Esperienza e rappresentazione
PLACET EXPERIRI
Un’altra sfogliata (riccia) a "Minima moralia"
NerioJamil Palumbo
Senza sintassi non esiste emozione duratura.
L’immortalità è una funzione dei grammatici.
(B. Soares, Il Libro
dell’inquietudine)
1. La «triste scienza» oggi. Tra etica minima e etiche minimal
In tutti i livelli d’interlocuzione
accessibili dell’Occidente, per quanto essi amino ammantarsi d’una
sardonica e disillusa aura di nichilismo più o meno consapevole, più o
meno ergonomico, torna ostinato a ripresentarsi il problema di un’etica
minima, d’una traurige Wissenschaft[1] cui affidare il triste ricordo d’una vita
non ancora violentata, non ancora offesa[2]
dai meccanismi di funzionamento che consentono il trionfale e criminale
perpetuarsi d’una società umana inadatta all’umano.
Ricordo, triste e prezioso ricordo
poiché la vita vera – che, è bene dirlo subito, somiglia molto poco in
queste pagine alla ieratica Eigentlichkeit di Heidegger[3]–
è sempre più, a quasi settant’anni dall’uscita delle belle
Reflexionen adorniane, un semplice ricordo, una nostalgia.
Il suo ritratto, opaco e difficile da
isolare tra le mille pieghe sonore degli aforismi, si sforza di
significare la possibilità di una vita non privata di ogni autentico
spazio di relazione, di ogni espressività e di ogni amore dalle mille
mutilazioni silenziose della ‘società integrale’, e dà oggi la
sensazione di un’esigenza mimetica lontanissima e quanto mai inattuale,
di una petitio moralistica di principi che sembrano essere sempre
più distanti, con gli anni, dal nostro liquido e leggero modo di
sentire.
Eppure, a quanto pare, quello dell’etica
è un pungolo che continua a sopravvivere negli interstizi della
nostra fretta, a ripresentarsi nei rari momenti in cui un dolore o un
entusiasmo ci distraggono dalla nostra guerra fredda, totale e perenne.
Dobbiamo chiarire immediatamente che i
livelli d’interlocuzione sono diversi, e che dunque alterno ed
estremamente eterogeneo è il livello di veridicità e di cogenza di
questo pungolo.
Eppur si muove,
eppur si ripresenta: nell’unto sentimentalismo dei cattolici più o meno
latenti, nell’ipocrisia delle ormai vexatae “questioni morali”
della politica, nelle oziose diatribe dei
maîtres
di bioetica, ma anche nelle poche righe commosse del blog di un
ragazzino deluso, questa «triste scienza», questo sapere impossibile ed
inattuale riesce ancora a stuzzicare parti rilevanti della World Wide
Republic dei connessi, dei comunicanti, mettendo spesso
serissime ipoteche sul futuro dell’asettico funzionamento di
quest’ultima.
Tuttavia, chi cerca in Minima moralia
qualche suggerimento per la risoluzione (o rivoluzione!) pratica dei
suoi piccoli problemi di pungolo – chi cerca tutto sommato un’etica
minimal nell’etica minima – farà bene a rivolgersi agli agili
opuscoli in edizione tascabile messi a disposizione in gran copia
dall’industria culturale, agli eroismi assortiti dei movies
(ormai fruibili anche in streaming dalla propria casella
d’isolamento attrezzata), o al limite a qualche ormai reperibilissimo
esotismo d’accatto, mistico o ascetico che sia. Non è di ciò che si
parla. Il livello d’interlocuzione, ammesso che esso possa esistere, non
è in questa meticolosa, ellenistica cura del proprio solipsismo.
Molto prima dell’avvento della
virtualità globale e dei suoi disincanti, Adorno seppe riconoscere la
totalità irrelata ed onnicomprensiva che strutturava il capitalismo
planetario, disvelandone la potenziale capacità di recidere senza
sbavature un’interlocuzione etica degna di questo nome. Lui
stesso sapeva e scrisse a chiare lettere che «oggi i più recalcitrano
col pungolo», e che dunque il pungolo e l’interlocuzione che i più
vivono non toccano quasi mai il nocciolo etico della discussione. Non ne
hanno bisogno né voglia, né disposizione né tendenza.
Nella facilità con cui la dolce
Kultur tedesca si genuflesse alla muscolarità sensazionalista del
fascismo, nella serena e narcotizzata docilità con cui il pensiero si
consegnò alle scadenze astratte ma concretissime dell’apparato tecnico –
nell’immediatezza, plastica quanto brutale, con cui il tutto-vero seppe
trasformarsi nel tutto-falso – Adorno riconobbe in anticipo le prime
mosse di un processo di mutazione antropologica, grazie al
quale la sua Wissenschaft e le sue interlocuzioni arrischianti
sarebbero state sempre più tristi, sempre più impossibili.
Forse addirittura ipotizzava che, al
termine del processo, il vero sarebbe stato «un momento del falso»[4].
Questione morale? Dialogo? Democrazia?
Libertà? Piacere? Felicità?
La ‘società totale’ disegnata dal
filosofo francofortese è oltremodo efficiente nel garantirne ai suoi
clienti delle forme più o meno credibili. Essa, come l’industria
culturale che ne è un organon fondamentale ed una sempre più
efficace metonimia,
pretende ipocritamente
di regolarsi sui consumatori e di fornire loro ciò che desiderano. Ma
mentre si studia di respingere ogni idea di autonomia ed erige a giudici
le sue vittime, la sua autarchia e sovranità effettiva – che essa cerca
invano di nascondere – supera tutti gli eccessi dell’arte più
«autonoma». L’industria culturale, anziché adattarsi alle reazioni dei
clienti, le crea o le inventa. […] Modellata sulla regressione mimetica,
sulla manipolazione degli istinti mimetici repressi, essa si serve del
metodo di anticipare la propria imitazione da parte dello spettatore e
di far apparire come già esistente l’intesa che mira a creare. E ci
riesce tanto meglio in quanto – in un sistema stabile – può
effettivamente contare su quell’intesa: intesa che, perciò, non si
tratta tanto di produrre, quanto di ripetere ritualmente. Il suo
prodotto non è uno stimolo, ma un modello per reazioni a stimoli
inesistenti[5].
