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08
Ottobre 2012

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Recensioni

Reinhart Koselleck, «Crisi. Per un lessico della modernità»

Gennaro Imbriano

 

1. Non è certamente fatto sorprendente che all’interno del mastodontico progetto dei Geschichtliche Grundbegriffe Reinhart Koselleck si sia occupato personalmente della stesura della voce Krise[1]. Se è vero, infatti, che la Begriffsgeschichte veniva intesa dall’autore come storia semantica dei concetti politico-sociali della modernità, ovvero come tentativo di «ricercare la dissoluzione del vecchio mondo e la nascita di quello moderno nella storia della loro comprensione concettuale»[2], “crisi” è, insieme a “rivoluzione”, “progresso”, “democrazia”, “emancipazione”, etc., concetto fondamentale in cui si condensano e si stratificano quei processi immanenti al linguaggio che segnano e che corrispondono all’affermarsi del mondo moderno. Il nostro lemma è in effetti un «tratto distintivo dell’epoca moderna»[3], come afferma Koselleck, cioè parola concettuale attraverso la quale un intero mondo storico si autocomprende.

La storia concettuale, posta sempre da Koselleck su un piano di fertile collaborazione con la storia sociale, deve in ultima analisi mostrare come il processo di trasformazione complessivo che interviene in Europa tra la fine del xviii e gli inizi del xix secolo (e che conosce il suo punto di tensione nella Rivoluzione Francese) riguardi anche il piano linguistico e, anzi, si compia anche attraverso una ridefinizione dei concetti fondamentali. La tesi di Koselleck è che in questo periodo storico si produca una vera e propria trasformazione semantica, in forza della quale si sviluppa un nuovo vocabolario concettuale: “crisi”, “rivoluzione”, “progresso” e gli altri concetti fondamentali acquisiscono il loro significato propriamente moderno, interno alla filosofia della storia. Questa trasformazione semantica si determina attraverso quattro processi tra loro legati: la «democratizzazione» dei concetti politico-sociali, corrispondente alla disgregazione della società organizzata in ceti e all’affermazione dell’Illuminismo politico; la Ideologisierbarkeit, cioè la «possibilità di ideologizzazione» di alcuni concetti – in particolare i cosiddetti “collettivi singolari” come “storia”, “progresso”, “libertà” – utilizzabili come strumenti della battaglia politica in maniera differente sulla base «dell’appartenenza di classe e degli interessi di chi parla»; il processo di «politicizzazione» dei concetti, usati adesso all’interno di un vocabolario propagandistico e polemico, finalizzato alla mobilitazione di un numero sempre crescente di persone; infine, la «temporalizzazione del contenuto semantico delle categorie», ovvero l’affermazione di «concetti di movimento» (da “emancipazione” a “rivoluzione”, da “progresso” a “sviluppo”), che indicano lo slancio del presente verso il futuro[4]. In questo senso il concetto di “crisi” è un ottimo «indicatore»[5], per usare una categoria cara a Koselleck, della complessa dinamica che regola lo svolgersi di questi processi: la sua storia semantica svela – se è vero che i concetti sono depositari e testimoni (indicatori, per l’appunto) di un mondo storico – le tracce di un determinato mondo della vita (quello moderno) in divenire.

