferirsi all’interpretazione della
tradizione, quell’immagine del mondo che si è andata costruendo e
stratificando attraverso i secoli giungendo fino a noi, formando una
griglia di concetti comuni attraverso i quali, senza neppure
accorgercene, guardiamo ad esso e gli attribuiamo un certo significato.
Avere interpretazioni anziché fatti, non vuol dire che ciascun uomo ne
possiede una diversa rispetto all’identico fatto, quanto bensì che gli
uomini intendono i concetti comuni a partire da interpretazioni
consolidate dalla storia. Per essere chiari, non si tratta di negare
l’esistenza della “foglia”, dicendo che per la libertà
dell’interpretazione essa può essere benissimo anche una “stella”, bensì
di comprendere che quanto di concettuale si collega all’immagine della
foglia non è frutto della sensazione corrispondente, ma di una
mediazione di concetti acquisiti, introiettati attraverso la storia.
Quel che è più importante, per molteplici aspetti, è che i contenuti
storici sono attivi inconsciamente in noi. Non vuol dire che la foglia
non esista o la sua interpretazione non sia vera o reale, solo che si
tratta di una conoscenza mediata attraverso la realtà
storico-concettuale della foglia, in quello stesso oggetto che ci appare
immediatamente reale risiede invece una storia senza origine. Certamente
l’interpretazione umana è libera e non conosce limiti, se non fosse
libera e illimitata non sarebbe perciò stesso interpretazione come
abbiamo accennato poco prima, tuttavia il nostro rapporto col mondo, e
la conoscenza che ne deriviamo, non avviene mediante un libero arbitrio
dell’interpretazione, si muove al contrario in un terreno già
interpretato, laddove i singoli non fanno che riprodurre i significati
statuiti. Quel che vuole dire Nietzsche non è tanto che percepire il
mondo è una questione di punti di vista e divergenze praticamente senza
fine, quanto che nel rapportarci al presente immediato e a quanto è
reputato maggiormente vero dal genere umano, non abbiamo a che fare con
la verità assoluta o con una realtà da sempre aderente al suo
significato attuale, ma siamo in presenza della Storia, il campo di
formazione dei significati, quel luogo in cui la verità e la menzogna
possono scambiarsi di posto continuamente, a seconda
dell’interpretazione dominante. Non è la realtà dell’istante percettivo
ad essere priva di significato oggettivo, anche se la sua oggettività è
mediatamente storica, è la società in cui viviamo – in cui gli stessi
oggetti vivono, oggetti sociali o naturali – ad attribuire diverso
significato alla medesima percezione. Dire che il tavolo o la più
radical chic neorealistica “ciabatta” fuori di me esiste, perché è
percepibile da chiunque, non è un’obiezione molto sensata al pensiero di
Nietzsche, tantomeno una prova dell’esistenza del mondo esterno. Fare
esempi del processo di stratificazione-imposizione dei significati, nel
senso in cui Nietzsche lo intende, sarebbe solo ripetitivo, le opere del
filosofo sono straripanti di questi esempi. Il punto cruciale è
stabilire cosa rientra nella Storia e cosa cade fuori di essa, noi
stessi infatti possiamo reputarci esclusi dal processo di formazione del
mondo oppure rientriamo ancora nell’opificio invisibile del tempo
storico, dove vengono prodotti e riciclati i concetti dell’umanità? È
questa una questione aperta, di dirompente urgenza e attualità, cui non
possiamo dedicare che un accenno in questa sede. È soprattutto sul
terreno della Storia che possiamo cogliere meglio quale siano le derive
riduzioniste del new realism. L’equazione neorealista che
semplifica i fatti e le cose, considerando i due termini sinonimi,
sostiene implicitamente un’idea storicista e fondazionista della storia,
un’affermazione del fatto e del suo valore a partire da un preciso
momento storico, per cui basterebbe ritrovare le condizioni di verità
all’insorgere del fatto per coglierne completamente il significato.
