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09
Gennaio 2013

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Esperienza e rappresentazione

PLACET EXPERIRI

Un’altra sfogliata (riccia) a "Minima moralia"

NerioJamil Palumbo

Senza sintassi non esiste emozione duratura.

L’immortalità è una funzione dei grammatici.

(B. Soares, Il Libro dell’inquietudine)

 

1. La «triste scienza» oggi. Tra etica minima e etiche minimal

In tutti i livelli d’interlocuzione accessibili dell’Occidente, per quanto essi amino ammantarsi d’una sardonica e disillusa aura di nichilismo più o meno consapevole, più o meno ergonomico, torna ostinato a ripresentarsi il problema di un’etica minima, d’una traurige Wissenschaft[1] cui affidare il triste ricordo d’una vita non ancora violentata, non ancora offesa[2] dai meccanismi di funzionamento che consentono il trionfale e criminale perpetuarsi d’una società umana inadatta all’umano.

Ricordo, triste e prezioso ricordo poiché la vita vera – che, è bene dirlo subito, somiglia molto poco in queste pagine alla ieratica Eigentlichkeit di Heidegger[3]– è sempre più, a quasi settant’anni dall’uscita delle belle Reflexionen adorniane, un semplice ricordo, una nostalgia.

Il suo ritratto, opaco e difficile da isolare tra le mille pieghe sonore degli aforismi, si sforza di significare la possibilità di una vita non privata di ogni autentico spazio di relazione, di ogni espressività e di ogni amore dalle mille mutilazioni silenziose della ‘società integrale’, e dà oggi la sensazione di un’esigenza mimetica lontanissima e quanto mai inattuale, di una petitio moralistica di principi che sembrano essere sempre più distanti, con gli anni, dal nostro liquido e leggero modo di sentire.

Eppure, a quanto pare, quello dell’etica è un pungolo che continua a sopravvivere negli interstizi della nostra fretta, a ripresentarsi nei rari momenti in cui un dolore o un entusiasmo ci distraggono dalla nostra guerra fredda, totale e perenne.

Dobbiamo chiarire immediatamente che i livelli d’interlocuzione sono diversi, e che dunque alterno ed estremamente eterogeneo è il livello di veridicità e di cogenza di questo pungolo.

Eppur si muove, eppur si ripresenta: nell’unto sentimentalismo dei cattolici più o meno latenti, nell’ipocrisia delle ormai vexatae “questioni morali” della politica, nelle oziose diatribe dei maîtres di bioetica, ma anche nelle poche righe commosse del blog di un ragazzino deluso, questa «triste scienza», questo sapere impossibile ed inattuale riesce ancora a stuzzicare parti rilevanti della World Wide Republic dei connessi, dei comunicanti, mettendo spesso serissime ipoteche sul futuro dell’asettico funzionamento di quest’ultima.

Tuttavia, chi cerca in Minima moralia qualche suggerimento per la risoluzione (o rivoluzione!) pratica dei suoi piccoli problemi di pungolo – chi cerca tutto sommato un’etica minimal nell’etica minima – farà bene a rivolgersi agli agili opuscoli in edizione tascabile messi a disposizione in gran copia dall’industria culturale, agli eroismi assortiti dei movies (ormai fruibili anche in streaming dalla propria casella d’isolamento attrezzata), o al limite a qualche ormai reperibilissimo esotismo d’accatto, mistico o ascetico che sia. Non è di ciò che si parla. Il livello d’interlocuzione, ammesso che esso possa esistere, non è in questa meticolosa, ellenistica cura del proprio solipsismo.

Molto prima dell’avvento della virtualità globale e dei suoi disincanti, Adorno seppe riconoscere la totalità irrelata ed onnicomprensiva che strutturava il capitalismo planetario, disvelandone la potenziale capacità di recidere senza sbavature un’interlocuzione etica degna di questo nome. Lui stesso sapeva e scrisse a chiare lettere che «oggi i più recalcitrano col pungolo», e che dunque il pungolo e l’interlocuzione che i più vivono non toccano quasi mai il nocciolo etico della discussione. Non ne hanno bisogno né voglia, né disposizione né tendenza.

Nella facilità con cui la dolce Kultur tedesca si genuflesse alla muscolarità sensazionalista del fascismo, nella serena e narcotizzata docilità con cui il pensiero si consegnò alle scadenze astratte ma concretissime dell’apparato tecnico – nell’immediatezza, plastica quanto brutale, con cui il tutto-vero seppe trasformarsi nel tutto-falso – Adorno riconobbe in anticipo le prime mosse di un processo di mutazione antropologica, grazie al quale la sua Wissenschaft e le sue interlocuzioni arrischianti sarebbero state sempre più tristi, sempre più impossibili.

Forse addirittura ipotizzava che, al termine del processo, il vero sarebbe stato «un momento del falso»[4].

Questione morale? Dialogo? Democrazia? Libertà? Piacere? Felicità?

La ‘società totale’ disegnata dal filosofo francofortese è oltremodo efficiente nel garantirne ai suoi clienti delle forme più o meno credibili. Essa, come l’industria culturale che ne è un organon fondamentale ed una sempre più efficace metonimia,

 

pretende ipocritamente di regolarsi sui consumatori e di fornire loro ciò che desiderano. Ma mentre si studia di respingere ogni idea di autonomia ed erige a giudici le sue vittime, la sua autarchia e sovranità effettiva – che essa cerca invano di nascondere – supera tutti gli eccessi dell’arte più «autonoma». L’industria culturale, anziché adattarsi alle reazioni dei clienti, le crea o le inventa. […] Modellata sulla regressione mimetica, sulla manipolazione degli istinti mimetici repressi, essa si serve del metodo di anticipare la propria imitazione da parte dello spettatore e di far apparire come già esistente l’intesa che mira a creare. E ci riesce tanto meglio in quanto – in un sistema stabile – può effettivamente contare su quell’intesa: intesa che, perciò, non si tratta tanto di produrre, quanto di ripetere ritualmente. Il suo prodotto non è uno stimolo, ma un modello per reazioni a stimoli inesistenti[5].