I concetti politico-sociali, infatti, non sono mai produzioni astratte dello spirito. Piuttosto, «tutte le storie di concetti manifestano assieme nuovi stati di cose e una modalità di relazione con la natura e la storia, con il mondo e con il tempo in continua trasformazione»[6]. È certamente vero che i concetti «hanno una propria storia, immanente al linguaggio»[7]; e tuttavia «ciò che deve e che può essere compreso sta al di fuori dei concetti», i quali rimandano sempre ad una determinata realtà sociale che in essi si deposita: «ogni semantica rimanda oltre se stessa», precisamente a quell’«ambito oggettuale» che non potrebbe essere esperito senza linguaggio[8]. Questa relazione tra struttura sociale e concetto non va però intesa in senso deterministico, pena la riduzione della storia concettuale a mero “storicismo politico”. I fatti storici e le strutture sono complessi di fenomeni che eccedono la loro riproduzione linguistica, la quale non può riflettere integralmente gli elementi della storia sociale: «sussiste una differenza ineliminabile tra ciò che accade nei rapporti tra le persone, cioè a livello sociale, e quello che viene detto al riguardo»[9]. D’altro canto, i concetti stessi eccedono la riproduzione della realtà perché sono strutture complesse dal punto di vista temporale, cioè universali semantici nei quali sono sedimentate dimensioni temporali plurime, che si riferiscono al passato e al presente, ma anche al futuro: essi non servono solamente a descrivere fenomeni e strutture, ma anche a produrre prognosi e aspettative future. Intesi come strumenti scorrevoli lungo l’arco temporale, i concetti sono coacervi di stratificazioni semantiche nelle quali si condensano livelli molteplici di significati, che spesso si sovrappongono e si mescolano tra di loro. Un concetto raccoglie in sé significati storicamente sedimentati, tutti contemporaneamente presenti (ancorché con intensità differenti) ogni volta che il concetto viene usato: la contemporaneità del non-contemporaneo è elemento proprio di queste parole, col che esse non si limitano a un compito ricettivo e passivo, ma prognostico e, con ciò, aperto al futuro. Il linguaggio politico, insomma, riproduce solo parzialmente la realtà non solo perché questa lo eccede strutturalmente, ma anche perché il suo obiettivo è un altro: quello di produrla, motivo per il quale il linguaggio è «fattore» del movimento storico, oltre che indicatore, ovvero elemento attivo che concorre alla produzione di specifiche dinamiche storico-sociali[10]: lungi dal limitarsi a registrare, «ricettivamente, ciò che avviene fuori di esso», il linguaggio è anche in grado di modificare, «attivamente, tutti gli stati e i dati di fatto extralinguistici»[11].

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2. Ce n’è abbastanza per intuire che la storia semantica di “crisi” contiene tutti gli elementi propri di quel «processo di trasformazione verso la modernità»[12] che prima abbiamo indicato. In effetti, si tratta di un concetto che viene scaraventato nella battaglia politica a fini ideologici o propagandistici e la cui “pura” evoluzione semantica – che si determina attraverso il suo passaggio da un uso specialistico in seno ai linguaggi tecnici della medicina, della teologia e del diritto al diffuso utilizzo in seno alla filosofia della storia – mostra in maniera quasi paradigmatica in cosa consistano i processi di temporalizzazione, ideologizzazione e politicizzazione prima accennati.

Sul piano del metodo, sarà bene specificarlo, la storia semantica di un concetto viene ricostruita da Koselleck mediante una integrazione della «semasiologia» (l’analisi di tutti i significati che un termine ha assunto nel corso della sua storia) con l’«onomasiologia» (l’analisi di tutte le denominazioni utilizzate per descrivere uno stato di cose): solo in questo modo la relazione tra dato di fatto, struttura e linguaggio viene resa nella sua complessità e il piano dell’evoluzione diacronica del significato è opportunamente integrato con il piano sincronico[13].

La lingua greca conosce l’utilizzo del termine Kρίσις, che deriva dal verbo κρίνω, che significa «“separare, dividere”, “scegliere”, “giudicare”, “decidere”; mediale: “misurarsi, competere”, “litigare”, “lottare”»[14]. In lingua greca, κρίσις è termine tecnico utilizzato in tre ambiti fondamentali: politico-giuridico, teologico e medico. Ogni volta le sfumature semantiche del termine sono tali da produrre accezioni particolari che fanno riferimento a uno di questi tre ambiti. La specificità del termine, legata al verbo κρίνω, rinvia immediatamente ai campi semantici dell’opposi-zione netta, radicale, ma anche del taglio e della scelta: «il concetto poneva di fronte ad alternative nette: ragione o torto, salvezza o dannazione, vita o morte»[15], determinando opposizioni esasperate e soprattutto non mediabili, cioè risolvibili solamente attraverso cesure e decisioni nette, irrevocabili, escludenti una delle due possibilità presenti.

Krisis è anzitutto parola chiave della politica: «significa “separazione” e “lotta”, ma anche “decisione”»[16]. La parola indica però anche la facoltà di giudizio, ovvero denota il campo semantico che attualmente è coperto dalla parola “critica”. «In greco pertanto gli ambiti di senso di una critica “soggettiva” e di una crisi “oggettiva”, che successivamente si separeranno, venivano espressi con il medesimo termine»[17]. Ora, Kρίσις è il «giudizio» non solo nel senso della critica soggettiva, ma anche nel senso forense del termine, che tuttavia si caratterizzava al contempo in senso politico: «soprattutto nel senso di sentenza, interpretazione e applicazione del diritto, infine come tribunale, “crisi” godeva di un rango politico-costituzionale elevato, attraverso il quale i singoli cittadini e la loro comunità politica erano reciprocamente legati»[18]. In questo senso il termine è usato da Aristotele, dove «l’espressione giunse ad avere un peso politico proprio a partire da questo specifico significato giuridico legato alla creazione del diritto». Mediante la crisi erano dunque pensate e prese decisioni risolutive per la comunità, che attenevano «alle decisioni di voto, ai decreti governativi, alla decisione circa la pace o la guerra, alla pena capitale e alle condanne, all’accettazione dei resoconti, infine alle decisioni della politica di governo», motivo per il quale quello di crisi è un «concetto centrale» e un momento «indispensabile al di sopra di ogni cosa» per la comunità, in quanto determina «la giustizia e l’ordinamento della sovranità»[19].

