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08
Ottobre 2012

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Recensioni

Ritrovare gli altri: Bauman, «Vita Liquida»

Giulia Inverardi

 

Perché Bauman, premessa: l’individuale, il sociale, l’attuale.

È stato un richiamo immediato a suggerirmi di scegliere, fra gli altri testi di sociologia esposti e forse altrettanto interessanti, Vita liquida di Bauman. Già la quarta di copertina evoca una “costellazione di questioni” che da tempo, in varie forme, cerco di approfondire senza riuscire a trovare sbocchi: essa, infatti, suggerisce immediatamente al lettore un avvicinamento, una ricomposizione essenziale, parlando di “meccanismi psicologici” e “meccanismi sociali”.

La riflessione di partenza che, con un bagaglio di conoscenze insufficiente, non riuscivo a sviluppare riguarda proprio la natura “non (più) sociale” della nostra società, accanitamente centrata sull’individualità e sul privato, piuttosto che sul collettivo. Sempre più spesso mi capita di percepire, in semplici avvenimenti quotidiani o nei discorsi di persone dai più disparati vissuti e dalle più varie formazioni, due “resistenze”: non solo la quasi totale assenza di letture sociali di fenomeni di ampia portata, ma più in particolare una refrattarietà a cogliere il collegamento fra se stessi e i movimenti che coinvolgono milioni di “me stesso”. È evidente che tutti siamo pressati, da questa società non sociale, ad una corsa caparbia e disordinata verso l’affermazione di un’ambigua originalità, di un’unicità verace e persino arrogante, che però ci possa garantire l’accettazione in seno alla sempre più indistinta comunità degli “originali tali e quali a noi”: si tratta, lo approfondiremo poi, di un’individualità del tutto fragile e falsificante, che risulta, infine, standardizzata. Non è curioso allora che l’accettazione nella comunità paia ancora così importante, in barba all’esasperazione dell’individualismo; tale importanza trova ragione nel comun denominatore che segna il gruppo di “accettanti” stesso, costituito proprio dal medesimo tipo d’individualismo, dalla fede nei parametri di originalità massificata, dal riferimento esclusivo al “sé stesso” di cui tutti sono una perfetta, maniacale riproposizione. Essere accettati da questa comunità significa moltiplicare il nostro individualismo, trovare conferma della sua giustezza in mille suoi prototipi funzionanti; in un simile gruppo, tutti si prestano ad essere specchio preciso di questo insieme di atteggiamenti. E questo ha un triplo risultato: ci illude di detenere un’individualità solida e originale, ci rende massificati, ma ci isola trattandosi di una “massificazione alienante”[1].

Trovo importante notare che, a copertura delle punte estreme che lo sguardo individualista post-moderno comporta nei confronti dell’“altro da noi”, sussistono sì forme morali o moraleggianti di apparente compensazione, ma esse in realtà sono incluse, assecondano anzi l’atteggiamento di rivendicazione orgogliosa d’individualismo: il pietismo patetico per i bisognosi (soprattutto lontani), la rude auto-attribuzione di sentimenti schietti e di sincerità e lealtà (per contrasto ad un “altro” del tutto esterno alla comunità di accettanti), l’appello a forme d’azione spesso violente o truculente in grado esse sole di ristabilire una giustizia, automatica e indubitabile, dei meritevoli e dei valenti, tutte queste e simili condotte sono segnate, anche nelle loro modalità di espressione, da forti componenti personalistiche, che lasciano spazio all’altro solo nella misura in cui il suo comportamento, o il nostro nei suoi confronti, possa sottolineare i nostri tratti, marcare le nostre eccellenze.

Gli “altri”, infatti, tutti rischiamo di pensarli in forma di contorno casuale e “dato”: in mezzo ad essi noi ci troviamo collocati come per caso, dall’alto, e stiamo in quello che ci sembra un contesto spazio-temporale neutro, lineare, quasi fossimo pedine collocate su un tavolo sterile, senza alcuna connotazione pregressa. Con queste altre individualità noi abbiamo rapporti “prestabiliti” e naturali, che non sono problematici nemmeno quando potrebbero esserlo – anche le divergenze si sviluppano secondo azioni che non mettono mai in discussione la natura degli individui o la nostra in rapporto ad essi, azioni da copione: l’insulto all’immigrato, le botte fra tifosi, le liti anche violente fra vicini. Siamo spinti a credere che tutto questo non abbia, alle spalle e nel profondo, una trama carica d’implicazioni e significati, e che la società sia invece un largo ripiano sul quale ci muoviamo con stature naturalmente diverse, incrociando a volte orbite altrui, o fondendoci, in forme che possono essere d’amicizia o di famiglia, con altre persone che restano individui monolitici.

Inoltre, trovo curioso che quando parlano di “altri” in genere le persone includono in questa categoria parenti e conoscenti: una rete “sociale” angustissima, che non è nemmeno sentita come vera rete di forze, di confluenze, di stimoli – potrebbero essere tali soprattutto in virtù di una natura variegata, oppositiva, esclusa invece dalla comunità degli individualisti veraci eredi dei seguaci di Brian di Nazareth[2].

Ma Bauman parla in particolare di “meccanismi psicologici”, e mi stupisco nel raffigurarmi una sproporzione gigantesca: da un lato, l’enorme numero di miei conoscenti anche molto giovani che ha già affrontato nella vita un percorso di analisi psicologica (per comprendere meglio ciò che è capitato nella propria vita e per liberarsi di complessi e condizionamenti indesiderati); dall’altro, le due o tre mosche bianche che sono state sfiorate dal pensiero che ci possa essere qualcosa dietro le psicologie. Intendo, un sistema di ricezione, di rappresentazione, di rapporti (e naturalmente di frustrazioni inconsce, d’incomprensioni), nel quale noi siamo del tutto calati, interdipendenti, come soggetti e come oggetti, ben diversamente dal sistema prima accennato, nel quale siamo spinti a considerarci individuo delimitati, che si costruiscono solo secondo la propria volontà o originalità.

Dietro il dono illusorio di una libertà sconfinata e incontaminata – «io mi posso costruire del tutto autonomamente; agguanterò e vestirò l’immagine di me che ho liberamente sognato» – c’è naturalmente un intento di controllo sociale, e di annientamento del senso di comunità e solidarietà: le cerchie di “intimi” si fanno sempre più chiuse (tanto che il massimo grado di estraneità concepibile, gli “altri”, sono i conoscenti), la dimensione sociale sparisce dalle componenti importanti della vita quotidiana e dalle aspirazioni di realizzazione[3], le influenze sovraindividuali diventano invisibili, innominabili e dunque non contrastabili.

Le conseguenze di tutto ciò sono disastrose ad ogni livello, cominciando proprio da quello individuale: anzitutto, quella che costruiamo è un’individualità fittizia e soffocante; inoltre, se siamo noi gli artefici, liberi e onnipotenti, del nostro destino, se la società che abitiamo è la migliore possibile o la migliore finora raggiunta, se i modelli di successo appaiono facilmente accessibili, come spiegare i grandi fallimenti “individuali”? Di chi potrebbe essere la colpa, se non della nostra psicologia, del “come siamo”? Raramente trova spazio d’illuminazione, in questa concezione, il dato sociale, raramente ci si chiede se, dietro le paure, le ansie che colpiscono sempre più indistintamente gli uomini e le donne del nostro tempo, non possa esserci anche altro, un fattore antecedente rispetto alla nostra psicologia e a quella dei nostri “intimi”: qualcosa, quindi, che dipende da noi solo nel momento e nella misura in cui noi, questo qualcosa, lo vediamo. E ancora, il vederlo non è sufficiente per consentirci d’intervenire, ma sicuramente ne è la premessa indispensabile.

