Esperienza e rappresentazione
SE LA STORIA PUÒ FINIRE
Uno studio a partire da Hegel e Bataille
(parte II)
Mariano Mazzullo
Seminario di Storia del
pensiero politico,
G. Bataille “Hegel, l’uomo e la
storia”, sul tema “fine della
storia”.
4. Servo-padrone, uomo-animale
Se la dialettica
hegeliana si presenta innanzitutto come descrittiva di un fenomeno
storico e “spaziale” – per usare i termini di Bataille – essa è ancor
prima l’opposizione fondamentale e continua dell’uo-mo alla sua
animalità, e perciò non si pone solo alla base della storia dell’uomo,
ma alla base dell’uomo stesso. La sua duplicità di fenomeno storico e
psicologico porta ad identificare l’uomo con la sua storia, equazione in
cui consiste, come abbiamo visto, buona parte di quell’ipotesi della
fine della storia. La “dialettica interiore”, per così dire, è un
processo tutt’altro che esaurito da un momento, si ripete costantemente
all’interno dell’uomo[1] con la
stessa spirale di negazioni e riconoscimenti che lo hanno portato alla
conquista di una libertà storica e “sociale”[2].
Se possiamo identificare la storia con qualsiasi evento, a seconda di
tradizioni e identità differenti, la differenza tra l’uomo e l’animale
non può essere collocata in un momento storico, essa non è mai
definitiva, poiché implica l’identità stabile dell’uomo con sé stesso,
il quale per avvicinarsi ogni giorno di nuovo alla sua natura deve
negare ripetutamente quell’animalità con cui convive. Hegel individua
nettamente la separazione dell’uomo dal suo portato animale nel momento
stesso in cui il soggetto riconosce dei rapporti di forza nel mondo, e
in ciò vi si immette e vi partecipa, non più isolato, ponendo così le
basi delle classi sociali, la divisione tra forti e deboli, servi e
padroni; una visione che, come abbiamo già notato, sorprende perché
sembra collocare l’umanità proprio in un atto di sopraffazione animale.
Tuttavia il taglio del cordone ombelicale tra l’uomo e la natura non
avviene mai definitivamente in un passaggio soltanto, essendo l’uomo un
essere storico che si mantiene fintanto che si sviluppa; egli è una
continua differenza da sé stesso che serve a portare a compimento
quell’idea di umanità di cui è portatore, secondo Hegel. Ne viene fuori
un’idea di uomo la cui storia interiore riproduce la dialettica
esteriore con cui è cominciata e di cui è fatta la Storia[3].
Alla luce di questa specularità tra la storia “esteriore” e quella
“interiore” dell’uomo, la sua essenza psicologica e quella sociale
sembrano coincidere, ma è doveroso sottolineare che sembrano coincidere
in un evento sostanzialmente politico. Sembra cioè che la divisione
della società e dei ruoli, la divisione del lavoro e dell’economia siano
già impliciti nell’essenza dell’uomo
poiché insorgono contemporaneamente all’insorgere dell’umanità
nell’autocoscienza, anche se come ci informa avvertito Bataille: la
dialettica servo-padrone di Hegel aveva in mente solo i movimenti
dell’essere individuale dell’uomo, non della società[4].
En passant, forse non dovrebbe sorprenderci che il filosofo più letto da
Hegel nei suoi anni di vivacità giovanile fosse J-J. Rousseau[5],
dal momento che la dialettica servo-padrone partorisce i “rapporti
essenziali” della società umana e descrive quest’attimo in una
situazione che ha come sfondo uno “stato di natura” della coscienza. Ma
Hegel ha un’idea assoluta di umanità opposta alla natura, una forma
ideale da raggiungere nello sviluppo della storia come “distacco dalla
natura”, in una negazione progressiva e perpetua di ogni possibile
conservazione. In altre parole,
Quest’ambiguità «tra un semplice essere pre-istorico e un essere storico in
funzione del fare» (Hegel), si
riscontra innanzitutto all’interno della sovranità, come prima figura
definitoria dell’auto-coscienza. Già Hegel aveva più volte ribadito in
che senso la duplicità rappresenti una forma caratteristica
dell’autocoscienza, un fenomeno di «scomposizione interna (di ciò che
avviene all’esterno) in due estremi di cui l’autocoscienza costituisce
di volta in volta il termine medio»[7].
Ma sebbene Hegel individuasse nella sovranità l’effetto di un
ribaltamento per cui colui che è schiavo si mostra poi essere signore,
Bataille evidenzia come questa duplicità non sia solo un fenomeno
dialettico (esterno) tra due termini che finiscono per riconoscersi, ma
esprima invece un’oscillazione all’interno dello stesso individuo.
