Recensioni
Reinhart Koselleck,
«Crisi. Per un lessico della modernità
Gennaro
Imbriano
1.
Non è certamente fatto sorprendente che all’interno del mastodontico
progetto dei Geschichtliche Grundbegriffe Reinhart Koselleck si sia occupato
personalmente della stesura della voce
Krise[1].
Se è vero, infatti, che la
Begriffsgeschichte veniva intesa dall’autore come storia semantica
dei concetti politico-sociali della modernità, ovvero come tentativo di
«ricercare la dissoluzione del vecchio mondo e la nascita di quello
moderno nella storia della loro comprensione concettuale»[2],
“crisi” è, insieme a “rivoluzione”, “progresso”, “democrazia”,
“emancipazione”, etc., concetto fondamentale in cui si condensano e si
stratificano quei processi immanenti al linguaggio che segnano e che
corrispondono all’affermarsi del mondo moderno. Il nostro lemma è in
effetti un «tratto distintivo dell’epoca moderna»[3],
come afferma Koselleck, cioè parola concettuale attraverso la quale un
intero mondo storico si autocomprende.
La storia concettuale, posta sempre da Koselleck su un piano di
fertile collaborazione con la storia sociale, deve in ultima analisi
mostrare come il processo di trasformazione complessivo che interviene
in Europa tra la fine del xviii
e gli inizi del xix secolo
(e che conosce il suo punto di tensione nella Rivoluzione Francese)
riguardi anche il piano linguistico e, anzi, si compia anche attraverso
una ridefinizione dei concetti fondamentali. La tesi di Koselleck è che
in questo periodo storico si produca una vera e propria trasformazione
semantica, in forza della quale si sviluppa un nuovo vocabolario
concettuale: “crisi”, “rivoluzione”, “progresso” e gli altri concetti
fondamentali acquisiscono il loro significato propriamente moderno,
interno alla filosofia della storia. Questa trasformazione semantica si
determina attraverso quattro processi tra loro legati: la
«democratizzazione» dei concetti politico-sociali, corrispondente alla
disgregazione della società organizzata in ceti e all’affermazione
dell’Illuminismo politico; la
Ideologisierbarkeit, cioè la «possibilità di ideologizzazione» di
alcuni concetti – in particolare i cosiddetti “collettivi singolari”
come “storia”, “progresso”, “libertà” – utilizzabili come strumenti
della battaglia politica in maniera differente sulla base
«dell’appartenenza di classe e degli interessi di chi parla»; il
processo di «politicizzazione» dei concetti, usati adesso all’interno di
un vocabolario propagandistico e polemico, finalizzato alla
mobilitazione di un numero sempre crescente di persone; infine, la
«temporalizzazione del contenuto semantico delle categorie», ovvero
l’affermazione di «concetti di movimento» (da “emancipazione” a
“rivoluzione”, da “progresso” a “sviluppo”), che indicano lo slancio del
presente verso il futuro[4].
In questo senso il concetto di “crisi” è un ottimo «indicatore»[5],
per usare una categoria cara a Koselleck, della complessa dinamica che
regola lo svolgersi di questi processi: la sua storia semantica svela –
se è vero che i concetti sono depositari e testimoni (indicatori, per
l’appunto) di un mondo storico – le tracce di un determinato mondo della
vita (quello moderno) in divenire.
I concetti politico-sociali, infatti, non sono mai produzioni
astratte dello spirito. Piuttosto, «tutte le storie di concetti
manifestano assieme nuovi stati di cose e una modalità di relazione con
la natura e la storia, con il mondo e con il tempo in continua
trasformazione»[6].
È certamente vero che i concetti «hanno una propria storia, immanente al
linguaggio»[7];
e tuttavia «ciò che deve e che può essere compreso sta al di fuori dei
concetti», i quali rimandano sempre ad una determinata realtà sociale
che in essi si deposita: «ogni semantica rimanda oltre se stessa»,
precisamente a quell’«ambito oggettuale» che non potrebbe essere
esperito senza linguaggio[8].
Questa relazione tra struttura sociale e concetto non va però intesa in
senso deterministico, pena la riduzione della storia concettuale a mero
“storicismo politico”. I fatti storici e le strutture sono complessi di
fenomeni che eccedono la loro riproduzione linguistica, la quale non può
riflettere integralmente gli elementi della storia sociale: «sussiste
una differenza ineliminabile tra ciò che accade nei rapporti tra le
persone, cioè a livello sociale, e quello che viene detto al riguardo»[9].