Il significato forense (e politico) della parola viene ripreso e trasferito anche in ambito teologico, prima grazie alla traduzione dei Settanta dell’Antico Testamento e poi anche nel Nuovo Testamento. Si consumano qui due sensibili trasformazioni semantiche del termine. In primo luogo, nella tradizione ebraica «il tribunale secolare veniva attribuito a Dio»[20], il quale è l’unico detentore del giudizio ultimo sugli uomini; in secondo luogo, la crisi diventa nella tradizione cristiana il Giudizio universale, e il tribunale del mondo si trasforma nel tribunale divino: «alla fine dei tempi la κρίσις avrebbe portato alla luce la vera giustizia, che prima rimaneva nascosta. I cristiani vivevano nell’attesa del giudizio universale (κρίσις = judicium)». Con ciò, κρίσις determina adesso una attesa escatologica del giudizio finale, poiché in esso è insita una promessa di salvezza (oltre che di giustizia), che provoca una specifica attesa temporale della fine. La crisi è così un vero e proprio «evento cosmico», ovvero il Giudizio universale che si svolgerà «come un vero processo» che assicurerà giustizia a tutti, «non credenti e devoti, vivi e morti»,  decidendo radicalmente della salvezza o della dannazione, e che apre, per la sua natura, un «orizzonte di aspettativa che qualificava dal punto di vista teologico il tempo storico futuro»[21].

Infine, la parola ha un ambito di applicazione all’interno della letteratura medica, che deriva dal corpus ippocratico e che viene sistematizzato da Galeno. «Per crisi di una malattia si intendevano sia il dato osservabile sia il giudizio (judicium) sul suo decorso, che giungeva a un certo punto all’alternativa radicale tra la vita e la morte del malato»[22]. La crisi è dunque lo stadio finale di una malattia, nel quale è in gioco la decisione finale tra la vita o la morte del paziente. Pertanto anche quello medico è «un concetto che indicava uno svolgimento» che, «proprio come un processo giuridico», determina un legame tra temporalità (decorso della malattia) e scelta, in quanto «conduceva a una decisione»[23].

L’utilizzo giuridico-politico, quello teologico e quello medico del termine contengono dunque specifici significati che rimandano sempre alla domanda su ciò che è giusto e ingiusto, su ciò che conduce alla salvezza o alla dannazione, su ciò che è salvifico o mortale.

I tre significati della parola si trasferirono in modi differenti nel moderno linguaggio politico-sociale, allorché il termine fu adottato nelle lingue nazionali tra il xiv e il xvi secolo. Meritano di essere messi in luce due risultati dell’approfondita analisi che Koselleck sviluppa in merito all’assunzione di “crisi” nelle lingue nazionali e alla sua registrazione nei lessici. Primo: nel XVII e XVIII secolo la maggior parte dei lessici registra solamente il significato medico del termine. Malgrado taluni dizionari facciano riferimento alle sfumature semantiche proprie dell’uso giuridico della parola, essi si riferiscono per lo più alla dottrina della malattia e al campo medico. Solo a partire dalla fine del XVIII secolo e nel XIX secolo il significato politico e quello economico vengono menzionati. Secondo: il significato economico di “crisi”, oggi predominante, si sviluppò nello spazio linguistico tedesco soltanto a partire dal XIX secolo. Questo elemento autorizza a concludere che l’estensione dell’espressione al linguaggio politico non fu mediato né dal significato teologico né da quello giuridico, ma da quello medico. Soltanto in ultima analisi l’espressione fu applicata all’eco-nomia. Se l’uso medico della parola può essere dimostrato già a partire dal XIV secolo, quello politico si sviluppa in Inghilterra solo nel XVII secolo (Rudyard parla di una crisi politica nel 1627, Richard Steele nel 1714). In Germania la parola fu utilizzata in senso politico da Leibniz, Federico II, Jacob Schmauss, Clausewitz e altri per indicare guerre, crisi politiche (crisi statali o crisi di governo) e guerre civili.

