Recensioni
Ritrovare gli altri: Bauman,
«Vita Liquida
Giulia Inverardi
Perché Bauman, premessa:
l’individuale, il sociale, l’attuale.
È stato un richiamo
immediato a suggerirmi di scegliere, fra gli altri testi di sociologia
esposti e forse altrettanto interessanti,
Vita liquida di Bauman. Già la
quarta di copertina evoca una “costellazione di questioni” che da tempo,
in varie forme, cerco di approfondire senza riuscire a trovare sbocchi:
essa, infatti, suggerisce immediatamente al lettore un avvicinamento,
una ricomposizione essenziale, parlando di “meccanismi psicologici” e
“meccanismi sociali”.
La riflessione di partenza
che, con un bagaglio di conoscenze insufficiente, non riuscivo a
sviluppare riguarda proprio la natura “non (più) sociale” della nostra
società, accanitamente centrata sull’individualità e sul privato,
piuttosto che sul collettivo. Sempre più spesso mi capita di percepire,
in semplici avvenimenti quotidiani o nei discorsi di persone dai più
disparati vissuti e dalle più varie formazioni, due “resistenze”: non
solo la quasi totale assenza di letture sociali di fenomeni di ampia
portata, ma più in particolare una refrattarietà a cogliere il
collegamento fra se stessi e i movimenti che coinvolgono milioni di “me
stesso”. È evidente che tutti siamo pressati, da questa società non
sociale, ad una corsa caparbia e disordinata verso l’affermazione di
un’ambigua originalità, di un’unicità verace e persino arrogante, che
però ci possa garantire l’accettazione in seno alla sempre più
indistinta comunità degli “originali tali e quali a noi”: si tratta, lo
approfondiremo poi, di un’individualità del tutto fragile e
falsificante, che risulta, infine, standardizzata. Non è curioso allora
che l’accettazione nella comunità paia ancora così importante, in barba
all’esasperazione dell’individualismo; tale importanza trova ragione
nel comun denominatore che segna il gruppo di “accettanti” stesso,
costituito proprio dal medesimo tipo d’individualismo, dalla fede nei
parametri di originalità massificata, dal riferimento esclusivo al “sé
stesso” di cui tutti sono una perfetta, maniacale riproposizione. Essere
accettati da questa comunità significa moltiplicare il nostro
individualismo, trovare conferma della sua giustezza in mille suoi
prototipi funzionanti; in un simile gruppo, tutti si prestano ad essere
specchio preciso di questo insieme di atteggiamenti. E questo ha un
triplo risultato: ci illude di detenere un’individualità solida e
originale, ci rende massificati, ma ci isola trattandosi di una
“massificazione alienante”[1].
Trovo importante notare
che, a copertura delle punte estreme che lo sguardo individualista
post-moderno comporta nei confronti dell’“altro da noi”, sussistono sì
forme morali o moraleggianti di apparente compensazione, ma esse in
realtà sono incluse, assecondano anzi l’atteggiamento di rivendicazione
orgogliosa d’individualismo: il pietismo patetico per i bisognosi
(soprattutto lontani), la rude auto-attribuzione di sentimenti schietti
e di sincerità e lealtà (per contrasto ad un “altro” del tutto esterno
alla comunità di accettanti), l’appello a forme d’azione spesso violente
o truculente in grado esse sole di ristabilire una giustizia, automatica
e indubitabile, dei meritevoli e dei valenti, tutte queste e simili
condotte sono segnate, anche nelle loro modalità di espressione, da
forti componenti personalistiche, che lasciano spazio all’altro solo
nella misura in cui il suo comportamento, o il nostro nei suoi
confronti, possa sottolineare i nostri tratti, marcare le nostre
eccellenze.
Gli “altri”, infatti,
tutti rischiamo di pensarli in forma di contorno casuale e “dato”: in
mezzo ad essi noi ci troviamo collocati come per caso, dall’alto, e
stiamo in quello che ci sembra un contesto spazio-temporale neutro,
lineare, quasi fossimo pedine collocate su un tavolo sterile, senza
alcuna connotazione pregressa. Con queste altre individualità noi
abbiamo rapporti “prestabiliti” e naturali, che non sono problematici
nemmeno quando potrebbero esserlo – anche le divergenze si sviluppano
secondo azioni che non mettono mai in discussione la natura degli
individui o la nostra in rapporto ad essi, azioni da copione: l’insulto
all’immigrato, le botte fra tifosi, le liti anche violente fra vicini.
Siamo spinti a credere che tutto questo non abbia, alle spalle e nel
profondo, una trama carica d’implicazioni e significati, e che la
società sia invece un largo ripiano sul quale ci muoviamo con stature
naturalmente diverse, incrociando a volte orbite altrui, o fondendoci,
in forme che possono essere d’amicizia o di famiglia, con altre persone
che restano individui monolitici.
Inoltre, trovo curioso che
quando parlano di “altri” in genere le persone includono in questa
categoria parenti e conoscenti: una rete “sociale” angustissima, che non
è nemmeno sentita come vera rete di forze, di confluenze, di stimoli –
potrebbero essere tali soprattutto in virtù di una natura variegata,
oppositiva, esclusa invece dalla comunità degli individualisti veraci
eredi dei seguaci di Brian di Nazareth[2].
Ma Bauman parla in
particolare di “meccanismi psicologici”, e mi stupisco nel raffigurarmi
una sproporzione gigantesca: da un lato, l’enorme numero di miei
conoscenti anche molto giovani che ha già affrontato nella vita un
percorso di analisi psicologica (per comprendere meglio ciò che è
capitato nella propria vita e per liberarsi di complessi e
condizionamenti indesiderati); dall’altro, le due o tre mosche bianche
che sono state sfiorate dal pensiero che ci possa essere qualcosa dietro
le psicologie. Intendo, un sistema di ricezione, di rappresentazione, di
rapporti (e naturalmente di frustrazioni inconsce, d’incomprensioni),
nel quale noi siamo del tutto calati, interdipendenti, come soggetti e
come oggetti, ben diversamente dal sistema prima accennato, nel quale
siamo spinti a considerarci individuo delimitati, che si costruiscono
solo secondo la propria volontà o originalità.
Dietro il dono illusorio
di una libertà sconfinata e incontaminata – «io mi posso costruire del
tutto autonomamente; agguanterò e vestirò l’immagine di me che ho
liberamente sognato» – c’è naturalmente un intento di controllo sociale,
e di annientamento del senso di comunità e solidarietà: le cerchie di
“intimi” si fanno sempre più chiuse (tanto che il massimo grado di
estraneità concepibile, gli “altri”, sono i conoscenti), la dimensione
sociale sparisce dalle componenti importanti della vita quotidiana e
dalle aspirazioni di realizzazione[3],
le influenze sovraindividuali diventano invisibili, innominabili e
dunque non contrastabili.
Le conseguenze di tutto
ciò sono disastrose ad ogni livello, cominciando proprio da quello
individuale: anzitutto, quella che costruiamo è un’individualità
fittizia e soffocante; inoltre, se siamo noi gli artefici, liberi e
onnipotenti, del nostro destino, se la società che abitiamo è la
migliore possibile o la migliore finora raggiunta, se i modelli di
successo appaiono facilmente accessibili, come spiegare i grandi
fallimenti “individuali”? Di chi potrebbe essere la colpa, se non della
nostra psicologia, del “come siamo”? Raramente trova spazio
d’illuminazione, in questa concezione, il dato sociale, raramente ci si
chiede se, dietro le paure, le ansie che colpiscono sempre più
indistintamente gli uomini e le donne del nostro tempo, non possa
esserci anche altro, un fattore antecedente rispetto alla nostra
psicologia e a quella dei nostri “intimi”: qualcosa, quindi, che dipende
da noi solo nel momento e nella misura in cui noi, questo qualcosa, lo
vediamo. E ancora, il vederlo non è sufficiente per consentirci
d’intervenire, ma sicuramente ne è la premessa indispensabile.