Gli appagati figli legittimi del loro
tempo, coloro che con alterne fortune ma con inveterata riverenza
s’accontentano di questa fruttuosa e connivente intesa, non sono dunque
i tristi destinatari di queste pagine.
Gli offesi infatti, i legittimi
destinatari che stiamo cercando, reagiscono tanto più scetticamente agli
stimoli quanto più sentono che la violenza si maschera da carezza: essi
sembrano diffidare di ogni sedicente livello d’interlocuzione e d’ogni
pungolo, proprio perché è sull’effettività stessa dell’interlocuzione
etica che hanno troppi e troppo radicati dubbi. Il tutto-falso è lo
spettro che s’aggira per la loro anima.
«Non si dà vera vita nella falsa».
Questo, come molti altri rilievi critici
adorniani, collocherebbe la sua prospettiva in una linea di sostanziale
continuità, anzi, in una posizione di fondamento rispetto alle
successive riflessioni attorno alla natura spettacolare e virtuale,
fantasmagorica quanto sottilmente e veneficamente ergonomica della
nostra civiltà, da Debord a Debray, passando per Baudrillard, Foucault e
Bataille… ma la vita offesa è nostalgica, è romantica, è oggetto (e
soggetto!) dell’«ultimo classico tedesco», e così le eventuali risposte,
resistenze o reazioni a queste tendenze le sembrano ancora risiedere nel
considerare essenziale «proprio ciò che sparisce»[6]...
nello specifico il soggetto, il suo pensiero dialettico, la parola,
l’amore.
2. Das beschädigten Leben. Il problema di un’anima ingombrante
Il ritratto di «vita offesa» delineato
da Adorno è forse l’ultima figura possibile della nevrosi borghese, ma
useremo questa definizione solo come distratto e colorito riferimento
cronologico.
Capirne oggi le istanze significa
riuscire a sincronizzarsi, ma soprattutto a sintonizzarsi con una
sintassi interiore che ci somiglia sempre di meno. Forse comprenderla è
già sintomo d’inattualità, confessione di distanza. Eppure «la distanza
non è una zona di sicurezza, ma un campo di tensione», e si sente ad
ogni aforisma.
Il pensiero che si vuole opporre alla
Unwesen capitalistica, quello che proprio non vuole riuscire a
riconoscersi nelle relazioni totalmente irrelate della nostra
epoca, è un pensiero che si oppone alla «paralisi del contatto», alla
reificazione falsificante degli oggetti, ma anche e soprattutto alla
reificazione dei soggetti, attraverso i soggetti, attraverso
«l’oggettività che è conservata (aufgehoben) solo presso di
essi».
Non vale far paura[7].
Come è stato scritto con notevole esattezza dal Ceppa nella sua lunga
introduzione alle ultime edizioni italiane dell’opera presso Einaudi,
«per Adorno è reazionaria ogni critica del soggetto che non muova dalla
decisione di volerlo salvare».
Si vive, in un certo
senso, ancora peggio, e cioè con una soggettività ancora più ridotta,
con un grado ancora minore di io, di quanto ci si aspetta di dover
vivere. Nello stesso tempo s’impara, eccedendo volontariamente e per
gioco nella rinuncia a se stessi, che vivere sul serio senza io potrebbe
riuscire, per il soggetto, non già più penoso ma, al contrario, più
facile e riposante[8].
Questo dettaglio analitico, che in virtù
delle più aggiornate linee di ricerca potremmo chiamare maliziosamente
nostalgia del soggetto, è cifra della straordinaria attualità, ma
anche dell’avvilente inattualità del pensiero di Adorno.
In un fiorire di riflessioni sulla
liquidità e la rarefazione di qualsiasi punto di riferimento residuale,
come di speculari tentativi di salvataggio in extremis di un
realismo tutto sommato ingenuo, le parole del «mandarino tedesco» ci
riportano senza estetizzanti e velleitarie acrobazie lessicali
all’asciutto rapporto dialettico di soggetti e oggetti, a volte
addirittura al contatto di anima e natura: una volta strette in un
idillio, progressivamente separate dalla lunga e variegata trafila delle
istituzioni e delle strutture repressive, e infine seccamente recise
dalla lama sottile e asettica della società di massa.
Ora, tornando al passo riportato
poc’anzi, e per approfondire il filo di questa lama, il problema non è
solo nella ‘tendenza sociale’ per cui l’io si svuota di se stesso: il
problema è nella facile accettazione di questo processo da parte dei
più, nell’esaltante sensazione di comfort che trasmette.
Il soggetto, reliquia storica che –
mutilata dall’appagamento – s’aggira per queste pagine, sembra essere
l’unico punto d’appoggio dal quale potrebbero svilupparsi possibili
pratiche di resistenza all’onnicomprensiva tendenza imposta dalla
‘società integrale’: e tuttavia lo scacco di queste pratiche risiede
proprio nel fatto che la percezione della necessità di questa resistenza
è completamente narcotizzata dai rinnovati ed efficientissimi sistemi
repressivi della società di massa, sistemi che, per l’appunto, coprono
sapientemente il loro inveterato volto coercitivo grazie alla salute
mortale[9],
alla grande abbondanza di piaceri, intrattenimenti e sensazioni
di potenza che sono in grado di garantire a tutti i loro clienti.