 

Gli appagati figli legittimi del loro tempo, coloro che con alterne fortune ma con inveterata riverenza s’accontentano di questa fruttuosa e connivente intesa, non sono dunque i tristi destinatari di queste pagine.

Gli offesi infatti, i legittimi destinatari che stiamo cercando, reagiscono tanto più scetticamente agli stimoli quanto più sentono che la violenza si maschera da carezza: essi sembrano diffidare di ogni sedicente livello d’interlocuzione e d’ogni pungolo, proprio perché è sull’effettività stessa dell’interlocuzione etica che hanno troppi e troppo radicati dubbi. Il tutto-falso è lo spettro che s’aggira per la loro anima.

«Non si dà vera vita nella falsa».

Questo, come molti altri rilievi critici adorniani, collocherebbe la sua prospettiva in una linea di sostanziale continuità, anzi, in una posizione di fondamento rispetto alle successive riflessioni attorno alla natura spettacolare e virtuale, fantasmagorica quanto sottilmente e veneficamente ergonomica della nostra civiltà, da Debord a Debray, passando per Baudrillard, Foucault e Bataille… ma la vita offesa è nostalgica, è romantica, è oggetto (e soggetto!) dell’«ultimo classico tedesco», e così le eventuali risposte, resistenze o reazioni a queste tendenze le sembrano ancora risiedere nel considerare essenziale «proprio ciò che sparisce»[6]... nello specifico il soggetto, il suo pensiero dialettico, la parola, l’amore.

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2. Das beschädigten Leben. Il problema di un’anima ingombrante

Il ritratto di «vita offesa» delineato da Adorno è forse l’ultima figura possibile della nevrosi borghese, ma useremo questa definizione solo come distratto e colorito riferimento cronologico.

Capirne oggi le istanze significa riuscire a sincronizzarsi, ma soprattutto a sintonizzarsi con una sintassi interiore che ci somiglia sempre di meno. Forse comprenderla è già sintomo d’inattualità, confessione di distanza. Eppure «la distanza non è una zona di sicurezza, ma un campo di tensione», e si sente ad ogni aforisma.

Il pensiero che si vuole opporre alla Unwesen capitalistica, quello che proprio non vuole riuscire a riconoscersi nelle relazioni totalmente irrelate della nostra epoca, è un pensiero che si oppone alla «paralisi del contatto», alla reificazione falsificante degli oggetti, ma anche e soprattutto alla reificazione dei soggetti, attraverso i soggetti, attraverso «l’oggettività che è conservata (aufgehoben) solo presso di essi».

Non vale far paura[7]. Come è stato scritto con notevole esattezza dal Ceppa nella sua lunga introduzione alle ultime edizioni italiane dell’opera presso Einaudi, «per Adorno è reazionaria ogni critica del soggetto che non muova dalla decisione di volerlo salvare».

 

Si vive, in un certo senso, ancora peggio, e cioè con una soggettività ancora più ridotta, con un grado ancora minore di io, di quanto ci si aspetta di dover vivere. Nello stesso tempo s’impara, eccedendo volontariamente e per gioco nella rinuncia a se stessi, che vivere sul serio senza io potrebbe riuscire, per il soggetto, non già più penoso ma, al contrario, più facile e riposante[8].

 

Questo dettaglio analitico, che in virtù delle più aggiornate linee di ricerca potremmo chiamare maliziosamente nostalgia del soggetto, è cifra della straordinaria attualità, ma anche dell’avvilente inattualità del pensiero di Adorno.

In un fiorire di riflessioni sulla liquidità e la rarefazione di qualsiasi punto di riferimento residuale, come di speculari tentativi di salvataggio in extremis di un realismo tutto sommato ingenuo, le parole del «mandarino tedesco» ci riportano senza estetizzanti e velleitarie acrobazie lessicali all’asciutto rapporto dialettico di soggetti e oggetti, a volte addirittura al contatto di anima e natura: una volta strette in un idillio, progressivamente separate dalla lunga e variegata trafila delle istituzioni e delle strutture repressive, e infine seccamente recise dalla lama sottile e asettica della società di massa.

Ora, tornando al passo riportato poc’anzi, e per approfondire il filo di questa lama, il problema non è solo nella ‘tendenza sociale’ per cui l’io si svuota di se stesso: il problema è nella facile accettazione di questo processo da parte dei più, nell’esaltante sensazione di comfort che trasmette.

Il soggetto, reliquia storica che – mutilata dall’appagamento – s’aggira per queste pagine, sembra essere l’unico punto d’appoggio dal quale potrebbero svilupparsi possibili pratiche di resistenza all’onnicomprensiva tendenza imposta dalla ‘società integrale’: e tuttavia lo scacco di queste pratiche risiede proprio nel fatto che la percezione della necessità di questa resistenza è completamente narcotizzata dai rinnovati ed efficientissimi sistemi repressivi della società di massa, sistemi che, per l’appunto, coprono sapientemente il loro inveterato volto coercitivo grazie alla salute mortale[9], alla grande abbondanza di piaceri, intrattenimenti e sensazioni di potenza che sono in grado di garantire a tutti i loro clienti.