Sicuramente questo spazio
d’illuminazione possono aprirlo anzitutto testi come quello di Bauman,
ossia saggi rigorosi, frutto di elaborazione complessa, eppure
accessibili con poco sforzo al lettore profano o digiuno delle
discipline sociologiche e di psicologia sociale, trovo anzi che il loro
punto forte stia nella capacità di coinvolgere e portare ad un
differente sviluppo l’esperienza, il sentire personale di un qualsiasi
lettore. Bauman ha infatti la grande abilità di fare immediata presa nel
nostro individuale, per poi condurci e condurlo altrove: il sociologo ci
descrive sensazioni che buona parte di noi, se non tutti, proviamo nel
nostro quotidiano, sensazioni angosciose, problematiche, che ci paiono
senza via d’uscita; le riteniamo personali, di solito, e dunque ce ne
facciamo carico (quando lo facciamo) in modo esclusivamente individuale,
privato. E Bauman non nega la dimensione privata di queste sensazioni,
ma le traspone in una dimensione collettiva.
Il rapporto, mai indolore,
con gli altri, la paura dinanzi ai grandi mutamenti sociali ed
economici, la sensazione di non avere più alcun controllo sulla propria
vita: quale uomo dell’Occidente odierno potrebbe dire che queste
preoccupazioni non lo riguardino? Che, a suo parere, lo riguardino solo
personalmente, è parte del problema. Ma procediamo con ordine e vediamo
quali sono, secondo Bauman, i nodi della società liquida nella quale
viviamo, e in che modo dunque essa ci colpisce soggettivamente senza
consentirci di vedere che tali problematiche, tali ingiustizie e
squilibri hanno invece natura, risonanza e radici ben più ampie.
Perché Bauman I: l’incerta
individualità
Il saggio
Vita liquida[4]
muove proprio dall’analisi dell’universo dell’individualità, reso
ristretto e soffocante dalla sua falsificazione e standardizzazione
nella società liquida; in questa, costruirsi un’identità diventa un
obbligo e per paradosso esso è imposto dallo “spirito della folla”.
Secondo Bauman, la costruzione dell’identità diviene allora un rompicapo
multiplo: la folla ci richiede di esporci con un’identità precisa,
mentre l’individualità è frutto di una costruzione lunga una vita;
l’edificazione dell’in-dividualità, secondariamente, è un compito per
definizione individuale, ma non può essere svolto che in rapporto ad una
collettività, la quale però si muove rapidissima, si defila, si
nasconde. In rapporto a cosa, dunque, e in che modo, l’uomo post-moderno
può costruirsi? Ciascun essere umano dovrebbe portare avanti questa
vitale operazione tramite un cosciente e strenuo lavorio, in equilibrio
precario fra mille fattori; tuttavia, nell’epoca liquida si è prodotto
uno squilibrio violento, che impedisce una ricerca serena del suddetto
equilibrio: «L’ascesa dell’individualità è stata la spia del
progressivo indebolimento […] della fitta rete di legami sociali che
avviluppava strettamente la totalità delle attività della vita»[5].
La costruzione dell’individualità è proposto/imposto dalla “società
individualizzata” come obiettivo accessibile, mentre nella realtà esso è
un percorso ad ostacoli in grado di snaturare e sfibrare buona parte di
coloro che partecipano, i quali, oltretutto, non sono che una piccola
parte della totalità: la grande maggioranza degli esseri umani non
riesce nemmeno a posizionarsi ai blocchi di partenza di questa gara.
Bauman evidenzia come la società liquida non consegni ai soggetti solo
il rompicapo della costruzione dell’individualità, ma anche alcune
soluzioni pronte. Tra le principali, vi sono il consumismo e il
conformismo: quest’ultimo, «un tempo accusato di soffocare
l’individualità, viene esaltato come il migliore amico dell’individuo.
[…] La contesa per l’unicità è
ormai il principale motore della produzione e del consumo di
massa»[6].
Emerge chiaramente, a questo punto, quale sia il principale requisito
che fa da spartiacque fra gli ammessi e i respinti alla corsa per
l’individualità: «Per essere individui, nella società degli individui,
bisogna tirar fuori i soldi, un sacco di soldi»[7].
Dunque, nella situazione
che si è venuta a creare e che ha prodotto, dopo la borghesizzazione del
proletariato, la proletarizzazione della borghesia[8],
questa pur standardizzata e stravolta individualità costituisce un
privilegio, anzi Bauman si chiede se un’individualità fondata su tali
presupposti e aggredita da tali pressioni, possa costituirsi come
qualcosa di differente da un privilegio[9].
Proseguendo, Bauman
sottolinea: «La strada che porta all’identità è una battaglia senza fine
e un interminabile conflitto tra il desiderio di libertà e il bisogno di
sicurezza, ossessionato dalla paura della solitudine e dal terrore
dell’esautorazione»[10].
È in questa situazione che si afferma, all’opposto della ricerca della
propria individualità nell’appartenenza a una collettività di “originali
tali e quali a noi”, la tendenza all’ibridazione, ossia un’identità che
resta non definita e che «è in grado di costituire/sostenere la propria
originalità solo con uno sforzo continuo e incessante per compensare i
limiti di un prestito con altri prestiti»[11];
molti individui, soprattutto i giovani della società contemporanea,
cercano di sopperire alla difficile costruzione di un’identità tenendo
aperte tutte le possibilità, finendo per cadere in un circolo vizioso
che impedisce oltretutto di prendere una posizione attiva all’interno
della realtà spaziale e temporale in cui vivono. Molti, insomma,
finiscono per non avere alcuna presa, e nemmeno alcuna pretesa di presa
sulla storia, sulla società nella quale pure conducono la propria
esistenza. Un simile disequilibrio teoricamente a favore della libertà e
a scapito della sicurezza, è invece del tutto dannoso: per esercitare
qualsiasi libertà, infatti, occorre un minimo di fiducia, e senza una
basilare sicurezza persino le briciole di fiducia restano inattingibili.
Inoltre, questa libertà “d’arrivo” (un lavoro ben retribuito benché di
breve durata, uno spostamento di sede lavorativa) non può essere frutto
di un’imposizione: Bauman rileva che per nessuno un aumento di libertà
sarebbe auspicabile, se questo fosse frutto di una decisione presa
dall’alto senza il coinvolgimento del diretto interessato. Quella che è
proposta ai nostri giorni come una maggiore libertà (di spostamento, di
autoaffermazione, di realizzazione) è tutto meno che questo se ci viene
imposta, se non è quello che vogliamo, e spesso è molto difficile che
questo sia ciò che vogliamo: «ai caduti e alle vittime collaterali della
globalizzazione una maggiore libertà non appare come la cura dei loro
mali, che ricollegherebbero piuttosto alla disgregazione e allo
smantellamento forzato delle routine di vita e delle reti di vincoli e
reciproci impegni che li sostenevano e rassicuravano»[12].
Questa presunta e in ogni caso squilibrata libertà, produce insicurezza
e diviene quindi una contro-liberazione per la maggior parte degli
esseri umani nostri contemporanei.
Bauman tiene a fissare, subito in questo primo capitolo, come
l’incertezza dell’individualità non debba essere concepita solo come
stato esistenziale, perché essa è anzitutto la
conditio sine qua non della
sopravvivenza del mercato; il marketing, infatti, è efficace solo in
presenza di un non totale soddisfacimento dei desideri e su una loro
continua, rinnovata proliferazione.
Perché Bauman II: la
cultura
Non approfondisco la
trattazione di Bauman, pur interessante, sull’evoluzione martire – eroe
– celebrità[13],
e cerco di delineare una questione più complessa, riguardante il potere
ribelle che la cultura fatica a mantenere nella società liquida. Anche
nell’ambito della cultura, infatti, quest’ultima confonde le acque e
manda in frantumi le opposizioni tradizionali: essa rivoluziona il
quadro definito che si era affermato sino a qualche decennio fa, e che
vorrei provare anzitutto a riassumere sulle orme di Bauman.