L’odierna malattia
consiste proprio nella normalità. (…) Nessuna analisi è ancora in grado
di penetrare fino all’inferno dove vengono impresse le deformazioni che
emergono più tardi alla luce come allegria, apertura, affabilità, felice
adattamento all’inevitabile e semplice e schietto senso pratico[10].
Nessuna analisi avrebbe interesse a
farlo, se non quella mossa dalla volontà forse romantica di proteggere
questa reliquia scomoda. Anche perché l’unico allineante interesse
dell’’analisi’, e qui è proprio della psicanalisi freudiana che si
tratta, è quello di
restituire agli uomini
la loro capacità di godere, turbata dalle nevrosi. Come se la semplice
espressione «capacità di godere» non bastasse a ridurre al minimo la
medesima, ammesso che esista. E come se una felicità che è il prodotto
di un calcolo non fosse il contrario della felicità, un’ulteriore
irruzione di condotta istituzionalmente pianificata nell’ambito sempre
più contratto dell’esperienza[11].
La capacità di gioire e godere
restituita agli uomini dall’aufgeklärte e democratica gestione
della società di massa, somiglia alle fedelissime ricostruzioni di
ambienti «con fossati e senza sbarre» che vengono fornite agli animali
nei giardini zoologici più all’avanguardia. Esse «negano tanto più
radicalmente la libertà della creatura, quanto più rendono invisibili le
barriere alla cui vista potrebbe accendersi il desiderio del libero
spazio»[12].
E tuttavia questo dominio ergonomico
è solo uno, forse il più palese degli inganni grazie ai quali la società
totale può ottenere la progressiva estinzione delle soggettività scomode
ed antieconomiche che la compongono. L’ascesi, ammesso che sia
possibile, non basta.
Gli ulteriori inganni, già insiti nell’Aufklärung,
insiti forse nella dialettica della modernità stessa, non potevano
infatti essere compresi e disvelati se non grazie ad una importante
precisazione di ordine metodologico: precisazione indispensabile
nell'indagare le ragioni per cui, nell'opera che stiamo sfogliando, si
può parlare di soppressione del soggetto e dell'individuo proprio in
virtù del loro potenziamento ad opera degli esaltanti spunti
ultra-individualistici che cominciavano a proporsi in quegli anni da
oltreoceano… I primi piani delle stars, gridanti dalle pellicole
di Hollywood.
Centrale nel pensiero di Adorno è
infatti l’opposizione di isolamento reificante e relazione dialettica,
opposizione che gli consentì di riconoscere il ruolo di entrambi gli
elementi in quasi tutti i fenomeni storici passati al setaccio.
Il pensiero dialettico, il pensiero
delle relazioni, è sostanzialmente quello che ha fatto propria la
metodologia logica di Hegel, ulteriormente perfezionata dai contributi
del materialismo storico di Marx ed Engels[13].
Dialettico è il pensiero che non può
considerare il soggetto come irrelato, come sciolto dal quadro dei
rapporti materiali di produzione che vive, e che quindi considera
l’individuo come «la forma riflessa del processo sociale»,
strutturalmente, come «il semplice agente della legge del valore», i cui
«atti particolari di adattamento e di conformazione» non sono che
«semplici epifenomeni».
Un pensiero che, in questo senso, non
può accontentarsi di un’idea immediata e non ulteriormente
specificata di soggetto o di individuo, ma che ha la necessità di calare
quest’idea nell’insieme delle mediazioni sociali e materiali che, al di
là del sostrato biologico, l’hanno necessariamente segnata nel suo
sviluppo.
Eppure chi scrive non è del tutto
convinto che il novissimum organum[14]
fornito dalla teoria critica, ovvero dalla scienza marxista e dai
suoi solerti epigoni, convincesse fino in fondo il pensatore dialettico
Adorno: specie in queste pagine, dove la musica dell’aforisma è a tratti
più importante del rigore scientifico, e dove, soprattutto, l’avere
ragione, «ultimo gesto avvocatesco del pensiero», è un lusso che
l’individuo filosofo, il pensatore dialettico, non può più concedersi.
La volontà di avere
ragione, fin nella sua forma logica più sottile, è espressione di quello
spirito di autoconservazione che la filosofia ha appunto il compito di
dissolvere. […] Quando i filosofi, a cui si sa che il silenzio riuscì
sempre difficile, si lasciano trascinare in una discussione, dovrebbero
parlare in modo da farsi dare sempre torto, ma – nello stesso tempo – da
convincere l’avversario della sua non-verità. Occorrerebbe avere
conoscenze che non siano di per sé assolutamente esatte, salde e
inoppugnabili – le conoscenze di questo tipo si risolvono
inevitabilmente in tautologie – ma tali che, di fronte ad esse, la
questione dell’esattezza si giudichi da sé. Con questo non si tende
all’irrazionalismo, alla proclamazione di tesi arbitrarie, giustificate
dalla fede in una rivelazione intuitiva, ma alla liquidazione della
differenza tra tesi e argomento. Pensare dialetticamente significa, da
questo punto di vista, che l’argomento deve acquistare la drasticità
della tesi e la tesi contenere in sé la pienezza delle sue ragioni[15].
La liquidazione auspicata in questo
passo delinea un metodo di pensiero e d’espressione nel quale, per
quanto riguarda l’argomento, bisogna rinunciare al – troppo spesso
piacevole – smarrimento nei suoi estetismi epifenomenici; ma implica
anche la fine di ogni tesi dalla sintassi semplice, inutilmente
complicata e così occultata (in teoria) dai decori menzogneri della
cultura borghese. La pena è la tautologia, nel più eufemistico dei casi.