 

L’odierna malattia consiste proprio nella normalità. (…) Nessuna analisi è ancora in grado di penetrare fino all’inferno dove vengono impresse le deformazioni che emergono più tardi alla luce come allegria, apertura, affabilità, felice adattamento all’inevitabile e semplice e schietto senso pratico[10].

 

Nessuna analisi avrebbe interesse a farlo, se non quella mossa dalla volontà forse romantica di proteggere questa reliquia scomoda. Anche perché l’unico allineante interesse dell’’analisi’, e qui è proprio della psicanalisi freudiana che si tratta, è quello di

 

restituire agli uomini la loro capacità di godere, turbata dalle nevrosi. Come se la semplice espressione «capacità di godere» non bastasse a ridurre al minimo la medesima, ammesso che esista. E come se una felicità che è il prodotto di un calcolo non fosse il contrario della felicità, un’ulteriore irruzione di condotta istituzionalmente pianificata nell’ambito sempre più contratto dell’esperienza[11].

 

La capacità di gioire e godere restituita agli uomini dall’aufgeklärte e democratica gestione della società di massa, somiglia alle fedelissime ricostruzioni di ambienti «con fossati e senza sbarre» che vengono fornite agli animali nei giardini zoologici più all’avanguardia. Esse «negano tanto più radicalmente la libertà della creatura, quanto più rendono invisibili le barriere alla cui vista potrebbe accendersi il desiderio del libero spazio»[12].

E tuttavia questo dominio ergonomico è solo uno, forse il più palese degli inganni grazie ai quali la società totale può ottenere la progressiva estinzione delle soggettività scomode ed antieconomiche che la compongono. L’ascesi, ammesso che sia possibile, non basta.

Gli ulteriori inganni, già insiti nell’Aufklärung, insiti forse nella dialettica della modernità stessa, non potevano infatti essere compresi e disvelati se non grazie ad una importante precisazione di ordine metodologico: precisazione indispensabile nell'indagare le ragioni per cui, nell'opera che stiamo sfogliando, si può parlare di soppressione del soggetto e dell'individuo proprio in virtù del loro potenziamento ad opera degli esaltanti spunti ultra-individualistici che cominciavano a proporsi in quegli anni da oltreoceano… I primi piani delle stars, gridanti dalle pellicole di Hollywood.

Centrale nel pensiero di Adorno è infatti l’opposizione di isolamento reificante e relazione dialettica, opposizione che gli consentì di riconoscere il ruolo di entrambi gli elementi in quasi tutti i fenomeni storici passati al setaccio.

Il pensiero dialettico, il pensiero delle relazioni, è sostanzialmente quello che ha fatto propria la metodologia logica di Hegel, ulteriormente perfezionata dai contributi del materialismo storico di Marx ed Engels[13].

Dialettico è il pensiero che non può considerare il soggetto come irrelato, come sciolto dal quadro dei rapporti materiali di produzione che vive, e che quindi considera l’individuo come «la forma riflessa del processo sociale», strutturalmente, come «il semplice agente della legge del valore», i cui «atti particolari di adattamento e di conformazione» non sono che «semplici epifenomeni».

Un pensiero che, in questo senso, non può accontentarsi di un’idea immediata e non ulteriormente specificata di soggetto o di individuo, ma che ha la necessità di calare quest’idea nell’insieme delle mediazioni sociali e materiali che, al di là del sostrato biologico, l’hanno necessariamente segnata nel suo sviluppo.

Eppure chi scrive non è del tutto convinto che il novissimum organum[14] fornito dalla teoria critica, ovvero dalla scienza marxista e dai suoi solerti epigoni, convincesse fino in fondo il pensatore dialettico Adorno: specie in queste pagine, dove la musica dell’aforisma è a tratti più importante del rigore scientifico, e dove, soprattutto, l’avere ragione, «ultimo gesto avvocatesco del pensiero», è un lusso che l’individuo filosofo, il pensatore dialettico, non può più concedersi.

 

La volontà di avere ragione, fin nella sua forma logica più sottile, è espressione di quello spirito di autoconservazione che la filosofia ha appunto il compito di dissolvere. […] Quando i filosofi, a cui si sa che il silenzio riuscì sempre difficile, si lasciano trascinare in una discussione, dovrebbero parlare in modo da farsi dare sempre torto, ma – nello stesso tempo – da convincere l’avversario della sua non-verità. Occorrerebbe avere conoscenze che non siano di per sé assolutamente esatte, salde e inoppugnabili – le conoscenze di questo tipo si risolvono inevitabilmente in tautologie – ma tali che, di fronte ad esse, la questione dell’esattezza si giudichi da sé. Con questo non si tende all’irrazionalismo, alla proclamazione di tesi arbitrarie, giustificate dalla fede in una rivelazione intuitiva, ma alla liquidazione della differenza tra tesi e argomento. Pensare dialetticamente significa, da questo punto di vista, che l’argomento deve acquistare la drasticità della tesi e la tesi contenere in sé la pienezza delle sue ragioni[15].

 

La liquidazione auspicata in questo passo delinea un metodo di pensiero e d’espressione nel quale, per quanto riguarda l’argomento, bisogna rinunciare al – troppo spesso piacevole – smarrimento nei suoi estetismi epifenomenici; ma implica anche la fine di ogni tesi dalla sintassi semplice, inutilmente complicata e così occultata (in teoria) dai decori menzogneri della cultura borghese. La pena è la tautologia, nel più eufemistico dei casi.