Inizialmente e sin dalla
sua nascita, alla metà del XVIII secolo, il concetto di cultura si
caratterizzava per una carica fortemente normativa e finalizzata, nonché
morale: gli uomini, duttili, andavano migliorati, se ne doveva arrestare
o attenuare il deterioramento (non a caso il termine è etimologicamente
vicino alla sfera della coltivazione e dell’al-levamento). Dunque,
fondata «sul postulato o la presunzione della gestione»[14],
la cultura presuppone da subito una relazione sociale marcatamente
diseguale, tanto che, per usare le parole di Adorno, il prezzo che
un’idea culturale paga per sopravvivere è la propria metamorfosi in
dominio. In questo panorama è evidente la contraddizione pressoché
insolubile per tutti i “creatori di cultura”, i quali vogliano farsi
carico di una funzione trasgressiva della stessa: essi, per conservare
una possibilità di azione esplosiva, di contrasto, dovrebbero sottrarsi
all’ap-parato amministrativo-gestionale della cultura; tuttavia, questo
priverebbe loro stessi di un sostentamento materiale spesso
indispensabile, e le opere da loro prodotte di una qualsiasi possibilità
d’influenza sulla società.
Fino a circa tre decenni
fa, quindi, i gestori della cultura si affidavano soprattutto alla
potenzialità stabilizzante della stessa: la cultura, resa strumento
d’inerzia, era orientata a svolgere una funzione di freno ai
cambiamenti. Tuttavia, la società liquido-moderna sconvolge questa
opposizione fra gestori di una cultura-freno e creatori di una cultura
mobile, di contrasto: oggi i dirigenti preferiscono, a quella che Bauman
chiama “regolazione normativa”, la seduzione, e al “modello routinario”
e iper-presente, un dominio esercitato indirettamente attraverso
l’incertezza. Gli uomini, ridotti a consumatori, appaiono più gestibili
nella mobilissima precarietà, piuttosto che nelle routine e nelle norme:
la volatilità delle abitudini diviene funzionale al mercato liquido. I
cittadini si fanno (solo) consumatori, gli Stati non sono più in grado
di regolare e imbrigliare il potere, e da amministratori totali della
vita del cittadino (atteggiamento criticato da molti fra i quali
Adorno), si defilano in una posizione se possibile ancora peggiore, di
mediatori del mercato; l’allonta-namento dalla politica e dalla sfera
pubblica dei singoli diventa «l’atteggiamento fondamentale
dell’individuo moderno, che nella sua alienazione dal mondo rivela
davvero se stesso solo nella sfera privata»[15].
Se in precedenza il
contrasto fra dirigenti e creatori di cultura si concentrava soprattutto
sulla funzione dell’arte, per i primi di freno e per i secondi di
scardinamento, è chiaro che oggi l’oggetto culturale tenta di sottrarsi
al sistema di valori della società liquida anzitutto per una sua
caratteristica fondante: «la sua durevolezza è in proporzione inversa
alla funzionalità»[16],
poiché l’opera culturale mira ad andare oltre il limite del contingente,
dell’attuale, e non certo a entrare nel processo di consumazione
fulmineo tipico della società liquida. «La rapidità di circolazione,
l’accorciamento della distanza tra uso, scarto e smaltimento e
l’immediata sostituzione dei prodotti non più redditizi [sono] tutte
cose che contrastano in maniera stridente con la natura della creazione
culturale»[17]:
pare quindi che alle creazioni culturali odierne non resti che
subordinarsi ai valori di mercato, o soccombere.
Artisticamente, secondo Bauman, quella liquido-moderna è
«un’epoca che ha perso fiducia in se stessa, e con questa il coraggio di
immaginare e tratteggiare (e tanto meno perseguire) modelli di
perfezione». Questo anche perché, a differenza dell’epoca della
modernità solida, quella della modernità liquida non si pone alcun
obiettivo, e «attribuisce il carattere di permanenza unicamente allo
stato di transitorietà»[18].
Sembra che alla cultura non venga concesso, nella società contemporanea,
alcun appiglio di contrasto, alcuna modalità di scardinamento né
possibilità di intervento sulla società stessa: tutto è incluso e
depotenziato, tutto è previsto poiché tutto muta, per restare
sostanzialmente uguale, in una precarietà monotona e desolante.
L’immagine di questo impasse mi sembra potrebbe essere il concerto di un
cantautore raffinato e antiborghese, che critica cinicamente e duramente
i borghesi presenti nel pubblico: questi, felici di aver colto un
riferimento a un certo atteggiamento che non reputano proprio, oppure
sorridendo sornioni, applaudono.
Perché Bauman III: la
paura e la città
Viviamo senza dubbio
nell’epoca della paura esacerbata: paura di perdere il lavoro (perché è
malfermo il terreno su cui si sviluppa), paura delle malattie (perché è
malfermo lo stato di salute del nostro ambiente, o il nostro stesso
stile di vita), paura di essere derubati (perché è malfermo il tessuto
sociale in cui viviamo). In realtà, però, queste paure sono secondo
Bauman bersagli sostitutivi, che usiamo per esorcizzare l’eccesso di
paura. Se infatti la paura è un sentimento umano e positivo, ad essa
oggi è negata qualsiasi naturale via di sfogo; di conseguenza, cerchiamo
di tutelarci contro ogni possibile pericolo, magari con corsi di
autodifesa e macchine corazzate, contribuendo in questo modo a fornire
conferma al nostro senso di insicurezza: «le nostre paure sono ormai in
grado di auto conservarsi ed autoalimentarsi»[19].
Proprio la paura diviene
la principale opportunità d’affari del mondo liquido[20]:
la sicurezza personale è infatti di gran lunga il principale argomento
delle strategie di marketing, dei programmi politici, delle trasmissioni
televisive. Tutto ciò influenza direttamente le nostre condizioni di
vita, soprattutto urbana, poiché è all’interno della città che si
combatte la guerra all’insicurezza: a causa della globalizzazione e
della de-ruralizzazione anche dei paesi del Terzo Mondo, le fonti di
pericolo si sono ammassate nel cuore delle città. Le nostre capitali, i
nostri capoluoghi sono affollati di nemici e soprattutto di estranei dal
passato, dalle abitudini, dalle intenzioni non trasparenti; fioriscono
così le produzioni di automobili che sono autentici blindati, nonché di
gated communities, centri
residenziali sorvegliati 24 ore su 24 e circondati da mura o persino da
fossati. Questa paura ossessivamente alimentata ha evidenti effetti
anche sul tessuto urbanistico-paesaggistico comune, che rivela la
posizione delle giunte locali del tutto insensibili alla funzione
socializzante che lo spazio pubblico dovrebbe avere, e concentrate
esclusivamente su quella securitaria: Bauman riporta la trovata delle
panchine a forma di botte e munite di getti d’acqua, a prova di barbone[21],
ma io penso anche ai blindati dell’esercito, mimetici e massici, al di
fuori della stazione di Brescia, ai divieti d’accesso a piazze vuote,
transennate e precluse alla cittadinanza, ai locali lasciati marcire
fino a diventare inagibili pur di non concederli in gestione a realtà
del territorio, alla capillare diffusione sul reticolo cittadino di
uffici di polizia e carabinieri.
Tornando alle attività
commerciali, Bauman nota che esse oggi, contrariamente che in passato,
fanno di tutto per allontanarsi dal centro urbano e rifugiarsi in
contesti artificiali, progettati dal nulla a somiglianza della città
(centri commerciali in forma di borghi, con vie, piazze, fontane e
ristoranti, oltre naturalmente ai negozi); questa tendenza rivela
secondo Bauman che le antiche attrattive delle città («la spontaneità,
la flessibilità, la capacità di sorprendere, le occasioni d’avventura»[22]),
si sono inesorabilmente capovolte e offrono solo il lato negativo della
libertà: l’insicurezza.
Lo spazio pubblico urbano
è dunque la prima vittima della globalizzazione, e secondo molti
architetti, fra cui Richard Rogers, sarebbe urgente l’intervento di
un’istituzione a tutela dello spazio pubblico. Questa tutela, si
affretta a precisare Bauman, dovrebbe però avere sguardo lungimirante e
“olistico”; non mancano infatti gli esempi di fallimenti nel campo
dell’urbanistica pubblica, allorquando si è preteso di progettare in
modo asettico, funzionale e standardizzato gli spazi comuni della
cittadinanza[23].
Insomma, occorre «debellare la paura senza cadere nel tedio»[24].