Sicuramente questo spazio d’illuminazione possono aprirlo anzitutto testi come quello di Bauman, ossia saggi rigorosi, frutto di elaborazione complessa, eppure accessibili con poco sforzo al lettore profano o digiuno delle discipline sociologiche e di psicologia sociale, trovo anzi che il loro punto forte stia nella capacità di coinvolgere e portare ad un differente sviluppo l’esperienza, il sentire personale di un qualsiasi lettore. Bauman ha infatti la grande abilità di fare immediata presa nel nostro individuale, per poi condurci e condurlo altrove: il sociologo ci descrive sensazioni che buona parte di noi, se non tutti, proviamo nel nostro quotidiano, sensazioni angosciose, problematiche, che ci paiono senza via d’uscita; le riteniamo personali, di solito, e dunque ce ne facciamo carico (quando lo facciamo) in modo esclusivamente individuale, privato. E Bauman non nega la dimensione privata di queste sensazioni, ma le traspone in una dimensione collettiva.

Il rapporto, mai indolore, con gli altri, la paura dinanzi ai grandi mutamenti sociali ed economici, la sensazione di non avere più alcun controllo sulla propria vita: quale uomo dell’Occidente odierno potrebbe dire che queste preoccupazioni non lo riguardino? Che, a suo parere, lo riguardino solo personalmente, è parte del problema. Ma procediamo con ordine e vediamo quali sono, secondo Bauman, i nodi della società liquida nella quale viviamo, e in che modo dunque essa ci colpisce soggettivamente senza consentirci di vedere che tali problematiche, tali ingiustizie e squilibri hanno invece natura, risonanza e radici ben più ampie.

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Perché Bauman I: l’incerta individualità

Il saggio Vita liquida[4] muove proprio dall’analisi dell’universo dell’individualità, reso ristretto e soffocante dalla sua falsificazione e standardizzazione nella società liquida; in questa, costruirsi un’identità diventa un obbligo e per paradosso esso è imposto dallo “spirito della folla”. Secondo Bauman, la costruzione dell’identità diviene allora un rompicapo multiplo: la folla ci richiede di esporci con un’identità precisa, mentre l’individualità è frutto di una costruzione lunga una vita; l’edificazione dell’in-dividualità, secondariamente, è un compito per definizione individuale, ma non può essere svolto che in rapporto ad una collettività, la quale però si muove rapidissima, si defila, si nasconde. In rapporto a cosa, dunque, e in che modo, l’uomo post-moderno può costruirsi? Ciascun essere umano dovrebbe portare avanti questa vitale operazione tramite un cosciente e strenuo lavorio, in equilibrio precario fra mille fattori; tuttavia, nell’epoca liquida si è prodotto uno squilibrio violento, che impedisce una ricerca serena del suddetto equilibrio: «L’ascesa dell’individualità è stata la spia del progressivo indebolimento […] della fitta rete di legami sociali che avviluppava strettamente la totalità delle attività della vita»[5]. La costruzione dell’individualità è proposto/imposto dalla “società individualizzata” come obiettivo accessibile, mentre nella realtà esso è un percorso ad ostacoli in grado di snaturare e sfibrare buona parte di coloro che partecipano, i quali, oltretutto, non sono che una piccola parte della totalità: la grande maggioranza degli esseri umani non riesce nemmeno a posizionarsi ai blocchi di partenza di questa gara. Bauman evidenzia come la società liquida non consegni ai soggetti solo il rompicapo della costruzione dell’individualità, ma anche alcune soluzioni pronte. Tra le principali, vi sono il consumismo e il conformismo: quest’ultimo, «un tempo accusato di soffocare l’individualità, viene esaltato come il migliore amico dell’individuo. […] La contesa per l’unicità è ormai il principale motore della produzione e del consumo di massa»[6]. Emerge chiaramente, a questo punto, quale sia il principale requisito che fa da spartiacque fra gli ammessi e i respinti alla corsa per l’individualità: «Per essere individui, nella società degli individui, bisogna tirar fuori i soldi, un sacco di soldi»[7].

Dunque, nella situazione che si è venuta a creare e che ha prodotto, dopo la borghesizzazione del proletariato, la proletarizzazione della borghesia[8], questa pur standardizzata e stravolta individualità costituisce un privilegio, anzi Bauman si chiede se un’individualità fondata su tali presupposti e aggredita da tali pressioni, possa costituirsi come qualcosa di differente da un privilegio[9].

Proseguendo, Bauman sottolinea: «La strada che porta all’identità è una battaglia senza fine e un interminabile conflitto tra il desiderio di libertà e il bisogno di sicurezza, ossessionato dalla paura della solitudine e dal terrore dell’esautorazione»[10]. È in questa situazione che si afferma, all’opposto della ricerca della propria individualità nell’appartenenza a una collettività di “originali tali e quali a noi”, la tendenza all’ibridazione, ossia un’identità che resta non definita e che «è in grado di costituire/sostenere la propria originalità solo con uno sforzo continuo e incessante per compensare i limiti di un prestito con altri prestiti»[11]; molti individui, soprattutto i giovani della società contemporanea, cercano di sopperire alla difficile costruzione di un’identità tenendo aperte tutte le possibilità, finendo per cadere in un circolo vizioso che impedisce oltretutto di prendere una posizione attiva all’interno della realtà spaziale e temporale in cui vivono. Molti, insomma, finiscono per non avere alcuna presa, e nemmeno alcuna pretesa di presa sulla storia, sulla società nella quale pure conducono la propria esistenza. Un simile disequilibrio teoricamente a favore della libertà e a scapito della sicurezza, è invece del tutto dannoso: per esercitare qualsiasi libertà, infatti, occorre un minimo di fiducia, e senza una basilare sicurezza persino le briciole di fiducia restano inattingibili. Inoltre, questa libertà “d’arrivo” (un lavoro ben retribuito benché di breve durata, uno spostamento di sede lavorativa) non può essere frutto di un’imposizione: Bauman rileva che per nessuno un aumento di libertà sarebbe auspicabile, se questo fosse frutto di una decisione presa dall’alto senza il coinvolgimento del diretto interessato. Quella che è proposta ai nostri giorni come una maggiore libertà (di spostamento, di autoaffermazione, di realizzazione) è tutto meno che questo se ci viene imposta, se non è quello che vogliamo, e spesso è molto difficile che questo sia ciò che vogliamo: «ai caduti e alle vittime collaterali della globalizzazione una maggiore libertà non appare come la cura dei loro mali, che ricollegherebbero piuttosto alla disgregazione e allo smantellamento forzato delle routine di vita e delle reti di vincoli e reciproci impegni che li sostenevano e rassicuravano»[12]. Questa presunta e in ogni caso squilibrata libertà, produce insicurezza e diviene quindi una contro-liberazione per la maggior parte degli esseri umani nostri contemporanei.

Bauman tiene a fissare, subito in questo primo capitolo, come l’incertezza dell’individualità non debba essere concepita solo come stato esistenziale, perché essa è anzitutto la conditio sine qua non della sopravvivenza del mercato; il marketing, infatti, è efficace solo in presenza di un non totale soddisfacimento dei desideri e su una loro continua, rinnovata proliferazione.

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Perché Bauman II: la cultura

Non approfondisco la trattazione di Bauman, pur interessante, sull’evoluzione martire – eroe – celebrità[13], e cerco di delineare una questione più complessa, riguardante il potere ribelle che la cultura fatica a mantenere nella società liquida. Anche nell’ambito della cultura, infatti, quest’ultima confonde le acque e manda in frantumi le opposizioni tradizionali: essa rivoluziona il quadro definito che si era affermato sino a qualche decennio fa, e che vorrei provare anzitutto a riassumere sulle orme di Bauman.

