Esperienza e rappresentazione
ESPERIENZA (PARTE II)
Giulio Trapanese
Maggio 2011, Scuola
Critica, Biblioteca Brau, Napoli.
La seguente costituisce
la trascrizione rivisitata della quarta parte del seminario «Esperienza
e rappresentazione», tenutasi nel Maggio 2011 per il progetto Scuola
Critica.
I termini della trasformazione
antropologica: individuo, comunicazione, memoria, mondo
Direi,
dunque, che alcuni concetti portanti della nostra esistenza, stiano
cambiando profondamente il proprio significato e questo anche in virtù
dello sviluppo dell’intelligenza artificiale degli ultimi anni. I
concetti di individuo, infatti, di comunicazione, memoria e mondo credo
potranno essere affrontati con ordine e discussi singolarmente.
Il
concetto di individuo. Direi che l’attuale società borghese potrebbe
essere rappresentata anche semplicemente come l’espressione
dell’evoluzione della società sul contraddittorio presupposto costituito
dall’individualismo. Con individualismo mi riferisco, in modo specifico,
al principio, sviluppatosi con la modernità in Occidente. La struttura
sociale stessa della società borghese in cui noi oggi siamo, infatti, si
presenta imperniata attorno al mito illusorio della felicità e del
successo (concetti venuti a coincidere per lo più nell’american
way of life degli ultimi due secoli) entrambi intesi in un senso
sostanzialmente individuale. D’altra parte il computer, di cui abbiamo
appena parlato[1],
mi sembra non stia facendo altro che rafforzare la struttura
individualista della società. In questo modo l’Io come gabbia del sé,
odierna fantasmagoria borghese, si candida ad essere la dimensione
portante dell’antropologia contemporanea. Si tratta di una struttura, la
quale, andatasi sempre più rafforzando, per via anche
dell’infrastruttura informatica del mondo, ci sta rendendo individui
sempre più cinici convinti come siamo che la vita sia una questione
individuale e non sociale.
Facebook oggi si pone come l’apogeo della dimensione spettacolare
della nostra vita incarnando il principio di un’individualità
tendenzialmente svuotata di significato. Un principio che, sebbene
provenga da lontano, si va esprimendo oggi in tutta la sua portata
nichilista e distruttiva. Se l’Io è solo, è proprio perché nella sua
azione tende a ritornare sempre verso di sé, a riferire l’intera
esperienza del mondo e i valori, o almeno ciò che un tempo costituiva i
valori, alla propria ristretta cerchia di interessi e fragili legami.
Il
concetto di comunicazione d’altra parte, tema centrale ai nostri giorni,
è stato stravolto negli ultimi anni. Società della comunicazione, quale
è definita la nostra, infatti, dovrebbe piuttosto essere concepita come
società dell’informazione. La confusione fra i due concetti dimostra
chiaramente quella presente intorno al significato odierno di
socializzazione. La comunicazione virtuale rende oggi la socializzazione
di alcuni contenuti un’attività rappresentativa piuttosto che la
complessa espressione fondata sulla condivisione di un senso. Di per sé
comunicare non equivale affatto ad informare. L’informazione infatti sta
alla comunicazione come il graffito sta al ritratto, e un corpo vivo ad
un corpo morto. Comunicare, infatti, non è un’azione, ma piuttosto una
modalità dell’esistere. Come scrissero Watzlawick, Beavin e Jackson è
impossibile non comunicare[2].Se
la comunicazione è un tratto fondamentale dell’esistenza (non si esiste,
infatti, se non comunicando la propria esistenza e il modo in cui si
esiste) allora il fine stesso dell’esistenza può essere inteso come
espressione di sé a gli altri. Un individuo che comunica è un individuo
che attesta al mondo senso che attribuisce all’esistenza.