D’altro canto, i concetti stessi eccedono la riproduzione della realtà
perché sono strutture complesse dal punto di vista temporale, cioè
universali semantici nei quali sono sedimentate dimensioni temporali
plurime, che si riferiscono al passato e al presente, ma anche al
futuro: essi non servono solamente a descrivere fenomeni e strutture, ma
anche a produrre prognosi e aspettative future. Intesi come strumenti
scorrevoli lungo l’arco temporale, i concetti sono coacervi di
stratificazioni semantiche nelle quali si condensano livelli molteplici
di significati, che spesso si sovrappongono e si mescolano tra di loro.
Un concetto raccoglie in sé significati storicamente sedimentati, tutti
contemporaneamente presenti (ancorché con intensità differenti) ogni
volta che il concetto viene usato: la contemporaneità del
non-contemporaneo è elemento proprio di queste parole, col che esse non
si limitano a un compito ricettivo e passivo, ma prognostico e, con ciò,
aperto al futuro. Il linguaggio politico, insomma, riproduce solo
parzialmente la realtà non solo perché questa lo eccede strutturalmente,
ma anche perché il suo obiettivo è un altro: quello di produrla, motivo
per il quale il linguaggio è «fattore» del movimento storico, oltre che
indicatore, ovvero elemento attivo che concorre alla produzione di
specifiche dinamiche storico-sociali[10]:
lungi dal limitarsi a registrare, «ricettivamente, ciò che avviene fuori
di esso», il linguaggio è anche in grado di modificare, «attivamente,
tutti gli stati e i dati di fatto extralinguistici»[11].
2.
Ce n’è abbastanza per intuire che la storia semantica di “crisi”
contiene tutti gli elementi propri di quel «processo di trasformazione
verso la modernità»[12]
che prima abbiamo indicato. In effetti, si tratta di un concetto che
viene scaraventato nella battaglia politica a fini ideologici o
propagandistici e la cui “pura” evoluzione semantica – che si determina
attraverso il suo passaggio da un uso specialistico in seno ai linguaggi
tecnici della medicina, della teologia e del diritto al diffuso utilizzo
in seno alla filosofia della storia – mostra in maniera quasi
paradigmatica in cosa consistano i processi di temporalizzazione,
ideologizzazione e politicizzazione prima accennati.
Sul piano del metodo, sarà bene specificarlo, la storia semantica
di un concetto viene ricostruita da Koselleck mediante una integrazione
della «semasiologia» (l’analisi di tutti i significati che un termine ha
assunto nel corso della sua storia) con l’«onomasiologia» (l’analisi di
tutte le denominazioni utilizzate per descrivere uno stato di cose):
solo in questo modo la relazione tra dato di fatto, struttura e
linguaggio viene resa nella sua complessità e il piano dell’evoluzione
diacronica del significato è opportunamente integrato con il piano
sincronico[13].
La lingua greca conosce l’utilizzo del termine
Kρίσις, che deriva dal verbo
κρίνω, che significa
«“separare, dividere”, “scegliere”, “giudicare”, “decidere”; mediale:
“misurarsi, competere”, “litigare”, “lottare”»[14].
In lingua greca, κρίσις è
termine tecnico utilizzato in tre ambiti fondamentali:
politico-giuridico, teologico e medico. Ogni volta le sfumature
semantiche del termine sono tali da produrre accezioni particolari che
fanno riferimento a uno di questi tre ambiti. La specificità del
termine, legata al verbo κρίνω,
rinvia immediatamente ai campi semantici dell’opposi-zione netta,
radicale, ma anche del taglio e della scelta: «il concetto poneva di
fronte ad alternative nette: ragione o torto, salvezza o dannazione,
vita o morte»[15],
determinando opposizioni esasperate e soprattutto non mediabili, cioè
risolvibili solamente attraverso cesure e decisioni nette, irrevocabili,
escludenti una delle due possibilità presenti.
Krisis
è anzitutto parola chiave della politica: «significa “separazione” e
“lotta”, ma anche “decisione”»[16].
La parola indica però anche la facoltà di giudizio, ovvero denota il
campo semantico che attualmente è coperto dalla parola “critica”. «In
greco pertanto gli ambiti di senso di una critica “soggettiva” e di una
crisi “oggettiva”, che successivamente si separeranno, venivano espressi
con il medesimo termine»[17].
Ora, Kρίσις è il «giudizio»
non solo nel senso della critica soggettiva, ma anche nel senso forense
del termine, che tuttavia si caratterizzava al contempo in senso
politico: «soprattutto nel senso di sentenza, interpretazione e
applicazione del diritto, infine come tribunale, “crisi” godeva di un
rango politico-costituzionale elevato, attraverso il quale i singoli
cittadini e la loro comunità politica erano reciprocamente legati»[18].