Inizialmente e sin dalla sua nascita, alla metà del XVIII secolo, il concetto di cultura si caratterizzava per una carica fortemente normativa e finalizzata, nonché morale: gli uomini, duttili, andavano migliorati, se ne doveva arrestare o attenuare il deterioramento (non a caso il termine è etimologicamente vicino alla sfera della coltivazione e dell’al-levamento). Dunque, fondata «sul postulato o la presunzione della gestione»[14], la cultura presuppone da subito una relazione sociale marcatamente diseguale, tanto che, per usare le parole di Adorno, il prezzo che un’idea culturale paga per sopravvivere è la propria metamorfosi in dominio. In questo panorama è evidente la contraddizione pressoché insolubile per tutti i “creatori di cultura”, i quali vogliano farsi carico di una funzione trasgressiva della stessa: essi, per conservare una possibilità di azione esplosiva, di contrasto, dovrebbero sottrarsi all’ap-parato amministrativo-gestionale della cultura; tuttavia, questo priverebbe loro stessi di un sostentamento materiale spesso indispensabile, e le opere da loro prodotte di una qualsiasi possibilità d’influenza sulla società.

Fino a circa tre decenni fa, quindi, i gestori della cultura si affidavano soprattutto alla potenzialità stabilizzante della stessa: la cultura, resa strumento d’inerzia, era orientata a svolgere una funzione di freno ai cambiamenti. Tuttavia, la società liquido-moderna sconvolge questa opposizione fra gestori di una cultura-freno e creatori di una cultura mobile, di contrasto: oggi i dirigenti preferiscono, a quella che Bauman chiama “regolazione normativa”, la seduzione, e al “modello routinario” e iper-presente, un dominio esercitato indirettamente attraverso l’incertezza. Gli uomini, ridotti a consumatori, appaiono più gestibili nella mobilissima precarietà, piuttosto che nelle routine e nelle norme: la volatilità delle abitudini diviene funzionale al mercato liquido. I cittadini si fanno (solo) consumatori, gli Stati non sono più in grado di regolare e imbrigliare il potere, e da amministratori totali della vita del cittadino (atteggiamento criticato da molti fra i quali Adorno), si defilano in una posizione se possibile ancora peggiore, di mediatori del mercato; l’allonta-namento dalla politica e dalla sfera pubblica dei singoli diventa «l’atteggiamento fondamentale dell’individuo moderno, che nella sua alienazione dal mondo rivela davvero se stesso solo nella sfera privata»[15].

Se in precedenza il contrasto fra dirigenti e creatori di cultura si concentrava soprattutto sulla funzione dell’arte, per i primi di freno e per i secondi di scardinamento, è chiaro che oggi l’oggetto culturale tenta di sottrarsi al sistema di valori della società liquida anzitutto per una sua caratteristica fondante: «la sua durevolezza è in proporzione inversa alla funzionalità»[16], poiché l’opera culturale mira ad andare oltre il limite del contingente, dell’attuale, e non certo a entrare nel processo di consumazione fulmineo tipico della società liquida. «La rapidità di circolazione, l’accorciamento della distanza tra uso, scarto e smaltimento e l’immediata sostituzione dei prodotti non più redditizi [sono] tutte cose che contrastano in maniera stridente con la natura della creazione culturale»[17]: pare quindi che alle creazioni culturali odierne non resti che subordinarsi ai valori di mercato, o soccombere.

Artisticamente, secondo Bauman, quella liquido-moderna è «un’epoca che ha perso fiducia in se stessa, e con questa il coraggio di immaginare e tratteggiare (e tanto meno perseguire) modelli di perfezione». Questo anche perché, a differenza dell’epoca della modernità solida, quella della modernità liquida non si pone alcun obiettivo, e «attribuisce il carattere di permanenza unicamente allo stato di transitorietà»[18]. Sembra che alla cultura non venga concesso, nella società contemporanea, alcun appiglio di contrasto, alcuna modalità di scardinamento né possibilità di intervento sulla società stessa: tutto è incluso e depotenziato, tutto è previsto poiché tutto muta, per restare sostanzialmente uguale, in una precarietà monotona e desolante. L’immagine di questo impasse mi sembra potrebbe essere il concerto di un cantautore raffinato e antiborghese, che critica cinicamente e duramente i borghesi presenti nel pubblico: questi, felici di aver colto un riferimento a un certo atteggiamento che non reputano proprio, oppure sorridendo sornioni, applaudono.

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Perché Bauman III: la paura e la città

Viviamo senza dubbio nell’epoca della paura esacerbata: paura di perdere il lavoro (perché è malfermo il terreno su cui si sviluppa), paura delle malattie (perché è malfermo lo stato di salute del nostro ambiente, o il nostro stesso stile di vita), paura di essere derubati (perché è malfermo il tessuto sociale in cui viviamo). In realtà, però, queste paure sono secondo Bauman bersagli sostitutivi, che usiamo per esorcizzare l’eccesso di paura. Se infatti la paura è un sentimento umano e positivo, ad essa oggi è negata qualsiasi naturale via di sfogo; di conseguenza, cerchiamo di tutelarci contro ogni possibile pericolo, magari con corsi di autodifesa e macchine corazzate, contribuendo in questo modo a fornire conferma al nostro senso di insicurezza: «le nostre paure sono ormai in grado di auto conservarsi ed autoalimentarsi»[19].

Proprio la paura diviene la principale opportunità d’affari del mondo liquido[20]: la sicurezza personale è infatti di gran lunga il principale argomento delle strategie di marketing, dei programmi politici, delle trasmissioni televisive. Tutto ciò influenza direttamente le nostre condizioni di vita, soprattutto urbana, poiché è all’interno della città che si combatte la guerra all’insicurezza: a causa della globalizzazione e della de-ruralizzazione anche dei paesi del Terzo Mondo, le fonti di pericolo si sono ammassate nel cuore delle città. Le nostre capitali, i nostri capoluoghi sono affollati di nemici e soprattutto di estranei dal passato, dalle abitudini, dalle intenzioni non trasparenti; fioriscono così le produzioni di automobili che sono autentici blindati, nonché di gated communities, centri residenziali sorvegliati 24 ore su 24 e circondati da mura o persino da fossati. Questa paura ossessivamente alimentata ha evidenti effetti anche sul tessuto urbanistico-paesaggistico comune, che rivela la posizione delle giunte locali del tutto insensibili alla funzione socializzante che lo spazio pubblico dovrebbe avere, e concentrate esclusivamente su quella securitaria: Bauman riporta la trovata delle panchine a forma di botte e munite di getti d’acqua, a prova di barbone[21], ma io penso anche ai blindati dell’esercito, mimetici e massici, al di fuori della stazione di Brescia, ai divieti d’accesso a piazze vuote, transennate e precluse alla cittadinanza, ai locali lasciati marcire fino a diventare inagibili pur di non concederli in gestione a realtà del territorio, alla capillare diffusione sul reticolo cittadino di uffici di polizia e carabinieri.

Tornando alle attività commerciali, Bauman nota che esse oggi, contrariamente che in passato, fanno di tutto per allontanarsi dal centro urbano e rifugiarsi in contesti artificiali, progettati dal nulla a somiglianza della città (centri commerciali in forma di borghi, con vie, piazze, fontane e ristoranti, oltre naturalmente ai negozi); questa tendenza rivela secondo Bauman che le antiche attrattive delle città («la spontaneità, la flessibilità, la capacità di sorprendere, le occasioni d’avventura»[22]), si sono inesorabilmente capovolte e offrono solo il lato negativo della libertà: l’insicurezza.

Lo spazio pubblico urbano è dunque la prima vittima della globalizzazione, e secondo molti architetti, fra cui Richard Rogers, sarebbe urgente l’intervento di un’istituzione a tutela dello spazio pubblico. Questa tutela, si affretta a precisare Bauman, dovrebbe però avere sguardo lungimirante e “olistico”; non mancano infatti gli esempi di fallimenti nel campo dell’urbanistica pubblica, allorquando si è preteso di progettare in modo asettico, funzionale e standardizzato gli spazi comuni della cittadinanza[23]. Insomma, occorre «debellare la paura senza cadere nel tedio»[24].