D’altro canto, invece, l’informazione è tutt’altra cosa. Anche un non
vivo può informare e la prova di ciò ci viene data dagli schermi delle
metropolitane di mezz’Europa in cui vengono diffusi telegiornali
informativi condotti da figure umanoidi e voci robotiche. Se, come
dicevamo, è impossibile non comunicare, allora anche la roboticità di
questi neo presentatori esprime una verità che dovremmo tenere in
considerazione e dalla quale dovremmo partire nei nostri ragionamenti:
l’uomo è giunto ad accontentarsi veramente di poco, pur di sentirsi
dentro un mondo, ed appartenente a qualcosa. Al di là di qualunque
giudizio, infatti, non si può negare che non ci sia oggi alcuna seria,
per quanto minoritaria, resistenza alla società dell’informazione. Anche
il più critico di noi si bea di esistere in una società in cui è
possibile venire a conoscenza di più cose che mai e soprattutto, di
poterlo fare, in un tempo brevissimo. La base della nostra società è,
dunque, quella costituita dall’identificazione di verità e fatto.
D’altra parte, come scriveva Baudrillard[3],
ci dovremmo meravigliare di come, sulla base dei meccanismi di selezione
naturale, l’uomo non abbia oggi già completamente perso la memoria.
Baudrillard lo scriveva quasi venti anni fa e noi potremmo ribattere,
invece, che non ci meravigliamo dal momento che è evidente che la
memoria, al giorno d’oggi sta svanendo per davvero. La memoria della
storia, memoria di sé e degli altri, ricordo della vita. Tutte queste
diverse forme di memoria sono in via di estinzione. Se, infatti, il
computer ricorda, noi al massimo siamo rimasti in grado di riconoscere
cose ricordate (cioè fissate nella memoria) da altri. Il computer
immagazzina, e noi recuperiamo ciò che ha archiviato. Come a dire che i
padroni non s’occupano più di ciò che gli schiavi fanno al posto loro.
Direi,
così, che la liberazione dalla memoria costituisce il paradosso storico
più pericoloso che ci stiamo trovando a vivere. Se è vero che siamo oggi
nella condizione di non ricordare tutta una serie di cose inutili, lo è
anche che, con questa delocalizzazione della memoria, andremo incontro
alla perdita della funzione mnemonica anche nel suo senso di costruzione
e conservazione di un’identità. Non è un caso che quella che rimane per
lo più oggi come identità è un’identità temporanea, necessaria per fini
specifici, ma che non resiste a lungo. Avremo a che fare sempre di più
con queste nuove forme di identità. Allo sguardo di chi è vissuto nei
secoli scorsi queste nuove formazioni caratteriali apparirebbero
tout court come personalità
senza identità.
Tuttavia, l’elemento di maggiore rimozione riguarda la fatica di
guadagnarsi un’identità: trovare un senso alle cose, per quanto esso
possa essere fragile e non identico a se stesso per sempre. A differenza
delle passate generazioni, quella contemporanea ha una difficoltà
incredibile ad individuare chiaramente, nella cerchia delle proprie
relazioni, chi siano gli amici, e chi i propri nemici, o come, nella
vita, ci si possa difendere, ma senza necessariamente offendere. Oggi
“lottare” per il senso comune si identifica con qualcosa di violento,
mentre sapere come resistere ha costituito da sempre una prerogativa
essenziale per lo sviluppo della soggettività. Riuscire a costruire
l’idea di un mondo possibile a fronte del mondo reale che ci si trova di
fronte è divenuto qualcosa di molto difficile per un giovane degli
ultimi anni. Attestarsi fermamente attorno a dei valori, è divenuta
un’esperienza molto più rara. Personalità di un passato non per forza
lontano rimarrebbero allibite, da questo punto di vista, del modo in cui
le nuove generazioni vivono la loro vita. Un uomo del passato proiettato
nell’oggi crederebbe di trovarsi di fronte ad un soggetto molto diverso
da sé, addirittura forse non un essere umano. Argutamente si
rivolgerebbe forse alle macchine per avere spiegazioni di quanto sia
accaduto, riconoscendo così i veri protagonisti della società. Se è
vero, infatti, che assomigliamo ancora all’uomo del passato, la nostra
mente sta divenendo, in un tempo molto rapido, qualcosa di diverso.
