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09
Gennaio 2013

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Esperienza e rappresentazione

SE LA STORIA PUÒ FINIRE

Uno studio a partire da Hegel e Bataille (parte II)

Mariano Mazzullo

 

Seminario di Storia del pensiero politico, G. Bataille “Hegel, l’uomo e la storia”, sul tema “fine della storia”.

(vedi anche parte I)

 

4. Servo-padrone, uomo-animale

Se la dialettica hegeliana si presenta innanzitutto come descrittiva di un fenomeno storico e “spaziale” – per usare i termini di Bataille – essa è ancor prima l’opposizione fondamentale e continua dell’uo-mo alla sua animalità, e perciò non si pone solo alla base della storia dell’uomo, ma alla base dell’uomo stesso. La sua duplicità di fenomeno storico e psicologico porta ad identificare l’uomo con la sua storia, equazione in cui consiste, come abbiamo visto, buona parte di quell’ipotesi della fine della storia. La “dialettica interiore”, per così dire, è un processo tutt’altro che esaurito da un momento, si ripete costantemente all’interno dell’uomo[1] con la stessa spirale di negazioni e riconoscimenti che lo hanno portato alla conquista di una libertà storica e “sociale”[2]. Se possiamo identificare la storia con qualsiasi evento, a seconda di tradizioni e identità differenti, la differenza tra l’uomo e l’animale non può essere collocata in un momento storico, essa non è mai definitiva, poiché implica l’identità stabile dell’uomo con sé stesso, il quale per avvicinarsi ogni giorno di nuovo alla sua natura deve negare ripetutamente quell’animalità con cui convive. Hegel individua nettamente la separazione dell’uomo dal suo portato animale nel momento stesso in cui il soggetto riconosce dei rapporti di forza nel mondo, e in ciò vi si immette e vi partecipa, non più isolato, ponendo così le basi delle classi sociali, la divisione tra forti e deboli, servi e padroni; una visione che, come abbiamo già notato, sorprende perché sembra collocare l’umanità proprio in un atto di sopraffazione animale. Tuttavia il taglio del cordone ombelicale tra l’uomo e la natura non avviene mai definitivamente in un passaggio soltanto, essendo l’uomo un essere storico che si mantiene fintanto che si sviluppa; egli è una continua differenza da sé stesso che serve a portare a compimento quell’idea di umanità di cui è portatore, secondo Hegel. Ne viene fuori un’idea di uomo la cui storia interiore riproduce la dialettica esteriore con cui è cominciata e di cui è fatta la Storia[3]. Alla luce di questa specularità tra la storia “esteriore” e quella “interiore” dell’uomo, la sua essenza psicologica e quella sociale sembrano coincidere, ma è doveroso sottolineare che sembrano coincidere in un evento sostanzialmente politico. Sembra cioè che la divisione della società e dei ruoli, la divisione del lavoro e dell’economia siano già impliciti nell’essenza dell’uomo poiché insorgono contemporaneamente all’insorgere dell’umanità nell’autocoscienza, anche se come ci informa avvertito Bataille: la dialettica servo-padrone di Hegel aveva in mente solo i movimenti dell’essere individuale dell’uomo, non della società[4]. En passant, forse non dovrebbe sorprenderci che il filosofo più letto da Hegel nei suoi anni di vivacità giovanile fosse J-J. Rousseau[5], dal momento che la dialettica servo-padrone partorisce i “rapporti essenziali” della società umana e descrive quest’attimo in una situazione che ha come sfondo uno “stato di natura” della coscienza. Ma Hegel ha un’idea assoluta di umanità opposta alla natura, una forma ideale da raggiungere nello sviluppo della storia come “distacco dalla natura”, in una negazione progressiva e perpetua di ogni possibile conservazione. In altre parole, la Storia per Hegel, mentre si costituisce di contrapposizioni esteriori, sembra rimuovere in misura crescente quella dialettica interiore tra uomo e animale che Bataille vuole invece rivendicare come tipica dell’uomo e della sua storia. La radice socio-politica della dialettica spinge Bataille a compiere innanzitutto una “fenomenologia della regalità”, una descrizione di quel modo in cui «si costituisce un potere nelle mani dell’uomo», al fine di mostrare come la duplicità esterna dell’uomo tradisca quella scissione costante e interna con la sua natura, una «fenomenologia che tiene conto di un complesso di forme molto ricche che Hegel non ha potuto conoscere»[6]. Bataille vuole ribadire ancora una volta l’ambiguità dell’autocoscienza tra un essere e un fare, quell’ambiguità presente all’interno dell’uomo nella dicotomia natura-cultura, in cui la dialettica hegeliana fa prevalere il fare e tende a rimuovere in favore di una forma fissa di umanità.