La città, a ben riflettere, è sempre stata sin dall’antichità «un luogo di endemica e irriducibile imprevedibilità”, poiché abitata da estranei che, pur restando tali, vivono a stretto contatto. Eppure è proprio questo statuto intrinsecamente rischioso a costituire il tratto caratterizzante della città: “uno spazio è ‘pubblico’ in quanto coloro cui è consentito accedervi non sono predefiniti»[25], e per questo «sono anche gli unici luoghi nei quali l’attrazione abbia una qualche possibilità di vincere o eguagliare la repulsione»[26]. È dunque nei luoghi pubblici, e soprattutto in quelli urbani, che si decide il futuro dei rapporti sociali; per questo, è di vitale importanza promuovere un’“urbanistica integrale” fondata sui principi di connessione e comunicazione, e che sposti «l’attenzione nella progettazione […] dagli spazi privati a una sfera pubblica più ampia che sia utilizzabile e al tempo stesso stimolante […]. Quest’ultima deve servire diversi usi alternativi e fungere da catalizzatore, anziché da ostacolo, dell’interazione umana»[27].

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Perché Bauman IV: consumismo liquido

Dopo aver delineato alcune tipicità della società liquida, Bauman la “attacca” nel suo cuore pulsante: il consumismo vorace. Anzitutto, inganno, esagerazione e spreco sono i fondamenti dell’economia consumista e capitalista; per questo, non possono essere «segnali del malfunzionamento di tale economia, ma garanzie della sua salute, e l’unico regime nel quale la società dei consumi può assicurarsi la propria sopravvivenza»[28]: infatti, l’inganno insito nelle promesse commerciali è indispensabile affinché queste stimolino il consumo; l’eccesso di promesse è indispensabile a evitare che la frustrazione per le speranze non mantenute blocchi il consumo; lo spreco è indispensabile affinché il vuoto fra le speranze disattese e scartate, e quelle nuove, venga colmato, naturalmente con un ennesimo consumo.

Inoltre, c’è un elemento di straordinaria novità che segna il consumismo liquido: se il consumo è interesse antico nella storia dell’uomo, esso si è sempre connotato come un’attività completamente individuale; oggi, al contrario, il consumo si svolge in una società di consumatori, nella quale «la percezione ed il trattamento di praticamente tutte le parti del contesto sociale e delle azioni che esse evocano e inquadrano tendono a essere dettate dalla “sindrome consumista” delle predisposizioni cognitive e valutative»[29].

Secondo Bauman, la sindrome consumista è connotata da alcuni aspetti: il disconoscimento totale del fatto che possa essere giusto o auspicabile dilazionare un soddisfacimento; la preminenza del valore della novità rispetto a quello della durevolezza; la vertiginosa riduzione dell’intervallo di tempo tra il concepimento del desiderio di un oggetto e l’acquisto; l’assottigliamento del confine tra utilità e inutilità di ciò che si possiede; la sostituzione del godimento duraturo di un oggetto con l’appro-priazione ripetuta di differenti oggetti, seguita da uno smaltimento di questi ormai ridotti a forma di rifiuti. Nella società liquida, la perfezione si può ricavare dagli attributi degli oggetti comprati nel loro insieme, dalla loro profusione o persino ridondanza, non da un miglioramento sostanziale della qualità dei medesimi oggetti.

Più precisamente, è il mercato che ci pone la vita

come una sequenza di problemi sostanzialmente “risolvibili”, che tuttavia devono e possono essere risolti unicamente con mezzi disponibili soltanto sugli scaffali dei negozi. Mette in vendita scorciatoie tecnologiche per quel genere di obiettivi un tempo raggiungibili soprattutto sulla base della propria personalità e delle proprie abilità individuali, sulla base di una collaborazione amichevole. […] Batte e ribatte inesorabilmente il messaggio secondo cui qualsiasi cosa è, o potrebbe essere, una merce (commodity) […], insinua che le cose dovrebbero essere “come merci”, e se faticano a rientrare negli schemi tipici degli oggetti di consumo andrebbero considerate con sospetto o meglio ancora rifiutate[30]

In particolare, poi, è notevole che i consumatori accettino con serenità, o persino con piacere, che i beni acquistati, spesso a caro prezzo, abbiano vita brevissima; ogni prodotto di consumo è irrimediabilmente destinato allo scarto già dal primo secondo dopo il suo acquisto.

Al rullo consumistico della società liquida non può sottrarsi, naturalmente, il corpo fisico: esso è concepito come potenzialità, come una materia sulla quale come mai in precedenza possiamo intervenire, apportando miglioramenti, in teoria, fino alla perfezione. Ma Bauman mette in dubbio subito questo fatto dato per scontato, ossia che esista maggior libertà di scelta e intervento sul proprio corpo, poiché gl’interventi di miglioramento sono divenuti pressoché obbligatori e inevitabili. La maggiore variazione che si è avuta rispetto alle epoche precedenti consiste invece nel passaggio del corpo da mezzo a fine: «il corpo del consumatore è “autotelico”, è il fine di se stesso e costituisce un valore in quanto tale: nella società dei consumatori esso è anzi il primo dei valori»[31]. Per questo, in un contesto nel quale i desideri vengono evocati e quasi mai soddisfatti, il corpo del consumatore diviene fonte perenne di ansia e aspettative senza sbocco certo.

Bauman ricostruisce la dinamica che muove l’individuo-corpo-consumatore molto efficacemente: l’individuo è trasformato in una fabbrica che lavora 24 ore al giorno, 7 giorni su 7, per elaborare un ciclo del desiderio ininterrotto, fatto di aspirazioni smaltibili e dalla vita breve; lo strumento attraverso il quale il consumatore può “lavorare”, ossia fabbricare per sé sensazioni piacevoli, è però il consumatore stesso, o meglio il suo corpo, che a tal fine va sottomesso e plasmato. «Nella società dei consumatori la fitness[32] sta al consumatore come la “salute” stava al produttore nella società dei produttori. Essa certifica il fatto di “essere in”, l’appartenenza, l’inclusione, il diritto di residenza»[33]. Il corpo è posto al centro dell’attenzione soprattutto in relazione alla sua capacità di ricevere/trasmettere sensazioni; i piaceri che esso può provare e produrre, tuttavia, non sono solo quelli noti e attuali, ma soprattutto quelli futuri, che in qualche modo saranno escogitati e che dunque, in quanto tali, saranno infiniti: se il corpo, nella società dei produttori, poteva arrivare al perfetto equilibrio della salute, il corpo del consumatore, per quanto adeguato sia, può sempre diventarlo di più. Tutto questo rende quella che Bauman chiama “la terra di frontiera” – ossia la zona che si estende fra il corpo del consumatore e il mondo esterno – un vero rompicapo ansiogeno, e il grasso corporeo è il fenomeno che maggiormente evidenzia la problematicità di questa interazione[34].

La conclusione di Bauman in proposito, è che il corpo non è affatto meno socialmente regolato oggi di quanto lo fosse in passato; semplicemente, si sono prodotte alcune modifiche nella gestione della sua regolazione; ad esempio, gli Stati hanno perso l’autorevolezza e la preminenza in tale gestione.

In ogni caso, il fantasma dell’esclusione non si è certo attenuato nella società liquida; al contrario, Bauman rileva come oggi si assista alla nascita di una nuova categoria di esclusi: i consumatori difettosi o falliti. Questi, a differenza degli oziosi nella società dei produttori, non possono essere “riabilitati”: sono irrevocabilmente inutili, uno scarto irrecuperabile; senza essere stati condannati da un tribunale o fisicamente espulsi, essi costituiscono la classe inferiore nella società che si fa vanto di aver abolito le classi.