Stiamo forse procedendo spediti lungo la catena evolutiva che da
Neanderthal in poi ha impiegato milioni di anni a svilupparsi; ma,
tuttavia, non sappiamo bene verso cosa stiamo procedendo.
Quanto
al mondo, abbiamo detto, il mondo come riferimento oggettivo della
nostra esperienza è qualcosa che è in via di estinzione. Con il concetto
di “fine del mondo” possiamo indicare il processo in corso di
soggettivizzazione estrema dell’esperienza che va a coincidere, al
contempo, con il processo della sua rarefazione. L’altro è sempre meno
altro e diviene sempre più una mera proiezione dell’Io. Il mondo, così
si presenta ormai come un mondo personale, cioè non più comune anche ad
altri ma come qualcosa che riguarda la soggettività particolare, e si
riferisce, per lo più, ad un’esperienza non condivisibile. Il mondo per
un individuo può sussistere oggi solo nella misura in cui venga
controllato, neutralizzato, e reso così un’appendice dell’Io. Esso non è
più dato nella sua naturalità, ma costruito, piuttosto, come una serie
di schermi virtuali a protezione del mondo oggettivo. Mentre ci si crede
più forti, la virtualità rappresenta la prova dell’incapacità ad
affrontare l’oggettività del mondo e delle relazioni umane con tutta la
durezza e l’imprevedibilità che queste comportano.
Rappresentare è un difetto dell’essere
Riguardo al tema dell’esperienza, vorrei fare riferimento adesso al
concetto di mappa. Non valuteremo mai abbastanza, infatti, l’importanza,
nel processo della costruzione della nostra identità, del modo in cui
siamo in grado di rappresentarci il mondo in cui viviamo[4].
Ai giorni d’oggi, attraverso l’esperienza di
Google maps, ci si bea di osservare la conformazione di luoghi
presenti nei continenti più distanti. Siamo, infatti, arrivati a
determinare un punto di vista sulle cose, e a formulare mappe di
qualunque luogo presente sul nostro pianeta (e non solo). Se nel passato
si era costretti a procurarsi le mappe dei luoghi dove si era diretti,
oggi abbiamo già sempre a disposizione, attraverso i satelliti, cartine
che anticipano la nostra esperienza di quei luoghi. La terra è
continuamente monitorata da satelliti collocati nello spazio. C’è un
controllo totale ciò che avviene sul nostro pianeta per mezzo di questi
satelliti. La nostra esperienza si nutre nel quotidiano dell’illusione
di possedere tutto il mondo in una semplice schermata del
web. La nostra conoscenza, come ormai abbiamo già detto più volte, è
una conoscenza astratta dall’attività pratica in un mondo.
Il
tema della mappa costituisce un esempio classico di come la
rappresentazione non sia già la realtà, né tanto meno possa costituire
un’esperienza esauriente di essa. Personalmente posso dirvi che dopo
essere stato le prime volte a Parigi, la rappresentazione mentale della
città con cui sono ritornato corrispondeva più o meno a quella della
mappa (onnipresente) della metropolitana. Più che le sensazioni dei
luoghi mi sono ritrovato a ricordare la loro posizione su quel foglio di
carta in scala, senza di cui a Parigi si è destinati a perdere
completamente l’orientamento. Aggiungo che quella mappa, come la maggior
parte delle nostre rappresentazioni odierne, non è che la reificazione
dell’esperienza della città, ed ha come effetto quello di sovrastare
l’irriducibilità del sensibile.