La struttura che non sa restituire
l’epifenomeno nella sua complessità è come la tesi che non contiene in
sé la «pienezza delle sue ragioni» e il filosofo dialettico, nel 1946 ma
soprattutto nel 2013, non può più assolutamente accontentarsi di mirare
ad essa. La pienezza è complessità.
D’altra parte, come è scritto a riguardo
nel cruciale aforisma ventiduesimo, Il bagno col bambino dentro,
«di fronte alla menzogna del mondo delle merci diventa un correttivo la
menzogna che la denuncia».
A mio avviso, un correttivo sempre più
necessario ad un pensatore dialettico degno di questo nome.
«Solo la menzogna assoluta ha ancora la
possibilità e la libertà di dire in qualche modo la verità»[16].
Per tornare brevemente alla questione in
esame, il potenziamento del soggetto, l’assolutizzazione dell’individuo
e la soppressione di entrambi – sono lo stesso fenomeno.
«La condanna a morte del soggetto è
inclusa nella vittoria universale della ragione soggettiva», vittoria di
Pirro e di Pinocchio, in cui un soggetto in estasi narcisistica viene
condotto nel paese dei balocchi illudendosi che l’abbiano disegnato
proprio per lui.
Ma dove il pensiero reificante vede
potenziamento, o addirittura conquista – addirittura emancipazione – il
pensiero dialettico vede quasi sempre eutanasia, morte lenta.
Non è il minor merito
della Griechische Kulturgeschichte di Jakob Burckhardt, quello di
far coincidere la desolazione dell’individualità ellenistica non solo
con la decadenza oggettiva della polis, ma proprio col culto
dell’individuo. (...) Lo stato di cose in cui l’individuo sparisce, è
insieme quello dell’individualismo scatenato, in cui «tutto è
possibile»: «ora si celebrano individui al posto degli dei»[17].
La fine delle pòleis fu proprio
il sorgere dell’individuo irrelato, il sorgere della monade par
excellence, e non è affatto un caso che, per delinearlo, siano stati
scelti proprio l’esempio dell’Ellenismo e (mi sarà concessa la
provocazione) la penna borghese, tutto sommato “anti-dialettica”, del
Burckhardt.
L’Ellenismo di oggi ha confini più ampi,
e forse il confine essenziale nella sua straordinaria assenza di
confini, ma i suoi meccanismi sono rimasti uguali a se stessi.
3. Tecnica e sintassi. Semplificazione e semplicità. Comunicazione e
espressione
Altro trauma rilevante della «vita
offesa» è la tecnica.
L’apparato tecnico totale – quello che
a partire dagli standards imposti dall’epoca dei fascismi
ha sincronizzato irreversibilmente ogni tipo di produzione ai
totalizzanti tempi da stato d’eccezione dell’industria bellica,
adeguando così ogni agire umano alla brutale esattezza delle sue istanze
e dei suoi rimi – è forse il principale responsabile della mutilazione
della vita.
La tecnicizzazione –
almeno per ora – rende le mosse brutali e precise, e così anche gli
uomini. Elimina dai gesti ogni esitazione, ogni prudenza, ogni garbo. Li
sottopone alle esigenze spietate, vorrei dire astoriche, delle cose. […]
Nei movimenti che le macchine esigono da coloro che le adoperano c’è già
tutta la violenza, la brutalità, la continuità a scatti dei misfatti
fascisti. Tra le cause del deperimento dell’esperienza c’è, non ultimo,
il fatto che le cose, sottoposte alla legge della loro pura
funzionalità, assumono una forma che riduce il contatto con esse alla
pura manipolazione, senza tollerare quel surplus – sia in libertà
del contegno che in indipendenza della cosa – che sopravvive come
nocciolo dell’esperienza perché non è consumato dall’istante dell’azione[18].
La visione adorniana della tecnica è in
effetti pregna dell’inscindibile nesso di tecnica e sfruttamento
economico delle classi dominate, ma anche in questo caso la prospettiva
organica di classe non ci restituisce la profondità con cui il
francofortese seppe interrogarsi sulle implicazioni annichilenti
dell’ipertrofia tecnica.
Persone e cose, di certo sottoposte in
primo luogo all’onnicomprensiva legge del libero scambio e dei suoi
ritmi, vengono così inquadrate soprattutto grazie all’ulteriore
sussunzione di esse nella legge della «pura funzionalità»: proprio
quella dittatura positivistica dell’utile e dell’accessibile, del
comodo, che avvicina certi risvolti del pensiero di Adorno a quella
che lui stesso amava canzonare come «critica reazionaria della civiltà».
Gli ordinamenti pratici
della vita, che pretendono di giovare agli uomini, determinano,
nell’economia del profitto, l’atrofia di tutto ciò che è umano, e via
via che si estendono eliminano sempre più ogni delicatezza. Poiché la
delicatezza tra gli uomini non è che la coscienza della possibilità di
rapporti liberi da ogni scopo, che sfiora tuttora – consolante – gli
uomini avvinti dagli scopi. […] Paradossalmente, l’estraniazione si
manifesta negli uomini come caduta delle distanze. Poiché solo in quanto
non sono sempre a ridosso gli uni degli altri nel ritmo di dare e di
prendere, discussione ed esecuzione, direzione e funzione, resta
sufficiente spazio tra di loro per il tessuto sottile che li collega gli
uni agli altri e nella cui esteriorità soltanto si cristallizza
l’interiorità. Certi reazionari, come i seguaci di Jung, hanno osservato
questo fatto[19].