La città, a ben riflettere, è sempre stata sin dall’antichità «un
luogo di endemica e irriducibile
imprevedibilità”, poiché abitata da estranei che, pur restando tali,
vivono a stretto contatto. Eppure è proprio questo statuto
intrinsecamente rischioso a costituire il tratto caratterizzante della
città: “uno spazio è ‘pubblico’ in quanto coloro cui è consentito
accedervi non sono predefiniti»[25],
e per questo «sono anche gli unici luoghi nei quali l’attrazione abbia
una qualche possibilità di vincere o eguagliare la repulsione»[26].
È dunque nei luoghi pubblici, e soprattutto in quelli urbani, che si
decide il futuro dei rapporti sociali; per questo, è di vitale
importanza promuovere un’“urbanistica integrale” fondata sui principi di
connessione e comunicazione, e che sposti «l’attenzione nella
progettazione […] dagli spazi privati a una sfera pubblica più ampia che
sia utilizzabile e al tempo stesso stimolante […]. Quest’ultima deve
servire diversi usi alternativi e fungere da catalizzatore, anziché da
ostacolo, dell’interazione umana»[27].
Perché Bauman IV:
consumismo liquido
Dopo aver delineato alcune
tipicità della società liquida, Bauman la “attacca” nel suo cuore
pulsante: il consumismo vorace. Anzitutto, inganno, esagerazione e
spreco sono i fondamenti dell’economia consumista e capitalista; per
questo, non possono essere «segnali del malfunzionamento di tale
economia, ma garanzie della sua salute, e l’unico regime nel quale la
società dei consumi può assicurarsi la propria sopravvivenza»[28]:
infatti, l’inganno insito nelle promesse commerciali è indispensabile
affinché queste stimolino il consumo; l’eccesso di promesse è
indispensabile a evitare che la frustrazione per le speranze non
mantenute blocchi il consumo; lo spreco è indispensabile affinché il
vuoto fra le speranze disattese e scartate, e quelle nuove, venga
colmato, naturalmente con un ennesimo consumo.
Inoltre, c’è un elemento
di straordinaria novità che segna il consumismo liquido: se il consumo è
interesse antico nella storia dell’uomo, esso si è sempre connotato come
un’attività completamente individuale; oggi, al contrario, il consumo si
svolge in una società di consumatori, nella quale «la percezione ed il
trattamento di praticamente tutte le parti del contesto sociale e delle
azioni che esse evocano e inquadrano tendono a essere dettate dalla
“sindrome consumista” delle predisposizioni cognitive e valutative»[29].
Secondo Bauman, la
sindrome consumista è connotata da alcuni aspetti: il disconoscimento
totale del fatto che possa essere giusto o auspicabile dilazionare un
soddisfacimento; la preminenza del valore della novità rispetto a quello
della durevolezza; la vertiginosa riduzione dell’intervallo di tempo tra
il concepimento del desiderio di un oggetto e l’acquisto;
l’assottigliamento del confine tra utilità e inutilità di ciò che si
possiede; la sostituzione del godimento duraturo di un oggetto con
l’appro-priazione ripetuta di differenti oggetti, seguita da uno
smaltimento di questi ormai ridotti a forma di rifiuti. Nella società
liquida, la perfezione si può ricavare dagli attributi degli oggetti
comprati nel loro insieme, dalla loro profusione o persino ridondanza,
non da un miglioramento sostanziale della qualità dei medesimi oggetti.
Più precisamente, è il
mercato che ci pone la vita
come una sequenza di problemi sostanzialmente
“risolvibili”, che tuttavia devono e possono essere risolti unicamente
con mezzi disponibili soltanto sugli scaffali dei negozi. Mette in
vendita scorciatoie tecnologiche per quel genere di obiettivi un tempo
raggiungibili soprattutto sulla base della propria personalità e delle
proprie abilità individuali, sulla base di una collaborazione
amichevole. […] Batte e ribatte inesorabilmente il messaggio secondo cui
qualsiasi cosa è, o potrebbe essere, una merce (commodity)
[…], insinua che le cose
dovrebbero essere “come merci”, e se faticano a rientrare negli
schemi tipici degli oggetti di consumo andrebbero considerate con
sospetto o meglio ancora rifiutate[30]
In particolare, poi, è
notevole che i consumatori accettino con serenità, o persino con
piacere, che i beni acquistati, spesso a caro prezzo, abbiano vita
brevissima; ogni prodotto di consumo è irrimediabilmente destinato allo
scarto già dal primo secondo dopo il suo acquisto.
Al rullo consumistico
della società liquida non può sottrarsi, naturalmente, il corpo fisico:
esso è concepito come potenzialità, come una materia sulla quale come
mai in precedenza possiamo intervenire, apportando miglioramenti, in
teoria, fino alla perfezione. Ma Bauman mette in dubbio subito questo
fatto dato per scontato, ossia che esista maggior libertà di scelta e
intervento sul proprio corpo, poiché gl’interventi di miglioramento sono
divenuti pressoché obbligatori e inevitabili. La maggiore variazione che
si è avuta rispetto alle epoche precedenti consiste invece nel passaggio
del corpo da mezzo a fine: «il corpo del consumatore è “autotelico”, è
il fine di se stesso e costituisce un valore in quanto tale: nella
società dei consumatori esso è anzi il primo dei valori»[31].
Per questo, in un contesto nel quale i desideri vengono evocati e quasi
mai soddisfatti, il corpo del consumatore diviene fonte perenne di ansia
e aspettative senza sbocco certo.
Bauman ricostruisce la
dinamica che muove l’individuo-corpo-consumatore molto efficacemente:
l’individuo è trasformato in una fabbrica che lavora 24 ore al giorno, 7
giorni su 7, per elaborare un ciclo del desiderio ininterrotto, fatto di
aspirazioni smaltibili e dalla vita breve; lo strumento attraverso il
quale il consumatore può “lavorare”, ossia fabbricare per sé sensazioni
piacevoli, è però il consumatore stesso, o meglio il suo corpo, che a
tal fine va sottomesso e plasmato. «Nella società dei consumatori la
fitness[32]
sta al consumatore come la “salute” stava al produttore nella società
dei produttori. Essa certifica il fatto di “essere
in”, l’appartenenza,
l’inclusione, il diritto di residenza»[33].
Il corpo è posto al centro dell’attenzione soprattutto in relazione alla
sua capacità di ricevere/trasmettere sensazioni; i piaceri che esso può
provare e produrre, tuttavia, non sono solo quelli noti e attuali, ma
soprattutto quelli futuri, che in qualche modo saranno escogitati e che
dunque, in quanto tali, saranno infiniti: se il corpo, nella società dei
produttori, poteva arrivare al perfetto equilibrio della salute, il
corpo del consumatore, per quanto adeguato sia, può sempre diventarlo di
più. Tutto questo rende quella che Bauman chiama “la terra di frontiera”
– ossia la zona che si estende fra il corpo del consumatore e il mondo
esterno – un vero rompicapo ansiogeno, e il grasso corporeo è il
fenomeno che maggiormente evidenzia la problematicità di questa
interazione[34].
La conclusione di Bauman
in proposito, è che il corpo non è affatto meno socialmente regolato
oggi di quanto lo fosse in passato; semplicemente, si sono prodotte
alcune modifiche nella gestione della sua regolazione; ad esempio, gli
Stati hanno perso l’autorevolezza e la preminenza in tale gestione.
In ogni caso, il fantasma
dell’esclusione non si è certo attenuato nella società liquida; al
contrario, Bauman rileva come oggi si assista alla nascita di una nuova
categoria di esclusi: i consumatori difettosi o falliti. Questi, a
differenza degli oziosi nella società dei produttori, non possono essere
“riabilitati”: sono irrevocabilmente inutili, uno scarto irrecuperabile;
senza essere stati condannati da un tribunale o fisicamente espulsi,
essi costituiscono la classe inferiore nella società che si fa vanto di
aver abolito le classi.
Bauman, a proposito di
questi nuovi esclusi e della gestione della loro sorte, precisa:
Poiché i governi attuali hanno smesso di
progettare l’ordine sociale perfetto, essi non hanno più interesse né
motivo di decidere chi si salverà e chi sarà dannato, e di predisporre
elenchi degli esclusi. Ad essi è rimasto solo il compito di sbarazzarsi
dei tanti che sono già stati esclusi con altri mezzi […] dal gioco dei
consumi. Essi devono affrontare la terribile sfida dello ‘smaltimento
degli scarti umani’ su un pianeta gremito che non offre più luoghi
remoti da adibire a discarica dei rifiuti[35].