Bauman, a proposito di questi nuovi esclusi e della gestione della loro sorte, precisa:

Poiché i governi attuali hanno smesso di progettare l’ordine sociale perfetto, essi non hanno più interesse né motivo di decidere chi si salverà e chi sarà dannato, e di predisporre elenchi degli esclusi. Ad essi è rimasto solo il compito di sbarazzarsi dei tanti che sono già stati esclusi con altri mezzi […] dal gioco dei consumi. Essi devono affrontare la terribile sfida dello ‘smaltimento degli scarti umani’ su un pianeta gremito che non offre più luoghi remoti da adibire a discarica dei rifiuti[35].

I nuovi esclusi dunque non hanno alcuna occasione per vivere secondo le regole del gioco, per portare a buon fine quello che ormai viene considerato un compito prettamente individuale: la tessitura di un abito sociale.

Questa realtà si abbatte anche, naturalmente, sulla natura dei rapporti interpersonali: dalla decisione di mettere al mondo un figlio, ormai condizionata dallo spauracchio di perdere uno status socio-economico ritenuto irrinunciabile[36], al contrasto fra l’estremo bisogno d’amicizia e l’esigenza di “viaggiare leggeri”[37], alla “sproblematizzazione” dei rapporti di coppia. In quanto sociologo, Bauman trova molto interessante, ad esempio, il fenomeno dell’incredibile risposta di pubblico a saggi che trattano dell’origine chimica di un fenomeno quale l’innamoramento, e conclude:

La mia ipotesi è che i messaggi descritti qui sopra [quelli di studiosi, filosofi, scienziati che spiegano la fine dei rapporti con argomenti chimici o fisiologici] tendano ad essere accolti con favore e a riscuotere un credito senza riserve in quanto promettono di mitigare e placare i tormenti dello spirito che affliggono tante persone, che tentano invano di allontanarli o tacitarli. Ma l’angoscia è autentica e non scomparirà senza uno sforzo che la maggioranza delle persone si sente inadeguata o riluttante a compiere[38].

Insomma, il problema non è che i rapporti di coppia siano indubbiamente problematici, o che avere un figlio sia una scelta complessa, ma il fatto che la società liquida inculchi negli individui un’unica modalità di approccio, concezione e godimento: quella consumistica, che presuppone facilità di fruizione e soddisfazione immediata, assenza di problematicità e un continuo innalzamento della soglia di appagamento, nonché una facile riciclabilità. Evitare di impegnarsi fa sembrare ogni cosa più semplice, ma può diventare angosciante allorché ci si ricordi che di questo consumo facile saranno vittime non oggetti ma altri esseri umani.

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Perché Bauman V: apprendere nella società liquida

Per definizione, nella società liquida tutto si sposta, le condizioni cambiano ad una velocità tale che diviene difficile per gli individui restare al passo. In particolare, Bauman spiega che per imparare, comprendere la realtà e di conseguenza ponderare le proprie scelte, in questo contesto sono necessarie due nuove qualità, e il sociologo le illustra con il paragone del missile balistico: se in precedenza con una qualsiasi arma bastava sparare, e sussisteva solo un minimo margine d’errore, oggi dobbiamo tutti essere dei “missili intelligenti” riguardo gli aspetti del reale che vogliamo comprendere, e quindi dobbiamo scegliere il nostro obiettivo solo dopo aver sparato, e non prima, proprio perché l’obiettivo è mobile; secondariamente, ma si tratta di una “qualità” di fondamentale importanza, dobbiamo essere capaci di dimenticare senza riserve ciò che abbiamo imparato, perché informazioni precedentemente immagazzinate e non rimosse nettamente diventerebbero fuorvianti.

Questi sono i presupposti necessari per compiere una scelta nel mondo liquido, ma

in nessun’altra epoca […] la necessità di compiere scelte è stata avvertita in modo così profondo, […] e l’atto di scegliere è stato tanto acutamente consapevole di sé, ed è stato mai compiuto in simili condizioni di dolorosa e insanabile incertezza, sotto la costante minaccia di ‘restare indietro’ e di essere esclusi irrevocabilmente dal gioco per non aver tenuto testa alle nuove esigenze[39].

L’ansietà che le scelte provocano deriva dalla percezione che non esistono nel mondo d’oggi «regole preordinate né obiettivi universalmente approvati che possano essere perseguiti fermamente, qualsiasi cosa accada, sollevando così chi compie tale scelta dalla responsabilità di qualsiasi conseguenza avversa»[40].

Per restare nel più preciso ambito dell’istruzione, Bauman scrive che la stessa volatilità dell’ap-prendimento, la mutevolezza e il moltiplicarsi delle informazioni richieste, rappresentano occasioni d’oro per il mercato, che prontamente accorre laddove esista un problema da colmare, naturalmente stabilendo un alto prezzo: nel “mercato dell’istru-zione” è abbondante l’offerta, «visto che i clienti potenziali, per definizione, non sono in grado di giudicare la qualità dei prodotti offerti […]. È facile vendere conoscenze di cattiva qualità o inutili […], e quante più se ne vendono, tanto meno è probabile che i clienti ingannati vedano il bluff dei fornitori»[41]. Ma il problema è ben più strutturale, al di là delle slealtà patologiche, perché effettivamente in una società liquida le abilità e conoscenze conquistate si svalutano, e le richieste del mercato cambiano, a velocità vertiginosa.

A livello sociale, questo nuovo tipo di dipendenza dalla conoscenza determina nuove divisioni tra élite professionali, che già di partenza potevano permettersi una formazione continuamente aggiornata, e forza lavoro, ma anche fra manodopera specializzata e non. Si innalzano così nuove barriere alla mobilità sociale impossibili da valicare, e paradossalmente è l’istruzione a determinarle: «emerge sempre più chiaramente come il “mercato dell’insegnamento”, se lasciato funzionare in base alle proprie logiche, sia destinato ad accrescere le ingiustizie, anziché ridurle, e a moltiplicarne le conseguenze sociali e gli effetti collaterali potenzialmente catastrofici»[42].

Queste problematiche sono state affrontate già nel 2001 dalla Commissione delle Comunità Europee, che ha prodotto un documento dal titolo Realizzare uno spazio europeo dell’apprendimento permanente, ma è evidente che gli autori del testo sono preoccupati, più che delle conseguenze sociali della commercializzazione della formazione, del rischio che una formazione stabilita dal mercato non dia all’economia degli Stati ciò di cui essa necessita, rendendola insomma meno competitiva. È, questo, un aspetto che credo chiunque possa notare, in discussioni con conoscenti o in discorsi anche meno velati in televisione: la molla per l’incremento o il miglioramento dell’istruzione non sembra più essere quella fondamentale e etica, ossia la liberazione, l’emancipazione degli individui, il garantir loro una dotazione di strumenti utili a fare la propria vita e impedire che altri la facciano dall’alto; la molla è, invece, il cosiddetto “vantaggio competitivo”. Se ci si augura vagamente che con un miglioramento dell’apprendimento aumentino il benessere e la possibilità d’intervento civico, questo non è comunque l’obiettivo primario, ma un risultato collaterale. Bauman ritiene molto preoccupante che simili argomentazioni ricordino da vicino quelle di molti dirigenti d’azienda; al tempo stesso, rileva che questo approccio privo di etica non è nemmeno efficace a livello pratico. Infatti, i gestori delle cosiddette risorse umane si sono mostrati incapaci, nella maggior parte dei casi, di prevedere ciò che sarebbe avvenuto nel mercato e formare adeguatamente la forza lavoro. Tutto ciò diviene estremamente frustrante per la forza lavoro stessa, messa di fronte ad un mercato imprevedibile, liquido, e a “missioni” o promesse fantasmagoriche, puntualmente disattese; oltretutto, in caso di fallimento, non c’è nessuno che se ne prenda la responsabilità, nel migliore dei casi; nel peggiore, la “colpa” è, tacitamente o meno, da attribuirsi ai dipendenti. Ed è lo Stato a realizzare la più vistosa marcia indietro, per ciò che concerne l’assunzione di responsabilità.