Quest’ambiguità «tra un semplice essere pre-istorico e un essere storico in funzione del fare» (Hegel), si riscontra innanzitutto all’interno della sovranità, come prima figura definitoria dell’auto-coscienza. Già Hegel aveva più volte ribadito in che senso la duplicità rappresenti una forma caratteristica dell’autocoscienza, un fenomeno di «scomposizione interna (di ciò che avviene all’esterno) in due estremi di cui l’autocoscienza costituisce di volta in volta il termine medio»[7]. Ma sebbene Hegel individuasse nella sovranità l’effetto di un ribaltamento per cui colui che è schiavo si mostra poi essere signore, Bataille evidenzia come questa duplicità non sia solo un fenomeno dialettico (esterno) tra due termini che finiscono per riconoscersi, ma esprima invece un’oscillazione all’interno dello stesso individuo. L’autocoscienza, forma della sovranità e cioè della libertà, incarna secondo Bataille una costante duplicità tra il suo essere tale e il suo essere riconosciuta tale in funzione del fare. Seguiamo i passi fondamentali di questa originale fenomenologia di Bataille.

In termini nietzschiani il filosofo distingue subito la sovranità dal “potere”, e cioè dalla semplice supremazia animale, mero esercizio superficiale della forza che comporta la morte dell’avversario e si definisce proprio in virtù della paura, della fuga degli altri di fronte al potente predatore[8]. A differenza di questo puro esercizio di prestigio che si conclude con l’eliminazione dello sconfitto, la sovranità umana è un “trattenere la morte” – perché un morto non può riconoscere colui che l’ha ucciso – volgendo lo sconfitto al proprio servizio, impiegandolo in una catena produttiva che soddisfi i propri bisogni biologici. In questa differenza tra potere animale e umano Bataille individua così due elementi altrettanto caratterizzanti della sovranità: l’essere e il fare, e nel passaggio dal riconoscimento per ciò che si è, al riconoscimento per ciò che si fa, viene colta una struttura della coscienza e della storia che si propone come più comprensiva di quella offerta da Hegel, ma soprattutto non superata mai definitivamente, né univocamente insorta in un evento. La sovranità sarebbe esattamente la conservazione nella coscienza di una costante oscillazione tra un’impo-tenza religiosa (essere) e il potere del signore militare (fare)[9], passaggio storico interiorizzato dalla coscienza che, spingendoci un po’ oltre la fattispecie socio-politica del discorso di Hegel-Bataille, è imputabile in generale all’uomo tra il suo fare l’umanità e il suo essere animale, tra la finitezza del semplice essere animale (per la vita) e l’apertura dell’esistenza umana (per la morte), un’esistenza che non è mai data ma costantemente vissuta nel fare dell’uomo[10]. Heidegger, autore dell’Analitica esistenziale, tra le altre cose rilevanti per questo tema sostiene che il rapporto essenziale dell’uomo col mondo è ottenuto principalmente in una relazione con l’utilizzabilità degli enti, un rapporto appunto fattivo e mai dato definitivamente[11].