I nuovi esclusi dunque non
hanno alcuna occasione per vivere secondo le regole del gioco, per
portare a buon fine quello che ormai viene considerato un compito
prettamente individuale: la tessitura di un abito sociale.
Questa realtà si abbatte
anche, naturalmente, sulla natura dei rapporti interpersonali: dalla
decisione di mettere al mondo un figlio, ormai condizionata dallo
spauracchio di perdere uno status socio-economico ritenuto
irrinunciabile[36],
al contrasto fra l’estremo bisogno d’amicizia e l’esigenza di “viaggiare
leggeri”[37],
alla “sproblematizzazione” dei rapporti di coppia. In quanto sociologo,
Bauman trova molto interessante, ad esempio, il fenomeno
dell’incredibile risposta di pubblico a saggi che trattano dell’origine
chimica di un fenomeno quale l’innamoramento, e conclude:
La mia ipotesi è che i messaggi descritti qui
sopra [quelli di studiosi, filosofi, scienziati che spiegano la fine dei
rapporti con argomenti chimici o fisiologici] tendano ad essere accolti
con favore e a riscuotere un credito senza riserve in quanto promettono
di mitigare e placare i tormenti dello spirito che affliggono tante
persone, che tentano invano di allontanarli o tacitarli. Ma l’angoscia è
autentica e non scomparirà senza uno sforzo che la maggioranza delle
persone si sente inadeguata o riluttante a compiere[38].
Insomma, il problema non è che i rapporti di coppia siano
indubbiamente problematici, o che avere un figlio sia una scelta
complessa, ma il fatto che la società liquida inculchi negli individui
un’unica modalità di approccio, concezione e godimento: quella
consumistica, che presuppone facilità di fruizione e soddisfazione
immediata, assenza di problematicità e un continuo innalzamento della
soglia di appagamento, nonché una facile riciclabilità. Evitare di
impegnarsi fa sembrare ogni cosa più semplice, ma può diventare
angosciante allorché ci si ricordi che di questo consumo facile saranno
vittime non oggetti ma altri esseri umani.
Perché Bauman V:
apprendere nella società liquida
Per definizione, nella società liquida tutto si sposta, le
condizioni cambiano ad una velocità tale che diviene difficile per gli
individui restare al passo. In particolare, Bauman spiega che per
imparare, comprendere la realtà e di conseguenza ponderare le proprie
scelte, in questo contesto sono necessarie due nuove qualità, e il
sociologo le illustra con il paragone del missile balistico: se in
precedenza con una qualsiasi arma bastava sparare, e sussisteva solo un
minimo margine d’errore, oggi dobbiamo tutti essere dei “missili
intelligenti” riguardo gli aspetti del reale che vogliamo comprendere, e
quindi dobbiamo scegliere il nostro obiettivo solo dopo aver sparato, e
non prima, proprio perché l’obiettivo è mobile; secondariamente, ma si
tratta di una “qualità” di fondamentale importanza, dobbiamo essere
capaci di dimenticare senza riserve ciò che abbiamo imparato, perché
informazioni precedentemente immagazzinate e non rimosse nettamente
diventerebbero fuorvianti.
Questi sono i presupposti
necessari per compiere una scelta nel mondo liquido, ma
in nessun’altra epoca […] la necessità di
compiere scelte è stata avvertita in modo così profondo, […] e l’atto di
scegliere è stato tanto acutamente consapevole di sé, ed è stato mai
compiuto in simili condizioni di dolorosa e insanabile incertezza, sotto
la costante minaccia di ‘restare indietro’ e di essere esclusi
irrevocabilmente dal gioco per non aver tenuto testa alle nuove esigenze[39].
L’ansietà che le scelte
provocano deriva dalla percezione che non esistono nel mondo d’oggi
«regole preordinate né obiettivi universalmente approvati che possano
essere perseguiti fermamente, qualsiasi cosa accada, sollevando così chi
compie tale scelta dalla responsabilità di qualsiasi conseguenza
avversa»[40].
Per restare nel più
preciso ambito dell’istruzione, Bauman scrive che la stessa volatilità
dell’ap-prendimento, la mutevolezza e il moltiplicarsi delle
informazioni richieste, rappresentano occasioni d’oro per il mercato,
che prontamente accorre laddove esista un problema da colmare,
naturalmente stabilendo un alto prezzo: nel “mercato dell’istru-zione” è
abbondante l’offerta, «visto che i clienti potenziali, per definizione,
non sono in grado di giudicare la qualità dei prodotti offerti […]. È
facile vendere conoscenze di cattiva qualità o inutili […], e quante più
se ne vendono, tanto meno è probabile che i clienti ingannati vedano il
bluff dei fornitori»[41].
Ma il problema è ben più strutturale, al di là delle slealtà
patologiche, perché effettivamente in una società liquida le abilità e
conoscenze conquistate si svalutano, e le richieste del mercato
cambiano, a velocità vertiginosa.
A livello sociale, questo
nuovo tipo di dipendenza dalla conoscenza determina nuove divisioni tra
élite professionali, che già di partenza potevano permettersi una
formazione continuamente aggiornata, e forza lavoro, ma anche fra
manodopera specializzata e non. Si innalzano così nuove barriere alla
mobilità sociale impossibili da valicare, e paradossalmente è
l’istruzione a determinarle: «emerge sempre più chiaramente come il
“mercato dell’insegnamento”, se lasciato funzionare in base alle
proprie logiche, sia destinato ad accrescere le ingiustizie, anziché
ridurle, e a moltiplicarne le conseguenze sociali e gli effetti
collaterali potenzialmente catastrofici»[42].
Queste problematiche sono
state affrontate già nel 2001 dalla Commissione delle Comunità Europee,
che ha prodotto un documento dal titolo
Realizzare uno spazio europeo dell’apprendimento permanente, ma è
evidente che gli autori del testo sono preoccupati, più che delle
conseguenze sociali della commercializzazione della formazione, del
rischio che una formazione stabilita dal mercato non dia all’economia
degli Stati ciò di cui essa necessita, rendendola insomma meno
competitiva. È, questo, un aspetto che credo chiunque possa notare, in
discussioni con conoscenti o in discorsi anche meno velati in
televisione: la molla per l’incremento o il miglioramento
dell’istruzione non sembra più essere quella fondamentale e etica, ossia
la liberazione, l’emancipazione degli individui, il garantir loro una
dotazione di strumenti utili a fare la propria vita e impedire che altri
la facciano dall’alto; la molla è, invece, il cosiddetto “vantaggio
competitivo”. Se ci si augura vagamente che con un miglioramento
dell’apprendimento aumentino il benessere e la possibilità d’intervento
civico, questo non è comunque l’obiettivo primario, ma un risultato
collaterale. Bauman ritiene molto preoccupante che simili argomentazioni
ricordino da vicino quelle di molti dirigenti d’azienda; al tempo
stesso, rileva che questo approccio privo di etica non è nemmeno
efficace a livello pratico. Infatti, i gestori delle cosiddette risorse
umane si sono mostrati incapaci, nella maggior parte dei casi, di
prevedere ciò che sarebbe avvenuto nel mercato e formare adeguatamente
la forza lavoro. Tutto ciò diviene estremamente frustrante per la forza
lavoro stessa, messa di fronte ad un mercato imprevedibile, liquido, e a
“missioni” o promesse fantasmagoriche, puntualmente disattese;
oltretutto, in caso di fallimento, non c’è nessuno che se ne prenda la
responsabilità, nel migliore dei casi; nel peggiore, la “colpa” è,
tacitamente o meno, da attribuirsi ai dipendenti. Ed è lo Stato a
realizzare la più vistosa marcia indietro, per ciò che concerne
l’assunzione di responsabilità.
«In un contesto
liquido-moderno l’“incertezza fabbricata” è il principale strumento di
dominio, mentre la politica di
précarisation, per usare il termine di Pierre Bourdieu […], è
divenuta quasi il nocciolo duro della strategia di dominio»[43].