«In un contesto liquido-moderno l’“incertezza fabbricata” è il principale strumento di dominio, mentre la politica di précarisation, per usare il termine di Pierre Bourdieu […], è divenuta quasi il nocciolo duro della strategia di dominio»[43]. Si capisce bene quanto ciò sia in contrasto con l’intento della Commissione Europea di dare pieni poteri ai suoi cittadini; questa buona intenzione finisce per significare la concessione ai cittadini della libertà di scegliere fra opzioni (di vita, di lavoro, politiche) già selezionate da altri, la libertà, potremmo dire, di usare un kit per giocare ad un gioco preciso solo secondo regole precise, non certo di usare quel kit per fabbricarsi mezzi autonomi finalizzati a influenzare o sovvertire il gioco stesso.

A questo proposito Bauman rileva come vi sia una formazione permanente che non è invece stimolata dai mercati: quella alla cittadinanza. Questo perché «il consumatore è nemico del cittadino»[44]. Infatti, la chiusura nel privato, nell’individuale, dato di fatto dal quale siamo partiti in questa recensione, è manna dal cielo per i mercati, che si trovano di fronte consumatori ansiosi, docili, inconsapevoli, privi di qualsiasi altro orizzonte se non l’affannosa ricerca di un’individualità che può essere costruita solo grazie al soccorso del mercato stesso. Ma è chiaro che «la democrazia è a repentaglio quando gli individui non sono in grado di tradurre la propria miseria privata e di condividerla a un livello più ampio, sotto forma di preoccupazioni pubbliche e di azione collettiva»[45], anche perché le libertà non sono beni acquisiti una volta per tutte, custodibili in casseforti private: esse non possono sussistere che su un suolo sociopolitico solido, che per essere tale dev’essere continuamente alimentato. Curioso notare che molte persone oggi ammetterebbero senza problemi le proprie lacune tecniche o tecnologiche, mentre in pochi percepiscono l’urgenza di approfondire la propria formazione politico-sociale[46]. Eppure,

l’ignoranza produce la paralisi della volontà. Non si sa cosa si prepara e non c’è modo di stimare l’entità dei rischi; per questo il circolo vizioso di sfiducia, distacco dalla politica (nel senso più ampio del termine, naturalmente), ignoranza è prezioso e gradito ai mercati. E per questo “abbiamo bisogno della formazione permanente per darci un’alternativa. Ma ne abbiamo bisogno ancora di più per salvare le condizioni che ci rendono disponibile, e in nostro potere, quell’alternativa[47].

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Perché Bauman, conclusione: l’individuo e i suoi simili, la riconquista dello spazio pubblico

Se, come afferma Hannah Arendt, lo scopo della sfera pubblica consiste nel far luce sugli affari umani, creando uno spazio in cui i singoli possano mostrarsi per ciò che sono ed elaborare soluzioni, è meglio comprensibile la formula usata da molti pensatori e filosofi, che connotano i nostri come “tempi oscuri”: viviamo ormai quasi del tutto privi di questo ponte luminoso, e brancoliamo individualmente nel buio.

Eppure, molte delle caratteristiche dei nostri tempi ci sono costantemente proposte come positive; fra queste, non fa eccezione la cosiddetta innovazione, il cambiamento, in opposizione ad una staticità ormai descrittaci come noiosa, antica. Bauman rileva che già in un’altra epoca si svilupparono dinamiche simili: durante l’Illuminismo. Tuttavia, vi sono tre ordini di differenze: anzitutto, gli “eroi” di oltre due secoli fa miravano a ottimizzare il funzionamento delle cose, con lo scopo di garantire a tutti gli uomini un’esistenza più soddisfacente, e si può dire quindi che la ricerca della felicità fosse concepita come impresa collettiva; al contrario, gli abitanti dell’epoca liquida non sono soliti occuparsi dello stato di salute del mondo, e in ogni caso non ritengono che la felicità individuale sia in alcun modo dipendente o collegata a tale stato dunque la ricerca della felicità è impresa eminentemente individuale. Secondariamente, gli uomini della “prima storia” ritenevano che il mondo nel quale vivevano potesse essere trasceso e migliorato fino ad un risultato preciso: un mondo tanto ottimale da non rendere auspicabile nessuna sua ulteriore evoluzione; per gli uomini della “seconda storia”, invece, l’idea di fermarsi appare senza senso, così come quella di un traguardo: essi si limitano a concentrarsi sull’azione immediatamente successiva, non aspirano nemmeno ad immaginare quelle seguenti. Muoversi, insomma, non ha lo scopo di raggiungere un risultato stabile, ma quello di restare in movimento per non sprofondare. Il cambiamento, per gli uni, costituiva un’operazione unica e un mezzo con un fine preciso; per i secondi, esso è una condizione permanente, un mezzo che è fine a se stesso. Infine, i primi uomini di questo confronto erano disposti a intervenire, stimolare gli altri uomini per spingerli a collaborare all’impresa collettiva, a cambiare; per i secondi, invece, la questione del cambiamento non ha senso, poiché secondo essi nessuno è immobile, tutti sono in movimento poiché non si può fare diversamente.

Bauman presenta questo parallelo anche per accennare ad alcune considerazioni di Theodor Adorno, che non solo visse fra le due epoche, ma le collegò. Adorno oppone la prima storia alla seconda, e non ritiene che la seconda costituisca il necessario sviluppo della prima; tuttavia, la seconda impone la rivisitazione della prima, e la prima autodistruzione del mondo ha lasciato “libere” alcune speranze che chiedono di essere realizzate. Invece, il legame fra i tempi e la loro stessa solidità in rapporto all’individuo, saltano: il passato, non da ricordare, ma da realizzare, è continuamente sottoposto a distruzione e cancellazione, poiché gli individui sono concepiti come successione di presenti puntuali e superati; il presente non offre contatto, e dunque impedisce di poter intervenire sul futuro. La liquidità del presente, infatti, lo destruttura, per noi, in mille episodi brevi e volatili, la cui sequenza, il cui senso restano inaccessibili, e come scrive Bourdieu questo ci nega anche solo la possibilità di rivolta; la precarietà «impedisce qualsiasi forma di anticipazione razionale e, in particolare, quel minimo di fede e di speranza nel futuro che è necessario per ribellarsi»[48].

Adorno analizza come l’individuo impaurito, in balia di episodi schizofrenici, sarà propenso a far confluire il proprio narcisismo personale nel “narcisismo collettivo”, una promessa di salvezza ingannevole avanzata tramite “rifugi immaginati”, all’ingresso dei quali stanno un gran numero di individualità dismesse – e questo è l’unico fattore che fa apparire ben collaudati questi fittizi spazi di protezione. Questi rifugi costituiscono in realtà dormitori anch’essi episodici, e l’individuo, rassicurato, ma non avendovi trovato effettiva rappresentazione, è costretto a passare da un rifugio all’altro: da un colore di capelli a un altro, da una “causa” montata ad arte ad un’altra. Scrive Bauman: «La communis opinio è avvertita come un dono dal cielo da individui che personalmente controllano e gestiscono risorse troppo inferiori rispetto a quelle occorrenti per separare con un minimo di affidabilità la verità dalla “mera opinione”. Essa solleva gli individui dall’onere di decisioni che essi non sono comunque in grado di prendere»[49]. A stabilire l’opinione comune è il potere della società, «che denuncia come mero arbitrio tutto ciò che non concorda col suo arbitrio. Il confine tra l’opinione sana e quella patogenica è tracciato in praxi dall’autorità dominante, non dal giudizio informato»[50]. Il confine è salvifico e più che allettante in un mondo liquido, e l’individuo lo abbraccia senza riserve come unica possibilità di sicurezza. È interessante però notare come i confini stabiliti dall’autorità dominante servano sia a chi cerca la sicurezza, sia a chi cerca la libertà, e che i due gruppi lavorino, magari inconsciamente, a rafforzarli.