In questo senso il termine è usato da Aristotele, dove «l’espressione
giunse ad avere un peso politico proprio a partire da questo specifico
significato giuridico legato alla creazione del diritto». Mediante la
crisi erano dunque pensate e prese decisioni risolutive per la comunità,
che attenevano «alle decisioni di voto, ai decreti governativi, alla
decisione circa la pace o la guerra, alla pena capitale e alle condanne,
all’accettazione dei resoconti, infine alle decisioni della politica di
governo», motivo per il quale quello di crisi è un «concetto centrale» e
un momento «indispensabile al di sopra di ogni cosa» per la comunità, in
quanto determina «la giustizia e l’ordinamento della sovranità»[19].
Il significato forense (e politico) della parola viene ripreso e
trasferito anche in ambito teologico, prima grazie alla traduzione dei
Settanta dell’Antico Testamento e poi anche nel Nuovo Testamento. Si
consumano qui due sensibili trasformazioni semantiche del termine. In
primo luogo, nella tradizione ebraica «il tribunale secolare veniva
attribuito a Dio»[20],
il quale è l’unico detentore del giudizio ultimo sugli uomini; in
secondo luogo, la crisi diventa nella tradizione cristiana il Giudizio
universale, e il tribunale del mondo si trasforma nel tribunale divino:
«alla fine dei tempi la κρίσις
avrebbe portato alla luce la vera giustizia, che prima rimaneva
nascosta. I cristiani vivevano nell’attesa del giudizio universale (κρίσις
= judicium)». Con ciò,
κρίσις determina adesso una
attesa escatologica del giudizio finale, poiché in esso è insita una
promessa di salvezza (oltre che di giustizia), che provoca una specifica
attesa temporale della fine. La crisi è così un vero e proprio «evento
cosmico», ovvero il Giudizio universale che si svolgerà «come un vero
processo» che assicurerà giustizia a tutti, «non credenti e devoti, vivi
e morti», decidendo
radicalmente della salvezza o della dannazione, e che apre, per la sua
natura, un «orizzonte di aspettativa che qualificava dal punto di vista
teologico il tempo storico futuro»[21].
Infine, la parola ha un ambito di applicazione all’interno della
letteratura medica, che deriva dal corpus ippocratico e che viene
sistematizzato da Galeno. «Per crisi di una malattia si intendevano sia
il dato osservabile sia il giudizio (judicium)
sul suo decorso, che giungeva a un certo punto all’alternativa radicale
tra la vita e la morte del malato»[22].
La crisi è dunque lo stadio finale di una malattia, nel quale è in gioco
la decisione finale tra la vita o la morte del paziente. Pertanto anche
quello medico è «un concetto che indicava uno svolgimento» che, «proprio
come un processo giuridico», determina un legame tra temporalità
(decorso della malattia) e scelta, in quanto «conduceva a una decisione»[23].
L’utilizzo giuridico-politico, quello teologico e quello medico del
termine contengono dunque specifici significati che rimandano sempre
alla domanda su ciò che è giusto e ingiusto, su ciò che conduce alla
salvezza o alla dannazione, su ciò che è salvifico o mortale.
I tre significati della parola si trasferirono in modi differenti
nel moderno linguaggio politico-sociale, allorché il termine fu adottato
nelle lingue nazionali tra il xiv
e il xvi secolo. Meritano
di essere messi in luce due risultati dell’approfondita analisi che
Koselleck sviluppa in merito all’assunzione di “crisi” nelle lingue
nazionali e alla sua registrazione nei lessici. Primo: nel
XVII e XVIII
secolo la maggior parte dei lessici registra solamente il significato
medico del termine. Malgrado taluni dizionari facciano riferimento alle
sfumature semantiche proprie dell’uso giuridico della parola, essi si
riferiscono per lo più alla dottrina della malattia e al campo medico.
Solo a partire dalla fine del XVIII secolo e nel
XIX secolo il
significato politico e quello economico vengono menzionati. Secondo: il
significato economico di “crisi”, oggi predominante, si sviluppò nello
spazio linguistico tedesco soltanto a partire dal
XIX secolo. Questo
elemento autorizza a concludere che l’estensione dell’espressione al
linguaggio politico non fu mediato né dal significato teologico né da
quello giuridico, ma da quello medico. Soltanto in ultima analisi
l’espressione fu applicata all’eco-nomia. Se l’uso medico della parola
può essere dimostrato già a partire dal XIV secolo, quello politico si
sviluppa in Inghilterra solo nel XVII secolo (Rudyard parla di una crisi
politica nel 1627, Richard Steele nel 1714). In Germania la parola fu
utilizzata in senso politico da Leibniz, Federico II, Jacob Schmauss,
Clausewitz e altri per indicare guerre, crisi politiche (crisi statali o
crisi di governo) e guerre civili.