Si capisce bene quanto ciò sia in contrasto con l’intento della
Commissione Europea di dare pieni poteri ai suoi cittadini; questa buona
intenzione finisce per significare la concessione ai cittadini della
libertà di scegliere fra opzioni (di vita, di lavoro, politiche) già
selezionate da altri, la libertà, potremmo dire, di usare un kit per
giocare ad un gioco preciso solo secondo regole precise, non certo di
usare quel kit per fabbricarsi mezzi autonomi finalizzati a influenzare
o sovvertire il gioco stesso.
A questo proposito Bauman
rileva come vi sia una formazione permanente che non è invece stimolata
dai mercati: quella alla cittadinanza. Questo perché «il consumatore è
nemico del cittadino»[44].
Infatti, la chiusura nel privato, nell’individuale, dato di fatto dal
quale siamo partiti in questa recensione, è manna dal cielo per i
mercati, che si trovano di fronte consumatori ansiosi, docili,
inconsapevoli, privi di qualsiasi altro orizzonte se non l’affannosa
ricerca di un’individualità che può essere costruita solo grazie al
soccorso del mercato stesso. Ma è chiaro che «la democrazia è a
repentaglio quando gli individui
non sono in grado di
tradurre la propria miseria privata e di condividerla a un livello più
ampio, sotto forma di preoccupazioni pubbliche e di azione collettiva»[45],
anche perché le libertà non sono beni acquisiti una volta per tutte,
custodibili in casseforti private: esse non possono sussistere che su un
suolo sociopolitico solido, che per essere tale dev’essere continuamente
alimentato. Curioso notare che molte persone oggi ammetterebbero senza
problemi le proprie lacune tecniche o tecnologiche, mentre in pochi percepiscono
l’urgenza di approfondire la propria formazione politico-sociale[46].
Eppure,
l’ignoranza produce la paralisi della volontà. Non si sa cosa si prepara
e non c’è modo di stimare l’entità dei rischi; per questo il circolo
vizioso di sfiducia, distacco dalla politica (nel senso più ampio del
termine, naturalmente), ignoranza è prezioso e gradito ai mercati. E per
questo “abbiamo bisogno della formazione permanente per darci
un’alternativa. Ma ne abbiamo bisogno ancora di più per salvare le
condizioni che ci rendono disponibile, e in nostro potere,
quell’alternativa[47].
Perché Bauman,
conclusione: l’individuo e i suoi simili, la riconquista dello spazio
pubblico
Se,
come afferma Hannah Arendt, lo scopo della sfera pubblica consiste nel
far luce sugli affari umani, creando uno spazio in cui i singoli possano
mostrarsi per ciò che sono ed elaborare soluzioni, è meglio
comprensibile la formula usata da molti pensatori e filosofi, che
connotano i nostri come “tempi oscuri”: viviamo ormai quasi del tutto
privi di questo ponte luminoso, e brancoliamo individualmente nel buio.
Eppure, molte delle caratteristiche dei nostri tempi ci sono
costantemente proposte come positive; fra queste, non fa eccezione la
cosiddetta innovazione, il cambiamento, in opposizione ad una staticità
ormai descrittaci come noiosa, antica. Bauman rileva che già in un’altra
epoca si svilupparono dinamiche simili: durante l’Illuminismo. Tuttavia,
vi sono tre ordini di differenze: anzitutto, gli “eroi” di oltre due
secoli fa miravano a ottimizzare il funzionamento delle cose, con lo
scopo di garantire a tutti gli uomini un’esistenza più soddisfacente, e
si può dire quindi che la ricerca della felicità fosse concepita come
impresa collettiva; al contrario, gli abitanti dell’epoca liquida non
sono soliti occuparsi dello stato di salute del mondo, e in ogni caso
non ritengono che la felicità individuale sia in alcun modo dipendente o
collegata a tale stato
– dunque la ricerca della felicità è impresa
eminentemente individuale. Secondariamente, gli uomini della “prima
storia” ritenevano che il mondo nel quale vivevano potesse essere
trasceso e migliorato fino ad un risultato preciso: un mondo tanto
ottimale da non rendere auspicabile nessuna sua ulteriore evoluzione;
per gli uomini della “seconda storia”, invece, l’idea di fermarsi appare
senza senso, così come quella di un traguardo: essi si limitano a
concentrarsi sull’azione immediatamente successiva, non aspirano nemmeno
ad immaginare quelle seguenti. Muoversi, insomma, non ha lo scopo di
raggiungere un risultato stabile, ma quello di restare in movimento per
non sprofondare. Il cambiamento, per gli uni, costituiva un’operazione
unica e un mezzo con un fine preciso; per i secondi, esso è una
condizione permanente, un mezzo che è fine a se stesso. Infine, i primi
uomini di questo confronto erano disposti a intervenire, stimolare gli
altri uomini per spingerli a collaborare all’impresa collettiva, a
cambiare; per i secondi, invece, la questione del cambiamento non ha
senso, poiché secondo essi nessuno è immobile, tutti sono in movimento
poiché non si può fare diversamente.
Bauman presenta questo parallelo anche per accennare ad alcune
considerazioni di Theodor Adorno, che non solo visse fra le due epoche,
ma le collegò. Adorno oppone la prima storia alla seconda, e non ritiene
che la seconda costituisca il necessario sviluppo della prima; tuttavia,
la seconda impone la rivisitazione della prima, e la prima
autodistruzione del mondo ha lasciato “libere” alcune speranze che
chiedono di essere realizzate. Invece, il legame fra i tempi e la loro
stessa solidità in rapporto all’individuo, saltano: il passato, non da
ricordare, ma da realizzare, è continuamente sottoposto a distruzione e
cancellazione, poiché gli individui sono concepiti come successione di
presenti puntuali e superati; il presente non offre contatto, e dunque
impedisce di poter intervenire sul futuro. La liquidità del presente,
infatti, lo destruttura, per noi, in mille episodi brevi e volatili, la
cui sequenza, il cui senso restano inaccessibili, e come scrive Bourdieu
questo ci nega anche solo la possibilità di rivolta; la precarietà
«impedisce qualsiasi forma di anticipazione razionale e, in particolare,
quel minimo di fede e di speranza nel futuro che è necessario per
ribellarsi»[48].
Adorno analizza come l’individuo impaurito, in balia di episodi
schizofrenici, sarà propenso a far confluire il proprio narcisismo
personale nel “narcisismo collettivo”, una promessa di salvezza
ingannevole avanzata tramite “rifugi immaginati”, all’ingresso dei quali
stanno un gran numero di individualità dismesse – e questo è l’unico
fattore che fa apparire ben collaudati questi fittizi spazi di
protezione. Questi rifugi costituiscono in realtà dormitori anch’essi
episodici, e l’individuo, rassicurato, ma non avendovi trovato effettiva
rappresentazione, è costretto a passare da un rifugio all’altro: da un
colore di capelli a un altro, da una “causa” montata ad arte ad
un’altra. Scrive Bauman: «La
communis opinio è avvertita come un dono dal cielo da individui che
personalmente controllano e gestiscono risorse troppo inferiori rispetto
a quelle occorrenti per separare con un minimo di affidabilità la verità
dalla “mera opinione”. Essa solleva gli individui dall’onere di
decisioni che essi non sono comunque in grado di prendere»[49].
A stabilire l’opinione comune è il potere della società, «che denuncia
come mero arbitrio tutto ciò che non concorda col suo arbitrio. Il
confine tra l’opinione sana e quella patogenica è tracciato
in praxi dall’autorità
dominante, non dal giudizio informato»[50].
Il confine è salvifico e più che allettante in un mondo liquido, e
l’individuo lo abbraccia senza riserve come unica possibilità di
sicurezza. È interessante però notare come i confini stabiliti
dall’autorità dominante servano sia a chi cerca la sicurezza, sia a chi
cerca la libertà, e che i due gruppi lavorino, magari inconsciamente, a
rafforzarli.