L’autocoscienza, forma della sovranità e cioè della libertà, incarna
secondo Bataille una costante duplicità tra il suo essere tale e il suo
essere riconosciuta tale in funzione del fare. Seguiamo i passi
fondamentali di questa originale fenomenologia di Bataille.
In termini nietzschiani
il filosofo distingue subito la sovranità dal “potere”, e cioè dalla
semplice supremazia animale, mero esercizio superficiale della forza che
comporta la morte dell’avversario e si definisce proprio in virtù della
paura, della fuga degli altri di fronte al potente predatore[8].
A differenza di questo puro esercizio di prestigio che si conclude con
l’eliminazione dello sconfitto, la sovranità umana è un “trattenere la
morte” – perché un morto non può riconoscere colui che l’ha ucciso –
volgendo lo sconfitto al proprio servizio, impiegandolo in una catena
produttiva che soddisfi i propri bisogni biologici. In questa differenza
tra potere animale e umano Bataille individua così due elementi
altrettanto caratterizzanti della sovranità: l’essere e il fare, e nel
passaggio dal riconoscimento per ciò che si è, al riconoscimento per ciò
che si fa, viene colta una struttura della coscienza e della storia che
si propone come più comprensiva di quella offerta da Hegel, ma
soprattutto non superata mai definitivamente, né univocamente insorta in
un evento. La sovranità sarebbe esattamente la conservazione nella
coscienza di una costante oscillazione tra un’impo-tenza religiosa
(essere) e il potere del signore militare (fare)[9], passaggio
storico interiorizzato dalla coscienza che, spingendoci un po’ oltre la
fattispecie socio-politica del discorso di Hegel-Bataille, è imputabile
in generale all’uomo tra il suo
fare l’umanità e il suo essere
animale, tra la finitezza del semplice
essere animale (per la vita) e
l’apertura dell’esistenza
umana (per la morte), un’esistenza che non è mai data ma costantemente
vissuta nel fare dell’uomo[10].
Heidegger, autore dell’Analitica
esistenziale, tra le altre cose rilevanti per questo tema sostiene
che il rapporto essenziale dell’uomo col mondo è ottenuto principalmente
in una relazione con l’utilizzabilità degli enti, un rapporto appunto
fattivo e mai dato definitivamente[11].
Mentre Hegel identifica
la sovranità più con il fare
che con l’essere, poiché il vincitore della lotta estrema, che
inizialmente pare essere divenuto signore nel riconoscimento stesso del
suo essere, alla fine si rivela essere lo schiavo, cioè l’autentico
autore del fare, colui che è signore per quel che fa;
Bataille invece sottolinea come originariamente e preminentemente la
sovranità fosse una carica di puro prestigio, un’identificazione
innanzitutto con l’essere di
quell’uomo riconosciuto in quanto tale, cioè dominante per diritto di
natura, carisma, autorità, senza alcun esercizio causale. Come per la
divisione del tempo e del lavoro, scandita dal rapporto col sacro e dai
divieti religiosi, così la prima forma di sovranità anticamente dovette
essere connotata da una carica non conseguita e reiterata con le azioni,
ma derivata dal prestigio religioso. Successivamente, nell’istituzione
della schiavitù – l’effetto principale della lotta che Hegel pone
all’origine della storia, col sorgere dell’autocoscienza – Bataille
scorge invece una degradazione e una perdita della sovranità.
L’instaurazione di un’attività utile di produzione e consumo rappresenta
per il signore la perdita della sua pura essenza, con ciò egli diviene
sovrano di schiavi, capo di un meccanismo di profitto, cioè Signore per
quel che fa e non più per quello che è. È in questa perdita di prestigio
e nell’assunzione di ciò che potremmo definire un ruolo attivo, «nella
perdita della natura antropologicamente originaria della carica sovrana,
che paradossalmente secondo Bataille si viene a costituire un potere
nelle mani del Signore»[12],
potere che non ha niente a che vedere con la sovranità, che anzi è la
perdita della sovranità. Su questo punto posto da Bataille credo sarebbe
d’accordo anche Hegel senza particolari difficoltà, poiché egli stesso
vede nel Signore di schiavi un’autocoscienza non sviluppata appieno,
tuttavia non sarebbe d’accordo nel negare allo schiavo, il
non plus ultra del fare, il
possesso di una vera Sovranità. Hegel quindi avrebbe descritto il
momento regressivo o secondario della sovranità, il momento del potere,
tralasciando di evidenziare che, durante lo sferragliare attivo della
lotta, il Signore più che divenire tale con l’assoggettamento del
perdente ai suoi scopi biologici, diviene capo di un’economia e di un
meccanismo produttivo, lasciandosi alle spalle il vero nucleo originario
della sovranità e irretendosi nel termine secondario de fare. In
sostanza Bataille vuole sottolineare che Hegel assegna il primato
storico della libertà umana a ciò che in realtà rappresenta una perdita
del suo essere libera per natura, avverte nella lettura hegeliana una
visione in cui
5.