In
ogni analisi dei processi storici, credo sia necessario riconoscere i
reali vincoli di appartenenza dei soggetti storici, altrimenti ogni
discorso si fa estremamente astratto. Il punto riguardante il presente è
dunque riconoscere come la vittoria della borghesia e del suo modo di
vivere abbia costituito la base per la rottura dei vincoli tradizionali
di appartenenza e dei modi tradizionali di individuazione. D’altro
canto, se volessimo approfondire il tema dell’immigrazione nel mondo di
oggi, che sarebbe senz’altro un tema da approfondire, potremmo arrivare
a sostenere che, per quanto per lo più indotto dalla fame e dalla
disperazione, questo fenomeno ci dimostra come una gran parte dei
giovani, nei diversi continenti, sia oggi disposta ad accettare un
sistema veloce e accelerato di produzione e di vita, avvertendo sempre
meno il dilemma morale dell’abbandono del passato, e, al contempo, del
luogo della propria origine.
L’immigrato oggi ha un alto valore simbolico: spesso, nei paesi
occidentali più ricchi, egli riesce anche ad integrarsi nel sistema
economico, tuttavia egli paga il prezzo di perdere la possibilità di
conferire un senso politico al proprio agire nel mondo. Con un solo
viaggio d’andata, infatti, egli perde la possibilità della politica
nella società che lascia, dove avrebbe i legami e il senso di
appartenenza per incidere nel mondo, e si colloca in un nuovo mondo,
arrivando a costituirne un’ennesima “pedina biopolitica”, al servizio
del meccanismo della valorizzazione capitalistica. Dunque la perdita
delle forme di appartenenza costituisce un fenomeno fondamentale (direi
un fenomeno “tipo”) per comprendere il depotenziamento degli attuali
movimenti politici rispetto alla possibilità d’incidere sul mondo. La
passivizzazione politica degli immigrati, infatti, è solo l’esempio più
eclatante di questo fenomeno più generale. Londra, o Parigi, accolgono
un’infinità di immigrati che costituiscono la reale base lavoratrice di
quei posti, ma che non esprimono pienamente il proprio peso politico a
fronte del loro peso economico, e questo al di là dei meccanismi che
rendono oggettivamente difficile la loro partecipazione.
Per
avviarci a concludere, delinerei ora qualche breve prospettiva. A questo
riguardo la domanda che mi pongo riguarda la possibilità residua che
l’esperienza continui a sussistere, al di là dell’invadenza della
rappresentazione. A questa domanda, in un primo tempo, risponderei, che
è solo nell’esperienza non cosciente che l’esperienza può trovare oggi
una possibilità di espressione. Dal momento, infatti, che ci troviamo
nella condizione in cui la nostra coscienza, con le sue
rappresentazioni, è segregata lontano dal sentire corporeo, il nostro
corpo, proprio in virtù di questa distanza, potrebbe riuscire a
mantenere un valore di esperienza. Dunque, se prestiamo più attenzione
al problema, e proviamo a formulare in termini diversi la domanda, direi
che questa potrebbe essere: in che senso una vita lontana dalla
coscienza lascerebbe sopravvivere, nonostante tutto, una certa parte
dell’esperienza?
La
separazione di vita e rappresentazione costituisce un riflesso
dell’imponente condizionamento della tecnologia virtuale nella
produzione. L’imponenza del sistema, infatti, travalicando ampiamente
l’intelligenza dei singoli, che ne costituiscono i singoli ingranaggi,
diffonde un enorme sentimento di impotenza tra gli individui che vivono
nello scenario attuale: paura di catastrofi ambientali, le crisi
economiche, l’angoscia per il futuro, sono tutti i sintomi di un’età di
passaggio nella quale si è persa la fiducia in un ordine che regoli le
cose. Il sistema presenta un meccanismo talmente pianificato, ed ha
assunto, d’altra parte, una dimensione talmente globale che alla
grandissima parte degli individui appare ormai impossibile agire in
qualche modo per cambiare la propria condizione[5].