L’attenzione di Adorno al «tessuto
sottile» – al naturale (e culturale) nesso intersoggettivo che, prima
della forzata e meccanica caduta delle distanze, consentiva la
formazione di soggettività non atrofizzate – non si risolve però in un
pleonastico elogio del pleonasmo, in un irrelato placet futile.
La pratica di resistenza alla tendenza dell’apparato non può vivere nel
votarsi all’esclusività un po’ estetizzante della futilité in
quanto tale, nel cercare residui di delicatezza sempre nuovi (e alla
moda!) nella teorica (e illusoria) non scambiabilità di certi rapporti e
di certi oggetti, ma deve risiedere nella costante, militante
attenzione a ciò che, insieme a questo tessuto, scompare silenziosamente
dall’orizzonte dell’umano.
La questione
dell’individualità, nell’epoca della sua liquidazione, deve essere
impostata ex novo. Mentre l’individuo, come tutti i metodi
individualistici di produzione, è storicamente invecchiato e in
arretrato rispetto allo sviluppo della tecnica, esso rappresenta,
condannato com’è, la verità contro il vincitore[20].
La resistenza è lì, intus et in cute,
austeramente soggettiva, ed è propria di quel soggetto il cui
discernimento non riesce a farsi irretire dal mare magnum dei
falsi stimoli forniti dalla ‘società integrale’. Anche di quelli
apparentemente più liberi dai suoi meccanismi.
Anche ciò che nell’uomo differisce dalla
tecnica, infatti,
è incorporato come una
specie di lubrificazione della tecnica. Anche la differenziazione
psicologica, che, del resto, ha già avuto origine dalla divisione del
lavoro e dalla suddivisione dell’uomo nei settori del processo
produttivo e della libertà, ritorna, alla fine, al servizio della
produzione. […] Da tempo, non si tratta più soltanto dello smercio
del vivo. Sotto l’apriori della smerciabilità, il vivente in quanto
vivente si è trasformato in cosa, in equipaggiamento. L’io assume
consapevolmente al proprio servizio, come propria attrezzatura, l’uomo
intero. […] Quanto più immediatamente dà la sua risposta, e tanto più
profonda, in realtà, è l’azione anteriore della mediazione: nei riflessi
pronti e senza resistenza, il soggetto è completamente estinto[21].
Come già accennato, la via del
potenziamento – e dei correlati entusiasmi dionisiaci più o meno seriali
– non è quella adatta all’ipotetico ideale di soggettività resistente
che stiamo provando ad evincere da questi preziosi aforismi.
Adorno non credeva all’autenticità del
sangue, né alle redenzioni ferine provenienti dal Fronterlebnis.
Forse neppure più all’autenticità della pulsione. La sua soggettività
somiglia davvero poco ad un eroe da trincea e i miti irrazionalistici
del suo secolo e del precedente, quelli che pretendevano di liberare il
soggetto dagli irretimenti positivistici grazie alla lettura
semplicistica di qualche aforisma di Nietzsche, gli sembravano già
funzionalmente sussunti all’apparato industriale, anzi, ne erano un
notevole mezzo di seduzione. Meglio la Reflexion, forse
addirittura l’ascesi.
Gli ideali ascetici
incarnano oggi un grado superiore di resistenza alla follia
dell’economia di profitto che non la rivolta vitalistica di sessant’anni
fa contro la repressione liberale. Oggi l’amoralista potrebbe finalmente
concedersi di essere altrettanto buono, gentile, aperto e altruista come
già Nietzsche allora[22].
In questo senso, quando si parla di
resistenza si parla già d’intelligenza e, quando si parla di essa, del
rarissimo wishful thinking[23],
si parla ancora della fondamentale dicotomia di Vernunft e
Rationalität, vigilmente rivisitata dalla straordinaria capacità
ermeneutica di Adorno. Il testo stesso, infatti, insiste a più
riprese nello stabilire una distinzione tra un pensiero rational,
freddo e allineato dinamicamente ai diktate meccanici degli scopi
e dei valori di scambio, ed uno vernünftig, il cui scopo è quello
di «cercare – nell’opposizione di sentimento ed intelletto – la loro
unità: che è appunto l’unità morale».
Il vantaggio immediato,
personale, da realizzare di volta in volta nell’atto di scambio, ciò che
è più soggettivo e limitato, vieta l’espressione soggettiva. La
convertibilità, l’apriori della produzione indirizzata coerentemente al
mercato, non lascia più nemmeno affiorare il bisogno spontaneo
dell’espressione, della cosa stessa[24].
«L’intelligenza è una categoria morale»
e la sua questione morale è quella dell’espressione.
La morale non è una questione di sangue,
né una questione materiale. È una questione espressiva ed erotica, una questione di
sintassi.
In questo senso, deperimento
dell’esperienza e semplificazione dell’espressione sono colti
dall’intelligenza dialettica come un fenomeno unitario: in quest’ultimo,
la «continuità a scatti dei misfatti fascisti» (sic!) e l’applicazione
della sua logica semplicistica al tessuto sottile e complesso che lega
gli uomini tra loro delineano i tratti fondamentali di un’umanità muta,
un’umanità che non potrà più esimersi da una lunga, sempre più visibile,
trafila di orrori.
Oggi il collegamento
più breve fra due persone è, come tra due punti, la retta. […] La parola
diretta che, senza dilungarsi, senza esitare, senza riflessione, ti dice
in faccia come stanno le cose, ha già la forma e il tono del comando
che, sotto il fascismo, i muti trasmettono ai muti. La semplicità e
oggettività dei rapporti, che elimina ogni orpello ideologico tra gli
uomini, è già diventata un’ideologia in funzione della prassi di
trattare gli uomini come cose[25].