A
differenza che agli occhi di Marx, ai nostri il mondo d’oggi non sembra
affatto sul punto di imboccare una grande svolta, di trasformarsi
hic et nunc in un mondo più giusto e accogliente per l’umanità: non
vediamo i ponti che collegano i due mondi, né veicoli per attraversarli,
e soprattutto non vediamo folle impazienti di compiere l’impresa. “Il
mondo vuole essere ingannato” è la lapidaria conclusione di Adorno, e il
gruppo ha sete di obbedienza, per usare invece le parole di Le Bon; il
mercato non fa che solleticare il bisogno infantile di protezione
dell’individuo, anche tramite l’enorme macchina dell’industria culturale
che gratifica la moltitudine, tranquillizzandola, ma garantendole anche
un’illusione di brivido e incertezza.
Adorno riflette lungamente e profondamente riguardo la condizione e la
possibilità di influenza degli intellettuali sulla società
contemporanea. Anzitutto egli sottolinea come il compito
dell’ema-ncipazione sia diventato, ai nostri tempi, planetario, perché
non solo nessuna delle accuse che Marx muove al capitale (gli sprechi e
l’ingiu-stizia che esso produce) è divenuta inattuale, ma anzi le loro
dimensioni si sono fatte, appunto, planetarie. E in questo contesto l’élite culturale, inseguendo la tendenza all’ibridazione e alla non
appartenenza, perde contatto coi luoghi fisici e col resto dell’umanità,
che non ha la possibilità di essere altrettanto mobile. Nonostante la
gravissima situazione e la difficoltà delle lotte, Bauman ritiene che
esista un fattore positivo insito nell’uomo, poiché prodotto
automaticamente dall’incontro di immaginazione e senso morale: la
speranza. L’uomo insomma non potrà mai rassegnarsi a “ciò che è”,
continuerà a porre domande critiche e ad aspettarsi che le cose cambino;
contrariamente a ciò che percepiamo (il disincanto, la rassegnazione di
massa), questo fondo di speranza è presente, e lo è soprattutto in
quella classe di intellettuali che, ripreso il contatto col proprio
tessuto socio-culturale, riacquisito il senso positivo
dell’appartenenza, e della solidarietà, potrà forse tornare ad avere una
funzione attiva, anche nel mondo liquido, smettendo così di essere solo
un’élite culturale.
Concludendo, Bauman ritiene impossibile, da un lato, che si riesca a
ricostruire uno spazio pubblico identico a quello dell’era moderna,
contrassegnato cioè da una forte partecipazione delle istituzioni
rappresentative dello Stato-nazione; egli crede invece nella possibilità
di costruzione di un nuovo spazio pubblico, di respiro globale
a riconoscimento del fatto che tutti noi che viviamo su questo pianeta
dipendiamo gli uni dagli altri per il nostro presente e il nostro
futuro; che nulla di ciò che facciamo, o omettiamo di fare, può essere
indifferente per il destino di chiunque altro; e che nessuno di noi può
più cercare e trovare un riparo privato dalle tempeste che possono
nascere in qualsiasi parte del globo[51].
Il
messaggio che Bauman lancia è chiaro e forte, e a me suona anche come
una chiamata al coraggio, alla comprensione lucida delle difficoltà
immani che ci aspettano, ma anche alla speranza nell’uomo, nelle sue
infinite risorse, e nella possibilità della lotta solidale.
LUGLIO 2012
[1]
Non a caso il saggio di Bauman si apre riportando uno
sketch sul problema
dell’unicità/massificazione dell’individuo, che nel mondo
liquido origina un insieme di fraintendimenti che si fanno
ostacolo alla presa di coscienza di un’individualità autentica,
nonché alla presa di posizione in una reale collettività:
«L’eroe eponimo del film dei Monty Python
Brian di Nazareth, furibondo per essere stato proclamato Messia
contro la sua volontà […], cerca in tutti i modi, ma invano, di
convincerli a non comportarsi come un gregge di pecore e ad
andarsene. Grida loro: “Siete tutti degli individui!”. E il coro
dei devoti gli risponde prontamente all’unisono: “Sì, siamo
tutti degli individui!”. Solo una voce, flebile e solitaria,
replica: “Io no”. Brian allora fa un altro tentativo: “Ognuno di
voi è diverso!”. “Sì, ognuno di noi è diverso!”, approva
entusiasticamente l’assembramento di fedeli. E, di nuovo,
quell’unica vocina obietta: “Io no…”. A quel punto la folla
inviperita si guarda intorno per linciare il dissidente», Z.
Bauman, Vita liquida,
Editori Laterza, Roma 2006, p. 3.
[2]
Vedi nota 1.
[3]
Nei corsi di marketing e affini, circola una rappresentazione a
margherita o a torta della vita perfettamente realizzata ed
equilibrata. Le componenti sono in alcune versioni sei, in altre
otto, ma le costanti sono vita di coppia, famiglia o figli,
benessere psicofisico, affetti o amici, lavoro e denaro. In
nessuna compare un riferimento per quanto vago alla sfera
sociale o collettiva.
[4]
Una vastissima parte delle opere di Bauman si sviluppa attorno
al tema della liquidità della società moderna (solo alcune di
queste sono state tradotte in italiano, fra cui
Paura liquida, Modus vivendi.
Inferno ed utopia del mondo liquido,
Modernità liquida,
Amore liquido. Sulla
fragilità dei legami affettivi). Con l’aggettivo “liquido”
il sociologo intende porre l’accento sul particolare carattere
precario, mutevole e inafferrabile della società nella quale ci
troviamo a vivere, ormai unanimemente considerata post-moderna.
[5]
Bauman, cit., p. 9.
[6]
Ibidem, p. 14.
[7]
Ibidem, p. 22.
[8]
«Sono infatti sempre più numerose le famiglie della classe media
cui il reddito consente solo un’esistenza umiliante e vissuta
alla giornata, tormentata da paure di regressioni salariali e
ridimensionamenti delle imprese»,
Ibidem, p. 16
[9]
Proprio per il fatto che il “carro dell’individualizzazione” è
precluso a buona parte dell’umanità, molti esclusi adottano
naturalmente un comportamento di “resistenza
all’individua-lità”: «Il “fondamentalismo”, che sceglie di
tenersi strettamente aggrappato all’identità ereditata e/o
attribuita, è un prodotto naturale e legittimo
dell’individualizzazione imposta a livello planetario»,
Ibidem, p. 18.
All’opposto, “le classi del sapere”, come le chiama Bauman,
trovano attraente l’ibridismo culturale essenzialmente a causa
del fatto che non tutti possono metterlo in pratica, e cercano
la propria identità nella non appartenenza: «gli “ibridi
culturali” desiderano sentirsi ovunque
chez soi, per essere
immuni ai perfidi batteri della vita domestica»,
Ibidem, p. 21.
[10]
Ibidem,
p. 14.
[11]
Ibidem,
p. 24.
[12]
Ibidem,
p. 32
[13]
Brevemente, se il martirio «costituisce un atto di solidarietà
nei confronti di un gruppo minoritario e debole che viene
discriminato» (Ibidem,
p. 36), e colpisce, quantomeno nell’Occidente moderno e
post-moderno, per la sua natura di azione inutile o persino
controproducente, l’atto di eroismo è invece legato ad un
calcolo: esso deve «produrre come effetto qualcosa che non
potrebbe ottenersi altrimenti» (Ibidem,
p. 37), ossia la sopravvivenza o l’affermazione di un valore, ed
è questo che giustifica il rischio e persino la morte dell’eroe.