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Ciò che tuttavia determina la specifica novità dell’uso moderno di crisi è, a partire dalla seconda metà del xviii secolo, l’applicazione del concetto al campo della filosofia della storia. La genesi di questa applicazione è complessa: per un verso vi contribuì certamente l’interpretazione «metaforica della malattia» applicata non più solamente al piano politico ma al corso storico, ma soprattutto il ritorno di una «sfumatura religiosa» nell’uso della parola, da intendersi tuttavia in un senso «post-teologico» (cioè, appunto, «interno alla filosofia della storia»), che, sfruttando «la capacità di associazione del Giudizio universale e dell’Apocalisse», interpreta la storia come crisi cosmica, segnalando chiaramente «l’origine teologica della nuova formazione del concetto»[24]. Il significato medico e quello teologico vengono reciprocamente dosati e mescolati, così che il concetto guadagna una possibilità combinatoria sul piano semantico che gli conferisce una plurivocità esplosiva. Esempio di questa possibilità di combinazione sono i primi utilizzi del termine nella filosofia della storia. È Rousseau a usare il concetto per la prima volta «in senso moderno, ovvero come concetto che serviva a offrire prognosi sul futuro nell’ambito di una filosofia della storia»[25]. Prevedendo l’inevitabilità di un’incombente epoca di crisi («nous approchons de l’état de crise e du siècle des révolutions»[26]), Rousseau realizza «la trasposizione di un concetto escatologico nell’ambito della filosofia della storia»[27]. In maniera simile si esprime Diderot quando scrive che «nous touchons à une crise qui aboutira à l’ésclavage ou à la liberté»[28], anche se quest’ultimo si serve anche della metaforica medica, quando descrive la Parigi del 1778 parlando di una «malaise semblable à celui qui précède la crise dans la maladie»[29]. Da questi primi elementi risulta chiaro che «nell’uso della parola erano contenute e dosate in maniera proporzionata e ogni volta differente tutte le funzioni cui prima si è fatto riferimento: quella storico-critica [historisch-urteilende], quella giuridica [richtende], nonché quella medico-diagnostica e quella teologica», così che ogni utilizzo della parola interno alla filosofia della storia non è determinabile sulla base di una univoca derivazione semantica (teologica, giuridica o medica), anche se in ogni singolo uso del concetto ne prevale ogni volta una differente[30].

È proprio la prevalenza di questa o quella sfumatura semantica nell’uso del termine a segnalare la sua appartenenza politica. “Crisi” è infatti concetto politico ambivalente, utilizzato – con toni e sfumature differenti – da tutte le parti politiche: il suo uso «non segnalava l’appartenenza a nessuna parte politica: “crisi” restava termine ambivalente, utilizzato da diverse fazioni»[31]. Esempio di questa ambivalenza è il confronto tra l’uso del termine di Thomas Paine e quello di Edmunde Burke. Per il primo il significato di “crisi” corrisponde al moderno concetto di rivoluzione: la crisi americana è la rivoluzione americana, che Paine, da progressista e rivoluzionario, difende, perché questa – esattamente come la rivoluzione Francese – viene intesa come battaglia morale decisiva tra virtù e depravazione, democrazia e dispotismo, così che «il concetto politico di crisi fu elevato a concetto epocale proprio di una filosofia della storia grazie ad un arricchimento teologico che recuperava la nozione di Giudizio universale»[32]. Lo stesso concetto è usato da Burke (con riferimento alla metaforica medica) per descrivere la rivoluzione Francese come guerra civile europea. La distanza, ancorché mascherata dall’utilizzo dello stesso termine, non potrebbe essere maggiore: mentre Paine utilizza l’espressione in termini evocativi (sfruttando non a caso le suggestioni provenienti dal significato teologico del termine, e insistendo dunque sul carattere di alternativa decisiva tra bene e male, tra salvezza e dannazione di un evento unico e irripetibile) per difendere la rivoluzione, il conservatore Burke usa la stessa parola (ma con riferimento alla metaforica medica del corpo e della malattia) per descrivere analiticamente gli eventi rivoluzionari, usando così il concetto come «categoria storica della conoscenza»[33]. Così Koselleck: «Sia Paine che Burke facevano riferimento alle funzioni di diagnosi e di prognosi del termine, ma divergevano radicalmente tanto rispetto al contenuto della diagnosi, quanto rispetto al suo orizzonte di attesa. Entrambi usarono la nuova qualità semantica di “crisi” per interpretare o, meglio, per porre alternative storico-universali, anche se Burke restava maggiormente vincolato all’origine medica del termine, mentre Paine a quella teologica. Così la parola si trasformò in un concetto polemico che poteva essere usato da ciascuna parte contro l’altra»[34].