La tendenza storico-culturale che Adorno
intuisce e delinea in queste pesanti pagine, quella della
semplificazione coatta di ogni sfumatura, di ogni deviazione espressiva
non fungibile, non funzionale, troverà il suo probabile apice
nell’odierno meccanismo informatico dei links[26].
Permeando ineludibilmente le nostre
relazioni di ogni tipo, ci costringe a sentire come antieconomica ed
inutilmente arrischiante ogni attitudine ad essa non conforme.
Il risultato, già alla sua epoca, era
ben immaginabile per chiunque avesse gli occhi per vedere: Rückfall,
omologazione, isolamento, fascismo.
Questo tipo di
reazione, che è lo schema di ogni amministrazione e «politica del
personale», tende già di per sé, prima ancora della formazione di una
volontà politica precisa e dell’adesione a una formula rigida e
esclusiva, al fascismo. Chi si assume il compito di valutare le
qualifiche professionali, vede gli esaminati, quasi per necessità
tecnologica, come adatti o inadatti, conformi o difformi, complici o
vittime. […]
È un tratto essenziale
del dominio, respingere nel campo avversario, in nome della semplice
differenza, chiunque non s’identifica con esso: non per niente
cattolicesimo è il termine greco per il latino totalità, realizzato dai
nazisti. Essa significa l’equiparazione del diverso (che si tratti della
«derivazione» o dell’«altra razza») con l’avversario. […] Il progresso
che conduce a questa coscienza fa propria la regressione alla condotta
del bambino, che vuol bene o ha paura. La riduzione a priori al rapporto
amico-nemico è uno degli aspetti fondamentali della nuova antropologia.
La libertà non sta nello scegliere tra nero e bianco, ma nel sottrarsi a
questa scelta prescritta[27].
La semplificazione è fascismo. Ne
sarà sempre l’espressione fondamentale. Essa è il tentativo di
svincolare il sorgere della semplicità dall’amorevole lavorìo della
complessità che l’ha generato, di imporlo, e così di reciderne
brutalmente le problematiche radici.
In questo modo, ogni relazione si svuota
del suo significato emotivo ed etico appena si trasforma in legame
debole, in pragmatica relation[28],
mentre, attraverso lo stesso processo, ogni parola differente,
ogni espressività distante dai canoni comunicativi delle suddette
relations, appare come un residuo fastidioso e reazionario[29]
di una civiltà evolutivamente inferiore, obliata da una storia in
giubilante accelerazione.
Definitivo a riguardo l’aforisma
Morale e stile, in cui si tratta d’un problema che sembra essere
uscito fatalmente dall’«officina appartata» dello scrittore per
riversarsi nei gangli più intimamente politici della nostra
civiltà.
Lo scrittore farà
l’esperienza che, se si esprime con precisione, con scrupolo, in termini
oggettivamente adeguati, quello che scrive passerà per difficilmente
comprensibile, mentre se si concede una formulazione stracca e
irresponsabile, sarà ripagato con una certa comprensione. […] La
sciatteria di chi nuota secondo la corrente familiare del discorso passa
per un segno di affinità e di contatto: si sa quel che si vuole perché
si sa quel che l’altro vuole. Tener d’occhio nell’espressione, la cosa,
anziché la comunicazione, è sospetto: lo specifico, ciò che non è tolto
a prestito dallo schematismo, appare irriguardoso, quasi sintomo di
astruseria e confusione. […] L’espressione generica consente
all’ascoltatore di intendere a un dipresso quel che preferisce e che
pensa già per conto suo. L’espressione rigorosa strappa un’accezione
univoca, impone lo sforzo del concetto, a cui gli uomini vengono
espressamente disabituati. […] Solo ciò che non ha bisogno di essere
compreso passa per comprensibile; solo ciò che, in realtà, è estraniato,
la parola segnata dal commercio, li colpisce come familiare. Nulla
contribuisce altrettanto alla demoralizzazione degli intellettuali. Chi
vuole sottrarsi a questa demoralizzazione deve respingere ogni consiglio
e tener conto della comunicazione, come un tradimento all’oggetto della
comunicazione[30].
4. Fare l’amore è un atto rivoluzionario. Placet experiri
«La morte» – scriverà un’altra vitalità
disperata e dimenticata – «non è nel non poter comunicare, ma nel non
poter più essere compresi».
La comunicazione inquadrata come «un
tradimento all’oggetto della comunicazione» non è più solo la
rivisitazione nostalgica di suggestioni luterane da parte di uno
scandalizzato professore tedesco del secolo scorso.
L’odierno culto compulsivo dell’alta
definizione – della linea che sempre più retta, esatta e puntuale
deve collegarci e farci comunicare col mondo – quello che Baudrillard
(pensatore dialettico!) chiama «de-realizzazione del reale grazie
all’iperreale», è solo uno dei tanti segnali grazie ai quali dovremmo
finalmente capire che
siamo in una trappola:
il conformismo è operato a priori dall’atto di significare in sé,
indipendentemente dal significato concreto, mentre, d’altra parte, solo
lo sforzo di significare potrebbe scuotere il conformismo, la rispettosa
ripetizione del fatto. Vere intenzioni sarebbero rese possibili solo
dalla rinuncia all’intenzione. Che intenzione e realismo siano
inconciliabili, e che la sintesi sia diventata menzogna, è implicito nel
concetto di chiarezza e di univocità. Il concetto di univocità è
equivoco, in quanto si riferisce contemporaneamente e simultaneamente
all’organizzazione della cosa in se stessa e alla sua trasmissione al
pubblico. Ma questa ambiguità è tutt’altro che casuale. La chiarezza
indica il punto di indifferenza di ragione obbiettiva e comunicazione[31].