Parlare del fatto come di una cosa vuol dire difendere la sua origine
precisa, laddove si trova fondato il suo valore, come se il valore del
fatto fosse sorto insieme al fatto stesso, come se il valore dell’oro
sorgesse assieme al metallo. Se Nietzsche sosteneva la teoria che
abbiamo richiamato, non era per dire che i fatti, la cui verità è
storicamente sottratta all’intuizione, siano relativi e revocabili,
quanto per sottolineare come non esista un Grund che sia
Anfang di qualsiasi cosa esperibile, si tratta sempre di una
Herkunft, sempre di una tradizione dove i significati vengono
attribuiti. Non vedo cosa si possa dire di più realista di questo, per
quanto risulti sgradevolmente irriducibile e ci ponga nel reale come
pedine della Storia, privi della vera libertà di cogliere il mondo. Ciò
non significa che non vi sia corrispondenza tra eventi e significati, il
monito nietzschiano è volto a non riconoscere nella Rivoluzione francese
l’inizio della libertà, nel fascismo la sua fine, nel platonismo
l’inizio del razionalismo e nel new realism la fine della
filosofia, a non vedere nel futuro un progresso necessario e nel passato
un necessario arretramento. Insomma è un invito a non confondere la
verità con i fatti, a considerare che è l’uomo la potenza del
significante, e che in questa potenza consiste più propriamente la
libertà: un dare significato al mondo e non un ricevere. Il
new realism, ponendosi di
fronte alla realtà come al cospetto di una creazione compiuta e
immodificabile, sembra collocarsi piuttosto in quell’epoca storica che
Foucault definisce classica, dove la rappresentazione delle cose è
prodotta dalle cose stesse, nature mute su cui il marchio del creatore
ha apposto il proprio nome. L’uomo moderno del new realism è una
specie di Michelangelo poco creativo di fronte al colossale Mosè, opera
di cui non si riconosce più autore, tanto è perfetta e somigliante alla
realtà, un trionfo del realismo a cui tuttavia manca la parola, qualcosa
che oltre alla propria presenza scenica non può dire niente di sé.
Vorrei svolgere meglio e con più attenzione al problema della Storia la
questione del rapporto tra fatti e cose, ma spero che la mia breve
analisi, con il richiamo alla lettera di Nietzsche, sia quantomeno
sufficiente a mostrare il terreno malfermo su cui il
new realism accampa le sue
pretese, soprattutto in aperto contrasto con Nietzsche, padre di un
presunto atteggiamento relativista. Ci sarebbero ben altri epigoni, se
proprio volessimo andare alla ricerca degli apostoli del relativismo,
specie nella filosofia contemporanea, in cui si sostengono assunti
assolutamente acritici mentre si nega l’oggettività dei significati, ma
temo che questo tentativo sia ostile al new realism per
filiazione intellettuale da quel mondo.