Mentre Hegel identifica la sovranità più con il fare che con l’essere, poiché il vincitore della lotta estrema, che inizialmente pare essere divenuto signore nel riconoscimento stesso del suo essere, alla fine si rivela essere lo schiavo, cioè l’autentico autore del fare, colui che è signore per quel che fa; Bataille invece sottolinea come originariamente e preminentemente la sovranità fosse una carica di puro prestigio, un’identificazione innanzitutto con l’essere di quell’uomo riconosciuto in quanto tale, cioè dominante per diritto di natura, carisma, autorità, senza alcun esercizio causale. Come per la divisione del tempo e del lavoro, scandita dal rapporto col sacro e dai divieti religiosi, così la prima forma di sovranità anticamente dovette essere connotata da una carica non conseguita e reiterata con le azioni, ma derivata dal prestigio religioso. Successivamente, nell’istituzione della schiavitù – l’effetto principale della lotta che Hegel pone all’origine della storia, col sorgere dell’autocoscienza – Bataille scorge invece una degradazione e una perdita della sovranità. L’instaurazione di un’attività utile di produzione e consumo rappresenta per il signore la perdita della sua pura essenza, con ciò egli diviene sovrano di schiavi, capo di un meccanismo di profitto, cioè Signore per quel che fa e non più per quello che è. È in questa perdita di prestigio e nell’assunzione di ciò che potremmo definire un ruolo attivo, «nella perdita della natura antropologicamente originaria della carica sovrana, che paradossalmente secondo Bataille si viene a costituire un potere nelle mani del Signore»[12], potere che non ha niente a che vedere con la sovranità, che anzi è la perdita della sovranità. Su questo punto posto da Bataille credo sarebbe d’accordo anche Hegel senza particolari difficoltà, poiché egli stesso vede nel Signore di schiavi un’autocoscienza non sviluppata appieno, tuttavia non sarebbe d’accordo nel negare allo schiavo, il non plus ultra del fare, il possesso di una vera Sovranità. Hegel quindi avrebbe descritto il momento regressivo o secondario della sovranità, il momento del potere, tralasciando di evidenziare che, durante lo sferragliare attivo della lotta, il Signore più che divenire tale con l’assoggettamento del perdente ai suoi scopi biologici, diviene capo di un’economia e di un meccanismo produttivo, lasciandosi alle spalle il vero nucleo originario della sovranità e irretendosi nel termine secondario de fare. In sostanza Bataille vuole sottolineare che Hegel assegna il primato storico della libertà umana a ciò che in realtà rappresenta una perdita del suo essere libera per natura, avverte nella lettura hegeliana una visione in cui la Storia si sviluppa sul potere e non sulla Sovranità, come se l’economia e la divisione del lavoro fossero meccanismi di potere e non di libertà dell’auto-coscienza, forme di sviluppo cui Hegel invece assegna primato assoluto. Inoltre è principalmente con quest’istituzione etico-economica che il Signore pone la possibilità di una fine della storia, la cui unica eventualità coerente per Bataille è che si realizzi in termini socio-economici. Ancora una volta, quindi, la dialettica hegeliana sarebbe arrivata tardi nell’os-servazione dei fenomeni storico-dialettici, assegnando il primato di un’origine semplicemente ad uno dei due poli di un’oscillazione perenne e senza priorità. Bataille è conscio del fatto che Hegel conserva il merito unico di aver descritto la duplicità dialettica dei fenomeni storici, tanto da affermare, con la sua tipica ironia, che se Hegel non fosse esistito avrebbe dovuto assumersi lui stesso il compito di essere Hegel[13]. Tuttavia nell’ottica un po’ relativista di Bataille il suo fondazionismo storicista, con la riconduzione della duplicità a momenti singoli continuamente succedentisi, gli impedì di cogliere pienamente la duplicità strutturale delle figure realizzate dalla coscienza, l’astoricità umana di alcune strutture “antropologiche” e dialettiche come quelle proposte a titolo di esempio da Bataille – la dialettica tra tempo sacro e profano o quella tra sovranità religiosa e militare – e probabilmente lo indussero a credere che, come al di qua della storia non fossero attivi un’essenza umana né gli schemi dialettici, così al di là di essa, con il compimento della propria auto comprensione storica da parte dell’uomo, non vi fosse spazio per un ulteriore progresso di figure e combinazioni inedite, ma solo per una ricapitolazione degli stessi schemi essenziali, prodotti di volta in volta dalla negazione dei precedenti. Ciò che Bataille vuole mostrare, al di là della semplice lettura del tema della storia nella dialettica, è che il sistema di Hegel esclude totalmente la compresenza degli opposti, la sinonimia dei termini, la conservazione di ciò che viene superato, di cui la Storia hegeliana mantiene solo il materiale informativo, fattivo, evolutivo. La duplicità nella fenomenologia dello spirito è un meccanismo di formazione della coscienza, una caratteristica psicologica che permette all’uomo di assumere gli opposti e le contraddizioni, così da sintetizzarli e passare al prossimo nodo da sciogliere con lo stesso procedimento. Bataille vuole invece mostrare come l’essenza dell’umano sia una compresenza, duplice, contraddittoria e mai superata completamente, tra trascendenza ed immanenza, una complessità che non viene completamente sintetizzata e sviluppata, perciò mai esaurita dalla storia.