Il punto esatto in cui l’arbitrio del
potere assume il controllo irreversibile di ogni intenzione, poiché ogni
intenzione è già strutturalmente allineata al suo realismo, e così
mutilata ab origine del suo Streben più autentico, lo
«sforzo di significare».
Spunti interessanti a riguardo vengono
proprio da Baudrillard il quale, come è scritto con eleganza in un
recente articolo a riguardo di Andrea Cortellessa, «contrappone il
valore lo-fi dell’illusione all’iperreale mediatico quotidiano».
In Minima Moralia, l’illusione
lo-fi par excellence è certamente l’amore.
«Sempre sciocco, ingannato, soverchiato,
– così, sempre, dev’essere l’amore»[32].
Anche Adorno aveva un Hölderlin. Anche
Adorno aveva un’illusione, nonostante il suo sguardo dialettico sapesse
benissimo che
il rapporto di scambio,
a cui l’amore ha tenuto testa – almeno in parte – durante l’età
borghese, ha finito per assorbirlo completamente; l’ultima immediatezza
è sacrificata alla distanza reciproca di tutti i contraenti. L’amore è
paralizzato dal valore che l’io attribuisce a se stesso. Il suo amore
gli appare come un «amare in più», e chi ama in più si mette dalla parte
del torto. Egli si rende sospetto all’amata e, respinto su se stesso, la
sua inclinazione degenera in crudeltà possessiva e fantasia
autodistruttiva. […] Il dissolvimento oggettivo della società si rivela
soggettivamente nell’indebolimento dell’impulso erotico, che non è più
in grado di saldare tra loro le monadi intese solo a conservare se
stesse, come se l’umanità imitasse la teoria fisica dell’universo in
esplosione. Alla fredda inaccessibilità dell’essere amato, che è ormai
un’istituzione riconosciuta della cultura di massa, corrisponde il
«desiderio insaziabile» dell’amante[33].
Anche qui gelida razionalità dunque,
calcolo dei valori di scambio e al limite sterile ripetizione di tipi,
messi con gran vantaggio a disposizione dal libro di figure senza
figure[34] dell’industria culturale.
Eppure l’amore, questo «sciocco e
ingannato» tendere al particolare e allo specifico in un mondo che può
darti l’ebbrezza dell’universale con un clic, potrebbe nascondere
in sé un’importantissima anomalia di sistema, anomalia che se non
garantirà il risolutivo rovesciamento degli inveterati e sempre più
annichilenti rapporti di produzione imposti dal capitale, quantomeno
potrebbe garantire un po’ di calore alle offese vite che, per privilegio
d’anagrafe, sono costrette a viverli.
Ma c’è qualcosa di più:
lo specifico non è
esclusivo, in quanto gli manca la tendenza alla totalità. Ma è esclusivo
in un altro senso: in quanto, pur senza vietarla, rende impossibile – in
forza del suo stesso concetto – la sostituzione dell’esperienza
indissolubilmente riferita ad esso. Il totalmente determinato ha la sua
garanzia nel non poter essere ripetuto, e appunto per questo tollera
l’altro accanto a sé[35].
Eros potrebbe salvare l’esperienza. Da
sempre il dialogo dei dialoghi, potrebbe essere oggi il solo vero
dialogo, la sola autentica interlocuzione possibile, e dunque la
sola prassi di resistenza plausibile per chi, volendo salvare
l’insostituibilità dell’esperienza dalle sue infinite rappresentazioni,
non può che dedicarsi alla severa esperienza dell’insostituibile... al
duro insegnamento della Costanza[36].
La società borghese
insiste sempre e dovunque sullo sforzo della volontà; solo l’amore
dev’essere involontario, pura immediatezza del sentimento. […]
Ma l’involontarietà
dell’amore, anche dove non è predeterminata dalla prassi, contribuisce a
consolidare quel tutto non appena si stabilisce come principio. Se
l’amore deve rappresentare, entro la società, una società migliore, non
la rappresenta come oasi pacifica, ma come resistenza consapevole. Ma la
resistenza esige proprio quel momento di arbitrio che i borghesi, per
cui l’amore non sarà mai abbastanza naturale, gli vietano rigorosamente.
Amare significa saper impedire che l’immediatezza sia soffocata
dall’onnipresente pressione della mediazione, dall’economia, e in questa
fedeltà l’amore si media in se stesso, accanita contropressione. Non ama
se non chi ha la forza di tener fermo all’amore. Al privilegio sociale
sublimato, che predetermina la stessa formazione degli impulsi, e -
attraverso mille sfumature di ciò che è approvato dall’ordine - fa
apparire spontaneamente attraente ora questo ed ora quell’altro, si
oppone l’inclinazione in quanto dura e resiste, mentre il meccanismo
della forza di gravità sociale (prima di ogni intrigo, che è poi
regolarmente assunto al suo servizio) fa di tutto per impedirlo. Il
sentimento, supera la prova decisiva quando supera se stesso nella
durata, e sia pure come ossessione. Ma colei che sotto l’apparenza della
spontaneità irriflessa, e fiera della sua presunta sincerità, si
abbandona interamente a quella che ritiene essere la voce del cuore, e
fugge non appena crede di non avvertire più quella voce, è – proprio
in quella sovrana indipendenza – lo strumento della società.
Passivamente, senza saperlo, registra i numeri che escono via via alla
roulette degli interessi. Mentre tradisce l’amato, tradisce se stessa.
L’ordine della fedeltà, che la società impartisce, è strumento
d’illibertà, ma è solo nella fedeltà che la libertà si ribella
all’ordine della società[37].