A differenza che agli occhi di Marx, ai nostri il mondo d’oggi non sembra affatto sul punto di imboccare una grande svolta, di trasformarsi hic et nunc in un mondo più giusto e accogliente per l’umanità: non vediamo i ponti che collegano i due mondi, né veicoli per attraversarli, e soprattutto non vediamo folle impazienti di compiere l’impresa. “Il mondo vuole essere ingannato” è la lapidaria conclusione di Adorno, e il gruppo ha sete di obbedienza, per usare invece le parole di Le Bon; il mercato non fa che solleticare il bisogno infantile di protezione dell’individuo, anche tramite l’enorme macchina dell’industria culturale che gratifica la moltitudine, tranquillizzandola, ma garantendole anche un’illusione di brivido e incertezza.

Adorno riflette lungamente e profondamente riguardo la condizione e la possibilità di influenza degli intellettuali sulla società contemporanea. Anzitutto egli sottolinea come il compito dell’ema-ncipazione sia diventato, ai nostri tempi, planetario, perché non solo nessuna delle accuse che Marx muove al capitale (gli sprechi e l’ingiu-stizia che esso produce) è divenuta inattuale, ma anzi le loro dimensioni si sono fatte, appunto, planetarie. E in questo contesto l’élite culturale, inseguendo la tendenza all’ibridazione e alla non appartenenza, perde contatto coi luoghi fisici e col resto dell’umanità, che non ha la possibilità di essere altrettanto mobile. Nonostante la gravissima situazione e la difficoltà delle lotte, Bauman ritiene che esista un fattore positivo insito nell’uomo, poiché prodotto automaticamente dall’incontro di immaginazione e senso morale: la speranza. L’uomo insomma non potrà mai rassegnarsi a “ciò che è”, continuerà a porre domande critiche e ad aspettarsi che le cose cambino; contrariamente a ciò che percepiamo (il disincanto, la rassegnazione di massa), questo fondo di speranza è presente, e lo è soprattutto in quella classe di intellettuali che, ripreso il contatto col proprio tessuto socio-culturale, riacquisito il senso positivo dell’appartenenza, e della solidarietà, potrà forse tornare ad avere una funzione attiva, anche nel mondo liquido, smettendo così di essere solo un’élite culturale.

Concludendo, Bauman ritiene impossibile, da un lato, che si riesca a ricostruire uno spazio pubblico identico a quello dell’era moderna, contrassegnato cioè da una forte partecipazione delle istituzioni rappresentative dello Stato-nazione; egli crede invece nella possibilità di costruzione di un nuovo spazio pubblico, di respiro globale

a riconoscimento del fatto che tutti noi che viviamo su questo pianeta dipendiamo gli uni dagli altri per il nostro presente e il nostro futuro; che nulla di ciò che facciamo, o omettiamo di fare, può essere indifferente per il destino di chiunque altro; e che nessuno di noi può più cercare e trovare un riparo privato dalle tempeste che possono nascere in qualsiasi parte del globo[51].

Il messaggio che Bauman lancia è chiaro e forte, e a me suona anche come una chiamata al coraggio, alla comprensione lucida delle difficoltà immani che ci aspettano, ma anche alla speranza nell’uomo, nelle sue infinite risorse, e nella possibilità della lotta solidale.

LUGLIO 2012

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[1] Non a caso il saggio di Bauman si apre riportando uno sketch sul problema dell’unicità/massificazione dell’individuo, che nel mondo liquido origina un insieme di fraintendimenti che si fanno ostacolo alla presa di coscienza di un’individualità autentica, nonché alla presa di posizione in una reale collettività: «L’eroe eponimo del film dei Monty Python Brian di Nazareth, furibondo per essere stato proclamato Messia contro la sua volontà […], cerca in tutti i modi, ma invano, di convincerli a non comportarsi come un gregge di pecore e ad andarsene. Grida loro: “Siete tutti degli individui!”. E il coro dei devoti gli risponde prontamente all’unisono: “Sì, siamo tutti degli individui!”. Solo una voce, flebile e solitaria, replica: “Io no”. Brian allora fa un altro tentativo: “Ognuno di voi è diverso!”. “Sì, ognuno di noi è diverso!”, approva entusiasticamente l’assembramento di fedeli. E, di nuovo, quell’unica vocina obietta: “Io no…”. A quel punto la folla inviperita si guarda intorno per linciare il dissidente», Z. Bauman, Vita liquida, Editori Laterza, Roma 2006, p. 3.

[2] Vedi nota 1.

[3] Nei corsi di marketing e affini, circola una rappresentazione a margherita o a torta della vita perfettamente realizzata ed equilibrata. Le componenti sono in alcune versioni sei, in altre otto, ma le costanti sono vita di coppia, famiglia o figli, benessere psicofisico, affetti o amici, lavoro e denaro. In nessuna compare un riferimento per quanto vago alla sfera sociale o collettiva.

[4] Una vastissima parte delle opere di Bauman si sviluppa attorno al tema della liquidità della società moderna (solo alcune di queste sono state tradotte in italiano, fra cui Paura liquida, Modus vivendi. Inferno ed utopia del mondo liquido, Modernità liquida, Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi). Con l’aggettivo “liquido” il sociologo intende porre l’accento sul particolare carattere precario, mutevole e inafferrabile della società nella quale ci troviamo a vivere, ormai unanimemente considerata post-moderna.

[5] Bauman, cit., p. 9.

[6] Ibidem, p. 14.

[7] Ibidem, p. 22.

[8] «Sono infatti sempre più numerose le famiglie della classe media cui il reddito consente solo un’esistenza umiliante e vissuta alla giornata, tormentata da paure di regressioni salariali e ridimensionamenti delle imprese», Ibidem, p. 16

[9] Proprio per il fatto che il “carro dell’individualizzazione” è precluso a buona parte dell’umanità, molti esclusi adottano naturalmente un comportamento di “resistenza all’individua-lità”: «Il “fondamentalismo”, che sceglie di tenersi strettamente aggrappato all’identità ereditata e/o attribuita, è un prodotto naturale e legittimo dell’individualizzazione imposta a livello planetario», Ibidem, p. 18.

All’opposto, “le classi del sapere”, come le chiama Bauman, trovano attraente l’ibridismo culturale essenzialmente a causa del fatto che non tutti possono metterlo in pratica, e cercano la propria identità nella non appartenenza: «gli “ibridi culturali” desiderano sentirsi ovunque chez soi, per essere immuni ai perfidi batteri della vita domestica», Ibidem, p. 21.

[10] Ibidem, p. 14.

[11] Ibidem, p. 24.

[12] Ibidem, p. 32

[13] Brevemente, se il martirio «costituisce un atto di solidarietà nei confronti di un gruppo minoritario e debole che viene discriminato» (Ibidem, p. 36), e colpisce, quantomeno nell’Occidente moderno e post-moderno, per la sua natura di azione inutile o persino controproducente, l’atto di eroismo è invece legato ad un calcolo: esso deve «produrre come effetto qualcosa che non potrebbe ottenersi altrimenti» (Ibidem, p. 37), ossia la sopravvivenza o l’affermazione di un valore, ed è questo che giustifica il rischio e persino la morte dell’eroe. Spesso l’eroe è legato alla nuova divinità dell’Europa moderna, la nazione, che parla in vece dell’individuo e ne stabilisce aspirazioni e valori, incarnando il bene supremo per il quale i cittadini devono essere disposti all’atto d’eroismo. Lo Stato-nazione, tuttavia, perde progressivamente terreno, ambisce meno a tutelare e gestire le vite dei propri cittadini, perdendo così «potere di mobilitazione spirituale […]: d’altra parte, nell’epoca dei piccoli eserciti professionali, lo Stato non ha più bisogno di eroi» (Ibidem, p. 40). Bauman rileva come nella società liquido-moderna non ci sia spazio né per i martiri né per gli eroi, poiché essa si oppone al sacrificio di soddisfazioni immediate in vista di finalità che siano remote e non individuali: «in sintesi, la società dei consumi liquido-moderna svilisce gli ideali del “lungo periodo” e della “totalità”» (Ibidem, p. 41). Espulsi martiri ed eroi, le cui gesta desterebbero disagio e incomprensione nella società odierna, resta spazio per le celebrità: contrariamente ai loro “predecessori”, le celebrità non devono il riconoscimento sociale alle proprie gesta, ma esclusivamente alla visibilità di cui godono; anch’essi generano comunità, ossia funzionano da collante per persone differenti, ma si tratta di comunità immaginate e immaginarie, nonché precarie; il culto di una celebrità, infine, non aspira al monopolio. Riguardo alla natura di questi culti moderni delle celebrità, Bauman scrive: «Il genere di rassicurazione che solo un culto di massa può fornire viene offerto in un pacchetto che contiene anche la soddisfazione di sentirsi all’altezza degli standard che la società degli individui definisce per coloro che ne fanno parte», Ibidem, p. 47.