La struttura che non sa restituire l’epifenomeno nella sua complessità è come la tesi che non contiene in sé la «pienezza delle sue ragioni» e il filosofo dialettico, nel 1946 ma soprattutto nel 2013, non può più assolutamente accontentarsi di mirare ad essa. La pienezza è complessità.

D’altra parte, come è scritto a riguardo nel cruciale aforisma ventiduesimo, Il bagno col bambino dentro, «di fronte alla menzogna del mondo delle merci diventa un correttivo la menzogna che la denuncia».

A mio avviso, un correttivo sempre più necessario ad un pensatore dialettico degno di questo nome.

«Solo la menzogna assoluta ha ancora la possibilità e la libertà di dire in qualche modo la verità»[16].

Per tornare brevemente alla questione in esame, il potenziamento del soggetto, l’assolutizzazione dell’individuo e la soppressione di entrambi – sono lo stesso fenomeno.

«La condanna a morte del soggetto è inclusa nella vittoria universale della ragione soggettiva», vittoria di Pirro e di Pinocchio, in cui un soggetto in estasi narcisistica viene condotto nel paese dei balocchi illudendosi che l’abbiano disegnato proprio per lui.

Ma dove il pensiero reificante vede potenziamento, o addirittura conquista – addirittura emancipazione – il pensiero dialettico vede quasi sempre eutanasia, morte lenta.

 

Non è il minor merito della Griechische Kulturgeschichte di Jakob Burckhardt, quello di far coincidere la desolazione dell’individualità ellenistica non solo con la decadenza oggettiva della polis, ma proprio col culto dell’individuo. (...) Lo stato di cose in cui l’individuo sparisce, è insieme quello dell’individualismo scatenato, in cui «tutto è possibile»: «ora si celebrano individui al posto degli dei»[17].

 

La fine delle pòleis fu proprio il sorgere dell’individuo irrelato, il sorgere della monade par excellence, e non è affatto un caso che, per delinearlo, siano stati scelti proprio l’esempio dell’Ellenismo e (mi sarà concessa la provocazione) la penna borghese, tutto sommato “anti-dialettica”, del Burckhardt.

L’Ellenismo di oggi ha confini più ampi, e forse il confine essenziale nella sua straordinaria assenza di confini, ma i suoi meccanismi sono rimasti uguali a se stessi.

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3. Tecnica e sintassi. Semplificazione e semplicità. Comunicazione e espressione

Altro trauma rilevante della «vita offesa» è la tecnica.

L’apparato tecnico totale – quello che a partire dagli standards imposti dall’epoca dei fascismi ha sincronizzato irreversibilmente ogni tipo di produzione ai totalizzanti tempi da stato d’eccezione dell’industria bellica, adeguando così ogni agire umano alla brutale esattezza delle sue istanze e dei suoi rimi – è forse il principale responsabile della mutilazione della vita.

 

La tecnicizzazione – almeno per ora – rende le mosse brutali e precise, e così anche gli uomini. Elimina dai gesti ogni esitazione, ogni prudenza, ogni garbo. Li sottopone alle esigenze spietate, vorrei dire astoriche, delle cose. […] Nei movimenti che le macchine esigono da coloro che le adoperano c’è già tutta la violenza, la brutalità, la continuità a scatti dei misfatti fascisti. Tra le cause del deperimento dell’esperienza c’è, non ultimo, il fatto che le cose, sottoposte alla legge della loro pura funzionalità, assumono una forma che riduce il contatto con esse alla pura manipolazione, senza tollerare quel surplus – sia in libertà del contegno che in indipendenza della cosa – che sopravvive come nocciolo dell’esperienza perché non è consumato dall’istante dell’azione[18].

 

La visione adorniana della tecnica è in effetti pregna dell’inscindibile nesso di tecnica e sfruttamento economico delle classi dominate, ma anche in questo caso la prospettiva organica di classe non ci restituisce la profondità con cui il francofortese seppe interrogarsi sulle implicazioni annichilenti dell’ipertrofia tecnica.

Persone e cose, di certo sottoposte in primo luogo all’onnicomprensiva legge del libero scambio e dei suoi ritmi, vengono così inquadrate soprattutto grazie all’ulteriore sussunzione di esse nella legge della «pura funzionalità»: proprio quella dittatura positivistica dell’utile e dell’accessibile, del comodo, che avvicina certi risvolti del pensiero di Adorno a quella che lui stesso amava canzonare come «critica reazionaria della civiltà».

 

Gli ordinamenti pratici della vita, che pretendono di giovare agli uomini, determinano, nell’economia del profitto, l’atrofia di tutto ciò che è umano, e via via che si estendono eliminano sempre più ogni delicatezza. Poiché la delicatezza tra gli uomini non è che la coscienza della possibilità di rapporti liberi da ogni scopo, che sfiora tuttora – consolante – gli uomini avvinti dagli scopi. […] Paradossalmente, l’estraniazione si manifesta negli uomini come caduta delle distanze. Poiché solo in quanto non sono sempre a ridosso gli uni degli altri nel ritmo di dare e di prendere, discussione ed esecuzione, direzione e funzione, resta sufficiente spazio tra di loro per il tessuto sottile che li collega gli uni agli altri e nella cui esteriorità soltanto si cristallizza l’interiorità. Certi reazionari, come i seguaci di Jung, hanno osservato questo fatto[19].