3. Realtà e
verità
Per tutta una serie di ragioni pratiche e funzionali, ad esempio
l’abitudine a pensare la verità come coerente allo stato delle cose o la
tendenza a vedere nella realtà una dimensione verace, è per noi scontato
ritenere la realtà una cosa vera, altrettanto lo è viceversa vedere
nella verità qualcosa di reale. Si potrebbe anche concedere che le cose
stiano effettivamente così, ma solo prendendo i termini realtà e verità
ad un livello molto poco preciso e rispondente del loro significato
pieno. Tutti noi riconosciamo immediatamente alla realtà effettiva una
sua verità, appena svegli, dopo una notte di sogni intricati, tiriamo un
sospiro di sollievo dicendoci: «per fortuna era solo un sogno, qualcosa
di falso», esattamente nello stesso modo in cui intendiamo dire che il
sogno non è reale. Ma non è tutto fumo quello che sembra e non sempre
sbagliamo quando parliamo in gergo, ci sono diversi livelli di realtà e
diversi modi di intendere la verità, in tal senso dovremmo distinguere
ad esempio la verità della logica dalla verità di una testimonianza, la
realtà della veglia da quella virtuale di un video game o di un
social network. Quel che conta è che tra le diverse categorie in
cui si articolano, realtà e verità vengono comunque prese l’una accanto
all’altra, chiunque pensa vi sia una coerenza tra ciò che è vero e ciò
che è reale, che la verità sia confermabile e la realtà verificabile. A
dire il vero una corrispondenza tra realtà e verità, in effetti, esiste,
se così non fosse i calcoli della matematica sarebbero veri solo in
teoria e le conseguenze della logica non sarebbero le conseguenze del
mondo, ma esiste un legame diretto tra queste due sfere solo ad un
livello molto basso di verità e realtà. Quando, infatti, la matematica o
la filosofia si fanno astratte, cioè raggiungono maggiori livelli di
verità, la corrispondenza con la realtà diminuisce o per lo meno si
rende difficile da rintracciare, tutti possono verificare il teorema di
Pitagora o il sillogismo, non altrettanto chiaramente si può fare per i
numeri razionali o le antinomie kantiane. Certo dipende tutto, ancora
una volta, dal modo in cui si intende il termine realtà. Come abbiamo
visto nei due precedenti paragrafi, la tendenza filosofica odierna è
quella della reificazione della realtà, del resto unica via per
dimostrare che la realtà è qualcosa di oggettivo, univoco, identico per
tutti, anche se si tratta di un’identità afasica, amorfa, atomica.
Stiamo cercando di dimostrare perché non sia possibile considerare reale
soltanto uno dei due termini in gioco nel nesso tra mente e mondo,
propensi piuttosto a riconoscere il titolo di realtà al nesso stesso più
che ad una sua singola parte. È banale
ridurre la realtà all’esteriorità, non per motivi di affetto verso il
cuore umano, ma perché molte delle cose reali, di cui non possiamo
negare l’esistenza, la concretezza, la complessità, esistono solo nella
mente, il mondo onirico, le figure mitologiche, le astrazioni
scientifiche e quelle artistiche, oltretutto molte delle cose
esteriormente reali sono a loro volta solo un prodotto della mente:
l’intera società umana, se facessimo a meno di considerare il potere
creativo della mente, si ritroverebbe ancora a vivere in uno stato di
natura, circondata da enti che possiedono di per sé soltanto un
significato naturale e intuitivo. Il dilemma in questione non è il
vetusto dualismo mente-corpo o quello natura-cultura, come saremmo
portati a credere, ma comunque qualcosa di simile. Si tratta di capire
cosa abbia il diritto di precedenza tra verità e realtà, se sia la
realtà ad avere forma logica, da cui il nostro pensiero astrae e
formalizza le leggi generali, o viceversa se la verità sia un elemento
puramente mentale, successivamente riscontrato nel mondo empirico. Si sa
che il mondo è un ricettacolo di irrazionalità, contingenza,