[14] Ibidem, p. 50.

[15] Baumann cita Hannah Arendt, Men in Dark Times, New York, Harcourt Brace, 1983, p. 24.

[16] Bauman cita ancora la Arendt, La crisi della cultura: nella società e nella politica, in Tra passato e futuro, Firenze, Vellecchi, 1970, pp. 215-245.

[17] Bauman, cit., p. 58.

[18] Ibidem, p. 66.

[19] Ibidem, p. 70.

[20] «I pubblicitari hanno sfruttato deliberatamente i timori di azioni catastrofiche da parte dei terroristi per aumentare le vendite di Suv, che hanno elevati margini di profitto», Bauman cita Stephen Graham, Postmodern city: towards an urban geopolitics, “City” n° 2, 2004, pp. 165-196.

[21] Bauman dà la palma della sudditanza a questa logica di terrorismo psico-urbano alla città di Copenhagen, che ha levato tutte le panchine pubbliche dalla zona della stazione centrale. Avevo notato in precedenza che anche in molte città italiane, tra le quali anche Brescia, l’assenza di panche e luoghi comuni agibili, per cittadini quindi che non siano in quel momento consumatori, è davvero “vistosa”: per sedersi, ammirare un angolo della città, parlare o semplicemente leggere, è necessario consumare.

[22] Bauman, cit., p. 77.

[23] In Vita liquida, in proposito, è riportato l’esempio di Stoccolma, che alla metà del secolo scorso sposò la convinzione secondo la quale rimodellando lo spazio urbano si potesse migliorare la società, mirando alla realizzazione di un’utopia socialdemocratica. In quell’epoca le autorità municipali fornirono a ogni abitante un alloggio munito di ogni comodità, confort e protezione; nonostante ciò, la generazione successiva rifiutò in massa questa dignitosissima offerta abitativa, priva però di libertà, di spontaneità, per defluire in agglomerati urbani periferici.

[24] Ibidem, p. 80.

[25] Ibidem.

[26] Sempre che, precisa Bauman, si tratti di realtà urbane che non tendano né a livellare le differenze presenti al loro interno, né a fossilizzarle in separazioni marcate. Ibidem, p. 81.

[27] Citazione da Jonathan Manning, Racism in three dimensions: South African architecture and the ideology of white superiority, “Social Identities” n° 4, 2004, pp. 527-536.

[28] Bauman, cit., p. 86.

[29] Ibidem, p. 87.

[30] Ibidem, p. 95

[31] Ibidem, p. 98.

[32] Il traduttore italiano di Vita liquida preferisce usare al femminile il termine fitness (“la fitness”), rispettando il genere della parola inglese.

[33] Bauman, cit., p. 101.

[34] Bauman analizza come il consumatore sia indotto a concepire il grasso corporeo come degli «agenti nemici penetrati nel nostro territorio» (Ibidem, p. 105), come autentiche cellule terroristiche ostili che si camuffano e sfuggono al controllo (come distinguere grassi saturi da grassi insaturi, prodotti naturali da prodotti adulterati?). Non a caso l’obesità è considerata negli usa il principale problema di salute pubblica, e la battaglia per combatterla “la guerra culturale del nuovo secolo” (secondo il New York Times): in questo contrasto da un lato si dimenano gli avvocati pronti a gettarsi nella mischia dopo i successi contro le industrie del tabacco, dall’altro i grandi produttori di cibi pronti e fast food presentano la “libertà di mangiare” come banco di prova del rispetto della libertà generale. Secondo Bauman, si tratta di un’ennesima declinazione della contrapposizione fra sicurezza e libertà, e anche nel caso del corpo la soluzione auspicabile sarebbe quella di trovare un equilibrio frutto di riflessione e consapevolezza individuali, e non di pressioni e condizionamenti, come quello a mangiare di più per poi smaltire di più: «un simile consiglio, se accettato da tutti, farebbe girare più rapidamente gli ingranaggi della produzione, del ricambio e dello smaltimento di prodotti, suscitando l’entusiasmo sia dei produttori che dei loro nemici giurati», Ibidem, p. 109.

[35] Ibidem, p. 111.

[36] Il punto del discorso, per Bauman, non si snoda attorno alla libera scelta di fare o meno dei figli e alle motivazioni esistenziali e personali, contingenti e concrete adducibili, ma attorno al fatto che presso una larga fascia della popolazione occidentale fra queste motivazioni siano rilevabili condizionamenti di tipo consumistico; ciò che stupisce, insomma, è che molti lamentino non semplicemente il costo economico di un figlio, ma il fatto che quei soldi, nato l’erede, non siano più destinabili ad attività prettamente consumistiche.

[37] “Viaggiare leggeri” perché il mondo è liquido, instabile, precario: in queste condizioni, «impegni a lungo termine e legami difficili da sciogliere potrebbero rivelarsi uno scomodo fardello, una zavorra da gettare subito in mare», Bauman, cit., p. 120.

[38] Ibidem, p. 118.

[39] Ibidem, p. 134.

[40] Ibidem, pp. 134, 135.

[41] Ibidem, p. 136.

[42] Ibidem, p. 137.

[43] Ibidem, p. 141.

[44] Ibidem, p. 144.

[45] Bauman cita Henry H. Giroux e Susan Sears Giroux, Take back higher education: toward a democratic common, “Tikkun”, novembre-dicembre, 2003.

[46] Sempre dall’articolo dei Giroux, Bauman estrae un paragrafo che riporta i risultati di un sondaggio a proposito delle convinzioni degli americani riguardo il Medio Oriente: «il 42% riteneva Saddam Hussein direttamente responsabile degli attacchi dell’11 settembre»; «il 55% del pubblico era convinto che Saddam Hussein sostenesse direttamente l’organizzazione terroristica al Qa‘ida»; «la maggioranza degli americani riteneva anche che Saddam Hussein disponesse di armi di distruzione di massa, che tali armi fossero già state trovate, che egli si accingeva a costruire un ordigno nucleare».

[47] Richiamo solo l’attenzione sul fatto che “Non esiste nessuna alternativa” è l’autentico refrain, il leit-motiv di questi ultimi mesi di crisi, il coperchio sulla pentola a pressione delle politiche economiche devastanti che ci vengono imposte. E in effetti, all’interno di questo gioco, avendo solo gli strumenti per giocare al medesimo gioco e non per smantellarlo o maneggiarlo dall’esterno, è certo che non vi sia alternativa alcuna. Bauman, cit., p. 146.

[48] Bauman cita Pierre Bourdieu, La précarité est aujourd’hui partout, in Contrefeux, Raison d’Agir, Paris 1998, pp. 97-98.

[49] Bauman, cit., p. 156.

[50] Citazione dalla versione inglese di Theodore Adorno, Critical Models: Interventions and Catchwords, Columbia University Press, New York 1998, p. 276.

[51] Bauman, cit., p. 177.