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5. Fine della Storia

Dopo aver preso in esame i temi della dialettica hegeliana più coinvolti dall’analisi di Bataille, possiamo ora capire su quale base si poggi la sua lettura della “fine della storia”, quel concetto che secondo il filosofo francese costituisce il «grande problema dell’hegelismo»[14]. In effetti la filosofia di Hegel è profondamente segnata dal suo rapporto primario con la fine, anzi è una «filosofia della morte»[15], afferma Bataille, non solo perché Hegel riconosce un’importanza formativa peculiare al rapporto dell’umanità con la morte, rapporto in cui troverebbe sé stessa e la sua certezza, ma inoltre perché la piena realizzazione dell’umanità nello schema teleologico di Hegel è propriamente ottenibile solo in una fine, solo alla fine. Come abbiamo già accennato in precedenza, il concetto di fine della storia non è esplicitamente tematizzato da Hegel, almeno nel senso di un attimo finale, e tuttavia questa nozione attraversa la sua filosofia come un postulato essenziale. Rapidamente: l’ipotesi di una presunta fine della storia deriva principalmente dalla concezione teleologica hegeliana: in tal senso la Storia è letta come svolgimento lineare e progressivo dell’idea di uomo, fautore e protagonista che in essa si sviluppa in un percorso di esperienze finalizzate alla sua piena realizzazione. La logica conseguenza di un simile moto di acquisizione è supporre una battuta d’ar-resto nella linea di sviluppo allorché le tappe fondamentali dell’esperienza umana siano state ormai attraversate. Ma questa supposizione ha una consistenza reale in Hegel? Vediamo da quali elementi emerge una tale possibilità. Innanzitutto è determinante che nella teleologia agisca un’equi-valenza tra l’uomo e la Storia – che fa di quest’ulti-ma una sorta di appendice dell’uomo – non trovando alcun senso al di fuori dell’esperienza che l’uomo vi compie. In secondo luogo la struttura della conoscenza e quella della Storia finiscono per avere la stessa forma, poiché la Storia è la rappresentazione in grande di ciò che la singola esperienza è in piccolo. In ogni esperienza è presente un momento conclusivo (potremmo dire senza far torto ad Hegel che ogni esperienza è racchiusa nella sua fine)[16], ed anzi è esattamente nella piccola fine di ogni esperienza che si concentra il momento produttivo e in-formativo di essa, la pars costruens di quel meccanismo conoscitivo, e quindi storico, che per Hegel è in azione costante nel fare esperienza:

l’Unterschieden für Vergleichen, il distinguere per rapportare. In un primo momento la coscienza si oppone ai suoi oggetti come alterità fuori di sé, entità molteplici e diverse da sé, ottenendone così una conoscenza rappresentativa, in un secondo momento li comprende come parte di sé, come oggetti il cui significato è dato e trovato nella coscienza, e rimuovendo la loro alterità ottiene con ciò una conoscenza concettuale[17]. Dunque l’esperienza e la Storia (che è il succedersi delle esperienze) assumono entrambe una forma circolare, la forma dell’intero, della totalità, poiché la produzione di esperienza e quindi di Storia avviene solo nel volgere a conclusione di essa, una chiusura che distingue il concetto dalla rappresentazione come l’avvenuta comprensione di un fenomeno dalla sua semplice esperienza. Dopo questi due brevi rilievi, in termini certamente riduttivi ma ciononostante utili, non sarà vano precisare che Hegel intende e utilizza il concetto di fine in almeno tre sensi diversi:

1. Nel senso di meta, cui si riferisce col termine Ziel, punto d’arrivo del processo fenomenologico, elemento conclusivo di quel progresso di acquisizioni crescenti che si conclude con la forma dell’uomo odierno, che si è compreso e sviluppato appieno lungo la storia. Non a caso Hegel parla di fine in questo senso proprio nelle ultimissime pagine della Fenomenologia[18]. Potremmo perciò dire che in questa prima accezione la fine viene intesa nel senso di un risultato “genetico” dello sviluppo formativo dell’uomo nel corso della sua esperienza storica, esattamente come la meta dello sviluppo infantile per Piaget si verifica con l’acquisizione delle strutture logico-deduttive verso i 14 anni.