Fine della Storia
Dopo aver preso in
esame i temi della dialettica hegeliana più coinvolti dall’analisi di
Bataille, possiamo ora capire su quale base si poggi la sua lettura
della “fine della storia”, quel concetto che secondo il filosofo
francese costituisce il «grande problema dell’hegelismo»[14].
In effetti la filosofia di Hegel è profondamente segnata dal suo
rapporto primario con la fine, anzi è una «filosofia della morte»[15],
afferma Bataille, non solo perché Hegel riconosce un’importanza
formativa peculiare al rapporto dell’umanità con la morte, rapporto in
cui troverebbe sé stessa e la sua certezza, ma inoltre perché la piena
realizzazione dell’umanità nello schema teleologico di Hegel è
propriamente ottenibile solo in una fine, solo alla fine. Come abbiamo
già accennato in precedenza, il concetto di fine della storia non è
esplicitamente tematizzato da Hegel, almeno nel senso di un attimo
finale, e tuttavia questa nozione attraversa la sua filosofia come un
postulato essenziale. Rapidamente: l’ipotesi di una presunta fine della
storia deriva principalmente dalla concezione teleologica hegeliana: in
tal senso
l’Unterschieden für
Vergleichen,
il distinguere per rapportare. In un primo momento la coscienza si
oppone ai suoi oggetti come alterità fuori di sé, entità molteplici e
diverse da sé, ottenendone così una conoscenza
rappresentativa, in un secondo
momento li comprende come parte di sé, come oggetti il cui significato è
dato e trovato nella coscienza, e rimuovendo la loro alterità ottiene
con ciò una conoscenza concettuale[17].
Dunque l’esperienza e
1. Nel senso di meta,
cui si riferisce col termine Ziel,
punto d’arrivo del processo fenomenologico, elemento conclusivo di quel
progresso di acquisizioni crescenti che si conclude con la forma
dell’uomo odierno, che si è compreso e sviluppato appieno lungo la
storia. Non a caso Hegel parla di fine in questo senso proprio nelle
ultimissime pagine della Fenomenologia[18]. Potremmo perciò dire che in questa prima accezione la fine viene
intesa nel senso di un risultato “genetico” dello sviluppo formativo
dell’uomo nel corso della sua esperienza storica, esattamente come la
meta dello sviluppo infantile per Piaget si verifica con l’acquisizione
delle strutture logico-deduttive verso i 14 anni.
2. Con
Zweck si fa invece riferimento alla fine nel senso dello scopo dello
Spirito, come il raggiungimento del presupposto che muove la coscienza
nel suo fare
3. Il termine
Ende, altrettanto utilizzato
da Hegel come sinonimo di fine, sta a significare una fine senza
connotazioni filosofiche[22],
un semplice punto di arrivo senza implicazioni come l’autofinalità o la
realizzazione di un processo formativo, ma proprio per questo
rappresenta forse il termine che crea filosoficamente maggiore
difficoltà. L’Ende è il secondo polo di una linea tesa a partire da un’origine, ma
a differenza degli altri due significati non lascia pensare ad una
prosecuzione di sorta del percorso. Mentre la meta
(Ziel) si raggiunge e così ci libera dalla sua “ricerca”, lo scopo
(Zweck) viene compiuto così
come prefissato, la conclusione
(Ende) è piuttosto un tramonto che non fa intravedere il domani. La
concezione storicista hegeliana dell’Uomo come idea da realizzare è di
un’agghiacciante esaustività, infatti per quanto il suo fatalismo possa
suscitare rigetto e insoddisfazione, resta una teoria ardua da
contrastare, visto che è un dato di fatto che
GIUGNO 2012
[1]
«In questo movimento rivediamo, stavolta all’interno della
coscienza, lo stesso processo prima presentatosi come gioco
delle forze. Ciò che lì era per noi, adesso è per gli estremi
stessi. Il termine medio è l’autocoscienza», in:
Hegel, G. W. F.
Hegel, Fenomenologia dello
spirito, Bompiani, Milano 2000, p. 277.