irregolarità, illogicità, ma allo stesso tempo offre conferma alle leggi
della fisica, ottenute mediante astrazione intellettuale. Pare pertanto
che la mente possieda una priorità rispetto al mondo, e cioè che la
verità sia principalmente un fatto mentale, per lo meno riconoscibile
solo attraverso l’intelletto. Si potrebbe parlare di una sorta di
“irrealtà della verità”, un grattacapo un po’ scolastico, ma con una sua
legittimità. Platone, ad esempio, si chiedeva come fosse possibile
giudicare qualsiasi cosa come giusta, uguale, vera in assoluto, senza
l’esistenza reale di queste idee veritative, adoperate inconsciamente in
funzione di parametri di giudizio. Concludeva perciò che dovessero
esistere in un mondo “intellettuale”, dove hanno una loro propria
consistenza alla stregua degli enti fisici, in cui la nostra anima in un
tempo ignoto deve averle viste. Non è molto diversa l’operazione con cui
la coscienza religiosa reifica il regno dello spirito oltremondano, ci
si figura un mondo “concreto”, in buona sostanza immaginiamo che
addirittura lo spirituale abbia una sua forma fisica. C’è quindi una
forma di debolezza intellettuale, un antropomorfismo che si sposa spesso
con la scienza della tecnica, da cui viene la tendenza ad identificare
il vero con il reale, non considerando che la realtà, come si è cercato
di dire in precedenza, è ben più del semplicemente esistente fuori di
noi. La più grande banalità che la filosofia potesse avanzare su questo
delicato rapporto tra esteriorità e verità è stata enunciata dal
cosiddetto neopositivismo logico, utopia riduzionista che si proponeva
addirittura di distinguere la scienza dalla metafisica in base alla
riscontrabilità degli enunciati, in base alla loro osservabilità. Si sa
come sono andate le cose, come ci sia voluto poco perché questo
proposito verificazionista si sgretolasse dietro poche obiezioni
realmente filosofiche. Anche se dubito se ne siano accorti, i nuovi
alfieri del new realism non stanno avanzando una teoria molto
diversa da quella fiera trovata neopositivista, quel che è peggio è che
molti neopositivisti erano ingegneri, mentre i nostri realisti sono
filosofi d’estrazione e di professione. Se c’è qualcosa di veramente
paradossale nel richiamo realista alla veridicità del reale, è il modo
in cui il new realism non si accorge di antropomorfizzare la
scienza nel momento stesso in cui rivendica un oggettivismo scientifico.
Questi realisti si chiedono se la verità sia una nozione davvero utile,
se non sia più utile stare ai fatti, se quel che conta nell’approccio
scientifico sia un sano realismo anziché un cavillare sulla relatività
della verità, in pratica prendono la scienza e la filosofia per una
questione di metodo e non di contenuti. Il problema di questo nostro
new realism non è tanto il realismo, un sempreverde richiamo alla
veracità del metodo, quanto l’utilizzo scorretto del concetto di
realismo per propugnare un empirismo acritico, un’ideologia molto poco
filosofica. L’errore principale del realismo contemporaneo, un realismo
all’italiana con una dicitura inglese, è quella connivenza con
l’antropomorfismo e le semplificazioni che aveva evidenziato il
principale antagonista di questo movimento, F. Nietzsche, notando come
lo stare ai fatti non è altro che un dar credito alle interpretazioni
consolidate. Ritornando alla relazione tra realtà esterna e verità,
entrambi i fronti hanno ragione di sentirsi sufficientemente
accreditati, quello fisicista che riconosce la presenza della verità e
della legalità nella natura, e quello soggettivista che individua nella
mente umana il luogo di nascita e di appartenenza della verità. Non a
caso E. Husserl, nella sua Crisi delle scienze europee, parlava
dell’oggettivismo fisicista e del soggettivismo trascendentale come
delle due grandi idee a confronto nella storia del pensiero,
specialmente di quello contemporaneo.