D’altra parte, un altro grande tema è che, nella maggior parte delle
nazioni, e, sicuramente in quelle occidentali, per le giovani
generazioni si va consumando a gran ritmo la consapevolezza di
appartenere ad un filo della tradizione e, di far parte, in questo modo
di una storia che le precede. Credo questo, in verità, sia a renderli
così fragili e insicuri; per loro, e per noi, è la perdita d’ogni
tradizione ad essere il presupposto, al contempo, per l’esaurimento
della capacità di sperare.
A
questo proposito, come già anticipato, il mio intervento di domani sarà
dedicato alla proiezione di alcune immagini video. Tra queste, ad
esempio, vi è l’intervista ad un ragazzo di oggi e ad un giovane di
quaranta anni fa. Vedremo così come la velocità del discorso del giovane
di oggi sia maggiore, e come, apparentemente, lo sia anche la sua
sicurezza nell’esprimersi. L’espressione dei suoi pensieri e dei suoi
sentimenti, d’altra parte, è demandata quasi unicamente alle parole, dal
momento che i suoi gesti si trovano ad essere separate da questi. La sua
vita non rappresentata e non cosciente, si trova in completa disarmonia
con le parole. Il corpo incarna una verità diversa, dove l’espressione è
sostanzialmente il prodotto dell’intellettualizzazione. Quanto emerge da
queste immagini è che il corpo, come soggetto che sente, non può fare a
meno di esprimere il disagio della propria mutilazione. Nella fase di
trasformazione antropologica, quale è quella che viviamo, il corpo
risulta l’elemento più colpito. Rispetto alle immagini in video,
infatti, in quella di quaranta anni fa la persona si esprime in modo più
limitato, ed è in grado di utilizzare meno parole, non riuscendo a
trovare neppure i termini adeguati. Le sue rappresentazioni sono più
confuse e sono piuttosto i movimenti del corpo, posti in relazione ad un
certo contesto e ad un certo mondo, che racchiudono la sua esperienza, e
gli danno la possibilità di esprimerla. Attraverso il corpo, infatti,
egli non esprime concetti teorici, astratti; vale a dire non dà opinioni
sulle cose, sui fatti del mondo. egli piuttosto comunica: «Io sono così,
dunque la penso così». Non «Io così penso, e quindi sono così». L’essere
occupa un posto prioritario rispetto al pensiero e alla
rappresentazione. Il carattere di una persona si presenta come il
criterio attraverso cui egli giudica i fatti del mondo e le persone. In
ogni sua parola, egli rivendica la sua identità. Eravamo in un periodo
storico, in cui la sensibilità comune non veniva ancora violata dal
dominio di informazioni e rappresentazioni astratte nella misura in cui
lo è oggi.
Da
questo punto di vista, quindi, la vita al di là della coscienza
costituirebbe il punto nevralgico dell’esperienza in via di estinzione.
Anche l’esempio di cui abbiamo discusso in precedenza, relativo a
Mussolini e Berlusconi, ci fa osservare come identiche parole possano
assumere oggi significati molto diversi. Proprio perché viviamo in un
regime determinato dalla parola, ogni individuo viene giudicato da quel
dice nel momento presente, più che non dai suoi riferimenti di valore.
Se guardiamo il corpo di Mussolini e, dall’altro lato, di Berlusconi
possiamo segnare la parabola della trasformazione della società italiana
negli ultimi sessant’anni. Alla base del fascismo c’è un idea di potere
che incarna ancora l’universalità astratta che si impone sulla
particolarità della vita dei singoli individui. I movimenti del corpo,
ad esempio, come i gesti caratteristici, o il tono di voce adottati
tipicamente da Mussoilni dimostrano la presa del simbolico sull’elemento
della vita. La figura di Berlusconi, d’altra parte, ci mostra
esattamente il contrario. Avendo lo spettacolo come rappresentazione
vinto sulla vita di tutti, Berlusconi non si presenta che come un uomo
fra tanti, certo una personalità di successo, ma in ogni caso un
individuo, non un simbolo.