Ciò che tuttavia determina
la specifica novità dell’uso moderno di crisi è, a partire dalla seconda
metà del xviii secolo,
l’applicazione del concetto al campo della filosofia della storia. La
genesi di questa applicazione è complessa: per un verso vi contribuì
certamente l’interpretazione «metaforica della malattia» applicata non
più solamente al piano politico ma al corso storico, ma soprattutto il
ritorno di una «sfumatura religiosa» nell’uso della parola, da
intendersi tuttavia in un senso «post-teologico» (cioè, appunto,
«interno alla filosofia della storia»), che, sfruttando «la capacità di
associazione del Giudizio universale e dell’Apocalisse», interpreta la
storia come crisi cosmica, segnalando chiaramente «l’origine teologica
della nuova formazione del concetto»[24].
Il significato medico e quello teologico vengono reciprocamente dosati e
mescolati, così che il concetto guadagna una possibilità combinatoria
sul piano semantico che gli conferisce una plurivocità esplosiva.
Esempio di questa possibilità di combinazione sono i primi utilizzi del
termine nella filosofia della storia. È Rousseau a usare il concetto per
la prima volta «in
senso moderno, ovvero come concetto che serviva a offrire prognosi sul
futuro nell’ambito di una filosofia della storia»[25].
Prevedendo l’inevitabilità di un’incombente epoca di crisi («nous
approchons de l’état de crise e du siècle des révolutions»[26]), Rousseau
realizza «la trasposizione di un concetto escatologico nell’ambito della
filosofia della storia»[27].
In maniera simile si esprime Diderot quando scrive che
«nous touchons à une crise qui aboutira à l’ésclavage ou à la liberté»[28], anche se
quest’ultimo si serve anche della metaforica medica, quando descrive la
Parigi del 1778 parlando di una
«malaise semblable à celui qui précède la crise dans la maladie»[29].
Da questi primi elementi risulta chiaro che «nell’uso della parola erano
contenute e dosate in maniera proporzionata e ogni volta differente
tutte le funzioni cui prima si è fatto riferimento: quella
storico-critica [historisch-urteilende], quella giuridica [richtende],
nonché quella medico-diagnostica e quella teologica», così che ogni
utilizzo della parola interno alla filosofia della storia non è
determinabile sulla base di una univoca derivazione semantica
(teologica, giuridica o medica), anche se in ogni singolo uso del
concetto ne prevale ogni volta una differente[30].
È proprio la prevalenza di
questa o quella sfumatura semantica nell’uso del termine a segnalare la
sua appartenenza politica. “Crisi” è infatti concetto politico
ambivalente, utilizzato – con toni e sfumature differenti – da tutte le
parti politiche: il suo uso «non segnalava l’appartenenza a nessuna
parte politica: “crisi” restava termine ambivalente, utilizzato da
diverse fazioni»[31].
Esempio di questa ambivalenza è il confronto tra l’uso del termine di
Thomas Paine e quello di Edmunde Burke. Per il primo il significato di
“crisi” corrisponde al moderno concetto di rivoluzione: la crisi
americana è la rivoluzione americana, che Paine, da progressista e
rivoluzionario, difende, perché questa – esattamente come la rivoluzione
Francese – viene intesa come battaglia morale decisiva tra virtù e
depravazione, democrazia e dispotismo, così che «il concetto politico di
crisi fu elevato a concetto epocale proprio di una filosofia della
storia grazie ad un arricchimento teologico che recuperava la nozione di
Giudizio universale»[32].
Lo stesso concetto è usato da Burke (con riferimento alla metaforica
medica) per descrivere la rivoluzione Francese come guerra civile
europea. La distanza, ancorché mascherata dall’utilizzo dello stesso
termine, non potrebbe essere maggiore: mentre Paine utilizza
l’espressione in termini evocativi (sfruttando non a caso le suggestioni
provenienti dal significato teologico del termine, e insistendo dunque
sul carattere di alternativa decisiva tra bene e male, tra salvezza e
dannazione di un evento unico e irripetibile) per difendere la
rivoluzione, il conservatore Burke usa la stessa parola (ma con
riferimento alla metaforica medica del corpo e della malattia) per
descrivere analiticamente gli eventi rivoluzionari, usando così il
concetto come «categoria storica della conoscenza»[33].