Tuttavia, si sbaglierebbe se si pensasse all’esistenza di un legame irrevocabile e definitivo tra un determinato campo politico e una specifica tonalità semantica della parola: non sempre l’origine teologica di “crisi” è legata a una concezione progressista della rivoluzione, e non sempre, di contro, l’uso della metaforica medica nasconde una concezione conservatrice della crisi politica. Koselleck chiarisce questo punto scrivendo che «non è opportuno seguire gli usi pragmatici del concetto come principio di suddivisione della situazione politica del tempo. In questo modo, infatti, le alternative derivanti da interpretazioni precedenti verrebbero scambiate per indicatori adeguati della realtà storica»[35]. Joseph Görres fa ad esempio uso del concetto di crisi della medicina all’interno di una prospettiva repubblicana: il parallelo «medico-politico» che egli traccia tra la malattia e la «febbre rivoluzionaria» ha lo scopo «di descrivere, e ancor meglio di evocare, un passaggio definito come progressivo»[36]. Poco più tardi Friedrich von Gentz descrive la crisi come risultato di una alleanza esplosiva tra «l’illuminismo pacifista» e la «rivoluzione», la cui fine non può essere predetta: siamo di fronte a una coloritura teologica nell’uso del concetto, funzionale ad arricchire drammaticamente una prospettiva di matrice conservatrice[37].

Dal momento che l’appartenenza ad un campo politico non può essere utilizzato come criterio per tracciare la semantica del concetto, quest’ultima va ricostruita in riferimento alla dimensione temporale del concetto stesso: qui ciò che va messo in evidenza «non sono le rappresentazioni degli scopi dal punto di vista del loro contenuto, ma soprattutto i modelli di interpretazione del tempo che vengono utilizzati. A questo riguardo i campi originari della medicina e della teologia offrono un aiuto»[38]: o la crisi è una «situazione unica», che tuttavia «può ripetersi – come i decorsi delle malattie», oppure «viene interpretata, in analogia con il Giudizio universale, come evento certamente unico, ma soprattutto come decisione ultima, dopo la quale ogni cosa sarà completamente diversa»[39]. I campi della medicina e della teologia determinano pertanto due possibilità semantiche nell’utilizzo del termine all’interno della filosofia della storia: il concetto moderno di crisi può essere usato sia per descrivere una situazione storicamente unica e decisiva sia per indicare un evento ripetibile. «Tra questi estremi c’è una quantità di varianti, nelle quali il carattere strutturalmente ripetibile e quello assolutamente unico della crisi si mescolano, nonostante si escludano a vicenda sul piano logico». Nella misura in cui il concetto di crisi diventa capace di poter indicare differenti dimensioni temporali della storia, esso può «a tal punto generalizzare l’esperienza moderna, che “crisi” si trasforma per la “storia” nel concetto di durata [Dauerbegriff für “Geschichte”] per eccellenza»: l’incrocio tra l’unicità e la ripetizione determina l’esperibilità della durata. Questo accade per la prima volta nel caso del detto schilleriano: «La storia del mondo è il tribunale del mondo», dove la storia stessa viene intesa come un processo unico che si rinnova e si compie di continuo[40]. Il concetto si è così trasformato «nella determinazione processuale fondamentale [prozessualen Grundbestimmung] del tempo storico»[41]. Una quarta variante semantica (oltre all’unicità, alla ripetizione, alla durata) consiste nell’uso di crisi come «concetto epocale», che tuttavia al contempo «continua a rappresentare – lungo la linea crescente del progresso – una fase di passaggio storicamente unica»[42]. In questa accezione fu Iselin a usare il concetto per la prima volta nello spazio linguistico tedesco, trasformando “crisi” in «concetto iterativo della storia progressiva»[43].

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Sulla base di questa ricostruzione storico-semantica Koselleck individua «quattro possibilità caratteristiche» entro cui «la semantica del concetto di crisi si può suddividere»[44].