 

L’attenzione di Adorno al «tessuto sottile» – al naturale (e culturale) nesso intersoggettivo che, prima della forzata e meccanica caduta delle distanze, consentiva la formazione di soggettività non atrofizzate – non si risolve però in un pleonastico elogio del pleonasmo, in un irrelato placet futile. La pratica di resistenza alla tendenza dell’apparato non può vivere nel votarsi all’esclusività un po’ estetizzante della futilité in quanto tale, nel cercare residui di delicatezza sempre nuovi (e alla moda!) nella teorica (e illusoria) non scambiabilità di certi rapporti e di certi oggetti, ma deve risiedere nella costante, militante attenzione a ciò che, insieme a questo tessuto, scompare silenziosamente dall’orizzonte dell’umano.

 

La questione dell’individualità, nell’epoca della sua liquidazione, deve essere impostata ex novo. Mentre l’individuo, come tutti i metodi individualistici di produzione, è storicamente invecchiato e in arretrato rispetto allo sviluppo della tecnica, esso rappresenta, condannato com’è, la verità contro il vincitore[20].

 

La resistenza è lì, intus et in cute, austeramente soggettiva, ed è propria di quel soggetto il cui discernimento non riesce a farsi irretire dal mare magnum dei falsi stimoli forniti dalla ‘società integrale’. Anche di quelli apparentemente più liberi dai suoi meccanismi.

Anche ciò che nell’uomo differisce dalla tecnica, infatti,

 

è incorporato come una specie di lubrificazione della tecnica. Anche la differenziazione psicologica, che, del resto, ha già avuto origine dalla divisione del lavoro e dalla suddivisione dell’uomo nei settori del processo produttivo e della libertà, ritorna, alla fine, al servizio della produzione. […] Da tempo, non si tratta più soltanto dello smercio del vivo. Sotto l’apriori della smerciabilità, il vivente in quanto vivente si è trasformato in cosa, in equipaggiamento. L’io assume consapevolmente al proprio servizio, come propria attrezzatura, l’uomo intero. […] Quanto più immediatamente dà la sua risposta, e tanto più profonda, in realtà, è l’azione anteriore della mediazione: nei riflessi pronti e senza resistenza, il soggetto è completamente estinto[21].

 

Come già accennato, la via del potenziamento – e dei correlati entusiasmi dionisiaci più o meno seriali – non è quella adatta all’ipotetico ideale di soggettività resistente che stiamo provando ad evincere da questi preziosi aforismi.

Adorno non credeva all’autenticità del sangue, né alle redenzioni ferine provenienti dal Fronterlebnis. Forse neppure più all’autenticità della pulsione. La sua soggettività somiglia davvero poco ad un eroe da trincea e i miti irrazionalistici del suo secolo e del precedente, quelli che pretendevano di liberare il soggetto dagli irretimenti positivistici grazie alla lettura semplicistica di qualche aforisma di Nietzsche, gli sembravano già funzionalmente sussunti all’apparato industriale, anzi, ne erano un notevole mezzo di seduzione. Meglio la Reflexion, forse addirittura l’ascesi.

 

Gli ideali ascetici incarnano oggi un grado superiore di resistenza alla follia dell’economia di profitto che non la rivolta vitalistica di sessant’anni fa contro la repressione liberale. Oggi l’amoralista potrebbe finalmente concedersi di essere altrettanto buono, gentile, aperto e altruista come già Nietzsche allora[22].

 

In questo senso, quando si parla di resistenza si parla già d’intelligenza e, quando si parla di essa, del rarissimo wishful thinking[23], si parla ancora della fondamentale dicotomia di Vernunft e Rationalität, vigilmente rivisitata dalla straordinaria capacità ermeneutica di Adorno. Il testo stesso, infatti, insiste a più riprese nello stabilire una distinzione tra un pensiero rational, freddo e allineato dinamicamente ai diktate meccanici degli scopi e dei valori di scambio, ed uno vernünftig, il cui scopo è quello di «cercare – nell’opposizione di sentimento ed intelletto – la loro unità: che è appunto l’unità morale».

 

Il vantaggio immediato, personale, da realizzare di volta in volta nell’atto di scambio, ciò che è più soggettivo e limitato, vieta l’espressione soggettiva. La convertibilità, l’apriori della produzione indirizzata coerentemente al mercato, non lascia più nemmeno affiorare il bisogno spontaneo dell’espressione, della cosa stessa[24].

 

«L’intelligenza è una categoria morale» e la sua questione morale è quella dell’espressione.

La morale non è una questione di sangue, né una questione materiale. È una questione espressiva ed erotica, una questione di sintassi.

In questo senso, deperimento dell’esperienza e semplificazione dell’espressione sono colti dall’intelligenza dialettica come un fenomeno unitario: in quest’ultimo, la «continuità a scatti dei misfatti fascisti» (sic!) e l’applicazione della sua logica semplicistica al tessuto sottile e complesso che lega gli uomini tra loro delineano i tratti fondamentali di un’umanità muta, un’umanità che non potrà più esimersi da una lunga, sempre più visibile, trafila di orrori.

 

Oggi il collegamento più breve fra due persone è, come tra due punti, la retta. […] La parola diretta che, senza dilungarsi, senza esitare, senza riflessione, ti dice in faccia come stanno le cose, ha già la forma e il tono del comando che, sotto il fascismo, i muti trasmettono ai muti. La semplicità e oggettività dei rapporti, che elimina ogni orpello ideologico tra gli uomini, è già diventata un’ideologia in funzione della prassi di trattare gli uomini come cose[25].