Così Koselleck: «Sia Paine che Burke facevano riferimento alle funzioni
di diagnosi e di prognosi del termine, ma divergevano radicalmente tanto
rispetto al contenuto della diagnosi, quanto rispetto al suo orizzonte
di attesa. Entrambi usarono la nuova qualità semantica di “crisi” per
interpretare o, meglio, per porre alternative storico-universali, anche
se Burke restava maggiormente vincolato all’origine medica del termine,
mentre Paine a quella teologica. Così la parola si trasformò in un
concetto polemico che poteva essere usato da ciascuna parte contro
l’altra»[34].
Tuttavia, si sbaglierebbe
se si pensasse all’esistenza di un legame irrevocabile e definitivo tra
un determinato campo politico e una specifica tonalità semantica della
parola: non sempre l’origine teologica di “crisi” è legata a una
concezione progressista della rivoluzione, e non sempre, di contro,
l’uso della metaforica medica nasconde una concezione conservatrice
della crisi politica. Koselleck chiarisce questo punto scrivendo che
«non è opportuno seguire gli usi pragmatici del concetto come principio
di suddivisione della situazione politica del tempo. In questo modo,
infatti, le alternative derivanti da interpretazioni precedenti
verrebbero scambiate per indicatori adeguati della realtà storica»[35].
Joseph Görres fa ad esempio uso del concetto di crisi della medicina
all’interno di una prospettiva repubblicana: il parallelo
«medico-politico» che egli traccia tra la malattia e la «febbre
rivoluzionaria» ha lo scopo «di descrivere, e ancor meglio di evocare,
un passaggio definito come progressivo»[36].
Poco più tardi Friedrich von Gentz descrive la crisi come risultato di
una alleanza esplosiva tra «l’illuminismo pacifista» e la «rivoluzione»,
la cui fine non può essere predetta: siamo di fronte a una coloritura
teologica nell’uso del concetto, funzionale ad arricchire
drammaticamente una prospettiva di matrice conservatrice[37].
Dal momento che
l’appartenenza ad un campo politico non può essere utilizzato come
criterio per tracciare la semantica del concetto, quest’ultima va
ricostruita in riferimento alla dimensione temporale del concetto
stesso: qui ciò che va messo in evidenza «non sono le rappresentazioni
degli scopi dal punto di vista del loro contenuto, ma soprattutto i
modelli di interpretazione del tempo che vengono utilizzati. A questo
riguardo i campi originari della medicina e della teologia offrono un
aiuto»[38]:
o la crisi è una «situazione unica», che tuttavia «può ripetersi – come
i decorsi delle malattie», oppure «viene interpretata, in analogia con
il Giudizio universale, come evento certamente unico, ma soprattutto
come decisione ultima, dopo la quale ogni cosa sarà completamente
diversa»[39].
I campi della medicina e della teologia determinano pertanto due
possibilità semantiche nell’utilizzo del termine all’interno della
filosofia della storia: il concetto moderno di crisi può essere usato
sia per descrivere una situazione storicamente unica e decisiva sia per
indicare un evento ripetibile. «Tra questi estremi c’è una quantità di
varianti, nelle quali il carattere strutturalmente ripetibile e quello
assolutamente unico della crisi si mescolano, nonostante si escludano a
vicenda sul piano logico». Nella misura in cui il concetto di crisi
diventa capace di poter indicare differenti dimensioni temporali della
storia, esso può «a tal punto generalizzare l’esperienza moderna, che
“crisi” si trasforma per la “storia” nel concetto di durata [Dauerbegriff
für “Geschichte”] per eccellenza»: l’incrocio tra l’unicità e la
ripetizione determina l’esperibilità della durata. Questo accade per la
prima volta nel caso del detto schilleriano: «La storia del mondo è il
tribunale del mondo», dove la storia stessa viene intesa come un
processo unico che si rinnova e si compie di continuo[40].
Il concetto si è così trasformato «nella determinazione processuale
fondamentale [prozessualen Grundbestimmung] del tempo storico»[41].
Una quarta variante semantica (oltre all’unicità, alla ripetizione, alla
durata) consiste nell’uso di crisi come «concetto epocale», che tuttavia
al contempo «continua a rappresentare – lungo la linea crescente del
progresso – una fase di passaggio storicamente unica»[42].
In questa accezione fu Iselin a usare il concetto per la prima volta
nello spazio linguistico tedesco, trasformando “crisi” in «concetto
iterativo della storia progressiva»[43].
Sulla base di questa ricostruzione storico-semantica Koselleck
individua «quattro possibilità caratteristiche» entro cui «la semantica
del concetto di crisi si può suddividere»[44].