Conclusioni del seminario
Per
concludere, davvero, indicherei anzitutto due elementi che, in
particolare, sono sul punto di estinguersi nella nostra epoca
tecnologica. Elementi che, tra l’altro, almeno in apparenza, si
presentano come opposti: la scrittura a mano e l’analfabetismo.
Entrambi, infatti, sono stati messi in crisi dall’avvento fulmineo della
scrittura informatica, che, trasformando il modo della scrittura, sta
comportando la trasformazione di alcuni tratti della sensibilità. Il
fenomeno dell’analfabetismo, d’altra parte, che pure nessuno
rimpiangerà, è in via di scomparsa; ma non per via di un’acculturazione
di massa, piuttosto perché la pubblicità, alla base del mondo odierno,
ci espone continuamente a marchi e loghi che vanno riconosciuti. Così
nessuno ormai si può permettere di non saper leggere. La comunicazione
odierna ha, infatti, una parte sempre più scritta[6];
l’analfabeta del passato può oggi impratichirsi esprimendo per iscritto
sul proprio profilo facebook i
suoi presunti stati d’animo. D’altra parte la vera maestra, e almeno da
cinquanta anni, non è più quella delle scuole elementari. Si impara a
leggere e a parlare attraverso i dialoghi della televisione (oggi in
particolare quelli dei talk show);
d’altra parte, come scriveva Pasolini, è la televisione ad aver creato
in Italia una nuova lingua, sorta sulle ceneri della varietà dei
dialetti presenti nelle più diverse regioni italiane.
Vi
proporrei ora due piccoli esempi, anche questi in apparente opposizione
l’uno all’altro. Si tratta dei
managers di multinazionali, in continuo movimento per lavoro tra
continenti o nazioni diverse, e, dall’altro lato dei migranti, anch’essi
impegnati in un viaggio, ma di un tipo sicuramente diverso. Entrambe
queste figure incarnano, da prospettive ben diverse, la natura della
globalizzazione che viviamo, in virtù della quale gli individui sono
portati a viaggiare, a spostarsi, e a separarsi da un luogo fisso. A
divenire nei fatti nomadi, a perdere un rapporto sostanziale con la
propria terra. Se l’immigrazione, allora, per millenni, è stata
un’immigrazione collettiva di comunità, da una parte del mondo ad
un’altra, la figura del big
manager di oggi, d’altra parte, incarna, invece, tipo di uno
spostamento individuale continuo, che si nutre e che alimenta
l’illusione d’una quasi onnipresenza sull’intera sfera planetaria. Il
risultato ultimo è stato quello di produrre un soggetto oramai sradicato
per definizione da un contesto territoriale.
Vi
inviterei, d’altro canto, a riflettere ad una persona che vive circa
otto ore della sua giornata in un aereo, nello spostarsi da un
continente all’altro, e a quale relazione possa oramai avere con il
mondo. Potrà osservarlo dall’alto, in tutti i sensi, senza poter più
appartenere ad un territorio in particolare. Credo sinceramente che
tutto questo influisca molto sul cinismo e sul disprezzo per gli altri
da parte di queste persone. Una personalità come quella di Marchionne,
ad esempio, esprime un violento disprezzo per tutto quanto non rientri
nel suo modello unico.
Vorrei
comunque spendere le ultime parole sul tema dell’informatica.
L’informatica è giunta ad essere la quintessenza dell’attuale società
capitalistica esprimendone, al tempo stesso, le potenzialità di società
del controllo[7].
Nella società in cui viviamo non è più richiesto agli individui di tener
fede ad un vincolo di tipo morale, ma è lo sviluppo tecnico e produttivo
a determinare le condizioni dell’azione dei singoli individui. In questo
tipo di società il potere strutturante della produzione e
dell’organizzazione sociale è in grado di regolare la vita in modo
meticoloso. Pensiamo all’organizzazione della vita e del tempo libero al
giorno d’oggi. Qual è il modello delle più recenti costruzioni dei
centri commerciali? Il modello del centro commerciale è quello di
organizzare la giornata dei clienti dal mattino alla sera, includendo i
momenti dello shopping, del cinema, e del divertimento.