 

La tendenza storico-culturale che Adorno intuisce e delinea in queste pesanti pagine, quella della semplificazione coatta di ogni sfumatura, di ogni deviazione espressiva non fungibile, non funzionale, troverà il suo probabile apice nell’odierno meccanismo informatico dei links[26].

Permeando ineludibilmente le nostre relazioni di ogni tipo, ci costringe a sentire come antieconomica ed inutilmente arrischiante ogni attitudine ad essa non conforme.

Il risultato, già alla sua epoca, era ben immaginabile per chiunque avesse gli occhi per vedere: Rückfall, omologazione, isolamento, fascismo.

 

Questo tipo di reazione, che è lo schema di ogni amministrazione e «politica del personale», tende già di per sé, prima ancora della formazione di una volontà politica precisa e dell’adesione a una formula rigida e esclusiva, al fascismo. Chi si assume il compito di valutare le qualifiche professionali, vede gli esaminati, quasi per necessità tecnologica, come adatti o inadatti, conformi o difformi, complici o vittime. […]

È un tratto essenziale del dominio, respingere nel campo avversario, in nome della semplice differenza, chiunque non s’identifica con esso: non per niente cattolicesimo è il termine greco per il latino totalità, realizzato dai nazisti. Essa significa l’equiparazione del diverso (che si tratti della «derivazione» o dell’«altra razza») con l’avversario. […] Il progresso che conduce a questa coscienza fa propria la regressione alla condotta del bambino, che vuol bene o ha paura. La riduzione a priori al rapporto amico-nemico è uno degli aspetti fondamentali della nuova antropologia. La libertà non sta nello scegliere tra nero e bianco, ma nel sottrarsi a questa scelta prescritta[27].

 

La semplificazione è fascismo. Ne sarà sempre l’espressione fondamentale. Essa è il tentativo di svincolare il sorgere della semplicità dall’amorevole lavorìo della complessità che l’ha generato, di imporlo, e così di reciderne brutalmente le problematiche radici.

In questo modo, ogni relazione si svuota del suo significato emotivo ed etico appena si trasforma in legame debole, in pragmatica relation[28], mentre, attraverso lo stesso processo, ogni parola differente, ogni espressività distante dai canoni comunicativi delle suddette relations, appare come un residuo fastidioso e reazionario[29] di una civiltà evolutivamente inferiore, obliata da una storia in giubilante accelerazione.

Definitivo a riguardo l’aforisma Morale e stile, in cui si tratta d’un problema che sembra essere uscito fatalmente dall’«officina appartata» dello scrittore per riversarsi nei gangli più intimamente politici della nostra civiltà.

 

Lo scrittore farà l’esperienza che, se si esprime con precisione, con scrupolo, in termini oggettivamente adeguati, quello che scrive passerà per difficilmente comprensibile, mentre se si concede una formulazione stracca e irresponsabile, sarà ripagato con una certa comprensione. […] La sciatteria di chi nuota secondo la corrente familiare del discorso passa per un segno di affinità e di contatto: si sa quel che si vuole perché si sa quel che l’altro vuole. Tener d’occhio nell’espressione, la cosa, anziché la comunicazione, è sospetto: lo specifico, ciò che non è tolto a prestito dallo schematismo, appare irriguardoso, quasi sintomo di astruseria e confusione. […] L’espressione generica consente all’ascoltatore di intendere a un dipresso quel che preferisce e che pensa già per conto suo. L’espressione rigorosa strappa un’accezione univoca, impone lo sforzo del concetto, a cui gli uomini vengono espressamente disabituati. […] Solo ciò che non ha bisogno di essere compreso passa per comprensibile; solo ciò che, in realtà, è estraniato, la parola segnata dal commercio, li colpisce come familiare. Nulla contribuisce altrettanto alla demoralizzazione degli intellettuali. Chi vuole sottrarsi a questa demoralizzazione deve respingere ogni consiglio e tener conto della comunicazione, come un tradimento all’oggetto della comunicazione[30].

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4. Fare l’amore è un atto rivoluzionario. Placet experiri

«La morte» – scriverà un’altra vitalità disperata e dimenticata – «non è nel non poter comunicare, ma nel non poter più essere compresi».

La comunicazione inquadrata come «un tradimento all’oggetto della comunicazione» non è più solo la rivisitazione nostalgica di suggestioni luterane da parte di uno scandalizzato professore tedesco del secolo scorso.

L’odierno culto compulsivo dell’alta definizione – della linea che sempre più retta, esatta e puntuale deve collegarci e farci comunicare col mondo – quello che Baudrillard (pensatore dialettico!) chiama «de-realizzazione del reale grazie all’iperreale», è solo uno dei tanti segnali grazie ai quali dovremmo finalmente capire che

 

siamo in una trappola: il conformismo è operato a priori dall’atto di significare in sé, indipendentemente dal significato concreto, mentre, d’altra parte, solo lo sforzo di significare potrebbe scuotere il conformismo, la rispettosa ripetizione del fatto. Vere intenzioni sarebbero rese possibili solo dalla rinuncia all’intenzione. Che intenzione e realismo siano inconciliabili, e che la sintesi sia diventata menzogna, è implicito nel concetto di chiarezza e di univocità. Il concetto di univocità è equivoco, in quanto si riferisce contemporaneamente e simultaneamente all’organizzazione della cosa in se stessa e alla sua trasmissione al pubblico. Ma questa ambiguità è tutt’altro che casuale. La chiarezza indica il punto di indifferenza di ragione obbiettiva e comunicazione[31].