(1) La crisi è una situazione storica
che, ponendo alternative radicali, richiede una decisione immediata e
radicale. Sopravvive qui una analogia con l’uso del concetto in ambito
medico (ma anche politico-militare): «Prendendo a modello l’uso medico,
politico e militare della parola, “crisi” può riferirsi a sequenze di
eventi, nei quali sono implicati differenti attori, le quali conducono
tutte a un punto risolutivo»[45];
è il caso di Burke e, almeno parzialmente, di Diderot.
(2) La crisi può essere intesa come
l’evento ultimo e decisivo della storia. Sopravvive in questo caso una
coloritura teologica nell’uso del concetto: «Prendendo a modello la
promessa dell’imminenza dell’ “ultimo giorno”, la “crisi” può indicare
la decisione storica ultima, dopo la quale la qualità della storia si
trasforma completamente. Una crisi di questo tipo non è ripetibile»[46];
in questa accezione il concetto è usato da Rousseau e, almeno in parte,
da Diderot e Thomas Paine. Più tardi saranno Saint-Simon e Comte a usare
il concetto in questi termini, quando faranno riferimento a una crisi
che deve essere intesa come «la Grande Crise finale»[47].
(3)
La storia può tuttavia essere intesa anche come un processo, e
precisamente come una crisi che si compie di continuo: “crisi” è in
questo caso «categoria di durata o circostanziale [Dauer
–
oder Zustandskategorie], che rimanda al contempo a un processo, a
situazioni critiche che si riproducono continuamente, oppure ancora a
situazioni gravide di decisioni»; si afferma qui una variante che è «già
maggiormente distinta dalle possibilità originarie dei campi semantici
della medicina o della teologia»[48].
È questo il caso del detto schilleriano. Il concetto venne utilizzato
come categoria di durata anche da Herder; mentre Schiller considera la
storia stessa come tribunale, cioè come crisi, Herder si limita a
definire l’epoca moderna come “epoca della crisi” [Zeit-Krise][49].
Ciò che distingue questo uso del concetto è il fatto che la crisi non
provoca più alternative dure e decisive, ma piuttosto un processo
complesso di lungo periodo. «Herder usò il termine come concetto storico
chiave; tuttavia, secondo l’autore non era più possibile ridurre lo
spettro delle possibilità interne a uno stato di crisi alla semplice
alternativa tra morte e rinascita, poiché in entrambi i casi diventava
necessario riflettere su trasformazioni di lungo periodo»[50].
(4) Infine “crisi” può indicare la fase di passaggio da un’epoca
storica a quella successiva, cioè essere usato «come concetto che indica
una trasformazione immanente
alla storia, dove il fatto che la fase di passaggio conduca verso
condizioni migliori o peggiori e quanto a lungo duri
dipende dal tipo di indagine»[51].
È questo il caso della contrapposizione tra Paine e Burke o quella tra
Görres e Gentz: la crisi è una fase di passaggio decisiva che viene
giudicata sulla base dell’appartenenza a un preciso campo politico, e
dunque considerata come progresso o guerra civile.
In tutti i casi semantici
si tratta del tentativo «di guadagnare una possibilità espressiva
specificatamente temporale, che concettualizzi l’esperienza di una epoca
nuova»[52].
Si tratta cioè di definire l’esperienza di un nuovo tempo storico «la
cui origine viene indagata a diversi gradi di profondità», ma che in
ogni caso è esperito come “tempo critico”: l’epoca moderna è
alternativamente intesa come epoca di una crisi decisiva o come fase di
passaggio, così che la parola crisi diventa «tratto distintivo
dell’epoca moderna»[53],
giacché la stessa modernità è intesa ogni volta come un’epoca storica
gravida di decisioni, come epoca dell’ultima crisi della storia, come
epoca di una crisi processuale (e compimento della stessa crisi che
coincide con la storia) o, infine, come epoca di una trasformazione
progressiva o negativa (in base al giudizio politico che si dà della
modernizzazione e dei suoi derivati).
Nel diciannovesimo secolo
si registrano due novità importanti nella storia semantica del concetto.
In primo luogo, se nel secolo precedente “crisi” veniva utilizzato
all’interno della filosofia della storia, adesso il suo uso è esteso
alla teoria (scientifica) della storia. Le diagnosi storiche di Lorenz
von Stein o di Droysen furono tracciate mediante la metaforica della
crisi; ma furono soprattutto Jacob Burckhardt e Karl Marx a misurarsi,
nello spazio linguistico tedesco, con una teoria storica della crisi. Il
primo sviluppò intorno al 1870 «una sinossi della crisi
storico-universale»[54],
nella quale le crisi vengono intese come fenomeni stratificati e
complessi, che non sono riconducibili semplicemente a «figure dello
sviluppo diacronico dei processi rivoluzionari»: anche se «si
manifestano in maniera discontinua e improvvisa», le loro cause sono di
lungo periodo. Per questo motivo i conflitti o le guerre non sempre sono
definibili come crisi: «Le vere crisi sono assolutamente rare», poiché
si verificano solo quando i rapporti sociali sono trasformati in
profondità, cioè quando la crisi si sviluppa come «un nuovo nodo dello
sviluppo»[55].