Spesso l’eroe è legato alla nuova divinità dell’Europa moderna,
la nazione, che parla in vece dell’individuo e ne stabilisce
aspirazioni e valori, incarnando il bene supremo per il quale i
cittadini devono essere disposti all’atto d’eroismo. Lo
Stato-nazione, tuttavia, perde progressivamente terreno, ambisce
meno a tutelare e gestire le vite dei propri cittadini, perdendo
così «potere di mobilitazione spirituale […]: d’altra parte,
nell’epoca dei piccoli eserciti professionali, lo Stato non ha
più bisogno di eroi» (Ibidem, p. 40). Bauman rileva come nella società liquido-moderna non
ci sia spazio né per i martiri né per gli eroi, poiché essa si
oppone al sacrificio di soddisfazioni immediate in vista di
finalità che siano remote e non individuali: «in sintesi, la
società dei consumi liquido-moderna svilisce gli ideali del
“lungo periodo” e della “totalità”» (Ibidem, p. 41). Espulsi martiri ed eroi, le cui gesta desterebbero
disagio e incomprensione nella società odierna, resta spazio per
le celebrità: contrariamente ai loro “predecessori”, le
celebrità non devono il riconoscimento sociale alle proprie
gesta, ma esclusivamente alla visibilità di cui godono;
anch’essi generano comunità, ossia funzionano da collante per
persone differenti, ma si tratta di comunità immaginate e
immaginarie, nonché precarie; il culto di una celebrità, infine,
non aspira al monopolio. Riguardo alla natura di questi culti
moderni delle celebrità, Bauman scrive: «Il genere di
rassicurazione che solo un culto di massa può fornire viene
offerto in un pacchetto che contiene anche la soddisfazione di
sentirsi all’altezza degli standard che la società degli
individui definisce per coloro che ne fanno parte»,
Ibidem, p. 47.
[14]
Ibidem,
p. 50.
[15]
Baumann cita Hannah Arendt,
Men in Dark Times,
[16]
Bauman cita ancora la Arendt,
La crisi della cultura:
nella società e nella politica, in
Tra passato e futuro,
Firenze, Vellecchi, 1970, pp. 215-245.
[17]
Bauman, cit., p. 58.
[18]
Ibidem, p. 66.
[19]
Ibidem, p. 70.
[20]
«I pubblicitari hanno sfruttato deliberatamente i timori di
azioni catastrofiche da parte dei terroristi per aumentare le
vendite di Suv, che hanno elevati margini di profitto», Bauman
cita Stephen Graham,
Postmodern city: towards an urban geopolitics, “City” n° 2,
2004, pp. 165-196.
[21]
Bauman dà la palma della sudditanza a questa logica di
terrorismo psico-urbano alla città di Copenhagen, che ha levato
tutte le panchine pubbliche dalla zona della stazione centrale.
Avevo notato in precedenza che anche in molte città italiane,
tra le quali anche Brescia, l’assenza di panche e luoghi comuni
agibili, per cittadini quindi che non siano in quel momento
consumatori, è davvero “vistosa”: per sedersi, ammirare un
angolo della città, parlare o semplicemente leggere, è
necessario consumare.
[22]
Bauman, cit., p. 77.
[23]
In Vita liquida, in
proposito, è riportato l’esempio di Stoccolma, che alla metà del
secolo scorso sposò la convinzione secondo la quale rimodellando
lo spazio urbano si potesse migliorare la società, mirando alla
realizzazione di un’utopia socialdemocratica. In quell’epoca le
autorità municipali fornirono a ogni abitante un alloggio munito
di ogni comodità, confort e protezione; nonostante ciò, la
generazione successiva rifiutò in massa questa dignitosissima
offerta abitativa, priva però di libertà, di spontaneità, per
defluire in agglomerati urbani periferici.
[24]
Ibidem, p. 80.
[25]
Ibidem.
[26]
Sempre che, precisa Bauman, si tratti di realtà urbane che non
tendano né a livellare le differenze presenti al loro interno,
né a fossilizzarle in separazioni marcate.
Ibidem,
p. 81.
[27]
Citazione da Jonathan Manning,
Racism in three
dimensions: South African architecture and the ideology of white
superiority, “Social Identities” n° 4, 2004, pp. 527-536.
[28]
Bauman, cit., p. 86.
[29]
Ibidem, p. 87.
[30]
Ibidem, p. 95
[31]
Ibidem, p. 98.
[32]
Il traduttore italiano di
Vita liquida preferisce usare al femminile il termine
fitness (“la fitness”), rispettando il genere della parola
inglese.
[33]
Bauman, cit., p. 101.
[34]
Bauman analizza come il consumatore sia indotto a concepire il
grasso corporeo come degli «agenti nemici penetrati nel nostro
territorio» (Ibidem,
p. 105), come autentiche cellule terroristiche ostili che si
camuffano e sfuggono al controllo (come distinguere grassi
saturi da grassi insaturi, prodotti naturali da prodotti
adulterati?). Non a caso l’obesità è considerata negli
usa il principale
problema di salute pubblica, e la battaglia per combatterla “la
guerra culturale del nuovo secolo” (secondo il
New York Times): in
questo contrasto da un lato si dimenano gli avvocati pronti a
gettarsi nella mischia dopo i successi contro le industrie del
tabacco, dall’altro i grandi produttori di cibi pronti e
fast food presentano
la “libertà di mangiare” come banco di prova del rispetto della
libertà generale. Secondo Bauman, si tratta di un’ennesima
declinazione della contrapposizione fra sicurezza e libertà, e
anche nel caso del corpo la soluzione auspicabile sarebbe quella
di trovare un equilibrio frutto di riflessione e consapevolezza
individuali, e non di pressioni e condizionamenti, come quello a
mangiare di più per poi smaltire di più: «un simile consiglio,
se accettato da tutti, farebbe girare più rapidamente gli
ingranaggi della produzione, del ricambio e dello smaltimento di
prodotti, suscitando l’entusiasmo sia dei produttori che dei
loro nemici giurati»,
Ibidem, p. 109.
[35]
Ibidem, p. 111.
[36]
Il punto del discorso, per Bauman, non si snoda attorno alla
libera scelta di fare o meno dei figli e alle motivazioni
esistenziali e personali, contingenti e concrete adducibili, ma
attorno al fatto che presso una larga fascia della popolazione
occidentale fra queste motivazioni siano rilevabili
condizionamenti di tipo consumistico; ciò che stupisce, insomma,
è che molti lamentino non semplicemente il costo economico di un
figlio, ma il fatto che quei soldi, nato l’erede, non siano più
destinabili ad attività prettamente consumistiche.
[37]
“Viaggiare leggeri” perché il mondo è liquido, instabile,
precario: in queste condizioni, «impegni a lungo termine e
legami difficili da sciogliere potrebbero rivelarsi uno scomodo
fardello, una zavorra da gettare subito in mare», Bauman,
cit., p. 120.
[38]
Ibidem,
p. 118.
[39]
Ibidem,
p. 134.
[40]
Ibidem,
pp. 134, 135.
[41]
Ibidem,
p. 136.
[42]
Ibidem,
p. 137.
[43]
Ibidem,
p. 141.
[44]
Ibidem,
p. 144.
[45]
Bauman cita Henry H. Giroux e Susan Sears Giroux,
Take back higher education: toward a democratic common, “Tikkun”,
novembre-dicembre, 2003.
[46]
Sempre dall’articolo dei Giroux, Bauman estrae un paragrafo che
riporta i risultati di un sondaggio a proposito delle
convinzioni degli americani riguardo il Medio Oriente: «il 42%
riteneva Saddam Hussein direttamente responsabile degli attacchi
dell’11 settembre»; «il 55% del pubblico era convinto che Saddam
Hussein sostenesse direttamente l’organizzazione terroristica al
Qa‘ida»; «la maggioranza degli americani riteneva anche che
Saddam Hussein disponesse di armi di distruzione di massa, che
tali armi fossero già state trovate, che egli si accingeva a
costruire un ordigno nucleare».
[47]
Richiamo solo l’attenzione sul fatto che “Non esiste nessuna
alternativa” è l’autentico refrain, il leit-motiv di questi
ultimi mesi di crisi, il coperchio sulla pentola a pressione
delle politiche economiche devastanti che ci vengono imposte. E
in effetti, all’interno di questo gioco, avendo solo gli
strumenti per giocare al medesimo gioco e non per smantellarlo o
maneggiarlo dall’esterno, è certo che non vi sia alternativa
alcuna. Bauman, cit.,
p. 146.
[48]
Bauman cita Pierre Bourdieu,
La précarité est
aujourd’hui partout, in
Contrefeux, Raison
d’Agir, Paris 1998, pp. 97-98.
[49]
Bauman, cit., p. 156.
[50]
Citazione dalla versione inglese di Theodore Adorno,
Critical Models:
Interventions and Catchwords, Columbia University Press, New
York 1998, p. 276.
[51]
Bauman, cit., p. 177.