2. Con Zweck si fa invece riferimento alla fine nel senso dello scopo dello Spirito, come il raggiungimento del presupposto che muove la coscienza nel suo fare la Storia, ossia lo sviluppo e l’appro-priazione dell’idea di Sé, della propria identità. Qui piuttosto che una meta il fine rappresenta una finalità della coscienza, tanto presente all’inizio del suo cammino quanto alla fine, qualcosa che potremmo paragonare alla potenzialità, o all’identità di un qualsiasi ente, virtù specifica che sebbene presente da sempre in esso, viene raggiunta solo se sviluppata e realizzata storicamente. Non a caso nel capitolo dell’Enciclopedia dedicato alla Weltgeschichte, laddove si parla della “completa realizzazione dello spirito”, Hegel si riferisce a questo momento come ad una liberazione (Befreiung), realizzata nella concreta identità dello spirito di un popolo tra la sua volontà e le sue leggi[19]. Questa è forse l’acce-zione più generale e comprensiva del concetto di fine nella filosofia di Hegel, ed è proprio su questo concetto di fine che si basa la teleologia dello Spirito. Rispetto allo Spirito che è in via di sviluppo nella Storia la fine è in realtà il suo stesso inizio[20] – a questo proposito Hegel più volte parla nella Fenomenologia di “differenza indifferente” tra inizio e fine come tra reale e razionale, verità e sapere[21] – poiché rappresenta la realizzazione di ciò che esso è già in potenza, la sua essenza specifica. In senso aristotelico Zweck, la fine come scopo dello Spirito, e quindi la sua autofinalità, è una sorta di entelècheia.