 

Il punto esatto in cui l’arbitrio del potere assume il controllo irreversibile di ogni intenzione, poiché ogni intenzione è già strutturalmente allineata al suo realismo, e così mutilata ab origine del suo Streben più autentico, lo «sforzo di significare».

Spunti interessanti a riguardo vengono proprio da Baudrillard il quale, come è scritto con eleganza in un recente articolo a riguardo di Andrea Cortellessa, «contrappone il valore lo-fi dell’illusione all’iperreale mediatico quotidiano».

In Minima Moralia, l’illusione lo-fi par excellence è certamente l’amore.

«Sempre sciocco, ingannato, soverchiato, – così, sempre, dev’essere l’amore»[32].

Anche Adorno aveva un Hölderlin. Anche Adorno aveva un’illusione, nonostante il suo sguardo dialettico sapesse benissimo che

 

il rapporto di scambio, a cui l’amore ha tenuto testa – almeno in parte – durante l’età borghese, ha finito per assorbirlo completamente; l’ultima immediatezza è sacrificata alla distanza reciproca di tutti i contraenti. L’amore è paralizzato dal valore che l’io attribuisce a se stesso. Il suo amore gli appare come un «amare in più», e chi ama in più si mette dalla parte del torto. Egli si rende sospetto all’amata e, respinto su se stesso, la sua inclinazione degenera in crudeltà possessiva e fantasia autodistruttiva. […] Il dissolvimento oggettivo della società si rivela soggettivamente nell’indebolimento dell’impulso erotico, che non è più in grado di saldare tra loro le monadi intese solo a conservare se stesse, come se l’umanità imitasse la teoria fisica dell’universo in esplosione. Alla fredda inaccessibilità dell’essere amato, che è ormai un’istituzione riconosciuta della cultura di massa, corrisponde il «desiderio insaziabile» dell’amante[33].

 

Anche qui gelida razionalità dunque, calcolo dei valori di scambio e al limite sterile ripetizione di tipi, messi con gran vantaggio a disposizione dal libro di figure senza figure[34] dell’industria culturale.

Eppure l’amore, questo «sciocco e ingannato» tendere al particolare e allo specifico in un mondo che può darti l’ebbrezza dell’universale con un clic, potrebbe nascondere in sé un’importantissima anomalia di sistema, anomalia che se non garantirà il risolutivo rovesciamento degli inveterati e sempre più annichilenti rapporti di produzione imposti dal capitale, quantomeno potrebbe garantire un po’ di calore alle offese vite che, per privilegio d’anagrafe, sono costrette a viverli.

Ma c’è qualcosa di più:

 

lo specifico non è esclusivo, in quanto gli manca la tendenza alla totalità. Ma è esclusivo in un altro senso: in quanto, pur senza vietarla, rende impossibile – in forza del suo stesso concetto – la sostituzione dell’esperienza indissolubilmente riferita ad esso. Il totalmente determinato ha la sua garanzia nel non poter essere ripetuto, e appunto per questo tollera l’altro accanto a sé[35].

 

Eros potrebbe salvare l’esperienza. Da sempre il dialogo dei dialoghi, potrebbe essere oggi il solo vero dialogo, la sola autentica interlocuzione possibile, e dunque la sola prassi di resistenza plausibile per chi, volendo salvare l’insostituibilità dell’esperienza dalle sue infinite rappresentazioni, non può che dedicarsi alla severa esperienza dell’insostituibile... al duro insegnamento della Costanza[36].

 

La società borghese insiste sempre e dovunque sullo sforzo della volontà; solo l’amore dev’essere involontario, pura immediatezza del sentimento. […]

Ma l’involontarietà dell’amore, anche dove non è predeterminata dalla prassi, contribuisce a consolidare quel tutto non appena si stabilisce come principio. Se l’amore deve rappresentare, entro la società, una società migliore, non la rappresenta come oasi pacifica, ma come resistenza consapevole. Ma la resistenza esige proprio quel momento di arbitrio che i borghesi, per cui l’amore non sarà mai abbastanza naturale, gli vietano rigorosamente. Amare significa saper impedire che l’immediatezza sia soffocata dall’onnipresente pressione della mediazione, dall’economia, e in questa fedeltà l’amore si media in se stesso, accanita contropressione. Non ama se non chi ha la forza di tener fermo all’amore. Al privilegio sociale sublimato, che predetermina la stessa formazione degli impulsi, e - attraverso mille sfumature di ciò che è approvato dall’ordine - fa apparire spontaneamente attraente ora questo ed ora quell’altro, si oppone l’inclinazione in quanto dura e resiste, mentre il meccanismo della forza di gravità sociale (prima di ogni intrigo, che è poi regolarmente assunto al suo servizio) fa di tutto per impedirlo. Il sentimento, supera la prova decisiva quando supera se stesso nella durata, e sia pure come ossessione. Ma colei che sotto l’apparenza della spontaneità irriflessa, e fiera della sua presunta sincerità, si abbandona interamente a quella che ritiene essere la voce del cuore, e fugge non appena crede di non avvertire più quella voce, è – proprio  in quella sovrana indipendenza – lo strumento della società. Passivamente, senza saperlo, registra i numeri che escono via via alla roulette degli interessi. Mentre tradisce l’amato, tradisce se stessa. L’ordine della fedeltà, che la società impartisce, è strumento d’illibertà, ma è solo nella fedeltà che la libertà si ribella all’ordine della società[37].