(1) La crisi è una situazione storica che, ponendo alternative radicali, richiede una decisione immediata e radicale. Sopravvive qui una analogia con l’uso del concetto in ambito medico (ma anche politico-militare): «Prendendo a modello l’uso medico, politico e militare della parola, “crisi” può riferirsi a sequenze di eventi, nei quali sono implicati differenti attori, le quali conducono tutte a un punto risolutivo»[45]; è il caso di Burke e, almeno parzialmente, di Diderot.

(2) La crisi può essere intesa come l’evento ultimo e decisivo della storia. Sopravvive in questo caso una coloritura teologica nell’uso del concetto: «Prendendo a modello la promessa dell’imminenza dell’ “ultimo giorno”, la “crisi” può indicare la decisione storica ultima, dopo la quale la qualità della storia si trasforma completamente. Una crisi di questo tipo non è ripetibile»[46]; in questa accezione il concetto è usato da Rousseau e, almeno in parte, da Diderot e Thomas Paine. Più tardi saranno Saint-Simon e Comte a usare il concetto in questi termini, quando faranno riferimento a una crisi che deve essere intesa come «la Grande Crise finale»[47].

(3) La storia può tuttavia essere intesa anche come un processo, e precisamente come una crisi che si compie di continuo: “crisi” è in questo caso «categoria di durata o circostanziale [Dauer oder Zustandskategorie], che rimanda al contempo a un processo, a situazioni critiche che si riproducono continuamente, oppure ancora a situazioni gravide di decisioni»; si afferma qui una variante che è «già maggiormente distinta dalle possibilità originarie dei campi semantici della medicina o della teologia»[48]. È questo il caso del detto schilleriano. Il concetto venne utilizzato come categoria di durata anche da Herder; mentre Schiller considera la storia stessa come tribunale, cioè come crisi, Herder si limita a definire l’epoca moderna come “epoca della crisi” [Zeit-Krise][49]. Ciò che distingue questo uso del concetto è il fatto che la crisi non provoca più alternative dure e decisive, ma piuttosto un processo complesso di lungo periodo. «Herder usò il termine come concetto storico chiave; tuttavia, secondo l’autore non era più possibile ridurre lo spettro delle possibilità interne a uno stato di crisi alla semplice alternativa tra morte e rinascita, poiché in entrambi i casi diventava necessario riflettere su trasformazioni di lungo periodo»[50].

(4) Infine “crisi” può indicare la fase di passaggio da un’epoca storica a quella successiva, cioè essere usato «come concetto che indica una  trasformazione immanente alla storia, dove il fatto che la fase di passaggio conduca verso condizioni migliori o peggiori e quanto a lungo duri  dipende dal tipo di indagine»[51]. È questo il caso della contrapposizione tra Paine e Burke o quella tra Görres e Gentz: la crisi è una fase di passaggio decisiva che viene giudicata sulla base dell’appartenenza a un preciso campo politico, e dunque considerata come progresso o guerra civile.

In tutti i casi semantici si tratta del tentativo «di guadagnare una possibilità espressiva specificatamente temporale, che concettualizzi l’esperienza di una epoca nuova»[52]. Si tratta cioè di definire l’esperienza di un nuovo tempo storico «la cui origine viene indagata a diversi gradi di profondità», ma che in ogni caso è esperito come “tempo critico”: l’epoca moderna è alternativamente intesa come epoca di una crisi decisiva o come fase di passaggio, così che la parola crisi diventa «tratto distintivo dell’epoca moderna»[53], giacché la stessa modernità è intesa ogni volta come un’epoca storica gravida di decisioni, come epoca dell’ultima crisi della storia, come epoca di una crisi processuale (e compimento della stessa crisi che coincide con la storia) o, infine, come epoca di una trasformazione progressiva o negativa (in base al giudizio politico che si dà della modernizzazione e dei suoi derivati).