3. Il termine Ende, altrettanto utilizzato da Hegel come sinonimo di fine, sta a significare una fine senza connotazioni filosofiche[22], un semplice punto di arrivo senza implicazioni come l’autofinalità o la realizzazione di un processo formativo, ma proprio per questo rappresenta forse il termine che crea filosoficamente maggiore difficoltà. L’Ende è il secondo polo di una linea tesa a partire da un’origine, ma a differenza degli altri due significati non lascia pensare ad una prosecuzione di sorta del percorso. Mentre la meta (Ziel) si raggiunge e così ci libera dalla sua “ricerca”, lo scopo (Zweck) viene compiuto così come prefissato, la conclusione (Ende) è piuttosto un tramonto che non fa intravedere il domani. La concezione storicista hegeliana dell’Uomo come idea da realizzare è di un’agghiacciante esaustività, infatti per quanto il suo fatalismo possa suscitare rigetto e insoddisfazione, resta una teoria ardua da contrastare, visto che è un dato di fatto che la Storia è stata in realtà il processo di formazione dell’uomo, in cui esso ha certamente attraversato momenti che si lascia ormai alle spalle. In quale altro modo potrebbe proseguire la storia dell’uomo una volta ottenute le principali conquiste nella realizzazione della sua formazione? La risposta a questa domanda è esattamente il modo di descrivere come si configura una fine della Storia, come eventualità concreta. Noi possiamo immaginarla in tre modi: (1) come ripetizione inconsapevole degli stessi passi compiuti in passato, nel senso di una riedizione del già noto senza la creazione alcuna di novità. (2) Possiamo immaginarla inoltre come instaurazione e mantenimento di uno stato di cose sempre identico, come avviene nella tirannia o nella perdita della speranza, fenomeni che implicano una perdita del terreno di coltura della storia, la rimozione del passato e del futuro. Fin qui queste possibilità rientrano in ciò che il senso comune identifica con l’assenza di progresso, situazione che in Hegel comporta, almeno a detta di Kojeve, un’uscita di scena dell’uomo. Tuttavia ci può essere Storia senza progresso – intere epoche della storia vedono l’uomo protagonista di vicende che non portano alcun progresso immediato alla sua situazione, sebbene per questo non siano meno storiche – così come può esserci un progresso senza Storia. (3) Quest’ultima immagine della fine è quella più ambigua e sfuggente, perché si cela dietro la maschera del miglioramento, prospettiva che incontra il consenso e l’aspettativa di chiunque, e diffonde dunque facilmente l’atmosfera della Storia. Ma il progresso non porta per forza con sé un mutamento o un miglioramento effettivo della condizione storica. Per Bataille la fine della Storia all’interno della filosofia di Hegel assomiglia più a quest’ultimo scenario che ai primi due, poiché se la Storia finisce la dialettica invece continua ad agire nelle vicende umane a determinare le contrapposizioni fondamentali, creando quell’illusione del progresso cui tanta parte è costituita dalla tecnica e dalla forma del “nuovo servo”. Seguiamo quest’ultimo ragionamento. Il filosofo francese centra ora l’attenzione su un passaggio della dialettica servo-padrone, un passo che potremmo definire il più antropologico. Si tratta di un brano in cui Hegel descrive le dinamiche psicologiche che il “lavoro utile del servo” mette in moto nel rapporto servo-signore: il lavoro del servo guadagna ad esso una superiorità non solo fattiva, dovuta cioè al potere trasformativo e al rapporto immediato con l’oggetto, ma anche psicologica: il lavoro permette al servo di reprimere il desiderio dell’oggetto, a cui il signore invece dà libero sfogo, e così gli impedisce l’impotenza distruttiva del consumo, che invece resta propria del Signore[23]. Tale processo di differimento e repressione del desiderio con il lavoro è al centro della lettura che Bataille propone della “fine della storia”. Egli descrive abilmente come questa struttura psicologica alla base dei rapporti dialettici, dell’incessante dinamica di evoluzione e creazione del mondo umano, sia diventata uno strumento psicologico della macchina del potere, un “dispositivo”, una tecnologia del potere. Nella società moderna il meccanismo di differimento e alienazione del desiderio consumistico dell’oggetto si configura non più nella forma del lavoro che trasforma, ma nella dimensione conformistica di un lavoro per il benessere medio e generico, un lavoro che mantiene e contiene in una forma fissa. Quest’ascendente borghese del lavoro per un uguaglianza sociale appare a Bataille una maschera del vero meccanismo in azione al di sotto dell’ideale di benessere diffuso e desiderato. Il fine del lavoratore nella società industriale, infatti, sembra essersi invertito rispetto al ruolo che gli assegna Hegel nella sua rappresentazione dei rapporti di forza dialettici. Secondo Bataille il servo non è più motore della Storia mediante le potenzialità fattive, psicologiche e trasformative che gli derivano da un rapporto privilegiato con la cosa, un rapporto non distruttivo che trattiene e trasforma senza consumare, al contrario nella tendenza al benessere garantito e indifferenziato egli ha sublimato il desiderio del lusso, del consumo, la tendenza improduttiva, statica e consumistica che è prerogativa del signore[24]. In un certo senso la descrizione che Bataille traccia della società moderna è quella “dialettica morta” in cui il servo è davvero servo e il padrone davvero tale ma nell’inversione dei ruoli: l’atteggiamento e il desiderio passivo del padrone si è sostituito al potere attivo del servo, attraverso la diffusione dell’etica dei consumi e del desiderio di ricchezza il servo ormai compie quell’attività improduttiva e distruttiva che per Hegel era un freno alla conquista della libertà, un freno allo sviluppo storico. Il servo da parte sua compie inconsapevolmente il gioco del signore, mentre questi ha assunto la maschera del lavoratore per il bene comune, il profilo dell’umile servitore della società. In questo scorcio della società moderna offertoci da Bataille, i ruoli della dialettica hegeliana sono rispettati in pieno: il servo è totalmente servo, poiché sebbene appaia libero lavoratore in realtà compie la volontà del signore, e il signore è davvero tale, perché sebbene si atteggi a servitore utile e produttivo al bene comune, in realtà compie esattamente il progetto improduttivo che lo contraddistingue, ma entrambi sono quello che sono solo dietro la maschera di una dialettica. Potremmo definire questa situazione sottilmente colta da Bataille come una “dialettica mascherata”, una finta progressione storica, dove i termini opposti della relazione dialettica in realtà non si oppongono effettivamente, ma solo in modo fittizio, poiché il meccanismo del potere non si esercita più direttamente, con il lavoro che trasforma o con la lotta a morte, ma insinua la propria etica improduttiva nel lavoro delle masse produttive, assumendo le sembianze dell’attività utile riesce a esercitare meglio la propria natura distruttiva.

 

GIUGNO 2012

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[1] «In questo movimento rivediamo, stavolta all’interno della coscienza, lo stesso processo prima presentatosi come gioco delle forze. Ciò che lì era per noi, adesso è per gli estremi stessi. Il termine medio è l’autocoscienza», in:  Hegel, G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, Bompiani, Milano 2000, p. 277.