 

Placet experiri, consigliava un Settembrini infervorato al giovane Hans Castorp nella Montagna incantata e, in effetti, la vicinanza di Adorno alla parte migliore di Thomas Mann[38] sembra riecheggiare in moltissimi motivi di questo fitto zibaldone aforistico dell’immediato dopo guerra. In esso, un concetto pulito e dignitoso di individualità – seppur minato nella sostanza dai processi sociali e materiali che lo trasformano, spesso immediatamente, in mero individualismo – sembra essere l’unico punto di partenza possibile per restituire all’esperienza il suo carattere formativo, necessaria e naturale antitesi di quel processo che vorrebbe invece coartarla nell’innocuo e reificante involucro dell’evento seriale, tecnicamente riproducibile infinite volte per le infinite soggettività monche che ha intenzione di sorvegliare.

Per il resto,

 

a chi teme di restare, nonostante tutto, dietro lo spirito del tempo, e di venire gettato nell’immondezzaio della soggettività scartata e fuori uso, bisogna ricordare che ciò che è attuale, aggiornato e sulla cresta dell’onda e ciò che è progredito e avanzato nella sostanza non sono più, ormai, la stessa cosa. In un ordinamento che liquida il moderno come arretrato, è proprio a questo arretrato, una volta che è stato colpito dal verdetto di condanna, che può toccare in sorte la verità su cui il processo storico passa rombando.

Poiché non si può esprimere altra verità che quella che il soggetto è in grado di colmare e di adempiere, l’anacronismo diventa il rifugio della modernità[39].

 

DICEMBRE 2012

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[1] L’espressione traurige Wissenschaft (letteralmente: triste scienza) è tratta dall’incipit originale della lunga dedica a Max Horkheimer posta da Adorno in apertura dell’opera.

[2] Già nelle sue primissime traduzioni dell’opera, Renato Solmi scelse di tradurre con questo termine l’ostico e articolato significato del beschädigten Leben adorniano.

[3] Si veda a riguardo almeno il dirimente, incendiario aforisma 99, Pietra di paragone.

[4] Chiaramente, il riferimento è al nono aforisma de La società dello spettacolo di Guy Debord: «Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso» (G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2006, p.55).

[5] T. Adorno, Minima moralia, Einaudi, Milano 2005, pp. 241, 242.

[6] L’espressione si trova nella già citata dedica iniziale a Max Horkheimer.

[7] Adorno, cit., titolo dell’aforisma 43.

[8] Adorno, cit., pp.162, 163.

[9] Adorno, cit., titolo dell’aforisma 36.

[10] Adorno, cit., p. 59.

[11] Ibidem, p. 63.

[12] Ibidem, p. 132.

[13] «I motivi dell’autocritica borghese intransigente coincidono così con quelli della critica materialistica, che li rende espliciti e consapevoli di sé». Adorno, cit., p. 105.

[14] Adorno, cit., titolo dell’aforisma 147.

[15] Adorno, cit, pp. 73, 74.

[16] Ibidem, p. 123.

[17] Ibidem, pp. 175, 176.

[18] Ibidem, pp. 35, 36.

[19] Ibidem, pp. 36, 37.

[20] Ibidem,, p.150.

[21] Ibidem, pp. 280, 281.

[22] Ibidem, p. 107.

[23] Adorno, cit., titolo dell’aforisma 127.

[24] Adorno, cit., p. 235.

[25] Ibidem, pp. 37, 38.

[26] Potremmo dire che la razionalità binaria e dicotomica dei sistemi informatici – la ratio della «necessità tecnologica» – è, hegelianamente, l’in sé e per sé della razionalità del capitalismo industriale.

[27] Adorno, cit, pp. 152, 153.

[28] «Presto non c’è più un rapporto che non miri ad altri rapporti, nessun impulso che non sia stato sottoposto a una censura preventiva, per vedere che non si scosti dal canone di ciò che è gradito. Il concetto di relations, una categoria di mediazione e circolazione, non si è mai dispiegato pienamente nella sfera della circolazione vera e propria, sul mercato, ma in gerarchie chiuse, di tipo monopolistico. Ora che l’intera società diventa gerarchica, le torbide relazioni si introducono e si stabiliscono anche là dove c’era ancora l’apparenza della libertà. […] Il loro individualismo in ritardo avvelena quel poco che resta dell’individuo». Adorno, cit., pp. 13-15.

[29] «I procedimenti di riproduzione meccanizzati si sono sviluppati indipendentemente da ciò che si tratta di riprodurre e hanno finito per rendersi completamente autonomi. Essi sono considerati progressivi, e tutto ciò che non si serve di essi passa per reazionario o provinciale». Adorno, cit., p. 136.

[30] Ibidem, pp. 112, 113.

[31] Ibidem, pp. 167, 168.

[32] I versi compaiono nell’ode hölderliniana intitolata Tränen, ma ne riportiamo la trascrizione presente in T. Adorno, cit., p. 194.

[33] Ibidem, pp. 197-199.

[34] Adorno, cit., titolo dell’aforisma 92.

[35] Adorno, cit., , p. 85.

[36] Adorno, cit., titolo dell’aforisma 110, trascritto quasi interamente a seguire.

[37] Adorno, cit., pp. 202, 203.

[38] Vicinanza dovuta anche all’effettivo contatto dei due proprio negli anni quaranta, durante i quali Mann attinse abbondante materiale per il suo Doktor Faustus dagli studi di Adorno sulla musica dodecafonica.

[39] Adorno, cit., p. 268.