Ci troviamo in tempi difficili per il pensiero, sia per quello
scientifico che per quello meno scientifico, la nostra scienza sembra
prendere sempre più nettamente le distanze da tutto ciò che non abbia
una consistenza esteriore, incapace di identificarsi con se stessa se
privata dell’aggettivo “empirica”. Anche le più nobili tra le scienze
esatte subiscono l’effetto deprimente di questo oggettivismo
tecnico-scientifico. Con il suo richiamo all’incontrovertibilità del
dato empirico, il new realism spaccia per reale ciò che è
semplicemente empirico, ma soprattutto non interrompe questa univoca
identificazione intuizione della materia con la scienza, aprendo una
parentesi di riflessione, mostrando la complessità del reale e della sua
scienza, compito di allargamento dell’orizzonte, a cui se si sottrae la
filosofia non si sa bene cosa resti ad assolverlo. Al contrario esso
intensifica la tendenza sostenendo l’estrema semplicità del reale, una
stella che brilla di luce propria di cui la scienza sarebbe pertanto la
semplice critica. La realtà è davanti ai nostri occhi, a noi non resta
che descriverla, criticarla al massimo, ma non negarla. Le cose
starebbero veramente così se la realtà, come abbiamo ripetuto fino
all’eccesso, fosse in quanto tale completamente indipendente dall’uomo e
dal suo sguardo, ma fortunatamente le cose non stanno proprio così,
fortunatamente per la realtà più che per l’uomo. Così come la verità non
ha bisogno della realtà per essere tale, a sua volta la realtà non ha
bisogno di corrispondere ad uno schema di verità per corrispondere al
proprio concetto. Il riconoscimento della verità nella realtà è
un’operazione puramente mentale, senza una mente che interpreta il
reale, la realtà non sarebbe né vera né falsa, parimenti senza una
realtà il pensiero umano sarebbe solo un cervello in una vasca, non
possederebbe la natura che ha, non sarebbe affatto pensiero, non darebbe
luogo ad alcuna intuizione della realtà.
D’altro canto
che cos’è la realtà è una
domanda a cui non si può rispondere con una semplice recensione ad una
filosofia dell’ultima ora, quello che si può dire con certezza restando
in tema di new realism, è che il reale non può essere sottratto
alla relazione di necessità che lo lega al pensiero umano, allo stesso
modo in cui non si può prendere il pensiero, separarlo dalla realtà
esterna, caricarlo delle medesime informazioni come un hardware,
e tuttavia definirlo pensiero allo stesso modo, nel senso tipico del
termine. Perché un’intelligenza artificiale non vivrebbe in un mondo
reale? Perché sarebbe incapace di comprenderlo, giacché non farebbe
alcuna differenza per questa forma di intelligenza vivere in una selva
di circuiti o in un mondo esperienziale. Sono certo che dovremmo
studiare di più l’esperienza interattiva delle macchine con il mondo per
comprendere meglio cosa si intende esattamente per realtà, questo tipo
di studio forse potrebbe condurre attraverso la scienza ad uscire un po’
dalla filosofia del dato reale, che estromette totalmente la funzione
della coscienza nel processo di comprensione del mondo.
Sorvolando ampiamente sull’ampia discussione critica che
meriterebbe un tema così determinante come quello della verità, è
opportuno solamente sottolineare, prima di chiudere i conti con i punti
deboli del new realism, come anche questa terza equazione sia in
realtà indebita, fondata su una ragione di convenienza e semplicità del
pensiero, l’identificazione del vero con il reale, quella del reale e
dello storico con il semplicemente empirico. Le categorie che
costituiscono il reale nel mondo umano non sono quelle dei sensi e della
materia, in cui l’individuo si trova a vivere come un Adamo
inconsapevole, ma quelle della Storia e dell’Esperienza, dove per Storia
si intende il bagaglio di verità accumulate nel tempo, vissute, create,
attraversate dal genere umano, una ricchezza che sempre lo coinvolge e
lo investe come uno spettro di conoscenze, per Esperienza l’interazione
della coscienza umana con il mondo della sensibilità, della riflessione,
dell’intersoggettività. Solo il complesso di queste molteplici attività,
irriducibili in ogni caso alla tavola degli elementi di Mendeleev, può
candidarsi ad esprimere il complesso significato del termine reale, non
solo coinvolgendo l’uomo ma ponendolo al posto che gli appartiene al
centro della realtà stessa, reale è infatti il riconoscimento dell’uomo
nel mondo, la comprensione che ciò che ci si oppone è in realtà concorde
e da sempre legato all’uomo da un rimando di natura, un nesso che
possiamo certo chiamare in molti modi ma mai, in nessun modo, rompere.
DICEMBRE 2012