Dunque, cosa è l’informatica oggi, se non questa continua costruzione di
percorsi predefiniti, e di connessioni capaci di regolare i flussi di
informazioni, e tracciare connessioni definite? I gangli della rete
divengono in numero sempre maggiore, ma è proprio l’aumentare del loro
numero a circoscrivere un campo assolutamente più ristretto. Il sistema
presenta, dunque, un’organizzazione per il quale il campo di
possibilità, facendosi più complesso, in realtà si restringe,
comprimendo lo spazio per la scelta non preordinata, e non inquadrabile
nelle maglie delle connessioni del sistema. D’altra parte la gestione
effettiva dei server risiede
attualmente nelle mani di pochissimi individui.
Lo
stadio attuale dello sviluppo dell’informatica ci indica la natura
attuale dell’intero sistema in cui viviamo e di cui ci siamo impegnati a
discutere in questo seminario. Il fondamento, per quanto sia ciò che
proprio in quanto tale più facilmente viene dimenticato, è ciò che,
invece, ci condiziona continuamente. L’immaterialità, l’ubiquitarietà e
la struttura a rete[8],
caratteri specifici dell’informatica, costituiscono anche quelli della
nostra società. Essi si relazionano reciprocamente fino a confondersi.
Se quanto all’esperienza relativa all’utilizzo dei mezzi di
comunicazione sembrerebbe di trovarsi di fronte ad un arricchimento
nella quantità e nella qualità delle nostre informazioni, in verità, ciò
che si nasconde in questa esperienza è che il valore reale di questa
nostra esperienza è ridotto a zero. La nostra esperienza si sta
modificando radicalmente nel senso dell’intellettualizzazione per via
dell’ingente ricezione passiva di flussi di informazioni, e di immagini;
la nostra conoscenza del mondo tende, infatti, sempre più, ormai, a
coincidere con un passivo stare a guardare il mondo.
Ho
concluso davvero e, ringraziandovi per l’attenzione, diamo ora spazio al
dibattito.
DICEMBRE 2012
[1]
Esperienza (parte I),
in Città Future, 2012,
n°8.
[2]
P. Watzlawick, J. H. Beavin, Don D. Jackson,
Pragmatica della
comunicazione umana.
Studio dei modelli interattivi delle patologie e dei paradossi,
Astrolabio, Roma 1971.
[3]
J. Baudrillard, Il delitto
perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, Cortina,
Milano 1996.
[4]
Riguardo la presunta onnipotenza di dominare con la visione
l’intero territorio della terra, non può non venire in mente il
Kant della Dialettica
trascendentale (in
Kant, Critica della ragion pura, Dottrina degli elementi II, ii, Dialettica
trascendentale, Libro II, Cap II) quando si impegnò a
dimostrare che non si può avere un’esperienza del mondo nella
sua totalità, ma solo di singole parti di esso. Riguardo il tema
della rappresentazione soggettiva dello spazio si veda anche
Merleau–Ponty,
Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2003.
[5]
Il tema dell’ampiezza di dimensione e della burocratizzazione
come limiti intrinseci delle società contemporanee non è forse
mai stato sviluppato come avrebbe meritato. Uno dei pochi
critici di questo fenomeno è senz’altro M. Weber, che a più
riprese ne ha sottolineato l’importanza ai fini dell’analisi
politica e sociale.
[6]
Questo non vuol dire come dice Ferraris negli ultimi anni che
oggi la scrittura abbia vinto. La scrittura in astratto magari
sì, ma la scrittura come esperienza no, anzi quell’esperienza
della scrittura si sta estinguendo.
[7]
Su questo si veda anche P. Virilio, ed in particolare
La bomba informatica,
Cortina,
Milano 2000.
[8]
Si veda M. Castells, Comunicazione e potere, Università Bocconi, Milano 2009.