Così la crisi è «una possibilità permanente del tempo storico», in cui
coagulano forze di matrice differente[56].
Il nostro concetto «si trasformò in un modello ermeneutico
transpersonale di alto profilo, nel quale si intrecciavano scadenze a
breve e lungo termine»[57].
Marx dal canto suo insiste sulla crisi come processo strutturale di
lungo periodo, cioè come fase finale e decisiva della contraddizione tra
forze produttive e rapporti di produzione che conduce alla nascita di
una nuova formazione sociale. Le vere crisi della storia sono dunque,
proprio come in Burckhardt, estremamente rare, e il nostro concetto
assume la forma di una categoria epocale che descrive un periodo di
passaggio.
La seconda novità
importante del secolo è l’applicazione del concetto all’economia. In
particolare dopo la crisi del 1857 “crisi” guadagna una dimensione
economica che dominerà il xix
e il xx secolo. La dottrina
economica marxiana rappresenta in tal senso il tentativo più profondo di
descrivere le contraddizioni immanenti del modo di produzione
capitalistico, che si svilupperebbe mediante crisi successive e sempre
più profonde. Marx formula così l’ipotesi di una caduta del saggio di
profitto, la quale resta tuttavia solo tendenziale a causa dello
sviluppo di controtendenze che impediscono il crollo del sistema. «Così
la possibilità di leggere in modo ambivalente la dottrina della crisi,
che Marx aveva prudentemente formulato, produsse effetti anche oltre il
suo tempo, fino a giungere alle interpretazioni economiche e
filosofico-storiche dell’attuale situazione mondiale»[58].
3.
Non è certamente un caso, si diceva all’inizio, che Koselleck abbia
provveduto personalmente alla stesura della storia semantica di “crisi”.
Sarebbe impossibile in questa sede, per motivi di spazio, chiarire
ancora meglio il senso di questa affermazione, mostrando l’importanza
che il concetto assume non solo nella descrizione della trasformazione
che si produce a cavallo tra il
xviii e il xix
secolo, ma soprattutto in qualità di categoria adeguata della
conoscenza, utilizzata da Koselleck per descrivere la specifica
trasformazione del tempo storico moderno e in special modo il fenomeno
dell’accelerazione. Si tratta di un tema di vasta portata, rispetto al
quale è bene fornire solamente qualche brevissimo cenno conclusivo – con
particolare riferimento alla relazione tra accelerazione e crisi. Questa
relazione viene definita da Koselleck nei termini di un confronto tra
l’attesa escatologica della tradizione cristiana di una crisi finale,
fondata sull’idea di una abbreviazione del tempo storico, mediante la
quale Dio avrebbe accelerato il corso della storia e anticipato la fine
del mondo, e «l’accelerazione» effettiva del «mondo moderno», «sul cui
contenuto reale non sussiste alcun dubbio»[59].
Infatti «l’abbreviazione cosmica del tempo, che nel linguaggio mitico
doveva precedere il giudizio universale, oggi può essere verificata
empiricamente come abbreviazione delle conseguenze storiche degli
eventi»[60]:
l’esperienza effettiva della modernità è quella di una accelerazione
temporale in ragione della quale sviluppi che in altre epoche avrebbero
richiesto secoli vengono adesso liquidati in tempi molto minori.
Pertanto l’accelerazione del tempo storico non è solo elemento interno
ai testi teologici, ma è fatto che si è prodotto concretamente nella
storia recente dell’umanità, raggiungendo picchi enormi in epoca
contemporanea: lo sviluppo delle comunicazioni, della tecnica, dei mezzi
di produzione, determina a sua volta fenomeni di accelerazione temporale
prima sconosciuti. Naturalmente una tale abbreviazione del tempo storico
aumenta esponenzialmente «la potenza autodistruttiva dell’umanità», la
quale «si è moltiplicata»[61]
proprio in ragione dello sviluppo tecnico, rendendo così quantomeno
credibile, o non escludibile in linea di principio, l’idea di una crisi
decisiva in epoca attuale. Come sappiamo, il concetto che descrive
l’abbrevia-zione teologica del tempo verso il giudizio finale è proprio
quello di krisis, lo stesso che descrive in termini temporali (post-teologici)
l’accelerazione del tempo storico. La suggestione che Koselleck
consegna consiste dunque nel fatto che un processo concettuale di
secolarizzazione fornisce un indicatore adeguato della realtà storica,
dal momento che la krisis
teologica si mostra concretamente nella
crisi, cioè nelle forme
post-metafisiche e secolarizzate dell’accelerazione del tempo storico:
«Il concetto comune all’abbreviazione apocalittica del tempo che
precede il giudizio universale e all’accelerazione storica è il concetto
di crisi. È forse una fortuità
linguistica? Nel significato cristiano e non-cristiano
crisi indica comunque una
crescente pressione temporale alla quale l’umanità di questo pianeta non
sembra potersi sottrarre»[62].