[2]
In questa relazione speculare tra l’evento originario e il
processo interiore e identitario si può scorgere facilmente
quella relazione tra l’origine della storia e la creazione di
un’identità, di cui dicevamo a proposito dello storicismo del
xix sec.
[3]
Quest’idea della coscienza come “dispositivo” che riproduce la
divisione tra servi e padroni è stata sviluppata, naturalmente
in senso diverso da F. Nietzsche,
Gaia Scienza, Adelphi
2007, af. 354.
[4]
G. Bataille, Hegel, l’homme et l’histoire (Hegel, l’uomo e la storia), in
«Monde Nouveau-paru»,
nn. 96-97, 1956, Vol. xii
delle Oeuvres complètes,
Paris 1988, p. 13, nota 5.
[5]
Hegel, Fenomenologia…,
cit., Introduzione del curatore, p. 32.
[6]
Bataille,
cit., p. 16.
[7]
Hegel, Fenomenologia…,
cit., p. 277.
[8]
«Non è in gioco la forza, perché il fatto di fuggire non
costituisce una servitù duratura» in: Bataille, Hegel, l'uomo…
cit., p. 14. È interessante notare come Nietzsche, filosofo che
compì per primo quella fenomenologia della sovranità di cui sta
parlando Bataille, definisse il darwinismo una filosofia dei
deboli, proprio perché la sopravvivenza del predatore,
dell’individuo meglio adattato, non aveva nulla a che fare con
la forza. Cfr. Nietzsche,
Il soggetto e la
maschera.
[9]
Bataille, cit., p. 16.
[10]
G. Agamben,
L’aperto, l’uomo e
l’animale, Bollati-Boringhieri, Torino 2002,
cap. 10-11-12-13.
Molto utili alcune pagine di Agamben alla comprensione dei termini
che questo discorso batailliano di dialettica interna- esterna
tra servo-padrone e uomo-animale assume in Heidegger. Agamben mette in luce come la definizione heideggeriana di vita
animale e vita umana sia molto ispirata e suffragata dagli studi
di fisiologia animale di von Uexküll, celebre principalmente per
aver formulato quel principio per cui un animale non entra mai
in rapporto col proprio oggetto, ma sempre con i suoi oggetti
disinibitori. Solo a titolo di esempio riportiamo qui che
Heidegger chiama in più passi il mondo animale
Enthemmungsring (cerchio di disinibizione). La posizione di
Heidegger è molto interessante, come ci informa Agamben sembra
riassumere la divergenza di posizioni tra Hegel e Bataille,
Infatti Heidegger, nonostante affermi in
Essere e tempo che il
rapporto tipico dell’uomo col mondo è quello del fare,
dell’avere-sotto-mano precisamente, mentre quello dell’animale è
un rapporto con la vita, in altri luoghi sostiene che l’uomo, in
quanto animale non entra mai in un vero rapporto con i propri
oggetti.
[11]
M. Heidegger, Essere e
Tempo, Lonagnesi, Milano 2006, pp.70 e ss.
[12]
Bataille, cit., p. 14.
[13]
F. Rella e S. Mati,
Georges Bataille, filosofo, Mimesis, Milano 2007,
p. 78.
[14]
Bataille, cit., p. 23.
[15]
Ibidem, p. 23.
[16]
Questa concezione finalistica del sapere come esperienza
compresa e conclusa nello spirito dell’uomo è uno dei concetti
hegeliani più criticati da Bataille, che propone una teoria
dell’esperienza in totale antitesi con la teleologia dello
spirito. In linea con l’idea del non-sapere e dell’oltranza di
significato, afferma che l’esperienza per essere tale non può
essere conclusiva, ma anzi deve trascendere la propria
conclusione al di là del suo campo di significato esterno,
affinché si dia un vero contenuto conoscitivo. Certamente si
tratta di un concetto più complesso di quanto io sia capace di
riassumere. Cfr. F. Rella e S.
Mati,
cit., p. 51.
[17]
Cfr. F. Chiereghin,
Introduzione alla
Fenomenologia dello spirito, Carocci,
2008.
[18]
Hegel Fenomenologia…,
cit., p. 1063.
[19]
G. W. F.
Hegel,
Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, § 553, edizione
on-line dell’“Hegel-institut.de”.
[20]
Hegel Enciclopedia…,cit.,
p. 73.
[21]
Cfr. Ibidem, p. 3,
nota n. 8.
[22]
Hegel, Fenomenologia…,
cit., p. 1053.
[23]
Ibidem, p. 289.
[24]
Bataille, cit., pp. 32-33.