Nel diciannovesimo secolo si registrano due novità importanti nella storia semantica del concetto. In primo luogo, se nel secolo precedente “crisi” veniva utilizzato all’interno della filosofia della storia, adesso il suo uso è esteso alla teoria (scientifica) della storia. Le diagnosi storiche di Lorenz von Stein o di Droysen furono tracciate mediante la metaforica della crisi; ma furono soprattutto Jacob Burckhardt e Karl Marx a misurarsi, nello spazio linguistico tedesco, con una teoria storica della crisi. Il primo sviluppò intorno al 1870 «una sinossi della crisi storico-universale»[54], nella quale le crisi vengono intese come fenomeni stratificati e complessi, che non sono riconducibili semplicemente a «figure dello sviluppo diacronico dei processi rivoluzionari»: anche se «si manifestano in maniera discontinua e improvvisa», le loro cause sono di lungo periodo. Per questo motivo i conflitti o le guerre non sempre sono definibili come crisi: «Le vere crisi sono assolutamente rare», poiché si verificano solo quando i rapporti sociali sono trasformati in profondità, cioè quando la crisi si sviluppa come «un nuovo nodo dello sviluppo»[55]. Così la crisi è «una possibilità permanente del tempo storico», in cui coagulano forze di matrice differente[56]. Il nostro concetto «si trasformò in un modello ermeneutico transpersonale di alto profilo, nel quale si intrecciavano scadenze a breve e lungo termine»[57]. Marx dal canto suo insiste sulla crisi come processo strutturale di lungo periodo, cioè come fase finale e decisiva della contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione che conduce alla nascita di una nuova formazione sociale. Le vere crisi della storia sono dunque, proprio come in Burckhardt, estremamente rare, e il nostro concetto assume la forma di una categoria epocale che descrive un periodo di passaggio.

La seconda novità importante del secolo è l’applicazione del concetto all’economia. In particolare dopo la crisi del 1857 “crisi” guadagna una dimensione economica che dominerà il xix e il xx secolo. La dottrina economica marxiana rappresenta in tal senso il tentativo più profondo di descrivere le contraddizioni immanenti del modo di produzione capitalistico, che si svilupperebbe mediante crisi successive e sempre più profonde. Marx formula così l’ipotesi di una caduta del saggio di profitto, la quale resta tuttavia solo tendenziale a causa dello sviluppo di controtendenze che impediscono il crollo del sistema. «Così la possibilità di leggere in modo ambivalente la dottrina della crisi, che Marx aveva prudentemente formulato, produsse effetti anche oltre il suo tempo, fino a giungere alle interpretazioni economiche e filosofico-storiche dell’attuale situazione mondiale»[58].

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3. Non è certamente un caso, si diceva all’inizio, che Koselleck abbia provveduto personalmente alla stesura della storia semantica di “crisi”. Sarebbe impossibile in questa sede, per motivi di spazio, chiarire ancora meglio il senso di questa affermazione, mostrando l’importanza che il concetto assume non solo nella descrizione della trasformazione che si produce a cavallo tra il xviii e il xix secolo, ma soprattutto in qualità di categoria adeguata della conoscenza, utilizzata da Koselleck per descrivere la specifica trasformazione del tempo storico moderno e in special modo il fenomeno dell’accelerazione. Si tratta di un tema di vasta portata, rispetto al quale è bene fornire solamente qualche brevissimo cenno conclusivo – con particolare riferimento alla relazione tra accelerazione e crisi. Questa relazione viene definita da Koselleck nei termini di un confronto tra l’attesa escatologica della tradizione cristiana di una crisi finale, fondata sull’idea di una abbreviazione del tempo storico, mediante la quale Dio avrebbe accelerato il corso della storia e anticipato la fine del mondo, e «l’accelerazione» effettiva del «mondo moderno», «sul cui contenuto reale non sussiste alcun dubbio»[59]. Infatti «l’abbreviazione cosmica del tempo, che nel linguaggio mitico doveva precedere il giudizio universale, oggi può essere verificata empiricamente come abbreviazione delle conseguenze storiche degli eventi»[60]: l’esperienza effettiva della modernità è quella di una accelerazione temporale in ragione della quale sviluppi che in altre epoche avrebbero richiesto secoli vengono adesso liquidati in tempi molto minori. Pertanto l’accelerazione del tempo storico non è solo elemento interno ai testi teologici, ma è fatto che si è prodotto concretamente nella storia recente dell’umanità, raggiungendo picchi enormi in epoca contemporanea: lo sviluppo delle comunicazioni, della tecnica, dei mezzi di produzione, determina a sua volta fenomeni di accelerazione temporale prima sconosciuti. Naturalmente una tale abbreviazione del tempo storico aumenta esponenzialmente «la potenza autodistruttiva dell’umanità», la quale «si è moltiplicata»[61] proprio in ragione dello sviluppo tecnico, rendendo così quantomeno credibile, o non escludibile in linea di principio, l’idea di una crisi decisiva in epoca attuale. Come sappiamo, il concetto che descrive l’abbrevia-zione teologica del tempo verso il giudizio finale è proprio quello di krisis, lo stesso che descrive in termini temporali (post-teologici) l’accelerazione del tempo storico. La suggestione che Koselleck consegna consiste dunque nel fatto che un processo concettuale di secolarizzazione fornisce un indicatore adeguato della realtà storica, dal momento che la krisis teologica si mostra concretamente nella crisi, cioè nelle forme post-metafisiche e secolarizzate dell’accelerazione del tempo storico: «Il concetto comune all’abbreviazione apocalittica del tempo che precede il giudizio universale e all’accelerazione storica è il concetto di crisi. È forse una fortuità linguistica? Nel significato cristiano e non-cristiano crisi indica comunque una crescente pressione temporale alla quale l’umanità di questo pianeta non sembra potersi sottrarre»[62].