[2] In questa relazione speculare tra l’evento originario e il processo interiore e identitario si può scorgere facilmente quella relazione tra l’origine della storia e la creazione di un’identità, di cui dicevamo a proposito dello storicismo del xix sec.

[3] Quest’idea della coscienza come “dispositivo” che riproduce la divisione tra servi e padroni è stata sviluppata, naturalmente in senso diverso da F. Nietzsche, Gaia Scienza, Adelphi 2007, af. 354.

[4] G. Bataille,  Hegel, l’homme et l’histoire (Hegel, l’uomo e la storia), in «Monde Nouveau-paru», nn. 96-97, 1956, Vol. xii delle Oeuvres complètes, Paris 1988, p. 13, nota 5.

[5] Hegel, Fenomenologia…, cit., Introduzione del curatore, p. 32.

[6] Bataille, cit., p. 16.

[7] Hegel, Fenomenologia…, cit., p. 277.

[8] «Non è in gioco la forza, perché il fatto di fuggire non costituisce una servitù duratura» in: Bataille, Hegel, l'uomo… cit., p. 14. È interessante notare come Nietzsche, filosofo che compì per primo quella fenomenologia della sovranità di cui sta parlando Bataille, definisse il darwinismo una filosofia dei deboli, proprio perché la sopravvivenza del predatore, dell’individuo meglio adattato, non aveva nulla a che fare con la forza. Cfr. Nietzsche,  Il soggetto e la maschera.

[9] Bataille, cit., p. 16.

[10] G. Agamben, L’aperto, l’uomo e l’animale, Bollati-Boringhieri, Torino 2002, cap. 10-11-12-13.

Molto utili alcune pagine di Agamben alla comprensione dei termini che questo discorso batailliano di dialettica interna- esterna tra servo-padrone e uomo-animale assume in Heidegger. Agamben mette in luce come la definizione heideggeriana di vita animale e vita umana sia molto ispirata e suffragata dagli studi di fisiologia animale di von Uexküll, celebre principalmente per aver formulato quel principio per cui un animale non entra mai in rapporto col proprio oggetto, ma sempre con i suoi oggetti disinibitori. Solo a titolo di esempio riportiamo qui che Heidegger chiama in più passi il mondo animale Enthemmungsring (cerchio di disinibizione). La posizione di Heidegger è molto interessante, come ci informa Agamben sembra riassumere la divergenza di posizioni tra Hegel e Bataille, Infatti Heidegger, nonostante affermi in Essere e tempo che il rapporto tipico dell’uomo col mondo è quello del fare, dell’avere-sotto-mano precisamente, mentre quello dell’animale è un rapporto con la vita, in altri luoghi sostiene che l’uomo, in quanto animale non entra mai in un vero rapporto con i propri oggetti.

[11] M. Heidegger, Essere e Tempo, Lonagnesi, Milano 2006, pp.70 e ss.

[12] Bataille, cit., p. 14.

[13] F. Rella e S. Mati, Georges Bataille, filosofo, Mimesis, Milano 2007, p. 78.

[14] Bataille, cit., p. 23.

[15] Ibidem, p. 23.

[16] Questa concezione finalistica del sapere come esperienza compresa e conclusa nello spirito dell’uomo è uno dei concetti hegeliani più criticati da Bataille, che propone una teoria dell’esperienza in totale antitesi con la teleologia dello spirito. In linea con l’idea del non-sapere e dell’oltranza di significato, afferma che l’esperienza per essere tale non può essere conclusiva, ma anzi deve trascendere la propria conclusione al di là del suo campo di significato esterno, affinché si dia un vero contenuto conoscitivo. Certamente si tratta di un concetto più complesso di quanto io sia capace di riassumere. Cfr. F. Rella e S. Mati, cit., p. 51.

[17] Cfr. F. Chiereghin, Introduzione alla Fenomenologia dello spirito, Carocci, 2008.

[18] Hegel Fenomenologia…, cit., p. 1063.

[19] G. W. F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, § 553, edizione on-line dell’“Hegel-institut.de”.

[20] Hegel Enciclopedia…,cit., p. 73.

[21] Cfr. Ibidem, p. 3, nota n. 8.

[22] Hegel, Fenomenologia…, cit., p. 1053.

[23] Ibidem, p. 289.

[24] Bataille, cit., pp. 32-33.