Placet experiri,
consigliava un Settembrini infervorato al giovane Hans Castorp nella
Montagna incantata e, in effetti, la vicinanza di Adorno alla parte
migliore di Thomas Mann[38]
sembra riecheggiare in moltissimi motivi di questo fitto zibaldone
aforistico dell’immediato dopo guerra. In esso, un concetto pulito e
dignitoso di individualità – seppur minato nella sostanza dai processi
sociali e materiali che lo trasformano, spesso immediatamente, in mero
individualismo – sembra essere l’unico punto di partenza possibile per
restituire all’esperienza il suo carattere formativo, necessaria e
naturale antitesi di quel processo che vorrebbe invece coartarla
nell’innocuo e reificante involucro dell’evento seriale, tecnicamente
riproducibile infinite volte per le infinite soggettività monche che ha
intenzione di sorvegliare.
Per il resto,
a chi teme di restare,
nonostante tutto, dietro lo spirito del tempo, e di venire gettato
nell’immondezzaio della soggettività scartata e fuori uso, bisogna
ricordare che ciò che è attuale, aggiornato e sulla cresta dell’onda e
ciò che è progredito e avanzato nella sostanza non sono più, ormai, la
stessa cosa. In un ordinamento che liquida il moderno come arretrato, è
proprio a questo arretrato, una volta che è stato colpito dal verdetto
di condanna, che può toccare in sorte la verità su cui il processo
storico passa rombando.
Poiché non si può
esprimere altra verità che quella che il soggetto è in grado di colmare
e di adempiere, l’anacronismo diventa il rifugio della modernità[39].
DICEMBRE 2012
[1]
L’espressione traurige Wissenschaft (letteralmente:
triste scienza) è tratta dall’incipit originale della lunga
dedica a Max Horkheimer posta da Adorno in apertura dell’opera.
[2]
Già nelle sue primissime traduzioni dell’opera, Renato Solmi
scelse di tradurre con questo termine l’ostico e articolato
significato del beschädigten Leben adorniano.
[3]
Si veda a riguardo
almeno il dirimente, incendiario aforisma 99, Pietra di
paragone.
[4]
Chiaramente, il riferimento è al nono aforisma de La società
dello spettacolo di Guy Debord: «Nel mondo realmente
rovesciato, il vero è un momento del falso» (G. Debord,
La società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai, Milano
2006, p.55).
[5]
T. Adorno, Minima moralia, Einaudi, Milano 2005, pp. 241,
242.
[6]
L’espressione si trova nella già citata dedica iniziale a Max
Horkheimer.
[7]
Adorno, cit., titolo
dell’aforisma 43.
[8]
Adorno, cit., pp.162,
163.
[9]
Adorno, cit., titolo
dell’aforisma 36.
[10]
Adorno, cit., p. 59.
[11]
Ibidem, p. 63.
[12]
Ibidem, p. 132.
[13]
«I motivi dell’autocritica borghese intransigente coincidono
così con quelli della critica materialistica, che li rende
espliciti e consapevoli di sé». Adorno,
cit., p. 105.
[14]
Adorno, cit., titolo
dell’aforisma 147.
[15]
Adorno, cit, pp. 73, 74.
[16]
Ibidem, p. 123.
[17]
Ibidem, pp. 175, 176.
[18]
Ibidem, pp. 35, 36.
[19]
Ibidem, pp. 36, 37.
[20] Ibidem,, p.150.
[21]
Ibidem, pp. 280, 281.
[22]
Ibidem, p. 107.
[23]
Adorno, cit., titolo
dell’aforisma 127.
[24]
Adorno, cit., p. 235.
[25]
Ibidem, pp. 37, 38.
[26]
Potremmo dire che la razionalità binaria e dicotomica dei
sistemi informatici – la ratio della «necessità
tecnologica» – è, hegelianamente, l’in sé e per sé
della razionalità del capitalismo industriale.
[27]
Adorno, cit, pp. 152, 153.
[28]
«Presto non c’è più un rapporto che non miri ad altri rapporti,
nessun impulso che non sia stato sottoposto a una censura
preventiva, per vedere che non si scosti dal canone di ciò che è
gradito. Il concetto di relations, una categoria di
mediazione e circolazione, non si è mai dispiegato pienamente
nella sfera della circolazione vera e propria, sul mercato, ma
in gerarchie chiuse, di tipo monopolistico. Ora che l’intera
società diventa gerarchica, le torbide relazioni si introducono
e si stabiliscono anche là dove c’era ancora l’apparenza della
libertà. […] Il loro individualismo in ritardo avvelena quel
poco che resta dell’individuo». Adorno,
cit., pp. 13-15.
[29]
«I procedimenti di riproduzione meccanizzati si sono sviluppati
indipendentemente da ciò che si tratta di riprodurre e hanno
finito per rendersi completamente autonomi. Essi sono
considerati progressivi, e tutto ciò che non si serve di essi
passa per reazionario o provinciale». Adorno,
cit., p. 136.
[30]
Ibidem, pp. 112, 113.
[31]
Ibidem, pp. 167, 168.
[32]
I versi compaiono nell’ode hölderliniana intitolata Tränen,
ma ne riportiamo la trascrizione presente in T. Adorno, cit.,
p. 194.
[33]
Ibidem, pp. 197-199.
[34]
Adorno, cit., titolo
dell’aforisma 92.
[35]
Adorno, cit., , p. 85.
[36]
Adorno, cit., titolo
dell’aforisma 110, trascritto quasi interamente a seguire.
[37]
Adorno, cit., pp. 202, 203.
[38]
Vicinanza dovuta anche all’effettivo contatto dei due proprio
negli anni quaranta, durante i quali Mann attinse abbondante
materiale per il suo Doktor Faustus dagli studi di Adorno
sulla musica dodecafonica.
[39]
Adorno, cit., p. 268.