AGOSTO 2012
[1]
Reinhart Koselleck, Krise,
in Otto Brunner, Werner
Conze, Reinhart Koselleck (a cura di), Geschichtliche
Grundbegriffe.
Historisches Lexikon zur politisch-sozialen Sprache in
Deutschland, 8 voll., Klett-Cotta, Stuttgart 1972-1997
[d’ora in avanti: GG], vol. 3 (1982), pp. 617-650; trad. it.:
Crisi.
Per un lessico
della modernità,
Ombre Corte, Verona 2012.
[2]
Reinhart Koselleck,
Einleitung, in GG, cit., vol. 1 (1972), p.
xiv.
[3]
Koselleck, Crisi. Per un lessico della modernità, cit., p. 52.
[4]
Koselleck, Einleitung,
cit., pp. xiv-xviii.
[5]
Ibidem,
p. xiv.
[6]
Ibidem,
p. xv.
[7]
Reinhart Koselleck, La
storia dei concetti e i concetti della storia, in Id.,
Il vocabolario della
modernità. Progresso,
crisi, utopia e altre storie di concetti, Il Mulino, Bologna
2009, pp. 27-48, qui p. 28.
[8]
Ibidem,
p. 32.
[9]
Reinhart Koselleck, Storia
sociale e storia concettuale, in Id.,
Il vocabolario della
modernità, cit., pp. 3-26, qui p. 7.
[10]
Koselleck, Einleitung,
cit., p. xiv.
[11]
Koselleck, La storia dei concetti e i concetti della storia, cit., p. 32.
[12]
Koselleck, Einleitung,
cit., p. xix.
[13]
Ibidem, p.
xxi-xxii.
[14]
Koselleck, Crisi. Per un lessico della
modernità, cit., p. 33.
[15]
Ibidem,
p. 31.
[16]
Ibidem,
p. 32.
[17]
Ibidem,
p. 33.
[18]
Ibidem.
[19]
Ibidem.
[20]
Ibidem,
p. 34.
[21]
Ibidem.
[22]
Ibidem,
p. 35.
[23]
Ibidem.
[24]
Ibidem,
p. 49.
[25]
Ibidem, p. 52.
[26]
«Ci stiamo avvicinando all’età della crisi e al secolo delle
rivoluzioni», trad. della Redazione.
[27]
Ibidem, p. 53.
[28]
«raggiungiamo una crisi il cui esito è o la schiavitù o la
libertà», trad. della Redazione.
[29]
«disagio simile a quello prima della crisi nella malattia»,
trad. della Redazione,
Ibidem, pp. 54-55.
[30]
Ibidem,
p. 55.
[31]
Ibidem,
p. 49.
[32]
Ibidem,
p. 56.
[33]
Ibidem,
p. 58.
[34]
Ibidem.
[35]
Ibidem,
p. 49.
[36]
Ibidem,
pp. 62-63.
[37]
Ibidem,
pp. 63-64.
[38]
Ibidem,
p. 50.
[39]
Ibidem.
[40]
Ibidem.
[41]
Ibidem,
p. 51.
[42]
Ibidem.
[43]
Ibidem,
p. 61.
[44]
Ibidem,
p. 51.
[45]
Ibidem,
p. 52.
[46]
Ibidem.
[47]
Ibidem,
p. 60.
[48]
Ibidem,
p. 52.
[49]
Ibidem,
p. 62.
[50]
Ibidem.
[51]
Ibidem,
p. 52.
[52]
Ibidem,
p. 50.
[53]
Ibidem,
p. 52.
[54]
Ibidem,
p. 74.
[55]
Ibidem.
[56]
Ibidem,
p. 75.
[57]
Ibidem,
p. 76.
[58]
Ibidem,
pp. 88-89.
[59]
Koselleck, Einige Fragen
an die Begriffsgeschichte von „Krise“, trad. it.:
Crisi, in Il vocabolario della
modernità, cit., pp. 105-106, p. 106.
[60]
Ibidem.
[61]
Ibidem,
p. 108.
[62]
Ibidem,
p. 107.