 

AGOSTO 2012

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[1] Reinhart Koselleck, Krise, in Otto Brunner, Werner Conze, Reinhart Koselleck (a cura di), Geschichtliche Grundbegriffe. Historisches Lexikon zur politisch-sozialen Sprache in Deutschland, 8 voll., Klett-Cotta, Stuttgart 1972-1997 [d’ora in avanti: GG], vol. 3 (1982), pp. 617-650; trad. it.: Crisi. Per un lessico della modernità, Ombre Corte, Verona 2012.

[2] Reinhart Koselleck, Einleitung, in GG, cit., vol. 1 (1972), p. xiv.

[3] Koselleck, Crisi. Per un lessico della modernità, cit., p. 52.

[4] Koselleck, Einleitung, cit., pp. xiv-xviii.

[5] Ibidem, p. xiv.

[6] Ibidem, p. xv.

[7] Reinhart Koselleck, La storia dei concetti e i concetti della storia, in Id., Il vocabolario della modernità. Progresso, crisi, utopia e altre storie di concetti, Il Mulino, Bologna 2009, pp. 27-48, qui p. 28.

[8] Ibidem, p. 32.

[9] Reinhart Koselleck, Storia sociale e storia concettuale, in Id., Il vocabolario della modernità, cit., pp. 3-26, qui p. 7.

[10] Koselleck, Einleitung, cit., p. xiv.

[11] Koselleck, La storia dei concetti e i concetti della storia, cit., p. 32.

[12] Koselleck, Einleitung, cit., p. xix.

[13] Ibidem, p. xxi-xxii.

[14] Koselleck, Crisi. Per un lessico della modernità, cit., p. 33.

[15] Ibidem, p. 31.

[16] Ibidem, p. 32.

[17] Ibidem, p. 33.

[18] Ibidem.

[19] Ibidem.

[20] Ibidem, p. 34.

[21] Ibidem.

[22] Ibidem, p. 35.

[23] Ibidem.

[24] Ibidem, p. 49.

[25] Ibidem, p. 52.

[26] «Ci stiamo avvicinando all’età della crisi e al secolo delle rivoluzioni», trad. della Redazione.

[27] Ibidem, p. 53.

[28] «raggiungiamo una crisi il cui esito è o la schiavitù o la libertà», trad. della Redazione.

[29] «disagio simile a quello prima della crisi nella malattia», trad. della Redazione, Ibidem, pp. 54-55.

[30] Ibidem, p. 55.

[31] Ibidem, p. 49.

[32] Ibidem, p. 56.

[33] Ibidem, p. 58.

[34] Ibidem.

[35] Ibidem, p. 49.

[36] Ibidem, pp. 62-63.

[37] Ibidem, pp. 63-64.

[38] Ibidem, p. 50.

[39] Ibidem.

[40] Ibidem.

[41] Ibidem, p. 51.

[42] Ibidem.

[43] Ibidem, p. 61.

[44] Ibidem, p. 51.

[45] Ibidem, p. 52.

[46] Ibidem.

[47] Ibidem, p. 60.

[48] Ibidem, p. 52.

[49] Ibidem, p. 62.

[50] Ibidem.

[51] Ibidem, p. 52.

[52] Ibidem, p. 50.

[53] Ibidem, p. 52.

[54] Ibidem, p. 74.

[55] Ibidem.

[56] Ibidem, p. 75.

[57] Ibidem, p. 76.

[58] Ibidem, pp. 88-89.

[59] Koselleck, Einige Fragen an die Begriffsgeschichte von „Krise“, trad. it.: Crisi, in Il vocabolario della modernità, cit., pp. 105-106, p. 106.

[60] Ibidem.

[61] Ibidem, p. 108.

[62] Ibidem, p. 107.